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Fotografica-mente [1]  
Eleonora Rovida
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 13 Settembre 2010, n. 573
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Non colui che ignora l'alfabeto
bensì colui che ignora la fotografia
sarà l'analfabeta del futuro

W. Benjamin

Una passeggiata ai sali d'argento

“Les Rencontres d'Arles [2] ”, festival annuel consacré à la photographie giunto alla quarantunesima edizione, costituisce il percorso ideale per il flâneur- fotografo - appassionato d'arte.

L'evento è da sempre strutturato come abbraccio simbolico tra echi del tempo nello scenario arlesiano, silenzioso e pieno di luce, e le opere fotografiche. L'antico e il contemporaneo si intrecciano: la storia di Arles e le immagini provenienti da tutto il mondo si incontrano in un unico spazio dandosi il consueto appuntamento per una “passeggiata d'estate” in un'atmosfera surreale. Gli artisti si presentano e si esibiscono all'interno delle arene, quasi si trattasse di spettacoli di eredità romana, mentre le opere vengono disseminate in edifici - rovina, vecchie stazioni ferroviarie reinventate a museo - spazio espositivo e interni spogli che si vestono per l'evento fotografico.

La visita diventa molto simile ad una passeggiata baudelairiana coperta da quella polvere magica che è il fascino della città. Lo spettatore - flâneur si sposta da una sede all'altra: ogni angolo di Arles è una nube semantica dedicata all'arte.

La fotografia, regno dell'immagine, diventa il terreno di gioco dove si affrontano - confrontano, si sfidano - si compenetrano le nuove espressioni provenienti dal mondo dell'arte. Non c'è una regola precisa perché l'esposizione (proprio come il fotografo contemporaneo) diventa una rete concettuale di idee, tecniche, tecnologie diverse che interagiscono ludicamente tra loro e con lo spettatore.

Le esposizioni, le visite guidate, gli stages, le conferenze, i giochi visivi, i concorsi sono animati dal fascino degli “incontri”: Les “Rencontres” d'Arles.

La fotografia non è solo una forma d'arte, ma un modo di pensare: l'immagine è il filo rosso del contemporaneo, l'alfabeto del futuro già preannunciato da Benjamin [3] . Quella piccola scatola magica, così simile al funzionamento del pensiero dove l'obiettivo - occhio è guidato da una macchina - mente [4] , è un gioco per interagire con la realtà, strumento di scoperta e conoscenza, un modo di vedere e capire. La fotografia aiuta a pensare, intrecciare storie, mettere in relazione indizi e trovare nuovi significati alle cose. La fotografia aiuta a ricordare, a collegare eventi lontani, a guardare oltre l'apparenza, a districarsi nel labirinto dei segni” [5] .

L'edizione 2010 [6] del festival fotografico è strutturata come serie di promenades, passeggiate ideali attraverso nuclei tematici che coniugano immagini, suoni, storia e arte in una mappatura tematica arlesiana tra tradizione e innovazione.

Il percorso più affascinante per gli amanti della fotografia - tecnica - gioco - passato è la Promenade Argentique, un'intelligente panoramica sulla tradizione analogica che mira ad evidenziare come il digitale, ormai affermato e diffuso, in realtà non abbia inventato nulla in termine di manipolazione. I nuovi canali espressivi hanno solo applicato, con mezzi diversi, idee e prototipi che derivano da teorie dell'immagine. L'arte, come insegna Benjamin ne L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica [7] , ha sempre avuto il compito di creare esigenze che, in quel momento, non è in grado di soddisfare.

La passeggiata arlesiana “ai sali d'argento” omaggia tecniche e procedimenti da salvaguardare come pregiatissime pozioni di alchimisti e stregoni che, da sempre, incantano gli spettatori con una magia ad effetto sorpresa.

 

 

Shoot !

La Promenade Argentique ha attirato curiosi, bambini, fotografi e artisti, irretendoli in uno dei passatempi più diffusi nelle feste popolari del primo Dopoguerra, le tir photographique. Questo particolarissimo gioco ha dato il nome ad una sezione dell'esposizione: Shoot! La photographie existentielle.

Il curatore, non a caso, è Clément Chéroux, uno che con i giochi ci sa fare soprattutto quando si tratta di fautographie [8] : “Dans les années qui suivirent la Première Guerre mondiale, une curieuse attraction apparut dans les fêtes foraines et les Luna Park: le tir photographique. Lorsque le tireur touchait la cible en son centre, il déclenchait un appareil photographique qui, instantanément, le prenait en pleine action. Plutôt qu’un cornet de pralines, un ballon de baudruche, ou un ours en peluche, il gagnait alors son propre portrait en train de tirer. La valeur hautement métaphorique du tir photographique n’échappera à personne. Le dispositif repose sur un étrange face-à-face entre le tir et la photographie, deux pratiques gémellaires comme en témoigne leur communauté de vocabulaire: shooter, viser, recharger, etc” [9] .

L'affinità tecnica e semantica del gesto, nello scatto e nello sparo (entrambi traducibili come shot nella lingua inglese), è evidente e legata alla tradizione della fotografia che, intorno agli anni Venti, diventa un divertissement per tiratori.

Lo scatto segue lo stesso processo che porta allo sparo: la cura nella scelta del soggetto/oggetto, il mirino di precisione, l'inquadratura sono gesti che accomunano i due shots. Il fotografo non è diverso da un soldato, un tiratore scelto, o meglio un cecchino, uno sniper: l'arma da fuoco, come la macchina analogica, ha bisogno di essere “ricaricata” dopo lo shot.

La mente si concentra sul cerchio - bersaglio - tondo - obiettivo: fotografare, come insegna Henri Cartier-Bresson [10] , significa porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi, il cuore.

La fotografia, dal canto suo, ha prodotto una serie di apparecchiature al servizio della macchina che rievocano il gesto dello sparo: basti pensare al photosniper/fotosniper [11] , un supporto che permette di utilizzare la macchina come un fucile di precisione premendo un grilletto per scattare.

I fucili dei tiratori scelti venivano agganciati a cavalletti molto simili a quelli utilizzati in fotografia per diminuire le vibrazioni corporee.

Il fotografo, impegnato nell'inquadratura, chiude un occhio: allo stesso modo il cecchino (probabile evoluzione del termine “ciechino”) concentra l'attenzione sul bersaglio tenendo solo un occhio aperto.

Il fotografo - cecchino monocolo strizza l'occhio proprio come un miope. L'idea riporta alla poesia di Valerio Magrelli nella raccolta Ora Serrata Retinae [12] del 1980: il titolo “letteralmente sta a significare il margine frastagliato della retina. Anche le due sezioni interne sono orientate in direzione dello stesso mondo cinico: ‘equator lentis’, con un’eco geografica, e ‘rima palpebralis’, con un evidente gioco di parole tra l’effetto fonetico proprio della poesia e la fessura delle palpebre strette dal miope” [13] .

Magrelli vede nel miope - mistico una somiglianza etimologica e concettuale che mischia malattia e visione. “Il termine 'miope' appartiene alla stessa famiglia di 'mistero' e 'mistica' : miopia, mistica, mistero hanno tutti come origine il termine ‘mystes’, un vocabolo greco che sta a indicare ‘colui che stringe gli occhi per vedere lontano’. Cercavo, cioè un’interpretazione capace di collocare un difetto fisico, una patologia, all’interno di un quadro più ampio: la commistione di malattia e visione, la ricchezza percettiva prodotta da una mancanza” [14] .

Gli occhiali, come protesi, rimandano alla scena finale de La Coscienza di Zeno (1923) di Italo Svevo, ma anche al concetto stesso di foto-grafia come scrittura di luce: “La miopia si fa quindi poesia, /dovendosi avvicinare al mondo per separarlo dalla luce. (...) L’unica cosa che si profila nitida è la prodigiosa difficoltà della visione” [15] .

I versi di Ora Serrata Retinae sono legati alla fotografia di Arturo Bragaglia, Il Miope, una specie di talismano e “filo rosso” [16] dell'antologia poetica di Magrelli. Il miracolo della vista trova linfa perfetta nelle forme del viso dove l'arcata sopraccigliare rimanda ad un acquedotto di sguardi [17] . L'elemento liquido echeggia di una visione poco definita, vaporosa, quasi impalpabile, sfuocata, proprio come nella percezione di un miope.

 

 

La narcosi fotografica

L'immagine liquida rievoca il mito di Narciso in contemplazione del suo riflesso, un finto autoritratto che genera nel soggetto una specie di paralisi, come insegna McLuhan ne Gli strumenti del comunicare [18] . C'è una chiara continuità semantica tra “Narciso” e “narcosi” che richiama il parallelismo tra malattia e visione cercato da Magrelli.

La figura del tiratore immobile che gioca al tir photographique rappresenta la sua paralisi: se riesce a centrare il bersaglio, un meccanismo aziona lo scatto che immortala il vincitore in una fotografia: il suo premio è l'immagine di se stesso in un autoritratto. Lo sparo (shot) ha creato uno scatto (shot): c'è un unico termine per due concetti come se si trattasse di uno specchio di significato.

Il giocatore si trova di fronte a una finta copia di sé in un confronto - duello che ha il sapore dell'autodistruzione: “Dans ce duel à mort naît pourtant une image. En regardant après coup son portrait, le tireur se trouve à son tour mis en joue. C’est sur lui-même qu’il fait désormais feu. Il est probable que les concepteurs du tir photographique aient d’ailleurs parié sur le désir de leurs clients de se faire un carton dans leur ego, par image interposée. Tentation du duel avec soi-même, émoi de devenir son propre exécuteur, vertige de l’autodestruction… juste pour voir” [19] .

Il tema della morte crea un legame tra il fotografo e lo sniper. Lo scatto - sparo è azionato da un pulsante  che fissa l'istante e lo ritaglia dal continuum vitale e temporale. Come insegna Susan Sontag, “ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un'altra persona (o di un'altra cosa). Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l'inesorabile azione dissolvente del tempo” [20] .

Il cecchino è un tiratore addestrato che esegue un ordine: l'azione è legata ad una missione di morte. Questi aspetti riportano ancora una volta alla poesia di Magrelli, in particolare alla raccolta Natura e venature [21] del 1987: c'è un richiamo continuo all'idea della macchina, alla lesione e alla fotografia come impatto-missione. L'ambientazione riguarda l'azione kamikaze dei piloti giapponesi: “Ogni volto fotografato / è un'immagine bellica, / il punto di tangenza / tra l'aereo nemico e la nave / nell'attimo che precede l'esplosione. / Fermo nell'istantanea, / nel contatto flagrante tra due sguardi / immortalato, ripreso / mentre le fiamme covano già / nella fusoliera crescendo / dentro ai suoi tratti, vive / soltanto il tempo necessario / a compiere l'azione del ricordo” [22] .

Magrelli, in questi versi, riunisce morte, missione e ricordo: “il tutto per paragonare l'immagine a un souvenir (…) consegnato al destinatario tramite un sacrificio” [23] . L'immagine viene immortalata in una specie di capsula temporale: l'istante si blocca sottraendo il soggetto al fluire del tempo, alla vita. La fotografia - souvenir diventa un objet trouvé che conserva la memoria dell'oggetto/soggetto.

Nel Novecento le istantanee vengono utilizzate come immagini da inglobare nella struttura compositiva del collage. Lo scatto (shot) è un ritaglio (snip) che risponde alla poetica del frammento (snippet). Il diaframma si comporta esattamente come le forbici. C'è un chiaro taglio visivo anche nella scelta dell'inquadratura.

Il tema del taglio naturalmente riporta alle Parche e all'azione del cecchino (sniper). La radice terminologica di snip, snippet e sniper è la stessa. L'affinità non è solo linguistica, ma anche contenutistica: è come se la fotografia venisse rivelata come un'azione violenta (il taglio) necessaria alla creazione, ad una nascita. Magrelli, nella rubrica Fotografia all'interno di Didascalie per la lettura di un giornale [24] , descrive lo scatto come il taglio del cordone ombelicale: “É lo scatto che recide l'ombelico / della luce. Recide, quella forbice, / il filamento lento e lungo dello / sguardo, budello / del nutrimento, separa / perché l'immagine / venga al mondo dividendosi / dalla madre” [25] .

La nascita è il “sacrificio”, un taglio, una forma di violenza, così come la fotografia sulla scia benjaminiana: “La presa ferma, apparentemente brutale, fa parte dell'immagine della salvezza” [26] .

Il fine mistico delle lame ha qualcosa di religioso e salvifico. I versi di Magrelli si concludono, infatti, con un'immagine mosaica: “E quella pupa d'ombra, / quel bozzolo, è la cesta / lasciata a galleggiare sulle acque / per mettere in salvo la forma” [27] .

 

 

La fotografia per l'arte

La fotografia - forma generata dal taglio è una cesta - bozzolo che appartiene al mondo degli insetti. “Insetto”, in inglese, si traduce come bug/insect, ma anche come ephemera [28] . É un oggetto trovato, materia effimera per gli assemblages.

L'idea dell'istantanea intrecciata all'arte contemporanea non è casuale: Duchamp vede la fotografia al pari di qualsiasi altra tecnica, mentre i Surrealisti utilizzano gli scatti, sia come immagini per il collage sia per autenticare l'inganno visivo dato dagli accostamenti scioccanti.

La fotografia come objet trouvé diventa materiale per gli assemblages, regno lillipuziano della poetica della meraviglia. Le opere hanno il fascino della miniatura: questo termine deriva proprio dalla pratica del “dare luce/ illuminare”  (illumination - enluminure). La foto-grafia è per definizione una scrittura di luce.

Il concetto di luce - ombra è tema portante del mito narrato da Plinio sull'origine dell'arte come cattura di un'assenza. Allo stesso modo la fotografia cattura l'immagine della realtà attraverso uno spettro, la luce, che disegna e lascia apparire le forme.

La tecnica fotografica, fin dalle sue origini, ha affascinato gli artisti per questa “apparizione”. La magia  completa il mistero alchemico delle soluzioni utilizzate nei procedimenti tecnici regalando un'immagine agli osservatori increduli. Proprio questa strana “apparizione” ha ispirato uno dei personaggi più amati dai bambini dell'epoca vittoriana: il Gatto del Cheshire o lo Stregatto di Alice's Adventure's in Wonderland [29] . Lewis Carroll era un grande appassionato di fotografia, arte - tecnica - magia a cui dedica una serie di scritti di natura specialistica, ma filtrati da quella visione d'incanto tipica delle sue favole. Nel 1858 Carroll compone The Legend of Scotland, un divertissement in inglese medievale: l'autore finge di riferire un’antica leggenda scozzese del 1325 raccontando di una macchina meravigliosa, Chimera, con la quale “molte immagini vengono prese”. Chimera naturalmente rappresenta la macchina fotografica che, alla fine dell’Ottocento, è vista ancora come qualcosa di magico.

La “macchina fotografica”, in inglese, si traduce come camera e ha la stessa pronuncia di Chimera.

Nella lingua francese, la macchina si indica con appareil - photo: ap - pareil deriva da pareil (simile) che ha la stessa radice di paraître (sembrare).

Nella terminologia francese e inglese l'apparecchio  richiama un'apparizione, un inganno, uno spettro.

Il tiratore che mira a se stesso in quel gioco arlesiano spara creando uno scatto di sé, un inganno, un'immagine che lo ritrae. La fotografia genera uno spettro del fotografo - tiratore in una veronica argentica. Quella paralisi - narcosi si esprime con lo scatto come cattura, impressione, pietrificazione di un equivalente.

Magrelli nella rubrica L'immagine del Giorno nelle Didascalie per la lettura di un giornale [30] riunisce l'idea del doppio all'immagine della morte richiamando il segreto racchiuso nella cappella napoletana Sansevero. La leggenda settecentesca narra gli esperimenti del principe Sangro sui suoi servi attraverso iniezioni di una sostanza capace di pietrificare il sangue. Oggi restano i loro corpi a reliquia di un'azione che fissa e immortala.

È una violenza che rievoca il ça a été di Roland Barthes [31] sulla produzione fotografica. Scrive Magrelli: “Secondo Barthes, la fotografia, in quanto immagine fissata dalla luce, corrisponde a uno spectrum, rivelandosi cioè capace di coniugare lo spettacolo (spectrum da spectaculum) allo spettro come ritorno del morto, e bloccando così l'oggetto in una condizione di catastrofe” [32] . Ogni fotografia è questa catastrofe.

Che il soggetto sia vivo o morto il risultato fotografico è uno spettro. 

La fotografia utilizza un metallo (naturalmente un metallo prezioso visto che si tratta d'argento) che richiama il materiale freddo del fucile e delle munizioni. L'argento, inoltre, appartiene al mondo alchemico.  La fotografia ha una freddezza metallica legata alla morte, ma, come ogni materiale alchemico, anche l'argento è vivo: “Et si la Photographie appartenait à un monde qui ait encore quelque sensibilité au mythe, on ne manquerait pas d'exulter devant la richesse du symbole: le corps aimé est immortalisé par la médiation d'un métal précieux, l'argent (monument et luxe); à quoi on ajouterait l'idée que ce métal, comme tous les métaux de l'Alchimie, est vivant [33] .

La fotografia, come l'arte, rappresenta qualcosa di intrappolato tra vita e morte, deriva e appartiene ad entrambe, ma è fissato al di fuori del tempo: è un Doppelgänger. Il termine tedesco indica una copia spettrale di una persona vivente: doppel significa “doppio” mentre gänger è ilpassante / colui che va - se ne va”. Gänger è l'equivalente di walker in inglese: deriva dal verbo gehen che si riferisce al “camminare”. Anche questo è un flâneur !

 

 

Monsieur Phot [34] : il “cacciatore di immagini” [35]

Le interpretazioni intorno al tir photographique evidenziano una densità semantica intrinseca alla fotografia in una rete concettuale di riferimenti che si intrecciano toccando i campi più svariati.

La fotografia è un rituale a base di immagini che può svelare un labirinto di analogie e collegamenti.

Lo spettatore- flâneur che partecipa al festival ha la sensazione di avere un mirino nella testa [36] : per un giorno si sente come Monsieur Phot. Il nome è già un gioco: Phot è il diminutivo di photographe. Si tratta di una sceneggiatura apparsa su una rivista surrealista che ha attirato l'attenzione di Joseph Cornell. L'artista, appassionato di cinema, ha tradotto il soggetto in un movie - scenario nel 1933 initolato Monsieur Phot: è uno screen play composto da dieci typed pages da proiettare attraverso lo stereoscopio [37] .

Gli anni Trenta, per Cornell, costituiscono un periodo di sperimentazione caratterizzato dall'interesse per tecniche diverse alla ricerca di un metodo che gli consenta di realizzare l'intento principe della sua arte, avvicinarsi alla vita. Con Monsieur Phot, Cornell compie un'identificazione di se stesso con la figura del fotografo [38] : è un flâneur che si aggira per New York guidato solo dalle consonanze interiori che portano l'artista a soffermarsi su dettagli, spazi, oggetti, persone incontrate in modo casuale.

Il protagonista ha la percezione di una macchina fotografica: Monsieur Photdramatizes the experience of a nineteenth century New York photographer, a man who resembles a camera in that he’s always on the outside, always looking in, yet who’s sensitive he feels overwhelmed by everything he sees [39] .

Il soggetto cinematografico costituisce la sceneggiatura del metodo di Cornell [40] , una caccia alle immagini da catturare secondo le sue impressioni.

L'artista si comporta come un fotografo - cecchino: sottrae l'oggetto al tempo e allo spazio ricontestualizzandolo all'interno di una composizione, un assemblage che prende il nome di Shadow Box.

La scatola è un monumento alla memoria, una reliquia che richiama il regno delle ombre, souvenir e memento mori, che dipinge Cornell come un artista funereo.

La passione dell'artista per il frammento (snippet) lo spinge a cimentarsi nel collage e nel fotomontaggio pubblicitario: l'incanto del ritaglio (snip) gli permette di reinventare il mondo a partire dagli oggetti trovati, abbandonati e disseminati per la città come se fossero materiale da discarica.

La riqualificazione degli oggetti nelle scatole - capsule temporali parifica gli elementi compositivi: Cornell li trasforma in immagini sottraendole al tempo e alla vita per avvicinarsi ad essa. É lo sniper di Manhattan [41] , il “cacciatore di immagini” che medita sulle sue “prede”, ephemeras da collocare in piccoli mondi in miniatura.

Le scatole, come inquietanti case vittoriane, sono “abitate” da uccelli, teste di bambola, cilindri, pipe che rievocano il regno del souvenir. Gli spettri di quegli oggetti sono intrappolati da vetri blu che racchiudono le opere in una metafora di triste nostalgia e immaterialità.

Nelle scatole ci sono figure che sembrano attirare lo spettatore in un gioco di tiro al bersaglio: davanti a Untitled (Medici Prince) del 1952 “non si sa se ad esempio siamo noi sotto lo sguardo critico di un principe dei Medici che ci giunge dal fondo di una scatola, oppure se ne stiamo contemplando l’immagine attraverso il mirino di un fucile” [42] .

Cornell ha l'abitudine di identificarsi con la sua arte. Dai suoi scritti [43] si evince una mimesi con gli uccelli che riempiono le scatole Aviaries: il volo e l'evasione, termini traducibili come flight in inglese, sono sempre definiti “pericolosi” [44] .

Nell'Habitat Group for a Shooting Gallery del 1943, Cornell crea un tiro al bersaglio con gli uccelli: le macchie di colore sulla composizione evocano gli spari. L'opera è creata durante la Seconda Guerra Mondiale, ma evidenzia le sensazioni di Cornell, creatura fragile nel mirino dello shooter.

Le Shadow Boxes sono piene di bersagli, cerchi, anelli, ma è in Black Hunter del 1939 che Cornell mostra il suo interesse per lo shooting. In questa scatola c’è un’immagine proveniente da una serie di fotografie del 1900 scattate dallo studio di Naya, Pigeon shooting at the Hotel Excelsior, Venice Lido raffigurante un uomo che spara ad un gruppo di piccioni. When Black Hunter is titled to the side, four circular glass disks- with images of a seashell, a bird being born, a bird in flight, and a shot bird-roll across the image of the hunter. For white balls are suspended from black string on the right inside of the box; they are the targets in this penny arcade game” [45] .

Cornell svela, nelle sue opere, l'interesse per il tiro a segno: gli indizi sono testimonianze chiare di una passione per l'aspetto ludico [46] della realtà come dell'arte. Non a caso, l'artista è affascinato dalle meraviglie di Coney Island tanto da dedicare Swiss Shoot the Chutes [47] , una scatola del 1941, all'attrazione più nota del Luna Park.

Il parco divertimenti, con le sue shooting galleries, le case degli specchi, i chutes, è un divertissement reale nella magia di una finzione. Monsieur Phot è stato letto dalla critica come Monsieur Faux [48] : è l'inganno del gioco, uno spettro della realtà.

 


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NOTE

[1]     Alla memoria di Emilio Rovida.

[3]     W. BENJAMIN,  Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit  (tr. it. a cura di E. Filippini, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica), Torino 1980¹¹.

[4]     D. DASSIO, Occhio e fotocamere, “Nadir Magazine”, marzo 2004, http://www.nadir.it/pandora/OCCHIO_FOTOCAMERE/dassio.htm .

[5]     MELTEMI EDITORE, Presentazione di A. D'Elia, L. Ghirri, Fotografia come terapia. Attraverso le immagini di Luigi Ghirri, Roma 1999.

[6]     Les Rencontres d'Arles 2010. Du lourd et du piquant, Arles 03/07/2010- 19/09/2010. http://www.rencontres-arles.com/A09/C.aspx?VP3=CMS&ID=A09P597 .

[7]     BENJAMIN 1980¹¹.

[8]     C. CHÉROUX, Fauxtographie. Petite histoire de l'herreur Photographique, 2003.

[9]     C. CHÉROUX, Shoot! La photographie existentielle, “Les Rencontres d'Arles 2010”, http://www.rencontres-arles.com/A09/C.aspx?VP3=CMS&ID=A09P1146 .

[10]   C. CHÉROUX, Henri Cartier Bresson: le tir photographique, Parigi 2008.

[11]   Fotosniper di tradizione russa, http://microsites.lomography.com/zenit/fotosniper/ .

[12]   V. MAGRELLI, Ora Serrata Retinae, Milano 1980.

[13]   V. MAGRELLI, Dai fantasmi di Sansevero allo spettro di Barthes: tre poesie sulla fotografia, in “Bianco e Nero. Nero su Bianco. Tra fotografia e scrittura”, a cura di B. Donatelli, Napoli 2005, p. 31.

[14]   Bianco e Nero. Nero su Bianco. Tra fotografia e scrittura 2005, p. 32.

[15]   MAGRELLI 1980, Pea 37.

[16]   Bianco e Nero. Nero su Bianco. Tra fotografia e scrittura 2005, p. 31. 

[17]   MAGRELLI 1980, Pea 51.

[18]   M. McLUHAN, Understanding Media. The Extension of Men (tr. it. a cura di  E. Capriolo, Gli strumenti del comunicare), Milano 1967.

[20]   S. SONTAG, On photography (tr. it. A cura di E. Capriolo, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra  società), Torino 1978, p. 15.

[21]   V. MAGRELLI, Natura e Venature, Milano 1987.

[22]   Ivi, Pea 123.

[23]   Bianco e Nero. Nero su Bianco. Tra fotografia e scrittura 2005, p. 35

[24]   V. MAGRELLI, Didascalie per la lettura di un giornale, Torino 1999.

[25]   Ivi, DID 58.

[26]   W. BENJAMIN, cit. A. CORTELLESSA, Giovanni Raboni, L'osso senza carne della parola, poesia, anno XII, num. 126

[27]   MAGRELLI 1999, DID 58.

[28]   E. ROVIDA, Giochi di parole nell'arte di Joseph Cornell, “RolSa”, num. 12, 2009.

[29]   L. CARROLL, Alice's Adventures in Wonderland, Londra 1865.

[30]   MAGRELLI 1999, DID 78 .

[31]   R. BARTHES, La Chambre Claire. Note sur la photographie, Paris 1980, pp. 126-127.

[32]   Bianco e Nero. Nero su Bianco. Tra fotografia e scrittura 2005, p. 37

[33]   BARTHES 1980, p. 127.

[34]   J. CORNELL, Monsieur Phot, (1933)

[35]   J. C. SIMIC, J CORNELL, Dime-Store Alchemy: The Art of Joseph Cornell, (tr. it. a cura di A. Cattaneo, Il cacciatore di immagini. L’arte di Joseph Cornell) Milano 2005².

[36]   M. BUTOR, Un mirino nella testa in “Bianco e Nero. Nero su Bianco. Tra fotografia e scrittura”, a cura di B. Donatelli, Napoli 2005, pp. 15- 30.

[37]   P. ADAMS. SITNEY, The cinematic gaze of Joseph Cornell, in “ Joseph Cornell” catalogo della mostra a cura di K. McShine (Museum of Modern Art,  New York 1980), New York 1980, p. 70.

[38]   D. SOLOMON, Utopia Parkway : the life and work of Joseph Cornell, Boston 2004, p. 75

[39]   Ibidem.

[40]   E. ROVIDA, Giochi di parole nell'arte di Joseph Cornell, 2009

[41]   Ibidem

[42]   Joseph Cornell, catalogo della mostra a cura di K. Mc Shine (Palazzo Vecchio, Firenze 1981) Firenze 1981, p.14.

[43]   J. CORNELL, Joseph Cornell's Dreams, edited with an introduction and appendices by Catherine Corman – Cambridge 2007, p.121-125.

[44]   Ivi, p.121.

[45]   D. WALDMAN, Joseph Cornell : Master of dreams, New York, 2002, p. 122.

[46]   E. ROVIDA, Giochi di parole nell'arte di Joseph Cornell 2009

[47]   J. Cornell, Swiss Shoot the Chutes, 1941, Collezione Peggy Guggenheim, Venezia, http://www.guggenheim-venice.it/collections/artisti/dettagli/pop_up_opera2.php?id_opera=86

[48]   WALDMAN 2002, p. 122








 

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