Lo
aspettavamo. Lo volevano tutti, ma nessuno aveva il coraggio di
riuscirci: il biopic di Elizabeth Lee Miller. Non la fase della vita
della modella, né la musa dei Surrealisti, né l'amante degli
artisti, ma uno spaccato del suo periodo più eroico e profondo: la
sua adesione alla Seconda Guerra Mondiale come fotografa sul campo.
La rolleiflex al collo per una collezione pregiatissima, non solo
testimone, ma protagonista. Lee è un'eccezione unica nel panorama
della fotografia mondiale: perché donna, perché ha “attraversato
lo specchio” come Alice ... dal fronte al retro della macchina
fotografica.
Osservatore,
indagatore, ma anche creatore dell’allestimento teatrale,
l’obiettivo di Lee non espone, ma esplode all’apertura del
sipario. Ogni immagine è filtrata con visione dall’alto e
ribaltata con apparente spontaneità, ma curata nei piccoli dettagli.
Maschere antigas, occhiali di protezione, cappelli, elmetti e ...
tanti corpi, tante vite, presenze, attori, la cattura di un istante
per l’eternità, la memoria, la storia.
L'Idea
Kate
Winslet acquista un tavolo all'asta che scopre essere appartenuto
nientemeno che alla famiglia Penrose: ecco uno di quegli “incontri
casuali”
che costellano la storia dell’arte. Una volta contattato Antony
Penrose, figlio di Lee Miller, Kate vuole assolutamente produrre un
film e interpretare lei stessa la fotografa che ha segnato un’epoca.
Dieci anni di lavoro con al suo fianco una new entry alla regia,
Ellen Kuras, nota per la direzione della fotografia e non certo una
sconosciuta. È collaboratrice abituale di Spike Lee per intenderci.
Ma un biopic su Elizabeth è tutto meno che semplice: troppe le vite
della Miller, tanti gli ambiti di influenza, eccesso e prepotenza
dominante nei campi più svariati. Si parla delle “Vite”
di Lee Miller: non una matassa da districare, ma una serie di picchi
di grandezza e notorietà negli anni e negli ambienti più
importanti. Ancora oggi è non una, ma “La” fotografa del
Novecento, “La” musa dei Surrealisti, “La” modella, “La”
corrispondente di guerra. Ed è questo suo periodo a mettere tutti
d’accordo sul fatto che possa rappresentare il “suo” momento
nella storia ed è grazie a lei se ci è arrivata la più forte
collezione degli scatti di guerra.
Molto
si deve alla stretta collaborazione con David E. Sherman, all’epoca
corrispondente per Life, ma affidabile e compresente compagno di
viaggio di Lee, in trincea per Vogue. Dal sodalizio sono nate le
serie che hanno messo a dura prova gli occhi degli osservatori.
David
aveva accesso ovunque in quanto uomo, mentre Lee è stata accettata
solo perché la sua nazionalità americana le permetteva di aderire
alla guerra: gli Stati Uniti hanno reso i propri cittadini un popolo
nella compatta e non discriminante campagna per l’arruolamento. È
la necessità di cambiare in un mondo che sta cambiando con lei
stravolto dall’avanzata nazista in Europa.
L’intervista
L’escamotage
per dare vita al biopic è dato da un’intervista a casa di una Lee
in tarda età, stanca, ma ancora irrimediabilmente a difesa della
verità, una lotta di principio contro la censura per non
dimenticare. L’ambiente casalingo è la poltrona narrante dove Lee
può cominciare il suo racconto attraverso ricordi, flash, emozioni
lontane, ma indelebili, le fotografie che ha sempre difeso, objet
trouvé
e ready
made
della Storia. È il frammento che porta la memoria, come madeleine
evocativa, l’immagine dell’indicibile che non va cancellato. Ecco
la natura stessa della fotografia: il singolo frammento, negativo
fotografico, come parte del lungometraggio, costruzione non casuale
di chi era direttrice della fotografia prima di essere regista, Ellen
Kuras.
Normandia,
Francia 1944
Lee
Miller sbarca al fronte con gli alleati, dopo un periodo da
spettatrice a Londra. Ha lottato, nonostante tutti i buoni propositi
del British Vogue che la voleva come interprete a sprono della
popolazione per unirsi alla Guerra. Ma lei stessa vuole esserci, come
è prepotente al suo arrivo. Nonostante la sua adesione perché
americana, molte zone sono ancora interdette alle donne. Aveva
incontrato un’aviatrice dell'aeronautica: “il suo lavoro ci fa
davvero capire cosa succeda”. È quella solidarietà femminile a
spingerla ancora di più, a fingersi uomo per partecipare alle
conferenze nelle tende militari da campo, ad introdursi ovunque,
sempre e comunque con la sensibilità della donna. Quando si toglie
il cappello, i sopravvissuti vedono il volto femminile e i suoi
capelli: sono rassicurati e ben disposti a farsi immortalare.
È
nelle tendopoli il salto di Lee. Quando entra, scopre quello che
nessuno vorrebbe vedere. Lo sguardo più difficile ricalca una
maggiore oggettività e crudeltà. Impossibile creare spazi teatrali
ove i medici curano centinaia di ferite da guerra ogni giorno. Il
teatro della vita si offre a Lee: corpi smembrati, mutilati, occhi
terrorizzati. L'orrore del freak
show:
“Anche quando volevo distogliere lo sguardo sapevo che non potevo”.
Alcuni
sopravvissuti si esibiscono per Lee: sono ben felici di farsi
immortalare dalla fotografa, come quel soldato completamente bendato
che vuole essere nell'obiettivo, vuole che gli riconoscano la
partecipazione. Si possono intravedere solo bellissimi occhi tra le
bende, a suo dire gli occhi di sua madre. “Ti assicuri che la
pubblicheranno?”. “Lo prometto”. E sarà una promessa durissima
da mantenere ... Ma questo riguarda Vogue e la stampa.
Sul
campo
La
sigaretta tra le labbra la accompagna ovunque: “allenta la
tensione” come dirà lei stessa a Sherman. Lee morde la vita e la
morte.
Viene
spedita a Saint Malo che, a dire dei suoi superiori, sarebbe già
stata pacificata. Elizabeth, invece, è sotto le bombe e gli spari la
inseguono. È una tempesta di proiettili ininterrotta. La polvere e
le macerie fanno da sfondo, ma i bagliori e il fumo sono i
protagonisti. Tempo dopo si scoprirà che si trattava del Napalm.
I
cecchini mirano come fotografi :
portano la morte, mentre Lee sottrae le immagini alla morte e al
tempo.
Bandiera
bianca. Parigi è libera. Una pioggia di volantini viene lanciata
dagli aerei. È Libertà
di Paul Éluard.
Su
i quaderni di scolaro
Su
i miei banchi e gli alberi
Su
la sabbia su la neve
Scrivo
il tuo nome
Su
ogni pagina che ho letto
Su
ogni pagina che è bianca
Sasso
sangue carta o cenere
Scrivo
il tuo nome
Su
le immagini dorate
Su
le armi dei guerrieri
Su
la corona dei re
Scrivo
il tuo nome
Su
la giungla ed il deserto
Su
i nidi sulle ginestre
Su
la eco dell’infanzia
Scrivo
il tuo nome
Su
i miracoli notturni
Sul
pan bianco dei miei giorni
Le
stagioni fidanzate
Scrivo
il tuo nome
Su
tutti i miei lembi d’azzurro
Sullo
stagno sole sfatto
E
sul lago luna viva
Scrivo
il tuo nome
Su
le piane e l’orizzonte
Su
le ali degli uccelli
E
il mulino delle ombre
Scrivo
il tuo nome
Su
ogni alito di aurora
Su
le onde su le barche
Su
la montagna demente
Scrivo
il tuo nome
Su
la schiuma delle nuvole
Su
i sudori d’uragano
Su
la pioggia spessa e smorta
Scrivo
il tuo nome
Sulle
forme scintillanti
Le
campane dei colori
Sulla
verità fisica
Scrivo
il tuo nome
Su
i sentieri risvegliati
Su
le strade dispiegate
Su
le piazze che dilagano
Scrivo
il tuo nome
Sopra
il lume che s’accende
Sopra
il lume che si spegne
Su
le mie case raccolte
Scrivo
il tuo nome
Sopra
il frutto schiuso in due
Dello
specchio e della stanza
Sul
mio letto guscio vuoto
Scrivo
il tuo nome
Sul
mio cane ghiotto e tenero
Su
le sue orecchie dritte
Su
la sua zampa maldestra
Scrivo
il tuo nome
Sul
decollo della soglia
Su
gli oggetti familiari
Su
la santa onda del fuoco
Scrivo
il tuo nome
Su
ogni carne consentita
Su
la fronte dei miei amici
Su
ogni mano che si tende
Scrivo
il tuo nome
Sopra
i vetri di stupore
Su
le labbra attente
Tanto
più su del silenzio
Scrivo
il tuo nome
Sopra
i miei rifugi infranti
Sopra
i miei fari crollati
Su
le mura del mio tedio
Scrivo
il tuo nome
Sull'assenza
che non chiede
Sulla
nuda solitudine
Su
i gradini della
morte
Scrivo
il tuo nome
Sul
vigore ritornato
Sul
pericolo svanito
Sull’
Immemore speranza
Scrivo
il tuo nome
E
in virtù d’una Parola
Ricomincio
la mia vita
Sono
nato per conoscerti
Per
chiamarti
Libertà.
La
vittoria è apparente. Si scatena la violenza contro le donne
accusate di cospirazione e collaborazione con i nemici. Rasati i
capelli, viene tolta loro la femminilità. Lee è sempre dentro ad
ogni foto con quella partecipazione emotiva che solo il suo essere
donna può darle.
“Nessuno
può spiegare come ci si sente. La vergogna. Ci sono diversi tipi di
ferite, non solo quelle che si vedono”.
Libertà?
Parigi
è liberata, ma la guerra continua. Come lei stessa dice “Per me
le cose erano appena iniziate”. La violenza tra le strade impazza:
gli stupri delle donne francesi da parte dei soldati americani la
indignano e la rendono ancora più consapevole della crudeltà che
continua a consumare le rovine dell'Europa, come se quello che ha
visto e vissuto non fosse stato abbastanza.
Si
reca nelle vecchie dimore parigine, quelle della sua vita mondana,
della modella, delle giornate soleggiate a contatto con gli artisti
dell’epoca.
Ritrova
l’amica Solange d’Ayen, ormai scheletro di sé stessa,
sopravvissuta a prigionia, interrogatori, bombe ... in attesa del suo
Jean arrestato.
Sono
scomparsi, sono tutti scomparsi.
Lee
sente il peso dell’assenza quando, ad inizio guerra, non sapeva
esattamente cosa stesse succedendo poiché era in Inghilterra con
Roland.
“Tu
non eri qui. Possono succedere cose terribili ad alcuni di noi”. Il
dolore per non essere stata con loro, per non essere intervenuta
prima e poi i ricordi e le ferite, quel festeggiare la liberazione.
Fa strano ridere: “Parigi è come una bomba il cui sorriso ha metà
dei denti”. Attraverso Solange, Lee scopre un lato ancor peggiore
della medaglia: le persone sparite sotto la dominazione di Hitler:
“Chiunque non rientrasse nei loro ideali è scomparso”.
Nonostante
Roland provi a convincere Lee a tornare in Inghilterra, lei sente di
avere ancora un conto in sospeso: scoprire dove sono sparite tutte
quelle persone. Dopotutto, “Sono sempre stata l'ultima ad andar via
da una festa”.
Treni
Sherman
la segue. Confine tedesco, 1945.
“Abbiamo
guidato per mesi. Non ci siamo lavati per settimane. Chilometri e
chilometri dentro il peggio di tutto”.
I
fotografi trovano la morte dentro la morte. Vengono incaricati di
documentare i patti suicidi: intere famiglie che hanno preso il
cianuro.
“C'è
tanta vita negli occhi di una persona. Fino al momento che non ce n’è
più. Non era più qualcosa di cui avevo sentito parlare o
immaginato. Era reale.
Una
volta che l’hai visto, non potrai mai cancellarlo”.
E
insieme ai soldati seguono i binari dei treni a caccia degli
scomparsi.
L’odore
nauseabondo necessita una copertura extra per naso e bocca. Ad ogni
ispezione dei vagoni segue l’annuncio standard: “Nessun segno di
vita”. È una sentenza.
I
treni sono cimiteri di corpi soffocati, pile di umanità spezzata.
Solo Lee ha il coraggio di salire e di avvicinarsi.
Solo
la fotografia, come immagine, può esprimere il silenzio rispettoso e
assordante della morte. Sherman si concentra, invece, sugli esterni,
sui cadaveri derivati dalle esecuzioni frettolose dei Nazisti prima
della fuga.
Ma
non è finita. I due viaggiatori devono attraversare gli ultimi
gironi dell’Inferno.
Lee
sarà l'unica fotografa donna a documentare gli orrori di Dachau e
Buchenwald.
Divise
a righe, corpi e ancora corpi, un carretto di pane per i
sopravvissuti, sempre che di vita si tratti, e i bambini, la paura
nei loro occhi.
Lee
è una donna: come durante ogni momento di sgomento verso il suo
arrivo, toglie ciò che la rende paurosa. Via l'elmetto o il
cappello, mostra i capelli e i suoi tratti. Le è concesso di
immortalare i volti terrorizzati. Non guarda volutamente verso il
basso, nella macchina. Osserva e fotografa appoggiando la macchina al
ventre. Muove il dito e ricarica la rolleiflex senza distogliere lo
sguardo dal soggetto per indagarlo. Vede la paura, i segni delle
violenze e degli stupri sui bambini.
E
accanto a quegli occhi che la fissano, masticando qualche mollica
portata dagli Americani, c'è la stanza buia.
Le
serve la luce di Sherman per la cattura. È lacrima gelida per il
tumulo di cadaveri consumati dalla fame, dal lavoro, dalla fatica. Si
fotografa l'indicibile, ciò che non può essere narrato.
Lee
ha bisogno di uno scatto immortale che sia riscatto di tutto quel
dolore e quell’orrore.
La
vasca
Un
pacchetto di sigarette per convincere la guardia è il pass per la
destinazione finale: la dimora di Hitler, ormai piena di soldati
occupanti tra i cimeli.
Ecco
scorgere l'ultimo baluardo del percorso, l'intimità più assoluta,
il bagno del Führer, dove l'acqua calda è il lusso sfrenato.
L’ultimo
allestimento è il teatro del trionfo: Lee Miller nuda nella vasca di
Hitler che cela le sue grazie per evitare la censura. Perché quella
foto dev'essere vista. Torna il teatro, ma è essenziale, quasi un
monumento alla memoria. Gli stivali appoggiati davanti alla vasca
sono pieni di quei sassolini nelle scarpe di Lee: tutto quello che ha
visto, vissuto, scoperto.
Chiusa
la porta di quel sipario surrealista c'è il pianto liberatorio di
Sherman: “Tutte quelle persone erano la mia gente”.
British
Vogue
All’uscita
del numero di Vogue, Lee è impaziente di vedere i suoi scatti, ma
non compaiono in nessuna pagina. Si reca quindi, su tutte le furie,
nella sede della rivista. Nei cassetti trova la busta con i negativi
che taglia in preda alla rabbia. La direttrice Audrey Whiters la
blocca perché sono documenti storici, ma il Ministero inglese non
vuole pubblicarli perché “la gente ha bisogno di guardare avanti”
e quelle sono immagini piene di “angoscia”.
Lee
Miller si siede sulle scale dando le spalle alla direttrice
raccontando la storia mai detta di una delle foto: il ritratto della
bambina di uno dei campi di concentramento. Ha negli occhi la
vergogna e il terrore dello stupro subito, esattamente come Lee.
Quella bambina non può “andare avanti”, così come non si può
ignorare quello che è successo. Le fotografie verranno passate a
Vogue America.
La
fotografa- modella ha lottato per la verità, perché nessuno potesse
nascondere quelle immagini, perché si ricordasse. È paladina della
Memoria per quello che ha visto, fotografato, immortalato, sottratto
al tempo e raccolto per sempre, per non dimenticare: “Questo è
successo davvero”.
Il
ribaltamento
“Parlami
di tua madre”. Nel picco di immagini, sentimenti e sofferenza, Lee
Miller passa da narratrice ad intervistatrice. Quello che ha davanti
non è un semplice giornalista, ma Antony Penrose, suo figlio.
Amatissimo sì, ma ignaro di quel passato così pesante, racchiuso
per anni in una scatola di fotografie. È come se la regia volesse
rivalutare Lee, farle avere un momento tutto suo con il figlio, come
donna e madre per parlare di tutto quello che è stato taciuto,
racchiuso in soffitta.
Antony
è provato: per anni ha cercato di capire la psicologia complessa di
Lee che era sua madre, auto-accusandosi, capendo poi che la colpa non
era sua, forse della madre. Ma oggi sa che è dovuto a qualcosa che
non si deve dimenticare, ma è ancora inenarrabile.
Ecco
Lee cercare una scatola impolverata: è il suo tesoro, la sua
personalissima Wunderkammer
alla Cornell
per la memoria, una Shadow
Box:
Una
ciocca di capelli di Antony
Il
primo libro che gli ha letto
Il
primo disegno di Antony
La
prima foto che Lee ha scattato ad Antony e al padre Roland.
Lee
si trasforma in Lista
esattamente come la donna di Ogni
cosa è illuminata
di
Jonathan Safran Foer .
Antony
diventa il narratore, uno specchio, un’immagine catturata dalla
macchina fotografica, il ribaltamento della camera oscura.
“Perché
non mi hai mai detto niente?”
Lee,
frutto dell’immaginazione di Antony, è scomparsa. Restano le foto
sparse sopra e sotto il tavolo, come dopo un attacco aereo, uno di
quelli che ha sentito la stessa Lee.
Quegli
occhi nei ritratti ci osservano ancora.
Titoli
di coda
Lee
Miller è morta nel 1977 nella Farley Farm House.
Antony
non aveva mai saputo cosa aveva fatto sua madre durante la guerra.
Dopo la sua morte scoprì le fotografie di Lee nascoste in soffitta.
LEE
MILLER
Oggi
Lee Miller è considerata uno dei più grandi corrispondenti di
guerra del nostro tempo. Le sue fotografie dei campi di
concentramento rimangono tra le più significative dell’Olocausto.
Poco
dopo la morte di Lee la famiglia creò l’archivio Lee Miller.
Roland morì nel 1984. Da allora, Antony e la nipote di Lee, Amy,
hanno dedicato la loro vita alla tutela dell’eredità di Lee.
DAVID
E SHERMAN
Dopo
la guerra Davy ritornò a New York. Rimase alla rivista Life e
diventò il membro del personale con più anzianità di servizio.
Rimase amico intimo di Roland e Lee fino alla fine della loro vita.
NUSH
E PAUL ELUARD
Nel
1946, un anno dopo la fine della guerra, Nush, all'età di 40 anni,
fu colpita da un ictus e morì. Paul, distrutto, le dedicò le sue
ultime poesie con uno pseudonimo perché “la sua morte ha ucciso
Paul Eluard”.
Si
alternano le foto di Lee. Gli scatti che hanno fatto la storia, gli
stessi che hanno costruito l’intervista. PER NON DIMENTICARE!
NOTE
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