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Gli affreschi di San Catervo a Tolentino e la loro relazione con Giulio Campagnola e Giorgione  

Francesco De Santis
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 18 Febbraio 2017, n. 832
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L’atto di allogazione degli affreschi della Cappella di San Catervo nella omonima Concattedrale di Tolentino, dedicata al nobile romano Flavius Iulius Catervus, vissuto in un periodo non meglio precisato tra il I e il IV sec. d.C., convertitosi al Cristianesimo e ritenuto il primo evangelizzatore del centro situato nell’odierna provincia di Macerata, datato 16 agosto 1502 e scoperto da Francesca Coltrinari [1] , assegnava al pittore tolentinate Marchisiano di Giorgio, originario della Schiavonia, regione della Croazia orientale, la realizzazione della decorazione pittorica del piccolo sacello situato a lato dell’abside della chiesa.

Il programma pittorico esposto nel contratto indicava i seguenti soggetti:

- sull’arcone d’ingresso alla cappella, le figure dei dodici apostoli e dell’Eterno, verosimilmente collocati a mezzobusto entro oculi (affreschi distrutti in occasione del rifacimento ottocentesco della chiesa, quando la cappella fu accorpata a un vasto ambiente cupolato a pianta ottagonale);

- sulla parete della lunetta sinistra, per la quale inizialmente non era stato stabilito alcun soggetto, rimandandone la designazione a Giovanni Battista Rutiloni, dal 1490 commendatario dell’abbazia benedettina annessa alla chiesa e agli agenti della Confraternita di San Catervo, veniva realizzata l’Adorazione dei Magi: l’affresco è stato mutilato dall’apertura di una finestra, che ha eliminato alcuni paggi e uno dei cavalli;

- sulla lunetta destra, la scena della Crocifissione;

- sulla lunetta centrale, la Madonna con il Bambino tra i Santi Catervo e Sebastiano;

- sulla tribuna della cappella, i quattro Evangelisti.

Le tre scene collocate nelle rispettive lunette sono incorniciate da eleganti cortine dipinte che corrono lungo il profilo della parete.

Secondo l’ipotesi di Ugo Soragni [2] l’affresco della Madonna  con il Bambino tra i Santi Catervo e Sebastiano (Fig. 1) sarebbe  da ascrivere ad un intervento congiunto di Giorgione e di Giulio Campagnola, che l’avrebbero dipinto in occasione di una sosta in città, sulla via dell’andata o del ritorno, durante uno dei loro possibili soggiorni a Roma, e precisamente immediatamente dopo la grave epidemia di peste che colpì Tolentino nel 1497, poiché la presenza di San Sebastiano (Fig. 2), nella quale lo studioso ravvisa proprio un autoritratto dello stesso Giorgione, oltre ad essere uno dei soggetti preferiti di Zorzi, ben si concilierebbe con l’idea di evocare il ricordo della fine del contagio, mentre l’impianto compositivo generale del brano anticiperebbe, nella disposizione triangolare delle figure, quello della celebre Pala di Castelfranco (1502-1503); la figura di San Catervo (Fig. 3) sarebbe invece l’effigie di Giulio Campagnola, anche in ragione del fatto che le prime due lettere del suo patronimico, CA, sono le stesse del nome del santo.

Sulla base di queste osservazioni, Soragni anticipa tale scena agli anni 1497-1498, dunque in disaccordo con l’ipotesi della Coltrinari, che facendo riferimento alla data del contratto di allogazione, colloca l’intero ciclo di affreschi tra il settembre 1502 e il 1503.

È davvero possibile che gli autori di questo brano siano stati i due artisti e sodali veneti e che l’abbiano realizzato qualche anno prima del documento ufficiale?

Per chiarire questo dilemma è utile innanzitutto constatare la spiccata e sorprendente somiglianza tra le figure dei due Santi tolentinati e quella di due giovani presenti nella scena della Disputa di San Tommaso d’Aquino (1492-1493) affrescata da Filippino Lippi nella Cappella Carafa presso la chiesa di S. Maria sopra Minerva a Roma, che secondo la tesi di Enrico Guidoni [3] , sarebbero proprio i due ritratti di Giorgione e di Giulio Campagnola e quindi la testimonianza di un loro eventuale soggiorno capitolino [4] intrapreso in occasione dell’elezione di Alessandro VI Borgia (11 agosto 1492) e più generalmente interpretabile nel contesto di un comune percorso di formazione artistica itinerante lungo la Penisola, dal quale non sarebbe stata esclusa Roma naturalmente, visitata più volte: durante una di queste sarebbe occorsa la sosta a Tolentino.   

Il confronto formale col brano capitolino, senza dubbio convincente, varrebbe a segnare un punto importante a sostegno dell’ipotesi di Soragni, che tuttavia pecca, a differenza della tesi della Coltrinari, della mancanza di prove documentarie ove siano citati i nomi di Giorgione e del suo amico di Padova nell’ambito di San Catervo.   

Il problema dell’assenza di riferimenti diretti ai due artisti, all’interno del contratto, è stato di fatto aggirato da Soragni, come abbiamo anticipato, con la proposta di collocare l’affresco della Madonna col Bambino tra i Santi Catervo e Sebastiano pochi anni prima della realizzazione del ciclo pittorico, precisamente entro il biennio 1497-1498; l’idea per quanto accattivante, contrasta però anche con l’evidenza che nell’atto notarile del 16 agosto 1502 tale scena è esplicitamente menzionata tra quelle ancora da realizzare, parimenti alle altre, e anche in termini piuttosto circostanziati, poiché vi si riferisce l’impegno di Marchisiano a dipingere Santa Maria con il Figlio, con due figure che si abbracciano vicendevolmente - personaggi questi ultimi che tuttavia non sono mai stati affrescati - e naturalmente, San Catervo e San Sebastiano [5] , per cui se questo brano fosse stato già realizzato circa quattro o cinque anni prima, ovviamente non sarebbe stato qualificato come affresco ancora da compiere nel documento del 1502 e dunque in ragione di ciò dobbiamo ritenere che esso sia stato dipinto dopo il 16 agosto di quell’anno.  

Chiarito ciò bisogna però rilevare d’altro canto che, sebbene nel contratto venga espresso solo il nome di Marchisiano in qualità di pittore incaricato dell’impresa, è molto probabile che alla realizzazione della stessa abbia concorso almeno un altro artista, verosimilmente individuabile in quel Francesco da Tolentino che già Berenson aveva designato come l’autore del ciclo [6] , ma soprattutto non sarebbe neppur da escludere, secondo quanto riporta il puntuale studio della Coltrinari, la presenza di una terza personalità [7] , che però difficilmente, per alcuni motivi di cui in seguito, potrebbe essere identificata con quella di Giorgione coadiuvato dal giovane Campagnola.

In riferimento all’autore della celebre Tempesta, se pare già pressoché impossibile che egli abbia potuto dipingere la lunetta con i Santi Catervo e Sebastiano qualche anno prima (1497-1498) della committenza ufficiale del ciclo, sembra altrettanto inverosimile l’intervento di Zorzi da Castelfranco presso il cantiere tolentinate dopo la redazione del contratto di allogazione, perché l’unica, o quantomeno la principale spiegazione logica all’assenza del suo nome in tale documento, ossia il fatto che egli fosse in quel preciso momento una personalità artistica “minore”, addirittura quasi sconosciuta, tale dunque da poter essere relegata nella cerchia degli anonimi aiutanti di Marchisiano di Giorgio e che dunque non vi sarebbe stata alcuna necessità di nominarla nell’atto notarile ufficiale, contrasta insuperabilmente con la realtà dei fatti, poiché Giorgione, sebbene si trovasse all’epoca ancora agli albori della sua carriera, che però fu come noto, molto breve ma decisamente intensa, troncata brutalmente dalla peste che lo uccise nel 1510, aveva già acquisito una solida notorietà, se solo si consideri che all’epoca degli affreschi di Tolentino aveva già realizzato alcune opere celebri, come le tavole raffiguranti Mosè bambino alla prova dei carboni ardenti e il Giudizio di Salomone (1500-1501 circa; Firenze, Uffizi) e soprattutto preso parte all’impresa pubblica del duomo di Montagnana (1501), per cui l’omissione del suo nome nel contratto del 1502 sarebbe stata del tutto immotivata.

Analoga a quella di Giorgione, specialmente in riferimento al contesto della notorietà pubblica, era la condizione di Giulio Campagnola, che pur meno famoso del suo sodale, verso il principio del secolo aveva comunque iniziato la decorazione pittorica delle pareti della Scuola del Carmine di Padova, importante Congregazione ecclesiastica della città antenorea, e dunque anche nel suo caso l’assenza del suo nome nel contratto del 1502 non sarebbe giustificabile sulla base del fatto che egli fosse solo un semplice e anonimo garzone di bottega.

Né d’altra parte la giusta osservazione di Zeri [8] , secondo cui il passaggio in quegli anni del “ciclone Borgia” nei territori dell’Italia centrale, che aveva non solo determinato la soppressione delle piccole signorie, ma anche causato come logica conseguenza la scomparsa di una cultura figurativa autenticamente locale, per cui le opere realizzate dopo quei tragici eventi erano per lo più di importazione, oppure venivano compiute da pittori di passaggio, provenienti da Venezia (Lorenzo Lotto, Andrea Solario), dalla Toscana (Signorelli) o dall’Umbria (Eusebio da San Giorgio, Bernardino di Mariotto), potrebbe avvalorare l’idea della presenza di Giorgione e di Campagnola sulle impalcature di San Catervo, perché precisando che comunque Zeri non citava affatto i loro nomi nel contesto del ciclo tolentinate, osta alla verosimiglianza di un loro intervento nel centro marchigiano l’analisi stilistica della scena della Madonna con il Bambino tra i Santi Catervo e Sebastiano: le figure, informate a un nitido grafismo che governa compatte campiture di colore, parlano una lingua che è molto più quella tosco-umbra del Perugino che non quella giorgionesca dei primissimi anni del secolo, quando il maestro di Castelfranco adottava con decisione quel tonalismo destinato a renderlo celebre, di cui le ombre morbide e fuse sui volti della Madonna della celebre Pala per Tuzio Costanzo (1502-1503) e della Giuditta di San Pietroburgo (1502) sono alcune delle primizie più tangibili, mentre Giulio di pari passo lo seguiva, affascinato da quella novità espressiva, traducendola poi nella particolare tecnica del punteggiato che “colora” il paesaggio dell’incisione raffigurante San Giovanni Battista, collocabile agli inizi della sua svolta giorgionesca, per cui non si spiegherebbe perché i due abbiano poi nei dipinti di San Catervo adottato uno stile figurativo che non sentivano come proprio e addirittura percepivano come superato in quel preciso momento storico della loro quasi simbiotica carriera.  

Inoltre, se qualche sillaba di giorgionismo emerge dal particolare modo di disegnare le chiome degli alberi, specie di quello alle spalle del San Sebastiano, che ricorda da vicino, sia nella forma che nella tecnica di tracciare le foglie, a picchiettature di pennello, quello posto sulla parte destra della Pala di Castelfranco nonché la flora che popola le incisioni del Campagnola, il particolare non è sufficiente a indirizzare la paternità dell’affresco verso i due artisti veneti perché negli stessi anni tale stile paesaggistico era comune a tanti altri autori come lo stesso Perugino, Lorenzo di Credi, Pinturicchio e i loro emuli più o meno abili.

L’ipotesi di un intervento tolentinate di Giorgione e Giulio Campagnola pare dunque destinata a soccombere, non solo per la lacuna di prove documentarie e per le ragioni stilistiche poc’anzi discusse, ma anche per la particolare importanza locale che ammantava la figura dell’artista ufficialmente riconosciuto come l’autore degli affreschi, Marchisiano di Giorgio.

Questi, colpevole dell’omicidio di una donna perpetrato  a Tolentino nel dicembre del 1498, in seguito al delitto fuggiva dalla città e veniva condannato a morte in contumacia e bandito dal territorio comunale, ma il 18 gennaio del 1500, il Consiglio generale accoglieva favorevolmente una sua supplica affinché egli potesse tornare a circolare liberamente in città, poiché la pena capitale, come si evince da un’altra implorazione del 1507, era stata commutata in multa: nel luglio dello stesso anno inoltre, un breve di Giulio II giungeva addirittura a giustificare il crimine compiuto da Marchisiano spiegando come l’omicidio di nove anni prima fosse scaturito dalla reazione esasperata dell’artista alle pressanti provocazioni della vittima, che voleva indurre la moglie del pittore a commettere adulterio. Il fatto che un personaggio come Marchisiano godesse delle benevole attenzioni del papa, pur essendo di modesta estrazione sociale, in quanto appartenente alla minoranza di etnia slava, al tempo confinata ai margini della società tolentinate, evidenzia chiaramente la sua posizione di primo piano all’interno della comunità cittadina e dunque la massima stima e considerazione che avevano di lui i personaggi più autorevoli del tempo, tra i quali vi era senza alcun dubbio Giovanni Battista Rutiloni e dunque indica, come osserva la Coltrinari, la possibilità che l’impegno della Cappella di San Catervo ricoprisse un ruolo di straordinaria importanza nella carriera di Marchisiano poiché questa impresa sarebbe stata l’occasione del suo riscatto definitivo agli occhi della cittadinanza dopo il crimine commesso: pertanto la scena più importante e rappresentativa del ciclo, collocata sulla parete principale del sacello, non poteva non essere affidata all’artista originario della Schiavonia.   

Che l’autore degli affreschi di San Catervo sia dunque Marchisiano di Giorgio, verosimilmente coadiuvato da Francesco da Tolentino è quindi oggi l’ipotesi più solida e concreta, ma l’esclusione di Giorgione e di Giulio Campagnola dal novero degli autori, non significa necessariamente che le figure dei Santi Sebastiano e Catervo non possano essere i loro ritratti, perché vi sono alcuni dati interessanti che aprono spiragli in questo senso e che porterebbero dunque a qualificare la supposizione di Soragni come in parte valida: difficilmente convalidabile  quando rivendica ai due artisti veneti l’esecuzione materiale della scena, più attendibile quando riconosce nelle figure dei Santi Catervo e Sebastiano i loro ritratti, anche in ragione del fatto che nella ricchissima storia dell’arte italiana rinascimentale non erano rari i casi in cui certi artisti omaggiavano alcuni loro colleghi particolarmente stimati dipingendone i ritratti all’interno delle loro opere.  

In questo senso, è infatti innegabile l’accentuata somiglianza fisionomica dei due santi marchigiani con i ritratti coevi nei quali è verosimile riconoscere Giorgione e Giulio Campagnola.

Il San Sebastiano di Tolentino, che è piuttosto singolarmente raffigurato, anziché nudo col solo perizoma bianco, similmente alla figura di Cristo, e il corpo sanguinante e martoriato di frecce, secondo la sua tradizionale e più diffusa iconografia, riccamente abbigliato, con una raffinatissima casacca di broccato, calzebraghe verdoni e mantello di velluto blu imbottito d’ermellino,  se da un lato palesa una certa somiglianza con l’elegante figura di sapor cortese del San Venanzio dipinta da Carlo Crivelli nel Polittico realizzato per la chiesa di S. Domenico nella vicinissima Camerino (fig. 4; 1482), oggi nella Pinacoteca di Brera a Milano, che si candida perciò come un possibile modello di riferimento per Marchisiano, contestualmente esprime una certa affinità estetica col già menzionato presunto ritratto di Giorgione, accoppiato a quello altrettanto ipotizzato di Giulio Campagnola affrescato da Filippino Lippi negli anni 1492-1493 nella scena della Disputa di San Tommaso d’Aquino nella Cappella Carafa a Roma (Fig. 5), anch’esso caratterizzato dalla medesima profusione d’eleganza, soprattutto per la pregiata mantellina d’ermellino che il personaggio regge sul braccio sinistro, e dal quale si discosta solo per la tonalità dei lunghi capelli, che nel ritratto di Tolentino sono di uno squillante biondo oro, mentre in quello romano, più castani.   

Ma degno di particolare attenzione è il pugnale nero legato col cordoncino della casacca al fianco sinistro di San Sebastiano, il quale è praticamente identico a quello allacciato alla cinta del personaggio che è molto probabilmente un autoritratto dello stesso Giorgione, nell’enigmatico Omaggio a un poeta (Fig. 6; 1505 circa, Londra, National Gallery), rivendicato da gran parte della critica a Zorzi da Castelfranco, quasi a voler significare un preciso elemento distintivo legato al suo personaggio.

Quanto a Giulio Campagnola, le attinenze con altri ritratti che presumibilmente raffigurano l’artista padovano, sembrano essere addirittura più stringenti.

È davvero impressionante infatti la somiglianza tra il San Catervo e il suo probabile ritratto nell’affresco lippesco della Cappella Carafa, specialmente per l’identica capigliatura bionda a lunghi boccoli dei due personaggi, che ritorna sorprendentemente nella figura del re magio giovane che reca nella mano destra il calice contenente la mirra, all’interno della scena dell’Adorazione dei Magi (Fig. 7), affrescata nella lunetta adiacente a quella della Madonna col Bambino tra i Santi Catervo e Sebastiano, caratterizzata da un linguaggio decisamente pinturicchiesco, specie in riferimento al paesaggio e alla capanna, che sembrano ripresi dal dipinto con la Natività nella Cappella Della Rovere in Santa Maria del Popolo a Roma (1490).

Inoltre, il re magio giovane e il decisamente affine San Catervo, se da un punto di vista compositivo e formale esprimono, in virtù del comune particolare della mano appoggiata sul fianco, possibili riferimenti al Perugino, poiché riscontriamo tale dettaglio nella pala giovanile del Vannucci con l’Adorazione dei Magi per la chiesa di Santa Maria dei Servi di Perugia (Fig. 8; 1476 circa, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria), dove anche la posa elegante della mano destra del re magio che regge il calice, è praticamente identica a quella della figura di Tolentino, e nel polittico dipinto insieme ad altri collaboratori per San Pietro a Perugia (1496-1500), e ancora al Pinturicchio, che ispirato probabilmente dall’esemplare del 1476 del suo conterraneo umbro, lo replica nella figura di uno dei re magi dell’Epifania affrescata nella Sala dei Misteri e della Fede dell’Appartamento Borgia in Vaticano (Fig. 9; 1492-1494), dal punto di vista fisionomico richiamano anche i caratteri del biondo San Giovannino dipinto nella tavola dei Musei Civici di Padova, raffigurante la Madonna con il Bambino e San Giovannino (Fig. 10; 1498-1500 circa) che Enrico Guidoni ha ritenuto essere proprio un ritratto di Giulio Campagnola in un’opera realizzata in collaborazione con Giorgione [9] , e del giovanissimo fanciullo biondo effigiato in compagnia di un altro adolescente, quest’ultimo riconosciuto ancora da Guidoni naturalmente in Giorgione, nell’olio su tela col Commiato degli ambasciatori inglesi, dal ciclo delle Storie di Sant’Orsola di Vittore Carpaccio (1497-1498; Venezia, Gallerie dell’Accademia).

L’ipotesi di un Giulio Campagnola nelle vesti del giovane magio tolentinate, acquista un valore molto significativo se posto in relazione con un’altra importante testimonianza figurativa coeva, nella quale Guidoni ha nuovamente individuato due ritratti dei giovani Giorgione e Giulio Campagnola, l’Adorazione dei Magi di Filippino Lippi del 1496, conservata agli Uffizi (Fig. 11).

In questa tempera su tavola, la figura del re magio più giovane, vestito di rosso, riconosciuto pressoché pacificamente dalla critica come un ritratto di Giovanni di Pierfrancesco de’ Medici, detto il Popolano, cugino del Magnifico, che afferra con la mano destra, insieme ad un personaggio che lo affianca leggermente arretrato, lo stelo di un calice o di una preziosa pisside, contenente la mirra, è infatti assistito da un giovanissimo aiutante che, posto alle sue spalle gli toglie con cura la corona, per consentirgli di inginocchiarsi davanti alla Sacra Famiglia: tale fanciullo è stato individuato da Guidoni come un ritratto di Giorgione, sulla base della somiglianza con alcune sue rappresentazioni apprezzabili nelle testimonianze pittoriche degli stessi anni sopra citate, mentre l’altro giovinetto, biondo, che segue con interesse la scena, è stato ovviamente identificato con Giulio Campagnola (Fig. 12).

Possibile dunque che il giovane magio di Tolentino, così come il San Catervo, esemplati, dal punto di vista della composizione generale su modelli riscontrabili nei repertori umbri e romani di Perugino e Pinturicchio, e ambedue sfoggianti la medesima bionda capigliatura alla Campagnola, possano essere un ritratto proprio di quest’ultimo,  anche in virtù di un sotterraneo ed ermetico legame concettuale con la tavola di Filippino Lippi dipinta pochi anni prima e con l’affresco Carafa del medesimo artista fiorentino?

A questo proposito sarà utile e chiarificatore prendere in considerazione le rispettive committenze delle due opere del Lippi.

La più antica, l’affresco romano raffigurante la Disputa di San Tommaso d’Aquino, fu commissionata dal cardinale Oliviero Carafa e realizzata negli anni 1492-1493; ricordiamo brevemente che il cardinal Carafa fu in stretti rapporti con il cardinale Raffaele Riario, del quale Giulio Campagnola è ricordato come “familiare” [10] a partire dal 1495, mentre a sua volta il Riario fu protettore dell’Ordine degli Agostiniani, che annoverava tra i suoi esponenti più eminenti e colti, quell’Egidio da Viterbo che una lettera scoperta da Stefano Colonna, datata 29 agosto 1517 e indirizzata al confratello Gabriele Della Volta ci permette di qualificare come stretto amico di Giulio Campagnola e di suo padre Girolamo [11] : si tratta, con ogni evidenza, di intrecci che rendono plausibile l’identificazione del fanciullo biondo di S. Maria sopra Minerva col giovane Campagnola. Inoltre, i sofisticati geroglifici raffigurati sui fregi che incorniciano le pareti affrescate della Cappella Carafa, abilmente decrittati da Maurizio Calvesi [12] , rivelano inequivocabilmente il gusto del cardinal Oliviero per quell’ermetismo concettuale che informa gran parte delle opere di Giulio Campagnola e Giorgione, per cui ciò potrebbe senza dubbio implicare una speciale ammirazione del Carafa per la formazione intellettuale ed artistica dei due sodali veneti e quindi naturalmente la decisione di volerli vedere raffigurati nella dotta scena della Disputa dell’Aquinate.

Veniamo ora all’Adorazione dei Magi che Filippino Lippi dipinse nel 1496 (l’iscrizione posta sul retro della tavola riporta la data del 29 marzo).

Committenti furono i frati Agostiniani della chiesa di San Donato a Scopeto, a Firenze. Ora, se consideriamo che Egidio da Viterbo era presente proprio in quello stesso anno a Firenze – dove tra l’altro conobbe Marsilio Ficino, rafforzando così la propria ammirazione per il neoplatonismo - il contesto in cui fu realizzata la tavola assume un ruolo davvero denso di risvolti importanti, perché sarebbe a questo punto forte la tentazione di supporre la personalità di Egidio, il quale, per ovvi motivi, durante il suo soggiorno nella città toscana sarebbe potuto giungere in contatto con gli Agostiniani della città, dunque anche con quelli di San Donato, in qualche modo intellettualmente collegabile alla decisione, concordata col Lippi, che già aveva avuto modo di ritrarli a S. Maria sopra Minerva, di raffigurare nuovamente Giulio Campagnola e Giorgione nell’opera oggi agli Uffizi. L’idea di un peso decisivo, o quantomeno notevole, di Egidio da Viterbo sui fatti artistici di quegli anni, orbitanti attorno alla comunità di Sant’Agostino, è certificata anche alla luce del fatto che nella primavera del 1497 egli fu nominato Maestro del Convento di Santo Spirito, certamente uno dei centri di spicco della spiritualità agostiniana fiorentina e soprattutto della vita intellettuale della città [13] , una circostanza che indica in termini cristallini la posizione di assoluto rilievo culturale del cardinale viterbese, che solo grazie a un tale prestigio consolidatosi negli anni e quindi già molto consistente al momento del suo primo soggiorno a Firenze del 1496, poteva assurgere ad un riconoscimento così importante.

È quindi ponderato supporre che al momento della commissione dell’Adorazione dei Magi a Filippino Lippi, fosse ascoltato in merito a certi personaggi da ritrarre, anche il parere di Egidio e magari deliberato di raffigurare Giulio Campagnola, certamente in nome dell’antica amicizia che lo legava al cardinale viterbese, e Giorgione, inseparabile amico del padovano, nelle vesti degli aiutanti del re magio più giovane.  

Inoltre, considerando che l’impianto scenico dell’Adorazione del Lippi, con una numerosa folla di forestieri accalcata attorno alla sacra capanna, è evidentemente ispirato alle parole di Sant’Agostino che nelle Omelie sull’Epifania riferisce che il Bambino venne offerto alla visione dei pagani per mostrar loro la sua missione salvifica e stimolarli alla conversione, la presenza di due personalità come Giulio Campagnola e Giorgione, imbevute d’una erudizione decisamente eterodossa e in un certo senso deviante rispetto agli schemi e agli argomenti più tradizionalisti riferibili alla cultura cristiana, valutabile quindi come una sorta di raffinato neopaganesimo rinascimentale, pare essere assolutamente pertinente, ma non interpretabile a mio avviso come una condanna in chiave cattolica delle loro particolari posizioni intellettuali come in conseguenza di una specie di Controriforma ante litteram, quanto più semplicemente come una presentazione o addirittura come un omaggio, dato il loro ruolo  prestigioso, in quanto aiutanti di uno dei re magi, seppur raffigurati quasi nascosti, di due personaggi dotati di una formazione, sebbene decisamente singolare, comunque molto profonda, elevata e sofisticata, e dunque degna di plauso, similmente a quanto avveniva pochi anni prima nell’affresco della Cappella Carafa [14] .

Molto coerente con tale contesto pare anche la circostanza che mediatore tra il Lippi e la comunità degli Agostiniani di San Donato fu quel Piero Del Pugliese, ritratto anche nella stessa opera, che fu tra i maggiori committenti di un artista decisamente ameno e fuori dagli schemi come Piero Di Cosimo [15] , animato da un’individuale predisposizione spirituale e culturale per certi versi affine a quella dei due veneti, per cui è accettabile ritenere che il Del Pugliese, il quale ovviamente ebbe un ruolo primario nella vicenda della genesi dell’Adorazione dei Magi di San Donato, salutasse favorevolmente, qualora posto al corrente dell’identità culturale di Giulio e Giorgione, l’eventualità della presenza sul dipinto dei loro due ritratti, in quanto artisti intellettualmente molto somiglianti alla personalità di uno dei suoi autori prediletti come Piero Di Cosimo.

Per le considerazioni espresse dunque l’ipotesi che i due fanciulli raffigurati dietro il re magio giovane nel dipinto del Lippi possano essere davvero Giorgione e Giulio Campagnola, o in ragione di una loro presenza a Firenze nell’ambito di un loro comune percorso di formazione artistica itinerante o come semplice omaggio a due delle personalità più interessanti del panorama rinascimentale contemporaneo, è ragionevole.

A questo punto dunque, l’Adorazione dei Magi affrescata a Tolentino apparirebbe senza dubbio concettualmente legata alla tavola fiorentina, poiché sulla scena della lunetta marchigiana si sarebbe manifestata una sorta di rivisitazione dell’opera del Lippi soprattutto in riferimento a Giulio Campagnola, con la riproposizione della sua figura ora assurta, certamente anche in virtù della sua vigorosa crescita culturale ed artistica, a distanza di sei o sette anni dal dipinto lippesco, da semplice e anonimo paggio del re magio fiorentino modellato sul ritratto di Giovanni il Popolano, a ricoprire egli stesso tale ruolo regale nella cappella di Tolentino.

Sarebbero state utili a questo proposito maggiori informazioni su Giovanni Battista Rutiloni, prevosto di San Catervo e committente del ciclo pittorico, pertanto figura centrale della vicenda, ma le notizie sul suo conto sono assai scarne, tuttavia un indizio ci appare degno di interesse: il nobile tolentinate si trovava in stretti rapporti con Giulio II, al quale cedeva nel 1507, “con somma generosità” i diritti sul convento [16] e il fatto che all’epoca della commissione degli affreschi questi fosse ancora il cardinal Giuliano Della Rovere, poiché sarebbe diventato pontefice solo l’anno dopo, nel 1503, appare circostanza davvero ininfluente perché è più che lecito e logico supporre che i contatti col Rutiloni si fossero radicati già negli anni precedenti, e che quindi fossero già in essere al tempo dell’impresa di San Catervo.

Tale evenienza sembrerebbe anche a prima vista piuttosto banale, se solo pensiamo al fatto che un personaggio come il Rutiloni, in qualità di commendatario dell’abbazia benedettina cui la chiesa di San Catervo era annessa, doveva inevitabilmente avere dei contatti, più o meno frequenti e significativi, con una delle più influenti autorità della Chiesa come il cardinal Della Rovere, ma se consideriamo che lo stesso Giulio II era cugino di quel cardinal Raffaele Riario del quale Giulio Campagnola risultava “familiare” dal 1495, il dato acquista un valore più rilevante, poiché lascerebbe intuire un complesso intreccio di rapporti di reciproca stima tra il futuro Giulio II, il Rutiloni, il Riario e, per mezzo dell’intercessione di quest’ultimo, il Campagnola [17] , culminato nell’omaggio prestato alla sua colta personalità attraverso i due ritratti (San Catervo e re magio giovane) commissionati a Marchisiano di Giorgio nel sacello marchigiano, magari proprio in occasione di un breve soggiorno del giovane artista padovano in compagnia di Giorgione nell’ambito di un loro viaggio di formazione nel centro Italia.

Ancora, in riferimento al solo Campagnola che qui ci interessa particolarmente, riprendendo in considerazione l’idea di Soragni, che a sostegno della propria tesi sull’identificazione di Catervo con Giulio Campagnola individua nelle prime due lettere del suo cognome, CA, il legame col nome di CAtervo, ispirandoci al medesimo modus interpretativo dello studioso, non possiamo fare a meno di constatare che il nomen del santo di Tolentino, che ricordiamo essere stato un prefetto del pretorio appartenente ad una nobile famiglia senatoria romana, era proprio “Iulius”, lo stesso di Campagnola, poiché egli si chiamava appunto “Flavius Iulius Catervius”, come riportato nell’epigrafe del suo sontuoso sarcofago paleocristiano conservato nella stessa cappella. Il particolare è degno di attenzione soprattutto alla luce del fatto che il nomen era nell’antica Roma certamente l’elemento di maggior peso a livello sociale, poiché indicava la gens di appartenenza dell’individuo, per cui valeva come un vero e proprio riconoscimento ufficiale e in questa ottica, l’evidenza che Giulio Campagnola firmasse diverse delle sue prime incisioni scrivendo il suo nome “IVLIVS” in capitale quadrata romana - la stessa che veniva utilizzata nelle iscrizioni antiche e che difatti ritroviamo nel sarcofago di Catervo - spesso associato all’appellativo toponomastico “ANTENOREVS” o “PATAVINVS” a rimarcare la sua provenienza da Padova e a voler esprimere la solida determinazione che informava la sua volontà di affermazione sociale in qualità di artista, vale a stabilire un possibile sintomatico legame con una figura come quella di Catervo che proprio per la sua vicenda umana collocata nell’antichità romana, poteva essere percepita, specialmente all’interno degli ambienti rinascimentali più colti, come un’immagine di prestigiosa e cara classicità perduta, seppur cristianizzata, che appunto si sposava perfettamente con la biografia di Giulio Campagnola, personaggio che le fonti coeve descrivevano come dotato sin dall’età adolescenziale, di un’erudizione di natura classica davvero eccezionale: in ragione di ciò il patavino poteva dunque essere individuato da artisti e letterati contemporanei come una sorta di portavoce ideale del classicismo e quindi simbolicamente identificato nella figura di San Catervo, proveniente dall’antichità tardoromana e sepolto in un elegante sarcofago di impronta classicheggiante.

Per meglio comprendere il significato del ciclo di Tolentino occorre anche considerare le otto sibille affrescate sulle quattro vele della volta a crociera, affiancate ai quattro Evangelisti.

Quello delle sibille è un tema particolarmente diffuso nel Rinascimento figurativo italiano: ricordiamo quelle dipinte da Pinturicchio nella Sala delle Sibille presso l’Appartamento Borgia in Vaticano, quelle di Perugino nel Collegio del Cambio di Perugia e soprattutto le quattro sibille affrescate da Filippino Lippi sulla volta della Cappella Carafa.

Un particolare significativo è che le sibille di Tolentino non erano previste nell’atto di allogazione, pertanto furono aggiunte dopo, ma soprattutto, come osserva la Coltrinari, è molto interessante notare che il loro numero di otto è piuttosto insolito, poiché generalmente esse erano raffigurate in quattro, mentre ancor più sorprendente, anzi come un vero e proprio unicum, appare la circostanza che queste sono rappresentate vicine agli Evangelisti, quando invece tradizionalmente erano effigiate o al fianco dei Profeti o isolate.

Il cartiglio che regge la sibilla Tiburtina recita: “NASCETVR DEVS IN BETHELEM ANNVNCIABITVR/ IN NAZARET REGNANTE TAURO PACIFICO”. Il riferimento al regno del “toro pacifico” che la Coltrinari ha acutamente interpretato come un richiamo piuttosto chiaro al papa Alessandro VI, protagonista dell’apoteosi pagana dipinta dal Pinturicchio sulla volta della Sala dei Santi con le storie di Iside e Osiride ,trasformato alla fine nel bue Api e valutato, in relazione al fatto che alla fine del 1502 Cesare Borgia, figlio del pontefice, fece sosta col suo esercito proprio nel centro marchigiano, come una sorta di captatio benevolentiae dei committenti o degli artisti nei confronti del duca Valentino, se da un lato è senza dubbio molto sensato e convincente stimare in un contesto decisamente politico, dall’altro colloca il ciclo tolentinate in quel particolare clima culturale tipico del pontificato di Alessandro VI, permeato da quella singolare unione intellettuale di riferimenti della tradizione cristiana e di quella pagana, che a Tolentino emerge appunto in termini pressoché unici con la compresenza di sibille ed Evangelisti, ed è pertanto in virtù di questa speciale congiuntura erudita ed artistica in cui maturarono gli affreschi marchigiani che i presunti ritratti di due personalità molto inclini ad una cultura prossima a modelli piuttosto eterodossi, come Giorgione e Campagnola, con quest’ultimo addirittura effigiato due volte, nelle sembianze di San Catervo e del re magio giovane, paiono ancor più plausibili, e interpretabili come elementi della medesima temperie ermetica che si respira nella scena della Disputa di San Tommaso d’Aquino a Roma, dove la presenza dei loro due ritratti, più che della schiera degli eretici raffigurata nell’affresco - inequivocabilmente valutabile quest’ultima come una condanna delle loro posizioni anticattoliche - sono il lampante esempio dell’incontro tra la dottrina cristiana e quell’erudizione paganeggiante, cui il papato borgesco era particolarmente affezionato.

Possiamo così concludere ritenendo assolutamente verosimili le identificazioni di Giulio Campagnola con la figura del re magio giovane e con quella di San Catervo e in relazione a quest’ultima, del suo sodale Giorgione con San Sebastiano, a prescindere dalla materiale realizzazione dei dipinti da parte dei due artisti veneti, poiché se questa sarebbe ragionevolmente da escludere, per i motivi che abbiamo indagato sopra, l’idea di un ritratto-omaggio alle loro personalità, deliberato dai committenti capeggiati da Giovanni Battista Rutiloni e commissionato al pittore Marchisiano di Giorgio, probabilmente coadiuvato da Francesco da Tolentino, sembra in virtù delle considerazioni espresse, certamente più ponderata e forse decisa proprio in occasione di una loro visita in città nell’ambito di un comune percorso di formazione itinerante lungo la Penisola. Parimenti possibile e perciò da non escludere, l’ipotesi collaterale e alternativa secondo cui seppur non presenti a Tolentino al momento della realizzazione degli affreschi, Giorgione e Giulio Campagnola abbiano potuto avere comunque l’onore di essere raffigurati in questo ciclo pittorico in ragione della loro singolare e raffinata cultura e specialmente dei rapporti di amicizia del Campagnola con il Riario, del legame di parentela di questi con l’allora cardinale Giuliano Della Rovere, futuro Giulio II, e dell’amicizia di quest’ultimo con Giovanni Battista Rutiloni, principale committente dell’impresa.

Resta infine un altro scenario, certo meno affascinante di quello sinora delineato, ma comunque potenzialmente concreto, ossia che gli artefici degli affreschi di Tolentino abbiano guardato ai presunti ritratti di Giulio Campagnola e di Giorgione immediatamente precedenti la realizzazione dell’impresa marchigiana, e magari proprio alle immagini dei due presso la Cappella Carafa a Roma, in termini puramente strumentali, ovvero adottandoli solo ed esclusivamente in qualità di modelli formali di riferimento, in ragione della particolare eleganza e bellezza connaturata al loro aspetto di impronta “peruginesca” e “pinturicchiesca” e dunque della felice riuscita compositiva delle loro raffigurazioni. Decisivo da questo punto di vista potrebbe essere stato l’apporto di Francesco da Tolentino, che gli studi sulla sua figura delineano come un artista girovago, e che quindi avrebbe potuto ragionevolmente attingere ispirazione dai modelli dei due giovani osservati di persona nella Cappella Carafa, fonderli nel contesto compositivo generale con i precedenti esempi di Perugino e Pinturicchio sopra menzionati, poiché ritroviamo nella produzione dell’artista tolentinate il motivo del braccio appoggiato a un fianco, nell’Adorazione dei Magi di Liveri di Nola (Napoli) e nella figura di S. Mercurio in un trittico di Serracapriola (Foggia) e poi riproporli nelle tre figure di Tolentino verosimilmente in questi termini: come esecutore per quanto riguarda la figura del re magio, in veste di consigliere, o modello ispiratore, – e in effetti il re magio si discosta stilisticamente dai due Santi, suggerendo quindi la realizzazione da parte di una mano diversa - per quelle dei Santi Catervo e Sebastiano, la creazione delle quali doveva essere direttamente demandata a Marchisiano di Giorgio per le motivazioni sociali cui abbiamo accennato sopra, per cui doveva essere investito proprio lui come principale artefice dell’impresa pittorica.








NOTE

[1] Francesca Coltrinari, Gli affreschi nella Cappella di S. Catervo a Tolentino, in “Guardate con i vostri occhi…”. Saggi di storia dell’arte nelle Marche, a cura di Angela Montironi, Ascoli Piceno, Lamusa Editore, 2002, pp. 147-189. L’atto di allogazione degli affreschi, interamente riportato nel contributo di F. Coltrinari, è conservato all’interno del Fondo Notarile di Tolentino, presso l’Archivio di Stato di Macerata. Protocolli del notaio Pietro Angelucci (Vol. n. 2265), aa. 1494-1506, cc. 482 r. e v., 483 r.

[2] Ugo Soragni, Giorgione a Padova (1493-1506), in Giorgione a Padova. L’enigma del carro, a cura di Davide Banzato, Franca Pellegrini, Ugo Soragni, Milano, Skira, 2010, pp. 19-48.

[3] Enrico Guidoni, Giorgione. Opere e significati, Roma, Editalia, 1999.

[4] Per un approfondimento sui rapporti culturali tra Giulio Campagnola e l’ambiente umanistico romano rimando al mio articolo Ipotesi per un soggiorno a Roma di Giulio Campagnola e il suo presunto ritratto nella Cappella Carafa, in BTA, Bollettino Telematico dell’Arte, 21 gennaio 2015, n. 751, <http://www.bta.it/txt/a0/07/bta00751.html> ISSN 1127-4883.

[5] “In qua quidem cappella dictus Marchesianus dictis nominibus promisit et convenit supradictis Antonio, Johanni Berardo et Benedicto ibidem presentibus et dictis nominibus agentibus facere et depignere istas figuras et depicturas videlicet in facie altaris depignere sanctam Mariam cum filio cum duobus hominibus insimul amplexantis ad significandum dictam cappellam esse dedicatam sub vocabulo Sancte Marie Pacis et a latere dextro dicte figure Sanctum Catervum et a latere sinistro Sanctum Sebbastianum”, dall’atto di allogazione degli affreschi della Cappella di San Catervo.

[6] Bernard Berenson, Italian Pictures of Renaissance, Oxford, Clarendon Press, 1932, traduzione italiana a cura di Emilio Checchi, Milano, Hopeli, 1936.

[7] La studiosa riferisce infatti che “…gli scarti sono tali tuttavia da potersi spiegare solo ricorrendo all’ipotesi della presenza, oltre e al di là degli aiuti di bottega, di almeno due artisti che operano in contemporanea,…”, F. Coltrinari, op. cit., p. 170.

[8] Cit. in F. Coltrinari, op. cit., p. 182.

[9] Tra le altre diverse attribuzioni ricordiamo quelle menzionate da Francesca Meneghetti: (in Giorgione e Padova. L’enigma del carro, a cura di Davide Banzato, Franca Pellegrini, Ugo Soragni, Milano, Skira, 2010, pp. 193-194, n. III. 1) quella di Francesco Valcanover, che assegna l’opera a Francesco da Milano e l’altra di Mauro Lucco che la colloca all’interno del corpus pittorico di un artista di formazione mantegnesco-belliniana gravitante nell’area dell’Italia orientale a cavallo tra XV e XVI secolo e ricostruito da Spiazzi e da Zeri sotto l’appellativo di “Maestro del Trittico di San Nicolò”, dal nome dell’opera eseguita per l’omonima chiesa padovana.

[10] Sambin 1974, pp. 381-388.

[11] Stefano Colonna, Hypnerotomachia Poliphili e Roma. Metodologie euristiche per lo studio del Rinascimento, Roma, Gangemi Editore, 2012, p. 312.

[12] Maurizio Calvesi, Fonti dei geroglifici del Polifilo. Un confronto con la Cappella Carafa, in Roma nella svolta tra Quattro e Cinquecento, Atti del Convegno Internazionale di Studi, a cura di Stefano Colonna, De Luca Editori d’Arte, 2004, pp. 481-498.

[13] Ricordiamo brevemente alcune tappe della ricca e prestigiosa storia del convento e della Basilica di Santo Spirito: nel 1284 il convento fu nominato “Studio generale dell’Ordine Agostiniano” e divenne un istituto di studi teologici e superiori. Fu frequentato da numerosi intellettuali, tra cui Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, che qui lasciò in eredità la sua biblioteca personale, Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini.

Brunelleschi progettò ed iniziò, nel 1444, la costruzione della nuova Basilica, che fu la sua ultima opera, mentre nel 1492 a Santo Spirito fu ospitato Michelangelo, che vi studiò l’anatomia dei cadaveri, lasciando come ringraziamento il celebre Crocifisso che oggi si trova nella Sagrestia. 

[14] Rimando per approfondimenti all’articolo del sottoscritto pubblicato sul BTA (v. nt. 4).

[15] Basti ricordare le celebri tavole raffiguranti le Storie dell’umanità primitiva (1500 circa) dipinte per Francesco, nipote di Piero del Pugliese, che narrano le origini violente e bestiali dell’umanità ispirandosi ad una visione di matrice lucreziana, dunque tanto distante dal neoplatonismo allora dominante nei circoli intellettuali della Firenze medicea, quanto soprattutto dal racconto biblico della Genesi.

[16] Carlo Santini, Saggio di memorie della città di Tolentino, Macerata, Forni Editore, 1789, ristampa anastatica, Bologna, 1967, p. 93, cit. in F. Coltrinari, op. cit., p. 157.

[17] A proposito dei legami di Giulio Campagnola con Giulio II, ricordiamo la testimonianza del Morelli (1800) che sosteneva di aver visto nei Diarii di Marin Sanudo, un “sonetto in morte di Papa Giulio II”, datato 1514 e composto proprio dal Campagnola.






BIBLIOGRAFIA


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Maurizio Calvesi, Fonti dei geroglifici del Polifilo. Un confronto con la Cappella Carafa, in Roma nella svolta tra Quattro e Cinquecento. Atti del Convegno Internazionale di Studi, a cura di Stefano Colonna, Roma, De Luca Editori d’Arte, 2004, pp. 481-498.

 

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Stefano Colonna, Hypnerotomachia Poliphili e Roma. Metodologie euristiche per lo studio del Rinascimento, Roma, Gangemi Editore, 2012, p. 312.

 

COLTRINARI 2002

Francesca Coltrinari, Gli affreschi nella Cappella di S. Catervo a Tolentino, in “Guardate con i vostri occhi…”. Saggi di storia dell’arte nelle Marche, a cura di Angela Montironi, Ascoli Piceno, Lamusa Editore, 2002, pp. 147-189.

 

COLTRINARI 2007

EAD., Marchisiano di Giorgio da Tolentino: singolare interprete della pittura del primo Cinquecento nelle Marche fra Perugino, Signorelli, Lotto e Raffaello, in Notizie da Palazzo Albani, XXXIV/XXXV, 2007, pp. 25-51.

 

ERNST, FOÀ 1993

Germana Ernst, Simona Foà, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLII, Roma, Treccani, 1993, ad vocem Egidio da Viterbo.

 

GUIDONI 1999

Enrico Guidoni, Giorgione. Opere e significati, Roma, Editalia, 1999.

 

MENEGHETTI 2010

Francesca Meneghetti, in Giorgione a Padova. L’enigma del carro, a cura di Davide Banzato, Franca Pellegrini, Ugo Soragni, Milano, Skira, 2010, n. III.1, pp. 193-194.

 

REBECCHINI 1998

Guido Rebecchini, in Dizionario Biografico degli Italiani, L, Roma, Treccani, 1998, ad vocem Francesco da Tolentino.

 

SAMBIN 1974

Paolo Sambin, Spigolature d’archivio 1. La tonsura di Giulio Campagnola, ragazzo prodigio e un nuovo

documento per Domenico Campagnola, in Atti e memorie dell’Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti, Parte III: Classe di Scienze Morali, Lettere ed Arti LXXXVI (1973-1974), pp. 381-388.

 

SORAGNI 2010

Ugo Soragni, Giorgione a Padova (1493-1506), in Giorgione a Padova. L’enigma del carro, a cura di Davide Banzato, Franca Pellegrini, Ugo Soragni, Milano, Skira, 2010, pp. 19-48.

 

 

 

SITOGRAFIA

 

DE SANTIS 2015

Francesco De Santis, Ipotesi per un soggiorno a Roma di Giulio Campagnola e il suo presunto ritratto nella Cappella Carafa, in BTA – Bollettino Telematico dell’Arte, 21 gennaio 2015, n. 751, <http://www.bta.it/txt/a0/07/bta00751.html> ISSN 1127-4883.







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Fig. 1
Marchisiano di Giorgio, Madonna con il Bambino tra i Santi Catervo e Sebastiano
1502-1503, affresco
Tolentino, Concattedrale di San Catervo, Cappella di San Catervo.

Fig. 2
Marchisiano di Giorgio, Madonna con il Bambino tra i Santi Catervo e Sebastiano
1502-1503, affresco
Tolentino, Concattedrale di San Catervo, Cappella di San Catervo
particolare del ritratto di San Sebastiano.

Fig. 3
Marchisiano di Giorgio, Madonna con il Bambino tra i Santi Catervo e Sebastiano
1502-1503, affresco
Tolentino, Concattedrale di San Catervo, Cappella di San Catervo
particolare del ritratto di San Catervo.

Fig. 4
Carlo Crivelli, Polittico di San Domenico
1482, tempera su tavola
Milano, Pinacoteca di Brera
particolare del ritratto di San Venanzio.

Fig. 5
Filippino Lippi, Disputa di San Tommaso d'Aquino
1492-1493, affresco
Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa
particolare dei presunti ritratti di Giulio Campagnola (a sinistra) e di Giorgione (a destra).

Fig. 6
Giorgione, Omaggio a un poeta
1505 circa, olio su tavola
Londra, The National Gallery
particolare del presunto autoritratto di Giorgione.

Fig. 7
Francesco da Tolentino, Adorazione dei Magi
1502-1503, affresco
Tolentino, Concattedrale di San Catervo, Cappella di San Catervo
particolare del ritratto del Re Magio che dona la mirra.

Fig. 8
Perugino, Adorazione dei Magi
1476 circa, olio su tela
Perugia, Galleria Nazionale dell'Umbria
particolare del ritratto del Re Magio che dona la mirra.

Fig. 9
Pinturicchio, Epifania
1492-1494, affresco
Città del Vaticano, Appartamento Borgia, Sala dei Misteri e della Fede
particolare del ritratto del Re Magio che dona la mirra.

Fig. 10
Pittore veneto (Giorgione e Giulio Campagnola ?), Madonna con il Bambino e San Giovannino
fine XV secolo, tavola
Padova, Musei Civici, Museo d'Arte Medioevale e Moderna, inv. 456
particolare del ritratto di San Giovannino.

Fig. 11
Filippino Lippi, Adorazione dei Magi
1496, tempera su tavola
Firenze, Galleria degli Uffizi.

Fig. 12
Filippino Lippi, Adorazione dei Magi
1496, tempera su tavola
Firenze, Galleria degli Uffizi
particolare dei ritratti dei paggi.

Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

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