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I Macchiaioli. Le Collezioni svelate: una recensione  

Giorgia Duò
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 8 Giugno 2016, n. 810
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È il 2007, dopo cinquant’anni dall’ultima esposizione [1] , Roma dedica al vilipeso movimento toscano, negli spazi suggestivi del Chiostro del Bramante, una mostra raffinata, aristocratica ed elegante: I Macchiaioli. Sentimento del vero [2] . A distanza di quasi 10 anni, negli stessi spazi espositivi, si torna a celebrare il gruppo del Caffè Michelangelo.

Siamo alla metà degli anni Cinquanta del secolo XIX, l’Europa, che sta vivendo la seconda industrializzazione [3] , è segnata da profondi sconvolgimenti economici con gravissime conseguenze di natura sociale. A un incremento vistoso della produzione corrisponde l’introduzione dello sfruttamento intensivo della forza lavoro salariata, riunita in grandi fabbriche nei sobborghi urbani [4] . La struttura sociale ne risulta inevitabilmente sovvertita, emergono nuove classi sociali: la borghesia industriale e la moderna classe operaia, quest’ultima, duramente sfruttata sui luoghi di lavoro, vive in condizioni di vita precarie e in situazione di sovraffollamento. L’insoddisfazione per l’autoritarismo delle classi dirigenti, unita alla crescente consapevolezza dei problemi che affliggono la società contemporanea, favorisce la formazione di larghe sacche di dissenso. Accesi e appassionati dibattiti si formano circa le conseguenze positive e negative dell’industrializzazione: si critica il benessere e l’infelicità della borghesia, si rimprovera l’eleganza dei nuovi quartieri residenziali, si denunciano la miseria delle classi lavoratrici e la degradazione dei bassifondi. Questi i temi che ispirano le opere letterarie e figurative in Francia e in Italia, e sollecitano lo sviluppo del movimento realista [5] in tutte le sue declinazioni, tra queste quella macchiaiola [6] .

In un’ottica anticlassica, antiaccademica ed antiretorica l’arte si rivolge a tematiche fino a questo momento escluse: gli avventori dei caffè e dei locali notturni, le classi sociali operaie e contadine, gli addetti alle mansioni più umili sono alcuni dei soggetti che catturano l’interesse di artisti e letterati, chiamati a tradurre fedelmente in pittura il dato reale, senza inquinarlo con elementi edulcorati o d’invenzione. Ai nuovi temi, dunque, corrisponde un nuovo sguardo che, rinunciando, il più possibile, alle interpretazioni concesse all’arte, aspira all’obiettività.

In questo contesto si inserisce la breve, poco più di un decennio (1855/1867) [7] , e poco fortunata parabola artistica del movimento macchiaiolo, attivo a Firenze [8] attorno al 1855, che inizia un percorso di rinnovamento della pittura orientato in senso verista attraverso un fare “a macchia”, come alternativa alle norme accademiche [9] .

I giovani ribelli, ai tavolini del centrale Caffè Michelangelo, si lanciano in appassionate discussioni sul ruolo della pittura nella società contemporanea e su come questa debba cambiare rispetto alle regole insegnate nelle accademie. Gli intellettuali coinvolti seguono con molta attenzione ciò che sta accadendo in Francia, nel 1855 l’opera di Courbet suscita grande scalpore, e ritengono che il rinnovamento debba partire proprio da quanto accade nella lontana Parigi, mettendo in discussione temi e tecniche.

Telemaco Signorini, esponente e teorico del gruppo, afferma che lo scopo della loro ricerca pittorica sia quello di “ottenere effetti del vero con una forte accentuazione di chiaroscuro pittorico” [10] , conseguire, cioè, immagini reali con l’intento di rimanere fedeli a ciò che si è scrutato. Il linguaggio consiste nel rendere le suggestioni ricevute dall’osservazione del dato visibile per mezzo di macchie di colore di chiari e di scuri; in questo modo il soggetto è riconsegnato nella giustapposizione di semplici zone dipinte, da non valutare come un abbozzo, piuttosto come il miglior risultato veridico raggiungibile. Ne deriva che lo studio della forma, del disegno e del contorno vengono ad assumere un aspetto assolutamente secondario rispetto agli intenti dei pittori, del resto nella realtà non esistono né il disegno né la linea di contorno, sicché i pittori del Caffè ritengono che l’occhio umano possa essere colpito solo dai colori organizzati in masse contrapposte, le macchie appunto!

Dato che i giovani artisti del gruppo sono concordi nel ritenere che tutte le percezioni visive avvengano attraverso la luce, ogni nuova pittura, che miri al realismo, deve necessariamente riprodurre l’impressione della luce medesima e, poiché essa non viene avvertita in sé, ma solo attraverso le modulazioni dei colori e delle ombre, la restituzione pittorica dell’effetto-luce deve avvenire attraverso l’impiego di colori e ombre variamente graduati [11] . I limiti di un oggetto, non esistendo in natura, sono, infatti, dati dal passaggio da un colore all’altro, per cui è proprio questa transizione a definire l’esatta linea di contorno. La pittura deve, pertanto, cercare di ricostruire la realtà attraverso l’uso strumentale di masse di colore [12] e il modo più semplice ed utile per riuscirvi è, appunto, quello di utilizzare una tecnica a macchia [13] .

La pittura macchiaiola, dunque, è fatta di luce e colore, combinati in un impianto prospettico rigoroso [14] , e relega il disegno a un ruolo assolutamente secondario [15] . In altri termini il dipinto, basato sul contrasto cromatico [16] , affinché risulti credibile e “vero”, necessita di un’impostazione compositiva severa, rigorosa ed armonica.

Alla rivoluzionaria tecnica compositiva, e non può essere altrimenti, si affianca una nuova tendenza nella scelta dei temi: abbandonata la retorica dei quadri di carattere storico e mitologico, tanto cari alla pittura tradizionale, gli artisti del “sodalizio” rivolgono la loro attenzione alla realtà, all’osservazione del quotidiano, e ne nasce un interesse di natura sociale, fino a quel momento sconosciuto. Secondo la teoria dell’indifferenza del soggetto divengono, pertanto, oggetto d’indagine gli aspetti più consueti della realtà.

Pur nelle differenti declinazioni personali, il movimento sviluppa la sua poetica in pochi anni, ma non raggiunge mai soluzioni unitarie; si possono individuare, nella ricerca pittorica del gruppo, alcuni caratteri comuni: si è già accennato all’anti-accademismo, che unisce tutti i rappresentanti del Caffè, e la circostanza che, sulla scorta della rivoluzione realista di Courbet, anche gli italiani s’interessano a soggetti non convenzionali (paesaggi urbani o naturali, momenti di vita quotidiana borghese resi con toni veristici, episodi di campagne militari, rappresentazioni del mondo contadino…), si aggiunga anche la ricerca, quasi ossessiva, d’immediatezza, che conduce gli artisti a scegliere situazioni di vita vissuta, che conoscono bene per esperienza diretta [17] e che immortalano sulla tela con straordinaria freschezza, senza timore di scadere nel folklore o nel bozzettismo. Altro elemento di coesione è l’acceso patriottismo dei suoi membri, un gruppo compatto sul piano ideologico di idee repubblicane, talvolta anarchiche, che partecipa largamente alle vicende cospirative e ancor più agli avvenimenti militari delle guerre d’indipendenza: Fattori interviene nei moti rivoluzionari del 1848; Costa difende Roma sul Gianicolo nel 1849; Lega combatte nella II guerra d’indipendenza (1859); Abbadi perde un occhio nella battaglia di Volturno (1860); Sernesi è ferito a morte nella III guerra d’indipendenza (1866); Signorini è un volontario garibaldino [18] .

La mostra, curata da Francesca Dini, storica dell’arte e responsabile scientifica del Centro per l’Arte Diego Martelli di Castiglioncello [19] , ha il pregio di presentare al pubblico, in un allestimento accattivante, che ricorda le case borghesi della seconda metà dell’Ottocento, oltre 110 opere, alcune delle quali di assoluto valore, mai esposti al pubblico. Questi dipinti rappresentano, per molti versi, le eccellenze di alcune tra le più ricche raccolte di grandi mecenati dell’epoca, personaggi di straordinaria tempra, imprenditori e uomini d’affari accomunati dalla passione per la pittura e innamorati dell’arte, senza i quali oggi non avremmo potuto ammirare questi capolavori. I quadri, perlopiù appartenenti a collezioni private, sono collocati nel contesto ricostruito delle antiche e notevoli quadrerie che in origine li hanno accolti. Talvolta donate dai pittori stessi e più spesso acquistate per sostenere gli amici artisti in momenti di difficoltà, questi artefatti rappresentano capolavori ricercati raramente visitabili.

Il percorso della mostra, in nove sezioni, si snoda attraverso un’attenta presentazione delle raccolte di coloro che per primi hanno collezionato i dipinti [20] : Cristiano Banti, Diego Martelli, Rinaldo Carnielo, Edoardo Bruno, Gustavo Sforni, Mario Galli, Enrico Checcucci, Camillo Giussani, Mario Borgiotti.

La prima sala riallestisce lagalleria privata” di Cristiano Banti: i Macchiaioli allo specchio: il ricco collezionista (1824-1904) è anche pittore e vive l’esperienza intellettuale del Caffè Michelangelo da una posizione privilegiata, perché proveniente da una facoltosa famiglia, ciò gli consente talvolta di assumere nei riguardi dei propri compagni d’avventura il ruolo di mecenate e, dunque, di riunire opere dei suoi amici artisti in difficoltà. Il pittore, scultore, ideologo Adriano Cecioni (1836-1886) per primo scrive su La Domenica Letteraria, nel 1884, della raccolta: “Quella Galleria è unica nel suo genere (…) perché da alcuni lavori di scuola accademica si passa ai primi tentativi della macchia (…). Credo che quella sia la sola Galleria moderna particolare in Italia" [21] . Consigliamo di soffermarsi su Il ponte della pazienza a Venezia (1856) di Telemaco Signorini, dipinto intenso e struggente, ritenuto, per i suoi modi sperimentali, il punto di partenza della vicenda artistica indagata. Da non perdere gli straordinari dipinti raffiguranti Le monachine (fig. 1) di Vincenzo Cabianca e I promessi sposi di Silvestro Lega (1869). Dalla sfortunata dispersione di questa magnifica raccolta, per questioni ereditarie, germoglia il tardivo e florido interesse per la pittura macchiaiola, e la conseguente fortuna del movimento.

La seconda sezione prende in considerazione lo straordinario lavoro di Diego Martelli, tra macchiaioli e impressionisti. Una testimonianza d’arte e di vita. Diego è l’anima teorica del gruppo, scrittore e critico fiorentino, ha forse teorizzato la “macchia in opposizione alla forma” [22] . Grazie alle riviste da lui fondate i giovani artisti del sodalizio entrano in contatto con le contemporanee e fondamentali esperienze pittoriche francesi. Nel 1861 eredita la fattoria di Castiglioncello (Livorno) che diventa uno dei luoghi di ritrovo preferiti da alcuni dei pittori macchiaioli (Scuola di Castiglioncello).

Il Martelli (1839-1896) vive una Firenze aperta e cosmopolita, conosce Degas che soggiorna nella città granducale per un biennio (1858-60), nel 1862 va a Parigi dove ammira la pittura di Courbet, frequenta lo studio fotografico di Nadar e si inserisce nel sistema dell’arte della Ville lumière, tornato in Italia cerca di riprodurre, senza successo, il modello conosciuto oltralpe, fatto di relazioni solide tra artisti, critici e mercato dell’arte, nel 1867 fonda con l’aiuto di Cecioni il Gazzettino delle arti e del disegno, successivamente, nel 1873, pubblica il Giornale artistico, periodico di riferimento per lo sviluppo del dibattito sulla pittura. Con le sue recensioni e il suo spirito critico Martelli rappresenta un vero e proprio ponte tra l’avanguardia francese e la toscana.

Sostenitore e mecenate dei pittori macchiaioli riunisce presso di sé molte opere dei compagni del Caffè Michelangelo. La piccola collezione [23] , che riflette i convincimenti estetici del Martelli e, dunque, l’operato di critico inserito nel suo tempo (la raccolta, infatti, ha una dimensione ancora privata, non seguendo un criterio organico di accorpamento, appare il frutto di relazioni amicali forti ed importanti), è lasciata alla sua morte (1896) alla Congregazione della Carità del Comune di Firenze, con la volontà testamentaria di donare il proprio patrimonio artistico ai musei cittadini [24] . Nel 1914 il corpus delle opere del critico, dopo varie vicende, va a costituire il nucleo fondante della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti [25] . Segnaliamo il severo ritratto di Teresa Fabbrini Martelli (fig. 2), compagna del critico, di Giuseppe Abbati, “malinconico osservatore del vero” [26] che restituisce un’austera donna in un ricco, anche se misurato, ambiente borghese.

Passando nella sezione successiva, La Collezione di Rinaldo Carnielo (1858-1910), ci troviamo immersi nella storia del giovane artista (pittore e scultore) ed audace collezionista, di origine trevigiana, che, frequentando gli ormai attempati macchiaioli, trova una particolare affinità con Fattori e Lega.

La sua rinomata collezione rappresenta, per quantità di opere, una delle più ricche e cospicue tra le raccolte storiche, oltre trecento pezzi in poco più di trent’anni. Alla sua morte il corpus intero è venduto in blocco a Mario Vannini Parenti che fa fuoriuscire dai confini nazionali buona parte delle opere, disperdendone molte. Grazie ad un intenso lavoro di recupero sul mercato antiquario oggi è di nuovo possibile ammirarne i capolavori, da non perdere la splendida Visita in villa (fig. 3) di Silvestro Lega: l’opera, che ritrae alcune persone che conversano raccolte in piccoli gruppi nel cortile di una semplice dimora di campagna, vanta una qualità luministica straordinaria, nonché una sapiente costruzione formale.

La sala successiva documenta l’attività di un imprenditore innamorato della bellezza: la collezione di Edoardo Bruno. L’industriale, di origine torinese trasferitosi a Firenze, trasforma il primo piano della sua villa rinascimentale di Montegirone, alle porte della città, in un ambiente prezioso, custode della sua magnifica quadreria, composta da circa centoquaranta dipinti. La vicenda collezionistica della raccolta è ancora oggi avvolta dal più totale mistero, mancano documenti di archivio, elementi inventariali, dati catalografici o di vendita, il che si traduce in una vero e proprio vuoto di conoscenza. Il colto imprenditore, cresce nella Firenze dei macchiaioli, è amante del teatro, della letteratura, dell’arte e della musica, e intrattiene rapporti amicali con uomini di lettere, di teatro ed artisti. Tra le opere più rinomate indichiamo l’emblematica tela raffigurante le Cucitrici di camicie rosse (fig. 4) di Odoardo Borrani. La tensione emotiva aleggia sull’intera scena d’interno dominata dal muto colloquio di sguardi ansiosi delle tese protagoniste, madri, mogli e sorelle, in struggente attesa mentre realizzano le camicie garibaldine. è un’opera altissima che esprime i valori civili di un momento storico preciso ed irripetibile: il risorgimento femminile [27] . Si segnalano, inoltre, la sequenza conturbante delle grandi tele maremmane di Giovanni Fattori, in particolare suggeriamo di soffermarsi qualche istante davanti a Incontro fatale (1900, in Collezione Privata), realizzato con pastelli su cartone. Una straordinaria e feroce forza governa la scena, che travolge impetuosamente il riguardante sorpreso a seguire il ritmo spezzato e mosso delle figure immerse in una quinta niente affatto retorica.

Passando nella seguente sezione ci ritroviamo in Casa Sforni, le stanze delle meraviglie di un mecenate fiorentino. All’inizio del secolo scorso Gustavo Sforni (1888-1939) si distingue come collezionista, intellettuale, pittore e mecenate, in particolare si ricorda come ammiratore dell’opera di Fattori di cui colleziona i piccoli struggenti formati dal vero; egli ama accostare le tavolette a dipinti di arte orientale e/o medioevale, di cui esempi sono esposti lungo il percorso. La mostra ci consente di ammirare opere mai esibite del macchiaiolo più famoso, ma anche di artisti meno noti come Oscar Ghiglia o Llewelyn Lloyd [28] . Abbiamo la straordinaria occasione di osservare per la prima volta la tela di Fattori Le vedette (fig. 5), ma consigliamo anche di indugiare sull’acquarello Sentiero con Butteri (1880 ca, in Collezione privata) dello stesso e su Figura femminile con cappello di paglia (1914-15, in Collezione privata) del Ghiglia.

Passando oltre ci troviamo negli ambienti dedicati a Mario Galli, “il più acuto e raffinato intenditore dei Macchiaioli”, scultore fiorentino, mercante ed amatore di opere artistiche, non ha i mezzi economici di un ricco imprenditore, eppure tra le sue mani passano opere considerate importanti capolavori macchiaioli. Non è un critico, né un collezionista stricto sensu, piuttosto un “mediatore ricercato, procuratore di tutti i vecchi e i nuovi raccoglitori” [29] . Esponendosi economicamente il Galli riesce a raccoglie ed a conservare devotamente artefatti preziosi, fino a quando, alle soglie della prima guerra mondiale, è costretto a vendere ad altri collezionisti come Giacomo Juncker. Grazie alla sua passione il Galli diviene “il più autentico apostolo, il più fervente ammiratore” [30] dei macchiaioli di cui con sagacia ottiene, sceglie, vaglia le opere, acquisendo una certa fama come collezionista competente, ed informatissimo e raffinato consigliere di appassionati amanti di oggetti d’arte, nonché di prezioso referente per la formazione di nuove quadrerie private. Indichiamo il suggestivo cartone ad olio di Fattori Tamerici (1865 ca, in Collezione privata), caratterizzato da una sensazione di silenzio sospeso, che avvolge l’angolo solitario della periferia livornese nell’ora meridiana più calda.

Nelle sale successive, si dispiega la superba e prestigiosa collezione di Enrico Checcucci, “collezionista dei più intrepidi”, animato da “un’irrequietezza e incontentabilità di cercar pitture” [31] . Nell’indomita ed indefessa ricerca di capolavori macchiaioli toscani il Checcucci si serve dell’alacre impegno del Galli, tra i due si istaura un ambiguo rapporto improntato a vicinanza, fiducia, ma anche rivalità. Tra le opere esposte consigliamo la visione attenta del bellissimo ritratto del pittore Luigi Bechi (1865, in Collezione privata) di Giovanni Boldini, ma anche la silenziosa, quasi “metafisica”, tela Pasture in montagna (fig. 6) di Raffaello Sernesi, dove gli assoluti contrasti cromatici e la condotta pittorica per zone circoscritte di colore, tipici della pittura a macchie, si stemperano in una più meditata ed organica visione, che mantiene, però, il principio di sintesi e la ricchezza delle gradazioni tonali.

La sezione seguente, non solo macchiaioli: la collezione di Camillo Giussani, porta all’attenzione del visitatore un confronto fortemente atteso: quello tra l’arte delle macchie e la pittura degli impressionisti italiani, che cronologicamente si affermano più tardi. Il Giussani (1879-1960), figura poliedrica di giurista, umanista, latinista e sportivo, si dedica al collezionismo sin dal 1915, inizialmente con interventi sporadici, quindi, con acquisti più mirati secondo un disegno piuttosto definito.

Suggeriamo una lenta e tranquilla esplorazione delle opere capitali contenute nella sala come: l’Analfabeta (1869, in Collezione privata) di Borrani; l’intimo Cortile con lavandaia (1866, in Collezione privata) di Vincenzo Cabianca; il bellissimo acquarello Boulevard Haussmann (1877 ca, Collezione privata), e la serena tela Campo di neve (fig. 7) entrambi di Giuseppe De Nittis. Il dipinto rappresenta, in un’atmosfera lattiginosa, una città silenziosa e innevata, caratterizzata da linee incerte, il cui taglio compositivo, tipico del barlettano, deriva probabilmente dalla conoscenza della tecnica fotografica. E ancora, il Giubbetto rosso (fig. 8) di Federico Zandomeneghi, che raffigura una singolare modella allo specchio, con il conseguente gioco di rimandi, mentre, in piedi, di spalle si sistema la giacca prima di uscire. Da non perdere il dittico di Mosé Bianchi da Mairago Tabacco da Fiuto e Tabacco da fumo (1868, in collezione privata).

La rassegna si conclude con l’ultima sezione, Per ricordare Mario Borgiotti e il suo “Genio” per i Macchiaioli, pittore, conoscitore, collezionista e principale divulgatore dell’arte dei ribelli fiorentini. La mostra vuole presentare, con attenzione, il particolare occhio di esperto nonché l’anima da collezionista del Borgiotti (1906-1977) che unisce, alla passione e all’intuito del Galli, la competenza di un grande divulgatore [32] . La sua attività di raccolta, in ritardo, per questioni meramente cronologiche, rispetto alle collezioni primonovecentesche, che abbiamo sin qui analizzato, risulta, comunque, fondamentale alla diffusione e all’affermazione dell’interesse e degli studi sui macchiaioli. A lui si deve il recupero fortunoso, dal mercato antiquario inglese, della tela di Telemaco Signorini il Ponte Vecchio a Firenze (fig. 9). Il capolavoro, non più visto da decenni, è una veduta animata del caratteristico ponte toscano.

Una mostra bella, elegante e raffinata, i cui protagonisti non sono solo gli artisti del movimento macchiaiolo, ma anche e soprattutto coloro, i collezionisti e i mecenati, che hanno creduto in questi pittori, senza i quali probabilmente l’esperienza di maestri del Caffè Michelangelo sarebbe ridotta a qualche sporadica citazione sui manuali di arte. Se oggi possiamo godere della suggestione di questi intensi e struggenti dipinti e dibattere profusamente dell’esperienza macchiaiola, dobbiamo ringraziare l’attenta opera di raccolta e il gusto per l’arte di questi signori, che ci hanno consegnato in eredità i capolavori e la storia dei bistrattati maestri della macchia.

 

IL CATALOGO

A cura di Francesca Dini, il volume in brossura, pubblicato da Skira, mostra un’attenta cura editoriale.

Il catalogo, privo della tradizionale e roboante parte preliminare di ringraziamenti, si apre con il pregevole saggio della curatrice, di circa 50 pagine, relativo alla storia dei macchiaioli in relazione alle collezioni storiche ricostruite in mostra. Una lettura interessante, scorrevole, e aggiornata, che introduce all’esposizione e a questo fondamentale movimento storico.

Segue, per circa 150 pagine, il catalogo sticto sensu: secondo il criterio adottato in mostra, si presentano, con bellissime immagini a piena pagina e a colori, le opere esposte divise in 9 sezioni, corrispondenti alle collezioni storiche ricostruite. Brevi, ma compiuto testi, a firma di storici dell’arte specializzati in età contemporanea, introducono e spiegano la storia delle quadrerie ripristinate, sebbene solo temporaneamente.

Nelle successive 30 pagine si svolgono le schede relative alle opere.  L’impostazione delle cartelle è quella classica: autore, titolo, supporto/tecnica, dimensioni, luogo di conservazione, bibliografia, e analisi storico-critica del quadro.

Nelle ultime pagine del volume è presente un’aggiornata, quanto fondamentale per gli studiosi, bibliografia. Gli indispensabili crediti fotografici precedono il volume.

 

LA MOSTRA

Dove: Chiostro del Bramante, Roma

Quando: 16 marzo - 04 settembre 2016








NOTE

[1] I Macchiaioli, catalogo della mostra (Roma, Galleria Nazionale d'arte moderna. Valle Giulia. Maggio- Luglio 1956), a cura di G. Carandente, Roma 1956.

[2] I Macchiaioli. Sentimento del vero, catalogo della mostra (Roma, Chiostro del Bramante. 11 ottobre 2007-03 febbraio 2008), a cura di F. Dini, Roma 2007.

[3] Ricordiamo che la prima Rivoluzione industriale si è avuta, in Inghilterra, alla metà del XVIII secolo, ed ha coinvolto, soprattutto il settore tessile-manifatturiero, il secolo successivo vede implicati, invece, i settori metallurgico e meccanico.

[4] L’aumento della produttività agricola, grazie ed a causa della diffusione di nuove tecnologie, genera un grande fenomeno migratorio di masse contadine, che dalla campagna si dirigono verso le città, alla ricerca di un lavoro.

[5] L’arte e la letteratura affrontano, dunque, due facce della stessa medaglia storica, due malesseri sociali dovuti alla stessa causa: da un lato si denunci, con attenda descrizione, le profonde disuguaglianze di classe, dall’altro il più sottile disagio psicologico, che interessa soprattutto la borghesia. Il realismo mette a nudo una società infelice, priva di speranza di felicità, in cui le classi meno abbienti hanno preoccupazioni primarie, che raramente riescono a soddisfare, mentre le più ricche e potenti (aristocrazia e borghesia) sono vittime di un’insostenibile angoscia esistenziale (cfr. G. Nifosi, L’Arte svelata, Città di Castello (PG), 2015, Vol. III, p. 94).

[6] Il termine macchiaiolo deriva da una recensione giornalistica della Promotrice fiorentina del 1861 (esposizione che segna anche l’esordio ufficiale del gruppo) comparsa sulla Gazzetta del Popolo (cfr. Catalogo delle opere ammesse alla esposizione solenne della Società promotrice delle belle arti in Firenze : anno 1861 diciasettesimo sociale, Firenze, Tipografia di G. Mariani, 1861). Nell’articolo il critico si riferisce dispregiativamente al gruppo di macchiaioli, e non a pittori, che espone pure macchie di colore, e non dipinti. Telemaco Signorini, uno dei tre teorici del “convivio”, comprende la potenzialità dell’epiteto e propone ironicamente agli altri artisti di adottarlo.

[7] Dopo il 1860, la corrente realista toscana ha il sopravvento sulle altre scuole regionali (paesaggisti piemontesi, scuola di Resina…), ma, prima che si concluda il decennio, perde autorevolezza e vivacità fino ad entrare decisamente in crisi. La debolezza programmatica del gruppo e la mancanza di un’elaborazione teorica, che sia da concreto supporto, hanno certamente contribuito al venir meno della spinta propositiva del sodalizio. Telemaco Signorini e Adriano Cecioni, i teorici del gruppo, infatti, più che un ruolo di guida svolgono una funzione di polemisti (cfr. C. Bertelli-G. Briganti-A. Giuliano, Storia dell’arte italiana, Milano, 1988, Vol. IV, p. 161). Da non dimenticare, inoltre, che il pubblico, ancora legato alla tradizione, non comprende la loro arte troppo distante dalle convenzioni dell’epoca: nel 1880, infatti, Cecioni, riporta: “Il pubblico acquista raramente, e quando acquista, per ispender bene i suoi denari, vuole anzitutto della pittura più bellina del vero (…)” (cfr. A.Cecioni, Opere e scritti, a cura di E.Somaré, Milano 1932, p.83). Gli artisti non riescono ad inserirsi nel circuito di mercato, non sono supportati da un’attività di propaganda idonea, la critica ufficiale è loro estranea e non li appoggia, né arrivano a catturare un loro piccolo pubblico, a parte qualche sostenitore, vivono completamente isolati.

[8] L’affermarsi delle istanze realistiche in Italia avviene, certamente, sulla scorta degli esempi stranieri e per l’affermarsi del pensiero materialista, che sollecita un atteggiamento più scientifico nei confronti del vero. A partire dagli anni Cinquanta dell’800 nelle arti si intensifica l’esigenza realista, un po’ in tutto il paese, e la Toscana, grazie alla sua situazione politica, assume un ruolo decisivo nella diffusione di queste tendenze. Nella caotica situazione istituzionale italiana preunitaria ci sono tre grandi aree di influenza politica: al Nord il Regno lombardo-veneto sotto il controllo austriaco; al Centro il Granducato di Toscana legato agli Asburgo e il potere temporale dei papi; infine, al Sud il Regno delle Due Sicilie sotto i Borboni. In questo contesto di controllo e sottomissione solo il Granducato di Toscana vive una vita propria, seppur limitata nell’autonomia politica e culturale. Nonostante il granduca Leopoldo II sia, infatti, dinasticamente legato agli Asburgo, egli garantisce ai suoi sudditi un governo moderato e non eccessivamente repressivo. Ne consegue che, fin dagli anni Quaranta del XIX secolo, Firenze rappresenti una delle capitali culturali più libere e attive d’Italia, un sicuro, quanto stimolante, punto di riferimento per tutti quei giovani artisti e quei perseguitati politici di fede liberale, che la repressione austriaca, papale e borbonica ha costretto al silenzio o alla fuga. Verso la città si svolge, dunque, una migrazione culturale da molte regioni e i caffè diventano luoghi privilegiati di incontro per artisti e letterati che si misurano, in un acceso dibattito generato dalla sentita esigenza di rinnovamento. Questa vivace schiera di intellettuali e pittori di tendenza realista, toscani e non, trova nel centralissimo Caffè Michelangelo, di via Larga, il punto di aggregazione preferito per le appassionate discussioni artistiche (cfr. G. Cricco – F. P. Teodoro, Itinerario nell’arte, Bologna, 2009, Vol. III, pp. 1141).

[9] La tecnica rivoluzionaria della "macchia" si basa sui forti contrasti di ombra e luce ottenuti, abdicando al disegno, con il chiaroscuro, ma anche e soprattutto con l'accostamento di toni diversi di colore. Così operando i macchiaioli sostengono un antiaccademico rifiuto del disegno e della forma in favore di una pittura che riproduca, come vuole Fattori, "l'impressione dal vero". In altre parole, per i giovani artisti del Caffè Michelangelo la forma non esiste, ma è creata dalla luce, come macchie di colore distinte o sovrapposte ad altre macchie di colore, perché la luce, colpendo gli oggetti, viene rinviata al nostro occhio come colore.

[10] Nifosi, op. cit., p. 109.

[11] Cricco – Teodoro, op. cit., pp. 1141-1142.

[12] Ossia, ampie campiture di colore ottenute da una stesura uniforme delle tinte, senza che vi siano visibili passaggi cromatici intermedi.

[13] Cricco – Teodoro, op. cit., 2009, p. 1142.

[14] Grazie all’uso della prospettiva, nonostante i contrasti cromatici primari e i chiaroscuri ottenuti senza passaggi dalle zone luminose alle zone d’ombra, le scene dipinte mantengono sempre un adeguato senso di concretezza (cfr. Nifosi, op. cit., p. 109).

[15] Proprio perché è nell’uso in contrapposizione delle macchie che si definiscono i contorni.

[16] Tale contrasto di macchie di colore e di chiaroscuro è ottenuto attraverso una tecnica chiamata dello “specchio nero”, si utilizza, cioè, uno specchio annerito con il fumo, che consenta di esaltare i contrasti chiaroscurali all'interno del dipinto.

[17] Dovendo, infatti, ritrarre la realtà occorre immergervisi e, dunque, scoprire e documentare le miserie e le contraddizioni emergenti (cfr. Cricco – Teodoro, op. cit., p. 1142).

[18] C. Pescio (acd), Dossier Arte, Firenze, 2015, Vol. III, p. 108.

[19] Francesca, figlia d’arte di Piero Dini, esperto e studioso di pittura dell’Ottocento, in particolare dei Macchiaioli, dei quali si interessa da oltre trent’anni, ha ereditato dal padre la sua passione. Piero si è formato a fianco di Mario Borgiotti (la cui collezione conclude la mostra), con il quale ha intrattenuto un lungo e fraterno rapporto di collaborazione. A lui si devono le prime mostre di pittura italiana dell’Ottocento a Montecatini nel 1963, e a Roma dal 1964 al 1968.

[20] Più tardi confluite, attraverso diverse vicende, in altre collezioni private.

[21] A. Cecioni, Cristiano Banti (1884), in Opere e Scritti, acd Somarè, Milano 1932, pp. 172-173.

[22] Cricco – Teodoro, op. cit., p. 1141.

[23] Diego, riporta Giovanni Rasadi, avvocato difensore di Plinio Nomellini, allievo di Fattori, parlando della sua piccola, ma moderna, raccolta allestita nel suo studio “(…) si compiaceva chiamare con gioviale e scherzevole orgoglio Galleria Martelli (…)” (cfr. F. Dini, Piero Nomellini e Giovanni Rasadi: storia di un’amicizia, in Nuova Antologia, n. 2216, ottobre-dicembre 2000).

[24] F. Dini, Fortuna dei macchiaioli, dalle collezioni storiche al primo novecento, in I Macchiaioli. Le collezioni svelate, cat. della mostra Roma 16/03-04/09/16, Ginevra-Milano, 2016, p. 15.

[25] S. Condemi, Il legato Martelli. Dalla raccoltina alla collezione pubblica, in I disegni della collezione di Diego Martelli, cat. della mostra Firenze Palazzo Pitti  (5 aprile-30 giugno 1997),  Firenze 1997,  pp. 43-48.

Si noti che grazie al lascito di Adriana Banti Ghiglia (27/06/1958), discendente degli eredi di Cristiano, parte dell’esperienza collezionistica del Banti confluisce, non a caso, nella Galleria d’Arte moderna di Palazzo Pitti, in tal modo la mente (il Martelli) e il cuore (il Banti) del movimento macchiaiolo si ricongiungono in un Museo simbolo della città di Firenze (cfr. Dini, op. cit, 2016, p. 12).

[26] C. Sisi, Giuseppe Abbati e le “melanconie” del suo pensiero”, in I Macchiaioli a Castiglioncello. Giuseppe Abbati 1836-1868, cat. della mostra (acd) F. Dini e C. Sisi (Castiglioncello 14/07-14/10/2001), Torino, 2001, pp. 45-52).

[27] F. Dini, Un imprenditore innamorato della bellezza: la collezione di Edoardo Bruno, in I Macchiaioli. Le collezioni svelate, cat. della mostra Roma 16/3-04/09/16, Ginevra-Milano, 2016, p. 89.

[28] I quadri di questi artisti più giovani, a cavallo tra Ottocento e Novecento, raccontano come le conquiste formali e concettuali operate dai macchiaioli siano recepite e sviluppate dalle successive generazioni di artisti-pittori.

[29] R. Focardi, prefazione a XXV delle trecento opere della raccolta di Mario Galli, catalogo della vendita, Firenze, 1914, p. 8.

[30] R. Focardi, prefazione a XXV delle trecento opere della raccolta di Mario Galli, catalogo della vendita, Firenze, 1914, pp. 6, 8.

[31] E. Cecchi, Pittori italiani dell’Ottocento nella raccolta di Enrico Checcucci, Milano 1929, p. 5.

[32] A lui, infatti, si devono fondamentali pubblicazioni dedicate ai Macchiaioli, edite nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.







BIBLIOGRAFIA

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C. Sisi, Giuseppe Abbati e le “melanconie” del suo pensiero”, in I Macchiaioli a Castiglioncello. Giuseppe Abbati 1836-1868, catalogo della mostra (Castiglioncello 14/07-14/10/2001) a cura di F. Dini e C. Sisi, Torino, 2001

 

F. Dini, Piero Nomellini e Giovanni Rasadi: storia di un’amicizia, in Nuova Antologia, n. 2216, ottobre-dicembre 2000.

 

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E. Cecchi, Pittori italiani dell’Ottocento nella raccolta di Enrico Checcucci, Milano 1929.

 

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A. Cecioni, I critici profani all'esposizione nazionale di Torino, Firenze, 1880.

 

Catalogo delle opere ammesse alla esposizione solenne della Società promotrice delle belle arti in Firenze : anno 1861 diciasettesimo sociale, Firenze, Tipografia di G. Mariani, 1861.

 



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Fig. 1
Vincenzo Cabianca, Il Mattino (Le monachine)
1861-1862, olio su tela, 36 x 99 cm,
Viareggio, Istituto Matteucci.

Fig. 2
Giuseppe Abbati, Ritratto di Teresa Fabbrini Martelli
1865-1866, olio su tela, 59 x 38 cm,
Firenze, Galleria d'arte moderna di Palazzo Pitti.

Fig. 3
Silvestro Lega, La visita in villa
1864, olio su tela, 32 x 79,5 cm,
Collezione privata.

Fig. 4
Odoardo Borrani, Cucitrici di camicie rosse
1863, olio su tela, 66 x 45 cm,
Collezione privata.

Fig. 5
Giovanni Fattori, Le vedette
1863-1865, olio su tela, 44,8 x 92 cm,
Collezione privata.

Fig. 6
Raffaello Sernesi, Pastura in montagna
1861, olio su tela, 26,2 x 82,5 cm,
Collezione privata.

Fig. 7
Giuseppe De Nittis, Campo di neve
1880 ca., olio su tela, 55 x 38 cm,
Collezione privata.

Fig. 8
Federico Zandomeneghi, Il giubbetto rosso
1895, olio su tela, 80 x 70 cm,
Collezione privata.

Fig. 9
Telemaco Signorini, Il Ponte Vecchio a Firenze
1878 ca., olio su tela, 152 x 130 cm,
Collezione privata.


Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

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