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Ipotesi per un soggiorno a Roma di Giulio Campagnola e il suo presunto ritratto nella Cappella Carafa  

Francesco De Santis
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 21 Gennaio 2015, n. 751
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Enrico Guidoni1 sostiene che la formazione artistica e culturale di Giorgione e di Giulio Campagnola non sia stata circoscritta soltanto al Veneto e all’Italia settentrionale, le loro più comuni aree di pertinenza, ma ritiene piuttosto verosimile pensare che i due, legati da una stretta amicizia professionale, abbiano viaggiato insieme per conoscere e studiare i diversi linguaggi figurativi presenti nella Penisola, recandosi in almeno due occasioni (nel 1492-1493 per l’elezione di Alessandro VI e per il Giubileo del 1500) a Roma, meta naturalmente ineludibile e perciò punto di passaggio obbligato per la conoscenza diretta dei modelli antichi e dei coevi lessici artistici.
L’ipotesi di un loro soggiorno romano, sebbene al momento ancora non siano stati rinvenuti eventuali documenti che ne attestino la certezza, è plausibile, perché sin dai primissimi anni della loro carriera, il viaggio di formazione sembra essere stato un fattore costante nella vita di Zorzi da Castelfranco e specialmente di Giulio Campagnola, poiché quest’ultimo, secondo le testimonianze di alcuni umanisti contemporanei, come Matteo Bosso2 e Panfilo Sassi, intimi amici del padre Girolamo, fin da adolescente intraprendeva la visita, su decisiva spinta del genitore, di alcune corti dell’Italia padana per plasmare la propria educazione secondo un’impronta umanistica. Contestualmente, il giovane padovano avrebbe compiuto, come poco sopra accennato, alcuni spostamenti di maggior ampiezza geografica al fine di aggiornare il proprio linguaggio artistico, nell’ambito di un programma di formazione dal quale non sarebbe stata esclusa una visita a Roma, appunto.

Dunque, proprio in merito a Giulio Campagnola, che è l’oggetto di questo contributo, acquista particolare rilievo la scoperta, compiuta da Paolo Sambin3, di un prezioso documento in cui si afferma che il giovane padovano nel 1495 risultava essere già “familiare” del cardinal Raffaele Riario, che si era stabilito a Roma dal dicembre 1477 4.


Fig. 1

Figura 1: Filippino Lippi, Disputa di San Tommaso d'Aquino, 1492-1493
Affresco, Roma, Chiesa di S. Maria Sopra Minerva, Cappella Carafa


Il dato va necessariamente accolto come fondamentale punto di partenza per poter ritenere valida la proposta di Enrico Guidoni, che ha voluto individuare nella scena della Disputa di san Tommaso d’Aquino (fig. 1) affrescata da Filippino Lippi nella Cappella Carafa in S. Maria sopra Minerva negli anni 1492-1493, i ritratti di Giorgione e del suo sodale padovano Giulio Campagnola (figg. 2-3),

Fig. 2

Fig. 2. Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare dei presunti ritratti di Giulio Campagnola (a sinistra) e Giorgione (a destra), 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa


Fig. 3

Fig. 3. Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare del presunto ritratto di Giulio Campagnola, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa


raffigurati davanti al gruppo di eretici sulla destra, sulla base di un confronto fisionomico, assolutamente giustificato, con altri ritratti, presenti in alcuni brani figurativi dei due artisti veneti e anche di altri autori contemporanei, che Guidoni ha supposto essere proprio le figure di Giorgione e di Giulio Campagnola, come ad esempio quelli del celebre Omaggio a un poeta (cfr. figg. 4-5),

Fig. 4 Fig. 5

Figg. 4-5. A sinistra, Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare del presunto ritratto di Giulio Campagnola, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa. A destra, Giorgione, Omaggio a un poeta, particolare del presunto ritratto di Giulio Campagnola, olio su tavola, 59,7 x 48, 9 cm; Londra, The National Gallery


attribuito al maestro di Castelfranco, della scena dello Sposalizio della Vergine (fig. 6), affrescata da Giulio Campagnola nella Scuola del Carmine a Padova,

Fig. 6

Fig. 6. Giulio Campagnola, Sposalizio della Vergine, particolare del presunto autoritratto di Giulio Campagnola, affresco; Padova, Scuola del Carmine


del Commiato degli ambasciatori inglesi di Vittore Carpaccio di cui si dirà più avanti, dell’Adorazione dei Magi dello stesso Filippino Lippi (fig. 7)

Fig. 7

Fig. 7. Filippino Lippi, Adorazione dei Magi, particolare dei presunti ritratti di Giulio Campagnola (a sinistra) e Giorgione (a destra), 1496; tempera su tavola, 258 x 243 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi, partic.


e soprattutto di una tavola dei Musei Civici di Padova raffigurante la Madonna con il Bambino e san Giovannino, che sarà analizzata tra poco.

L’idea di Guidoni, che interpreta i due ritratti di giovani dipinti da Filippino Lippi come la prova di una permanenza a Roma di Giulio Campagnola e Giorgione proprio all’epoca della realizzazione della scena della Disputa nella Cappella Carafa, è stata condivisa anche da Ugo Soragni che attribuisce alle due figure il valore di “testimonianza indiziaria ma sostenibile in base a riscontri precisi della loro attività artistica itinerante”5.

Ad una immediata visione d’insieme di questo affresco, rimane fortemente impressa la singolarità della posa dei due fanciulli rispetto a quella degli altri personaggi: molto vicini con le teste inclinate l’una verso l’altra (fig. 8),

Fig. 8

Fig. 8. Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare dei presunti ritratti di Giulio Campagnola (a sinistra) e Giorgione (a destra), 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa


a voler presumibilmente esprimere un sottile dialogo tra i due, ermetico ed esclusivo. E’ il medesimo atteggiamento di distacco che Guidoni percepisce anche nei due adolescenti raffigurati da Vittore Carpaccio nella scena del Commiato degli ambasciatori inglesi (figg. 9-10), dal ciclo delle Storie di Sant’Orsola, che lo studioso identifica ancora in Giulio Campagnola e Giorgione, caldeggiando a proposito l’ipotesi di un loro comune discepolato presso la bottega del maestro veneziano proprio all’epoca dell’importante ciclo di teleri eseguito per la Scuola di Sant’Orsola6.


Fig. 9 Fig. 10

Figg. 9-10. A sinistra, Vittore Carpaccio, Commiato degli ambasciatori inglesi, episodio dal ciclo delle Storie di sant'Orsola, olio su tela, 280 x 258 cm, Venezia, Gallerie dell'Accademia. A destra, particolare dei presunti ritratti di Giulio Campagnola (a sinistra) e Giorgione (a destra)


Guidoni prosegue ritenendo poi assolutamente non casuale la collocazione dei due amici veneti nel gruppo degli eretici in cui figura Mani (Manicheo), rappresentato in atto di invitare al silenzio con l’indice sulle labbra (fig. 11), perché in certe opere del maestro di Castelfranco si manifesterebbe, sostiene lo studioso, uno specifico interesse per la rappresentazione delle “mani” dei protagonisti, veicolanti, attraverso il particolare posizionamento delle dita, ermetici significati riconducibili al culto solare, particolarmente diffuso sin da tempi remotissimi in terra indiana e recepito, sebbene non in forme assolutamente ortodosse, ma comunque con un significativo interesse, in certa cultura letteraria ed artistica italiana del secondo Quattrocento.


Fig. 11

Fig. 11. Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare del ritratto di Manicheo, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa


Egli suppone dunque l’appartenenza di Giorgione e Giulio Campagnola ad una setta religiosa veneta dedita all’antichissimo culto del Sole, e pone in relazione questa eventuale circostanza con il probabile sodalizio dei due giovani con la corte della regina Cornaro e con la famiglia Costanzo7 che li avrebbero perciò prescelti come interpreti di un rinnovamento culturale e filosofico in posizione dialettica nei confronti dell’ufficialità della Chiesa di Roma, da potersi diffondere, anche se forse esclusivamente all’interno di raffinati cenacoli umanistici, mediante gli ermetici messaggi trasmessi da particolari elementi rappresentati nelle loro creazioni artistiche: in merito a questo aspetto, acquisterebbe perciò un preciso significato spirituale la presenza dei due nel gruppo degli eretici in cui figura proprio Mani, perché il Manicheismo era permeato di un sincretismo ove confluivano, seppur rielaborati in un sistema dottrinale assolutamente originale, particolari elementi del Cristianesimo, del Zoroastrismo e del Buddismo e soprattutto perché la dottrina manichea non era affatto estranea a certi riti riconducibili più o meno direttamente all’antico culto solare.

Tornando ora a concentrarci sul solo Giulio Campagnola, va osservato che, per quanto il rapporto col Riario, già in essere nel 1495 e probabilmente non iniziato in termini ufficiali prima di quell’anno, soprattutto considerato il fatto che l’appena adolescente Giulio riceveva la prima tonsura da chierico proprio il 28 maggio 1495 8, non implichi necessariamente la certezza che il Nostro potesse essere in città anche circa due o tre anni prima, dunque all’epoca degli affreschi del Lippi, la prossimità cronologica con la realizzazione degli stessi, non esclude neppure l’eventualità di un suo soggiorno romano in compagnia di Zorzi da Castelfranco9 negli anni 1492-’93, forse proprio perché un primo contatto con certi ambienti capitolini vicini a Riario o con lo stesso cardinale era già occorso prima del 1495, e magari questa breve permanenza in Urbe avvenne davvero in occasione, come pensa lo stesso Guidoni, della contemporanea elezione al soglio pontificio di Alessandro VI Borgia l’11 agosto 1492, che si presentava certamente come l’evento più importante per la città di Roma, e non solo, in quel preciso momento storico.


Fig. 12

Fig. 12. Pittore veneziano (Giorgione e Giulio Campagnola ?), Madonna con il Bambino e san Giovannino, tavola, 52 x 42 cm, Padova, Musei Civici, Museo d'Arte Medioevale e Moderna, inv. 456


In merito a questa eventuale presenza romana dei due giovani artisti veneti, un ulteriore significativo indizio è rappresentato da una tavola conservata presso i Musei Civici di Padova, raffigurante la Madonna con il Bambino e san Giovannino (fig. 12), oggi assegnata a un anonimo pittore veneziano della fine del XV secolo. Tra le varie proposte di attribuzione, ricordiamo quella di Francesco Valcanover che rivendica l’opera alla mano di Francesco da Milano, mentre Mauro Lucco la colloca all’interno del corpus pittorico di un artista di formazione mantegnesco-belliniana gravitante nell’area orientale a cavallo tra XV e XVI secolo e ricostruito da Spiazzi (1979) e Zeri (1980) sotto l’appellativo di “Maestro del Trittico di San Nicolò”, dall’opera eseguita per l’omonima chiesa padovana10.

Guidoni dal canto suo, ritiene la tavola opera dell’intervento congiunto proprio di Giorgione e Giulio Campagnola, e in particolare percepisce nel volto del Bambino un modellato fortemente giorgionesco e nella Vergine belliniana il “frutto dell’abilità di copista di Giulio” e assegna allo stesso Campagnola “gli alberelli tondi, certe secchezze di modellato e, in generale, il disegno delle vesti”11.


Fig. 13

Fig. 13. Pittore veneziano (Giorgione e Giulio Campagnola ?), Madonna con il Bambino e san Giovannino, particolare del presunto ritratto di Giulio Campagnola, tavola, 52 x 42 cm, Padova, Musei Civici, Museo d'Arte Medioevale e Moderna, inv. 456


Fig. 14 Fig. 15

Figg. 14-15. A sinistra, Pittore veneziano (Giorgione e Giulio Campagnola ?), Madonna con il Bambino e san Giovannino, particolare del presunto ritratto di Giulio Campagnola, tavola, 52 x 42 cm, Padova, Musei Civici, Museo d'Arte Medioevale e Moderna, inv. 456. A destra, Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare del presunto ritratto di Giulio Campagnola, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa


L’elemento però più sorprendente e, ai fini di questa indagine, il più significativo, è la figura del san Giovannino (fig. 13), che palesa una straordinaria somiglianza con il giovane dai lunghi capelli biondi (cfr. figg. 14-15) nell’affresco del Lippi, come abbiamo visto già identificato da Guidoni in Giulio Campagnola, per cui lo stesso studioso indica nello stesso santo ancora un ritratto del fanciullo padovano12. Inoltre, la quinta architettonica, riconosciuta dalla critica come una veduta del Laterano prima dei rifacimenti rinascimentali, con al centro la statua equestre di Marco Aurelio, che compare nitidamente sullo sfondo della Disputa (fig. 16),

Fig. 16

Fig. 16. Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa


Fig. 17 Fig. 18

Figg. 17-18. A sinistra, Pittore veneziano (Giorgione e Giulio Campagnola ?), Madonna con il Bambino e san Giovannino, particolare, tavola, 52 x 42 cm, Padova, Musei Civici, Musei d'Arte Medioevale e Moderna, inv. 456. A destra: Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa


la ritroviamo pressoché identica in questa tavola padovana (cfr. figg. 17-18). E’ perciò davvero possibile che Giorgione e Campagnola, se davvero artefici della tavola patavina e se presenti a Roma negli anni dell’impresa lippesca, abbiano guardato con meticolosa attenzione tale particolare della scena della Disputa, di cui sarebbero stati a loro volta protagonisti in qualità di personaggi contemporanei ritratti, e naturalmente spettatori interessati in quanto artisti in soggiorno a Roma spinti dall’intenzione di arricchire il proprio linguaggio figurativo.

Ancora Guidoni coglie nell’indice della mano destra del Bambino puntato verso il cielo, un segnale di riferimento al culto solare e ciò costituirebbe un ulteriore indizio di quella ipotizzata appartenenza di Giulio e Zorzi ad una particolare setta filosofico-religiosa, come la loro presenza in compagnia del gruppo degli eretici dove figura Manicheo nell’affresco capitolino, sembrerebbe di fatto confermare.

Secondo la riflessione di Ugo Soragni – che condivide la posizione di Guidoni sostenendo che la tavola di Padova sia frutto della collaborazione di Giorgione e Giulio – la veduta del complesso lateranense, dominata dalla statua equestre di Marco Aurelio, sarebbe ancora un duplice riferimento alla fede solare: infatti il monumento stesso dell’imperatore antonino, all’epoca dell’affresco lippesco e della tavola padovana, era erroneamente identificato con l’effigie di Costantino (Caballus Constantini), l’imperatore che aveva trasfuso nella liturgia cristiana la festività pagana del Dies natalis Solis invicti, introdotta da Aureliano nel 274 d.C. per celebrare il solstizio d’inverno. Inoltre lo studioso ritiene che Giorgione, al quale dunque evidentemente assegna il brano della veduta lateranense, abbia voluto alludere all’iniziativa di Sisto IV (1471-1484), che aveva fatto trasportare gli antichi bronzi del Laterano, tra cui la gigantesca testa tradizionalmente identificata con quella della statua del dio Sole, sul Campidoglio.

In merito al Campagnola, sarebbe ora opportuno chiarire il motivo per cui Filippino Lippi avrebbe raffigurato, nel contesto di una scena dal sofisticato contenuto filosofico-religioso, un fanciullo che all’epoca poteva essere al massimo tredicenne, dal momento in cui è diffusamente pacifico che la data di nascita del padovano possa ragionevolmente collocarsi tra il 1480 e il 1482.

Infatti, per quanto prodigiosa e precoce fosse la sua preparazione intellettuale, sembra piuttosto singolare credere che un Giulio appena adolescente potesse aver trovato “diritto di cittadinanza” in un affresco così concettualmente raffinato e complesso. Inoltre, a quell’epoca il padovano ancora non aveva espresso pienamente la sua particolare cifra stilistica, essendosi segnalato a un’età così acerba soprattutto per le sue straordinarie qualità di imitatore piuttosto che per le sue creazioni originali, che invece sarebbero state licenziate solo a partire dagli ultimissimi anni del secolo13, come sembra ormai pienamente condiviso, e perciò nel biennio 1492-’93 egli ancora non poteva essere considerato un personaggio di un certo rilievo e di immediata riconoscibilità nell’ambito del panorama artistico italiano, tale dunque da poter essere ritratto nell’affresco della Disputa in qualità di artista già affermato sulla scena: a proposito è opportuno sottolineare la particolarità, ricorrente soprattutto in alcune delle prime incisioni di Giulio Campagnola, della firma espressa attraverso la magniloquente formula “IVLIVS CAMPAGNOLA ANTENOREVS”, dove l’Antenoreus stava ovviamente a significare la sua origine padovana e il nome per esteso, sovente scritto in caratteri di grosse dimensioni, che solo nella fase della sua maturità artistica sarà ridotto al monogramma “ I C”, era un indicatore piuttosto esplicito della decisa volontà del giovane di affermarsi rapidamente sul mercato artistico14.

Personalmente ritengo – come ho ipotizzato nella mia recente tesi di laurea15 – che se l’elegante fanciullo biondo nella scena di Filippino Lippi dovesse essere davvero Giulio Campagnola, il suo ritratto in tale contesto può essere interpretato come una sorta di vaticinio per una sua immediatamente prossima investitura negli ambienti umanistici contemporanei più raffinati: precisamente dunque, non l’omaggio a una personalità dalla fisionomia intellettuale già ben delineata, oggettivamente difficile da pensare considerata appunto la sua giovanissima età, ma piuttosto l’annuncio “profetico” dell’imminente consacrazione culturale di un fanciullo che, già in possesso nella primissima adolescenza di un bagaglio culturale fuori dalla norma, lasciava intravedere all’epoca della realizzazione della Disputa potenzialità tali da poter perciò validare la sua presenza in compagnia del di poco più grande Giorgione in un brano pittorico dove la figura dell’Aquinate in cattedra disputante tra le arti liberali, testimoniava con forza il valore profondamente intellettuale e senza dubbio esclusivo, dell’episodio; ed a proposito, il grande libro che il presunto Giulio Campagnola tiene tra le mani è la testimonianza di quella sua preparazione culturale così straordinariamente precoce che giustificherebbe quindi la sua presenza in tale contesto così dotto.

Sulla scelta di far raffigurare nella scena della Disputa il giovane enfant prodige padovano, la figura del cardinal Oliviero Carafa, ideatore e committente del ciclo pittorico, deve aver giocato un ruolo decisivo, naturalmente. Il colto ecclesiastico napoletano, trasferitosi a Roma intorno al 1467 16, conosceva personalmente Giulio Campagnola e suo padre Girolamo, raffinato umanista? Difficile affermarlo con certezza stante il silenzio di eventuali notizie in merito, ma la vicinanza del giovane padovano con Raffaele Riario, personaggio colto ed estremamente sensibile alle arti17, è certamente indicativa di una precoce prossimità di Giulio con certi ambienti ecclesiastici e intellettuali romani, che ovviamente avrebbero potuto aprirgli le porte verso molteplici conoscenze: a proposito credo opportuno ricordare che nell’estate del 1509 , dopo la tragica sconfitta veneziana di Agnadello, che peraltro sarebbe, secondo una delle linee interpretative più convincenti, l’autentico soggetto della misteriosa quanto celebre incisione campagnolesca nota come l’Astrologo18, lo stesso Carafa e il cardinal Riario furono incaricati dalla Curia romana di intavolare le trattative di pace con gli ambasciatori della Repubblica veneta e proprio l’evidenza che i due cardinali abbiano ricevuto questo compito così delicato, presuppone a mio avviso la possibilità che la loro conoscenza reciproca fosse all’epoca già molto consolidata, poiché l’assegnazione di questa incombenza doveva implicare anche una certa intesa tra i due, verosimilmente definitasi solo dopo un cospicuo numero di anni di vicendevole frequentazione.

In questa ottica, credo che vada interpretata anche la successione del Riario al Carafa nella carica di cardinale vescovo di Ostia e Velletri, il 20 gennaio 1511, in seguito alla morte di quest’ultimo, il quale certamente doveva aver manifestato in vita la propria idea in merito alla sua successione, fondamentale per orientare la scelta dei suoi posteri sulla persona di Raffaele Riario, appunto. Per cui sarebbe forte la tentazione di affermare che proprio il cardinal Riario possa essere stato l’anello di congiunzione tra Giulio Campagnola e il cardinal Carafa, che, personaggio assai erudito, avrebbe così scelto di omaggiare il sorprendente, ma certo all’epoca ancora in nuce, talento intellettuale del padovano, commissionandone a Filippino Lippi il ritratto vicino a quello di Giorgione nella scena di S. Maria sopra Minerva.

Ma a questo punto, se i due all’epoca fossero davvero appartenuti ad un segreto cenacolo religioso pseudoeretico, dedito in particolare al culto del Sole, come ha pensato Guidoni, sarebbe davvero corretto valutare la loro presenza nell’episodio della Disputa come un “omaggio” alla loro personalità da parte di un uomo, il cardinal Oliviero Carafa, che era una delle personalità più influenti della Chiesa Romana e che dunque doveva mostrarsi ovviamente incline a ribadirne la centralità dottrinale contro il pericolo di certe devianze spirituali? In tal senso, una superficiale interpretazione dell’affresco indirizzerebbe piuttosto verso l’idea di una condanna delle eterodosse posizioni filosofiche del Campagnola e di Giorgione, coerentemente con la loro collocazione nel gruppo dei grandi eresiarchi, ma tuttavia credo che la questione sia più complicata: gli eventuali ritratti dei due giovani artisti veneti in compagnia degli eretici non possono infatti essere valutati come il sintomo di un giudizio negativo nei loro confronti, e ciò per alcuni particolari assolutamente non trascurabili e a mio avviso decisivi.

Innanzitutto la singolare posa che contraddistingue i due amici, già ricordata sopra, con le due teste molto vicine, inclinate l’una verso l’altra, esprime l’idea di un colloquio non solo molto confidenziale, ma assolutamente ermetico, il cui esclusivismo va inteso anche e soprattutto nei confronti degli eretici presenti nell’episodio, una conversazione intima e privilegiata che vale ad isolare Giulio e Zorzi dal resto del gruppo e dunque a segnare le distanze dei due rispetto alle dottrine propugnate dai protagonisti che campeggiano alle loro spalle. Questo spirito incline ad una erudizione riservata ed esclusiva, connaturato alla personalità di Giulio Campagnola, trapela anche dai soggetti di certe sue incisioni, come quella del Saturno, dove l’isolamento del dio, raffigurato ai margini di un bosco lontano dal borgo abitato, esprime una condizione spirituale ed intellettuale privilegiata, interpretabile in senso neoplatonico.


Fig. 19

Fig. 19. Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare del ritratto di Gioacchino Torriani, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa


Fig. 20

Fig. 20. Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare del ritratto di Niccolò III Orsini, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa


E d’altronde, in riferimento all’affresco del Lippi, la presenza tra gli astanti ai piedi della cattedra dell’Aquinate, di due importanti esponenti contemporanei della Chiesa, quali Gioacchino Torriani (fig. 19), Maestro Generale dell’Ordine Domenicano dal 1487 al 1500, nel gruppo di destra, e Niccolò III Orsini, conte di Pitigliano e capo dell'esercito papale (fig. 20), sul lato opposto della scena, dimostra che la disposizione dei personaggi secondo uno schema compositivo simbolico, in virtù del quale la Sapienza (san Tommaso e le arti liberali) è raffigurata in alto, seduta in cattedra, e l’ignoranza, destinata a soccombere (gli eretici), a un livello più basso, non debba essere accolta in senso troppo semplicistico, monolitico e categorico, poiché sullo stesso piano sono collocati sia alcune delle più celebri personalità, nell’ottica del significato teologico della Disputa, “negative”, perché avverse all’ortodossia cristiana, sia due dei maggiori difensori, rispettivamente sul piano dottrinale (il Torriani), e politico-militare (l’Orsini), della Chiesa cattolica, da intendersi dunque come personaggi encomiabili, e perciò non va affatto esclusa la possibilità che Giorgione e Campagnola, se anche eventualmente vicini a una setta dedita al culto solare, possano essere stati valutati dal Carafa, ideatore del ciclo, in senso positivo e perciò come personaggi intellettualmente lodevoli. Ma in riferimento a Giulio Campagnola, il particolare più significativo che ci fa propendere verso l’idea che il suo presunto ritratto debba essere correttamente inquadrato come un autentico omaggio alla sua personalità, è indubbiamente il voluminoso libro che il giovane fanciullo biondo stringe tra le mani (fig. 21).


Fig. 21

Fig. 21. Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa


Si è già detto sopra che questo oggetto è già di per sé l’elemento simbolico dell’eccezionale erudizione del padovano, ma il suo significato è certamente più profondo di quello di un semplice segno distintivo. Infatti, il nostro presunto Giulio Campagnola è l’unico tra i presenti, insieme a san Tommaso che esibisce un libro aperto a mostrare un noto passo di san Paolo, “SAPIENTIAM SAPIENTVM PERDAM” e alla personificazione della Filosofia, esplicita allusione alla Scolastica dell’Aquinate, che detenga il diritto di esibire tra le mani il proprio prezioso volume, emblematica espressione di una cultura, per quanto singolare ed eterodossa e sicuramente distante dalla teologia del grande domenicano, evidentemente degna di essere considerata di grande valore intellettuale, quasi sul piano della complessa speculazione del Doctor Angelicus, laddove contestualmente, gli altri libri presenti nella scena, che veicolano le erronee dottrine degli eretici là raffigurati, giacciono miseramente a terra, disprezzati e malridotti (fig. 22), e sono perciò inevitabilmente destinati al fallimento al cospetto della vera Sapienza.


Fig. 22

Fig. 22. Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa


In base a queste osservazioni, va dunque assolutamente esclusa l’ipotesi che i presunti ritratti di Giorgione e soprattutto di Giulio Campagnola vicini al gruppo degli eretici possano essere valutati come un giudizio negativo delle loro inclinazioni culturali ed anzi è assolutamente verosimile che il cardinal Carafa, personaggio erudito e brillante mecenate delle arti19, ammirasse la loro particolare e raffinata formazione intellettuale e di lì a pochi anni, certamente anche lo spirito ermetico che avrebbe informato le loro più celebri creazioni artistiche, se solo si consideri il particolare gusto dell’ecclesiastico partenopeo per il cripticismo, ben esemplificato dai geroglifici raffigurati sui fregi della Cappella Carafa, che Maurizio Calvesi ha avuto il merito di decrittare20.

E d’altronde, il presunto ritratto di due personaggi come Giulio e Giorgione, forse appartenenti ad una setta dedita al culto del Sole, ben si conciliava col clima intellettuale romano di fine Quattrocento, che, in particolare nella personalità di Alessandro VI, si mostrava aperto agli influssi di culture e filosofie anche molto distanti dalla tradizione cristiana e talvolta in posizione dialettica nei suoi confronti. In questo senso, basti solamente pensare al ciclo di affreschi realizzato da Pinturicchio per lo stesso pontefice nell’Appartamento Borgia in Vaticano, dove, sulle pareti della Sala dei Santi, veniva clamorosamente celebrato il trionfo del dio egizio Osiride, simbolicamente identificato con lo stesso Alessandro VI.
La certezza di poter affermare l’esistenza di un legame del Carafa con Giulio Campagnola, e dunque di conseguenza anche l’eventualità di una sua presenza a Roma negli anni 1492-’93, che sarebbe stata appunto immortalata nell’affresco di Filippino Lippi, si affida naturalmente alla speranza di reperire qualche preziosa fonte documentaria circoscritta a questo ristretto arco temporale, che avvalorerebbe così le argomentazioni appena proposte, ma a prescindere da questa circostanza, possiamo comunque rafforzare la nostra convinzione della inequivocabile esistenza di un contatto di Giulio Campagnola con Roma e con i suoi ambienti ecclesiastici e intellettuali, grazie in particolare a una testimonianza recentemente venuta alla luce.

Precisamente mi riferisco all’amicizia di Girolamo e Giulio Campagnola col cardinale agostiniano ed insigne letterato Egidio da Viterbo, che, in una lettera scoperta da Stefano Colonna21, scritta da Roma e datata 29 agosto 1517, indirizzata al confratello Gabriele Della Volta, cita “El mio Chariss[im]o misser Hierony[m]o Campagnola” e “misser Julio suo & mio”: l’uso da parte del cardinale Egidio, strettamente legato a certi ambienti ecclesiastici ed intellettuali romani, di termini come “mio” e “Chariss[im]o” nei confronti dei Campagnola, presuppone naturalmente un rapporto di profonda e longeva amicizia, senza dimenticare che alcuni scritti eruditi del cardinale viterbese palesano una sorprendente prossimità concettuale con certe incisioni di Giulio, nell’ambito di un comune neoplatonismo di fondo22.

Nel biennio in cui furono realizzati gli affreschi della Cappella Carafa tuttavia, difficilmente poteva concretizzarsi l’occasione di un incontro romano tra lo stesso Giulio Campagnola e il cardinale viterbese, che si sarebbe stabilito a Roma con una certa continuità solo a partire dal 1496-‘97, perché all’epoca quest’ultimo risiedeva proprio a Padova, patria del Nostro, dove vi si era insediato dal 1490 e la circostanza è forse ancor più significativa. Infatti, la città Antenorea, dove il viterbese si era recato per studiare teologia, era all’epoca una delle più celebrate sedi universitarie europee, caratterizzata da una forte tradizione aristotelica, verso cui Egidio maturò ben presto una decisa avversione, perché valutata in insanabile contrasto con la religione cristiana. Il cardinale si avvicinò dunque con sempre maggiore interesse ed abnegazione alla filosofia platonica, il cui studio giunse a maturazione nel biennio 1494-1495, quando Egidio si recò a Capodistria per insegnare e nel 1496, quando a Firenze incontrò Marsilio Ficino, il quale, nella sua celebre Theologia platonica, permeata dall’idea di una conciliazione della filosofia pagana e dei principi cristiani, aveva posto le basi del neoplatonismo rinascimentale.

Ma il dato probabilmente più interessante ai fini della nostra ricerca è che all’epoca del soggiorno padovano di Egidio, teneva lezioni presso l’università quel Niccolò Leonico Tomeo, fautore di un’originale sincretismo tra le dottrine aristoteliche e quelle di Platone, e destinatario di una lettera in latino, oggi perduta, scritta da Girolamo Campagnola, padre di Giulio e amico stretto del professore epirota23, sulla tradizione artistica della città di Padova: è perciò ponderato supporre che il Tomeo, la cui visione filosofica era appunto molto vicina al platonismo, circostanza che doveva apparire alquanto eccezionale in un contesto egemonizzato dall’aristotelismo come quello patavino, abbia potuto lasciare una traccia sulla formazione del cardinale di Viterbo e non va esclusa affatto la possibilità che questi abbia potuto seguire personalmente le lezioni universitarie di Niccolò e magari stringere con lui un’amicizia che si sarebbe poi rivelata il fattore determinante per l’incontro con Girolamo Campagnola.

Ricordando ancora la notizia secondo cui nel 1495 il giovane Giulio risultava “familiare” del cardinal Raffaele Riario, va sottolineato che quest’ultimo fu protettore dell’Ordine degli Agostiniani, a cui apparteneva lo stesso Egidio e che i due erano legati da una profonda amicizia24 e, integrando questo dato con quello inerente la conoscenza reciproca del Riario con Carafa, cui abbiamo accennato sopra, mi sembra ammissibile congetturare la seguente successione di eventi: Egidio conosce Girolamo Campagnola a Padova intorno al 1490-’91 e, pur essendo oggettivamente poco credibile che nei primissimi anni novanta si sia potuta già sviluppare una precoce intesa intellettuale di stampo neoplatonico tra il dotto viterbese e l’appena adolescente Giulio, è parimenti possibile che il cardinal Egidio potesse aver già comunque intuito a quell’epoca le straordinarie potenzialità del fanciullo padovano e, che dunque, apprezzandone in modo particolare la sua formazione culturale che andava delineandosi, lo abbia poi segnalato, molto probabilmente su sollecitazione dello stesso Girolamo, all’amico Riario25; il cardinal Riario entra in rapporti con Giulio Campagnola e, ammirandone a sua volta le doti, lo introduce, prima di nominarlo suo “familiare” nel 1495, nell’orbita dell’erudito cardinal Oliviero Carafa26, il che giustificherebbe l’eventuale commissione a Filippino Lippi di un suo ritratto all’interno della scena della Disputa di san Tommaso d’Aquino.

In virtù dei dati che abbiamo interpretato, e sempre auspicando la futura scoperta di possibili documenti che sarebbero di aiuto fondamentale per meglio inquadrare questo periodo della vita del prodigioso fanciullo padovano, mi pare perciò assolutamente condivisibile la proposta di Enrico Guidoni da cui abbiamo preso le mosse, ed è pertanto ragionevole ritenere verosimile l’idea di un soggiorno a Roma di Giulio Campagnola forse in compagnia di Giorgione in un periodo compreso nel biennio 1492-’93 e tuttavia, pur ribadendo la centralità del fatto che l’assoluta identità del ritratto della Cappella Carafa costituirebbe la prova di una reale presenza a Roma del padovano in questi anni, non va del tutto esclusa nemmeno l’ipotesi secondo cui, se anche a quell’epoca il giovane non si fosse affatto recato in Urbe, ma che vi fosse giunto per la prima volta circa due anni più tardi, appunto nel 1495, sarebbe allo stesso modo del tutto plausibile che il misterioso fanciullo biondo dell’affresco del Lippi possa essere proprio il nostro Giulio Campagnola, poiché l’episodio della Disputa, a prescindere dalla presenza di due personalità contemporanee, come Gioacchino Torriani e Niccolò III Orsini, non rappresenta una vicenda di cronaca, che perciò doveva documentare un preciso avvenimento romano coevo alla sua realizzazione, con la raffigurazione dei personaggi ivi presenti, ma va piuttosto interpretato, come è noto, da un punto di vista teologico e filosofico universale ed è perciò ammissibile che, proprio grazie alle sue doti ed ai suoi rapporti con Egidio e Raffaele Riario e conseguentemente con Oliviero Carafa, sia stato tributato al nostro Giulio l’onore di essere ritratto in un affresco romano, senza che necessariamente il giovane padovano fosse stato presente in città contemporaneamente alla realizzazione dello stesso.

E in chiusura, a ulteriore testimonianza dei contatti di Giulio Campagnola con Roma, è opportuno ricordare altri due interessanti documenti: una notizia riportata da Morelli (1800) che afferma di aver visto nei Diarii di Marino Sanuto un “sonetto in morte di Papa Giulio II”, cugino proprio di Raffaele Riario, composto da Giulio Campagnola e datato 1514, e un affresco di autore ancora ignoto, nel castello Savelli di Palombara Sabina, raffigurante un astrologo (fig. 23), assolutamente identico al protagonista della celebre incisione del Nostro, del 1509 (fig. 24) e che apre dunque all'eventualità che egli possa essersi recato a Roma anche in più di un'occasione a distanza di anni.

Fig. 23

Fig. 23. Anonimo, Astronomia, 1514; affresco; Palombara Sabina, Castello Savelli, Palazzo di Giacomo, Studiolo


Fig. 24

Fig. 24. Giulio Campagnola, Astrologo, 1509; bulino, 99 x 152 mm; Berlin, Staatliche Museen zu Berlin, Kupferstichkabinett, inv. 960-17








NOTE

1 Guidoni 1999, p. 86.

2 Si ricordi a proposito un passo di una lettera scritta nel 1494 dall’umanista Matteo Bosso a Girolamo Campagnola per informarlo dei progressi intellettuali che il giovanissimo Giulio faceva a Verona grazie al suo insegnamento: “Vix tertium ingressus lustrum ingenio e natura non est Lippo (Aurelio Brandolino) absimilis: quin praeter litteras tum Latinas tum Graecas, impuberi iste & lyram tractare, & in ea canere, versus edere, &, quod caecus non potest, scribere, pingere, statuas atque signa fingere sic per se magis, ut puto, duce natura, quam arte, perdidicit; ut temporibus nostris omnibus illi tantis in rebus simul possit meo iudicio conferri nemo”. Dall’epistola LXXV di Matteo Bosso nella seconda collezione stampata in Mantova nel 1498 e riportata in Michiel 1800, pp. 130-131.É opportuno segnalare anche la testimonianza di Michele da Placiola, cognato di Giulio, che scrivendo il 10 settembre 1497, verosimilmente dietro il suggerimento di Girolamo Campagnola, a Ermolao Bardelino, fidato consigliere del duca di Mantova Francesco Gonzaga, affinché questi accogliesse nella sua corte il fanciullo per un apprendistato sotto la guida del grande Andrea Mantegna, sottolineava le straordinarie qualità artistiche del giovane, affermando che: “prima è venuto a tanta perfectione in pictura che ‘l Belino non po’ far cossa sì bella che Julio non facci uno simele exemplo a l’exemplare” e ancora “minia excellentemente, le cui miniature non sono inferiore a quelle del q. Jacometo che fo el primo homo del mondo" e "taia de bolino, et anche in calcidonio che li mostrasse” e sottolineando in particolare anche le conoscenze letterarie dell’adolescente Giulio che “dasse a lettere grece, latine et hebraice”. Da Luzio 1888, pp. 184-185.

3 Sambin 1974, pp. 381-388.
4 Raffaele Riario (Savona 1460 – Napoli 1521), fu creato cardinale di S. Giorgio al Velabro il 10 dicembre 1477 da papa Sisto IV. Dal 5 maggio 1480 fu titolare anche della Basilica di S. Lorenzo in Damaso e nel 1483 fu nominato camerlengo.
5 Soragni 2010, p. 22.
6 Guidoni (1998-2000, vol. I, p. 112) assegna a Giulio Campagnola e a Giorgione la realizzazione di due tondi, databili al 1494 circa, affrescati nell’abside occidentale del transetto di sinistra della Certosa di Pavia, individuandovi una derivazione stilistica da alcuni disegni carpacceschi. Per quanto riguarda il Campagnola d’altronde, la conoscenza di certi motivi del celebre maestro veneziano è testimoniata in modo piuttosto evidente da alcuni particolari delle scene della Vita della Vergine dipinte nella Scuola del Carmine a Padova, molto vicini a certi brani delle Storie di Sant’Orsola; inoltre, nell’episodio dello Sposalizio della Vergine è possibile individuare tra i presenti, un presunto ritratto dello stesso Vittore Carpaccio, che mostra una straordinaria somiglianza con i suoi autoritratti nel telero raffigurante l’Incontro con il papa a Roma, sempre dal ciclo di Sant’Orsola e nella Disputa di Santo Stefano e la circostanza deve essere interpretata, come sovente accade nella storia dell’arte rinascimentale, come un omaggio del giovane Campagnola all’anziano maestro lagunare.
7 Si ricordi la celebre Pala di Castelfranco (1503 circa, Castelfranco Veneto, Duomo) eseguita da Giorgione per il condottiero Tuzio Costanzo.
8 Il documento che testimonia la tonsura di Giulio Campagnola, ricevuta dal vescovo di Padova Pietro Barozzi il 28 maggio 1495, è conservato presso l’Archivio di Stato di Padova ed è riportato interamente in Gasparotto 1955, p. 419, Doc. XLII.
9 Guidoni (1997) riconduce a questa possibile presenza romana la partecipazione di Giorgione all’esecuzione del Martirio di san Sebastiano degli appartamenti Borgia in Vaticano (Sala dei Santi).
10 Meneghetti 2010, p. 193, n. III.1.
11 Guidoni 1999, pp. 88, 201.
12 Guidoni 1998-2000, I, pp. 77-90.
13 L’incisione raffigurante Tobiolo e l’angelo, ritenuta una delle prove d’esordio del Campagnola, e con buona probabilità la sua prima creazione originale in assoluto, è databile con certezza pressoché totale a dopo il 1496, vista la palese derivazione di certi particolari dall’incisione del Piccolo corriere di Dürer, realizzata in quell’anno.
14 Ritengo ragionevole distinguere due periodi fondamentali nella carriera artistica di Giulio Campagnola. Il primo, quello della giovinezza, in cui l’esigenza di una rapida affermazione sul mercato si manifestava non solo naturalmente attraverso l’evidente ispirazione al linguaggio del Mantegna e a quello del Dürer, che erano due degli artisti maggiormente apprezzati nel campo dell’incisione in ambiente veneto e soprattutto veneziano, in particolare per quanto riguarda il tedesco, ma anche attraverso la “monumentalità” e inequivocabilità della firma “Iuluis Campagnola Antenoreus”. Durante la seconda fase, quella della maturità, in cui Giulio probabilmente non doveva più avvertire l’urgenza di acquisire una propria riconoscibilità, in quanto incisore già affermato per cui all’epoca riteneva sufficiente firmare le proprie opere col solo monogramma “I C”, l’incisore padovano licenziava opere principalmente destinate ad un ristretto pubblico di umanisti imbevuti di quella raffinata cultura letteraria e filosofica che ben si conciliava con la formazione che egli stesso aveva plasmato sin da fanciullo, come dimostra lo spirito ermetico che sovente caratterizza le sue incisioni ascrivibili appunto a questo secondo e ultimo periodo della sua carriera. Inoltre, sul significato che potremmo definire “sociologico” della firma di Giulio Campagnola, segnalo l’utilità dello studio di Francesco Sorce (2003).
15 Giulio Campagnola incisore e pittore, Relatore Prof. Stefano Colonna, 2014.
16 Il 18 settembre 1467 Oliviero Carafa veniva nominato cardinale da papa Paolo II, col titolo dei SS. Pietro e Marcellino.
17 Ricordiamo a proposito i rapporti del Riario con Raffaello e soprattutto con Michelangelo.
18 Sull’interpretazione dell’Astrologo in relazione alla disfatta veneziana di Agnadello, si sono espressi Augusto Gentili e Claudia Cieri Via, 1994.
19 Si pensi ad esempio al chiostro di S. Maria della Pace, commissionato a Bramante (1500–1504).
20 Calvesi 2004, pp. 481-498.
21 Colonna 2012, p. 312. La lettera di Egidio da Viterbo, datata 29 agosto 1517 ripropone inoltre anche il discusso problema della data di morte di Giulio Campagnola e potrebbe essere individuata come termine post quem.
22 Si pensi alla vicinanza semantica, improntata a un chiaro neoplatonismo, di alcuni passi letterari della Scechina, il trattato cabalistico scritto dal cardinale viterbese tra il 1528 e il 1531, col significato dell’incisione del Campagnola raffigurante il Ratto di Ganimede, databile al 1500-1502. Prescindendo dal fatto che non può stabilirsi una relazione diretta tra queste due testimonianze, a causa dell’evidente divario cronologico, è comunque ragionevole pensare che l’affinità intellettuale di ispirazione neoplatonica tra i due personaggi si sia manifestata già molto tempo prima, forse non necessariamente negli anni del soggiorno padovano di Egidio, poiché all’epoca Giulio era poco più che un bambino, ma probabilmente qualche anno più tardi.
23 Niccolò Leonico Tomeo era originario di Durazzo.
24 Ritengo a proposito che la suddetta lettera di Egidio del 1517, indirizzata al confratello agostiniano Gabriele Della Volta, possa essere inquadrata, seppure con la dovuta cautela, stante l’assenza di qualsiasi riferimento diretto, nell’ambito delle conseguenze della congiura di quello stesso anno, ordita dal cardinale Alfonso Petrucci ai danni di Leone X e poi sventata. Tra gli accusati figurava infatti anche lo stesso Riario, che ai fini della congiura sarebbe dovuto divenire pontefice proprio al posto di Leone X. Ma, se il Petrucci fu giustiziato mediante strangolamento il 16 luglio 1517, il cardinal Riario venne graziato e dunque liberato, dietro il pagamento di un’ingente somma di denaro: ora, tenuto conto del fatto che l’epistola di Egidio manifesta un tono di scoperta riconoscenza nei confronti dei nobili veneziani M. Antonio Tron, per il tramite di Gabriele Della Volta e Michele Priuli, mi pare plausibile che la gratitudine espressa si possa interpretare nell’ottica di un impegno andato a buon fine da parte del viterbese, mirato al conseguimento della grazia per il suo amico Riario, per cui avrebbe chiesto e ottenuto un sostegno economico al Tron e al Priuli, appartenenti a due nobili famiglie veneziane certamente molto facoltose, che si sarebbero perciò rivelate di grande aiuto per pagare l’assoluzione e la scarcerazione del Riario, specialmente considerando il fatto che una eventuale condanna di quest’ultimo, protettore degli Agostiniani, avrebbe inevitabilmente determinato esiti alquanto nefasti su quell’ordine religioso, cui apparteneva lo stesso Egidio; tenendo poi presente che l’epistola è datata 29 agosto 1517, dunque in strettissima contiguità cronologica con la condanna a morte di Alfonso Petrucci (16 luglio) e perciò con il coinvolgimento del Riario, che appena cinque giorni prima, il 24 agosto, veniva reintegrato nella sua carica di cardinale, è lecito credere dunque che Egidio abbia voluto comunicare tempestivamente la propria riconoscenza a coloro che si erano impegnati ad aiutarlo. Va ricordato inoltre che nel luglio del 1521, alla morte di Raffaele Riario, Egidio gli subentrò nel ruolo di protettore a vita dell’Ordine agostiniano.
25 Nella mia recente tesi di laurea, di cui sopra, ho ipotizzato che fu invece il Riario, sulla base della certezza del suo rapporto con Giulio Campagnola già in essere nel 1495, ad aver introdotto il giovane incisore padovano alla conoscenza di Egidio da Viterbo. Credo tuttavia che entrambe le ipotesi abbiano al momento pari valore, perché se è assolutamente possibile che il Riario abbia potuto fungere da tramite per la conoscenza dell’insigne agostiniano viterbese, è allo stesso modo logico pensare, sulla scorta della notizia del soggiorno di questi a Padova tra il 1490 e il 1494, che accadde l’opposto, ossia che fu Egidio, che probabilmente nella città veneta aveva stretto amicizia con Girolamo Campagnola, conosciuto forse attraverso Niccolò Leonico Tomeo, ad esser stato il primo nesso tra Giulio e Raffaele Riario.
26 Anche sulla possibile segnalazione delle doti del giovane Giulio da parte di Raffaele Riario a favore di Oliviero Carafa, non credo che vada escluso l’intervento di Girolamo Campagnola.






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CREDITI FOTOGRAFICI

Figg. 1, 2, 3, 4, 8, 11, 15, 16, 18, 19, 20, 21 e 22 foto cortesia di Nando Lelii su autorizzazione della Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico per il Polo Museale della città di Roma
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Fig. 6 Foto cortesia della Parrocchia di Santa Maria del Carmine, Padova
Figg. 12, 13, 14 e 17 foto cortesia di Giuliano Ghiraldini, Gabinetto fotografico - Musei Civici di Padova su gentile concessione dell' Assessorato Cultura, Turismo e Innovazione tecnologica del Comune di Padova
Fig. 23 foto cortesia di Renzo Tommasi
Fig. 24 foto cortesia di Francesco De Santis
Si precisa che le opere riprodotte nelle figg. 1, 2, 3, 4, 8, 11, 15, 16, 18, 19, 20, 21 e 22 rientrano nel patrimonio del Fondo Edifici di Culto, amministrato dalla Direzione Centrale per l'Amministrazione del Fondo Edifici di Culto del Ministero dell'Interno e sono state riprodotte su concessione dello stesso.









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