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La xilografia del tempio con piramide ed obelisco dell'Hypnerotomachia Poliphili Hypnerotomachia Poliphili, scheda della xilografia n. 5

Paola Torniai
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 1 Ottobre 2015, n. 787
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POLIPHILO QUIVI NARRA, CHE GLI PARVE ANCORA DI DORMIRE, ET ALTRONDE IN SOMNO RITROVARSE IN UNA CONVALLE, LA QUALE NEL FINE ERA SERATA DE UNA MIRABILE CLAUSURA CUM UNA PORTENTOSA PYRAMIDE, DE ADMIRATIONE DIGNA, ET UNO EXCELSO OBELISCO DE SOPRA. LA QUALE CUM DILIGENTIA ET PIACERE SUBTILMENTE LA CONSIDEROE.

LA SPAVENTEVOLE SILVA, ET CONSTIpato Nemore evaso, et gli primi altri lochi per el dolce somno che se havea per le fesse et prosternate membre diffuso relicti, me ritrovai di novo in uno più delectabile sito assai più che el praecedente. El quale non era de monti horridi, et crepidinose rupe intorniato, né falcato di strumosi iugi. Ma compositamente de grate montagniole di non tropo altecia. Silvose di giovani Quercioli; di Roburi, Fraxini et Carpini, et di frondosi Esculi, et Ilice, et di teneri Coryli, et di Alni, et di Tilie, et di Opio, et de infructuosi Oleastri,dispositi secondo l’aspecto de gli arboriferi Colli. Et giù al piano erano grate silvule di altri silvatici arboscelli, et di floride Geniste, et di multiplice herbe verdissime, quivi vidi il Cythiso, la Carice, la commune Cerinthe. La muscariata Panachia el fiorito Ranunculo, et Cervicello, o vero Elaphio, et la Seratula, et di varie assai nobile, et de molti altri proficui simplici, et ignote herbe et fiori per gli prati dispensate. Tutta questa laeta regione de viridura copiosamente adornata se offeriva. Poscia poco più ultra del mediano suo, io ritrovai uno sabuleto, o vero glareosa plagia, ma in alcuno loco dispersamente, cum alcuni cespugli de herbatura. Quivi al gli ochii mei uno iocundissimo Palmeto se appraesentò, cum le foglie di cultrato mucrone ad tanta utilitate ad gli Aegyptii, del suo dolcissimo fructo foecunde et abundante. Tra le quale racemose palme, et picole alcune, et molte mediocre, et l’altre drite erano et excelse, electo Signo de victoria per el resistere suo ad l’urgente pondo. Ancora et in questo loco non trovai incola, né altro animale alcuno. Ma peregrinando solitario tra le non densate, ma intervallate palme spectatissime, cogitando delle Rachelaide, Phaselide, et Libyade, non essere forsa a queste comparabile. Ecco che uno affamato et carnivoro lupo alla parte dextra, cum la bucca piena mi apparve. Per l’aspecto del quale, gli capigli mei immediate se ariciorono, et diciò volendo cridare non hebbi voce. Il quale desubito fugite. Et io in me allhora alquanto ritornato, levando gli ochii inverso quella parte, ove gli nemorosi colli appariano coniugarsi. Io vedo in longo recesso una incredibile altecia in figura de una torre, overo de altissima specula, appresso et una grande fabrica ancora imperfectamente apparendo, pur opera et structura antiquaria. Ove verso questo aedificamento mirava li gratiosi monticuli della convalle sempre più levarse. Gli quali cum el praelibato aedificio coniuncti vedea. El quale era tra uno et l’altro monte conclusura, et faceva uno valliclusio. La quale cosa de intuito accortamente existimando dignissima, ad quella sencia indugio el già solicitato viagio avido ridriciai. Et quanto più che a quella poscia approximandome andava, tanto più discopriva opera ingente et magnifica, et di mirarla multiplicantise el disio. Imperoché non più apparea sublime specula, ma per aventura uno excelso Obelisco, sopra una vasta congerie di petre fundato. L’altitudine della quale, incomparabilmente excedeva la summitate degli collateranei monti, quantunche fusse stato el celebre monte arbitrava Olympo, Caucaso, et Cylleno. Ad questo deserto loco pure avidamente venuto, circunfuso de piacere inexcogitato, de mirare liberamente tanta insolentia di arte aedificatoria, et immensa structura, et stupenda eminentia me quietamente affermai. Mirando et considerando tuto el solido et la crassitudine de questa fragmentata et semiruta structura de candido marmo de Paro. Coaptati sencia glutino de cemento gli quadrati,et quadranguli, et aequalmente positi et locati, tanto expoliti, et tanto exquisitamente rubricati gli sui lymbi, quanto fare unque si potrebbe. In tanto che tra l’uno et l’altro lymbo, overo tra le commissure una subtilecia quantunque aculeata, del intromesso reluctata unquantulo penetrare potuto non harebbe. Quivi dunque tanta nobile columnatione io trovai de ogni figuratione, liniamento, et materia, quanta mai alcuno el potesse suspicare, parte dirupte, parte ad la sua locatione, et parte riservate illaese, cum gli Epistyli et cum capitelli, eximii de excogitato et de aspera celatura. Coronice, Zophori, overo Phrygii, Trabi arcuati. Di statue ingente fracture, truncate molti degli aerati et exacti membri. Scaphe, et Conche, et vasi, et de petra Numidica, et de Porphyrite, et de vario marmoro et ornamento. Grandi lotorii. Aqueducti, et quasi infiniti altri fragmenti, de scalptura nobili, de cognito quali integri fusseron, totalmente privi, et quasi redacti al primo rudimento. Alla terra indi et quindi collapsi et disiecti. Sopra et tra le quale confragose ruine germinati erano molti silvatici virgulti, et praecipue de Anagyro non quassabondo, cum le teche fasselacie, et uno et l’altro Lentisco, et la Ungula ursi et Cynocephalo, et la Spatula fetida et el ruvido Smylace, et la Centaurea,et molte altre tra ruinamenti germinabonde. Et ad gli fresi muri molti Aizoi, et la pendula Cymbalaria, et senticeti de pongiente vepre. Tra gli quali serpivano alcune lacertace, et ancora sopra gli arbuscati muri reptavano, spesse fiate in quelli deserti et silenti lochi nel primo moto ad me, che tutto stava suspeso, non pocho horrore inducendo. Magni in molte parte frusti de plane retondatione, et de Ophites et de Porphyrite, et Coralitico colore, et di assai altri grati coloramenti. Fragmentatione di vario historiato di panglypho, et hemiglypho, di expedita, et semiscalptura. Indicando la sua excellentia, che sencia fallire ad gli tempi nostri, et accusando, che de tale arte egli è sopita la sua perfectione, dunque approximatome al mediano fronte della magna et praeclara opera, io vidi uno integro portale miro et conspicuo, et ad tutto lo aedificio proportionato.

La quale fabrica vidi continua tra uno et l’altro degli monti delumbati pendicei intersita, che poteva arbitrariamente coniecturare essere la sua dimensione di passi vinti, et stadii sei. Lo allamento de’ quali monti aequato era perpendicularmente dalla cima giù fina all’area. Per la quale cosa io sopra di me steti cogitabondo, cum quali ferrei instrumenti, et cum quanto trito di mane di homini, et numerositate, tale et tanto artificio violentemente conducto cusì fusse sencia fide laborioso, et de grande contritione de tempo. Quivi dunque cum l’uno et l’altro monte questa admiranda structura, cum conscia haesione se coniungeva. Per la quale coniunctione come sopra dicto è la valle era munita de conclusione, che niuno valeva d’indi uscire, overo indrieto ritornare, o intrare per questa patula porta. Hora sopra de questa tanto ingente opera di fabricatura, che de altitudine aequalmente dalle supreme corone al pedamento et Areobate coniecturare facilmente se poteva essere uno quinto de stadio, era fundata una adamantineamente fastigiata et portentosissima Pyramide, di qué ragionevolmente iudicai, che non sencia inaestimabile impensa, tempo, et maxima multitudine de mortali, se havesse unque potuto excogitare et ridriciare tale incredibile artificio. Onde si io el suo excesso, oltra el credere, inopinabile cosa meritamente de essa essere el speculare arbitrava, la quale imperoché mirando non mediocremente la potentia visiva affatichava, et gli altri spirituali sensi attenuando, quanto più affare? Per tanto a ciò che in alcuna parte, quanto ad me se praestarà el capto del mio intellecto, per questo modo ad hora io brevemente el descrivo. Ciascuna facia dilla quadratura della meta, sotta all’initio della gradatione de questa admiranda Pyramide, sopralocata al praefato aedificamento, in extensione longitudinale, era stadii sei. Multiplicati per quatro in ambito, la dicta nel pedamento aequilatero occupava comprehendendo, quatro et vinti stadii. In altitudine daposcia da qualunque angulo levando le linee, cum mensura, quanto la ima linea è del plintho, tutte quatro al summo mediano inseme conveniente concurrendo la figura Pyramydale perfecta constituivano. Il perpendicolo mediano sopra el centro degli dyagonii del Plyntho incruciati, delle sei partitione una meno constava delle ascendente linee.

La quale immensa et terribile Pyramide cum miranda et exquisita Symmetria gradatamente Adamantale salendo, continiva dece, et quatro cento et mille gradi, overo scalini decrustati. Dempti gradi dece opportuni ad terminare el gracilamento.

Nel loco di quali era apposito et suffecto uno stupendo Cubo solido et fermo, et della crassitudine monstruoso, offerentise sencia credito di subvectura in quella summitate deputato. De quella medesima petra Paria, che erano le gradatione. El dicto quadrato fue per basa et substentaculo supposto dell’obelisco, che se hae da dire. Questo ingentissimo saxo, che tale non fue chermadio levato da Titide, havea uno prolapso in ambito, de sei parte, due in descenso, et una nella cacuminata planicie, ristava nel supremo plano lato per diametro passi quatro. Nella coaequatura del quale, eminevano quatro pedi de Harpyia de metallo cum gli pilaci et branchie ungiute fusile,nella maxima petra verso gli anguli, sopra le linee dyagonie, infixi et fermamente implumbati. De crassitudine proportionata, et de altecia di dui passi. Le quale inseme bellissime innodantise, ambiendo ligavano lo infimo Socco di uno grande Obelisco. Conflati in mirabile folgiature, et fructi, et fiori di conveniente granditate. Sopra gli quali premeva lo Obelisco firmissime supraposito. La latitudine del quale de passi bini, et sette, tanto in altecia, artificiosamente acuentise, de petra Pyropecila Thebaicha. Nelle facie del quale erano Hieroglyphi aegyptici egregiamente insculpti, lisso, et quale speculo illustramente terso.

Nel supremo fastigio dil quale, summa cum diligentia et arte sopraposito resideva una stabilita basa di auricalco. Inella quale ancora era una versatile machina, overo uno petaso, in uno stabile perone, overo pollo superinfixa. El quale retinia una imagine de Nympha elegante opera della recitata materia. Da convertire in stupore chi acuratissimo, et cum obstinato intuito la considerava. Cum tale et cusì fata proportione, che la se concedeva alla communa statura nel aire perfectamente giù di vedere et più oltra la magnitudine di essa statua era mirabile cosa considerare, cum quanta temeritate, in tanta celsitudine subvecta, immo nel aire cusì facta opera fusse reportata, cum el vestito volitante, parte delle polpose sure manifestantise discoperte. Et due alle aperte al suo interscapilio erano appacte, acto monstrante de volato. La cui bellissima facia et propitio aspecto verso le ale converso. Haveva poscia et sopra el comoso fronte le trece libere volante, et la parte della Calva coppa, overo Cranea nudata et quasi depilata. Le quale come protense erano verso al volare. Nella dextera mano ad lo obiecto del suo guardare, de omni bene stipata teniva una artificiosa copia, alla terra inversa. Et l’altra mano poscia sopra dil suo nudato pecto stricta et inserata teniva. Questa statua dunque ad qualunque aura flante, facile gyravasi.

Cum tale fremito dil trito dilla vacua machina metallina, che tale nunquam dal romano aerario se udite. Et ove il figmento posava cum pedi sopra la subiecta arula fricantise, che cusì facto tinnito non risonava il Tintinabulo alle magnifiche Therme di Hadriano. Né quello dille cinque Pyramide sopra il quadrato stante. Il quale altissimo Obelisco minima fede ancora ad me non si lassa havere, che un altro conformitate monstrasse, né similitudine. Non già il Vaticanio. Non il Alexandrino. Non gli Babylonici. Teniva in sé tanta cumulatione di miraveglia, che io di stupore insensato stava alla sua consideratione. Et ultra molto più la immensitate dill’opera, et lo excesso dilla subtigliecia dil opulente et acutissimo ingiegnio, et dilla magna cura, et exquisita diligentia dil Architecto. Cum quale temerario dunque invento di arte? Cum quale virtute et humane forcie, et ordine, et incredibile impensa, cum coelestae aemulatione tanto nell’aire tale pondo suggesto riportare? Cum quale Ergate, et cum quale orbiculate Troclee, et cum quale Capre, o Polispasio, et altre tractorie Machine, et tramate Armature? Faci silentio quivi omni altra incredibile et maxima structura.

b




Ritorniamo dunque alla vastissima Pyramide, sotto la quale uno ingente et solido Plintho, overo latastro, overo quadrato supposito iacea, di quatordeci passi la sua altitudine, et nella extensione, overo longitudine stadii sei. Il quale faceva il pedamento del infimo grado dilla molosa Pyramide. Et questo solertemente arbitrava, che d’altronde non fusse quivi conducto. Ma dil medesimo monte exscalpto, da humane fatiche ad quella figura et Schema, et in tanta mole redacto nel proprio loco. Il residuo degli gradi, di frusti era compositamente facto. Il quale immenso quadrato cum le collaterale montagne dil convalle, non se adheriva. Ma intercapedo et separato era dal uno et l’altro lato dece passi, dalla dextera parte, al mio andare, del praefato Plintho, nel mediano del quale temeramente el vipereo capo della spaventevola Medusa, era perfectamente coelato, in demonstratione furiale vociferante et ringibondo. Cum gli ochii terrifichi, incavernati sotta gli suppressi cilii, et cum la fronte rugata, et la bucca hiante patora. La quale excavata cum uno recto calle cum el summo involtato fina al centro penetrando, overo fin alla mediana linea perpendiculare centricale del supremo Catillo della ostentifera Pyramide, faceva amplissimo ingresso et adito. Alla quale apertura de bucca, per gli sui involuti capigli se ascendeva, cum inexcogitabile subtilitate dello intellecto, et arte, et impenso cogitato dell’artifice expressi. Cum sì facta regula et riductione, che alla patente bucca gli gradi scansili aptamente facevano. Et in loco dele trece capreolate cum vivace et ingente spire mirava stupente gli viperi et intortigliati serpi. Et d’intorno la monstrifera testa, cum promptissimi vertigini confusamente invilupantise. Diqué el volto et gli squammei serpi rixanti, erano sì diffinitamente de lavoratura mentiti, che non poco horrore et spavento m’incusseron. Negli ochii di quali commodissimamente inclaustrati furono lucentissimi lapilli, in tanto che si io certificato non era, marmoro essere la materia, auso io non sarei stato sì facilmente approximarme. El sopranarrato calle interscalpto nel fermo saxo, conducea, ove erano le scale, cum flexuoso meato, nel centro per amfracti coclei per la quale scandevasi all’altissima cima di essa Pyramide, in la superficie del quadrato Catillo. Sopra el quale, era fundato lo eminente Obelisco. Oltra de tutta questa praeclara et stupenda opera certamente questo excellentissimo iudicai. Che le praefate coclide, per tutto fusseron chiaramente illuminate. Imperoché lo ingegnioso et acutissimo architecto alcuni Clepsiphoti meati, cum grande et exquisitissima investigatione dello intellecto, havea solertemente facto. Gli quali nell’aspecto del vagare del Sole, ad tre parte dritamente corrispondevano. All’infima. Media. Et supera. La infernate per gli

b II


superiori illuminarii. La supernate per gli catabassi era lucidata. Cum alcune reflexione per gli oppositi, sufficientemente elucificavano. Tanta fue la calculata regula della exquisita dispositione dell’artificioso mathematico in le tre facie, Orientale, Meridionale, et Occidentale, che da omni hora del dì, la sinuosa scala era lucida et chiara. Gli quali spiracoli in diversi locamenti, della grandissima Pyramide Symmetriatamente erano diffiniti, et dispersamente distributi. Alla parte della antedicta apertione de bucca deveni per un’altra solida et directa scala saliendo, che al pedamento Areo del aedificio, verso la parte dextera collaterale al monte delumbato era intro excavata nel proprio saxo, ove era lo intervallo delli dieci passi. Per la quale certamente più curioso forsa che licito non era, io montai. Ove essendo pervenuto alla itione per la bucca alla scala, per innumeri gradi, overo scalini, non sencia grave fatica et vertigine del capo, sopra tanta inopinabile celsitudine circungyrando finalmente salito. Gli ochii mei acconciamente al piano non pativano riguardare. In tanto che omni cosa infera ad me apparea imperfecta. Et per questo dal medio piano, partirme non audeva. Et quivi in ambito del circulare et supremo exito, overo fine della tortuosa scala et apertura, molti stipiti fusatili de metallo erano in circuito politamente dispositi et infixi, la interlocatione digli quali da centro ad centro, overo interstipio dividendo pede uno, de altecia hemipasso. Cincti de sopra cum una coronetta undulata sopra ambiente della dicta materia fusili, gli quali circundavano et saepivano el labro della apertura, et hiato dell’exito superiore della dicta scala, exclusa quella parte, per la quale se usciva in la superficie, bene diciò arbitrando. A ciò, che niuno meno cauto, nella apertione del sinuoso speco, praecipitasse. Conciosia cosa,che la immoderata altecia, vacillamento inducea. Sotto poscia della prona piana del Obelisco, una tabella aenea era implumbata resupina, cum antiqua scriptura de notule nostrate, de Graece et Arabe, per le quale pienamente io compresi, al summo Sole quello dedicato. Et de tutta la maxima structura ancora la commensuratione integramente annotato et descripto. Et el nome dell’architecto sopra lo Obelisco in graeco annotato.



ΛΙΧΑΣ Ο ΛΙΒΥΚΟΣ ΛΙΘΟ_ΟΜΟΣ.

ΡΘΟΣΕΝ ΜΕ.

LICHAS LIBYCUS ARCHITECTUS

ME EREXIT.





Ritorniamo al praesente alla Meta, overo Tessella subiecta alla Pyramide, nel fronte dilla quale, io mirai una elegante, et magnifica sculptura di una crudele Gigantomachia, invida solum di vitale aura, de miranda coelatura excellentemente insculpta. Cum sui movimenti, et cum tanta promptitudine degli proceri corpi, quanto mai si potrebbe narrare. Lo imitato aemulo della natura, tanto propriamente expresso, che gli ochii inseme, cum li pedi affaticando,violentavano, mo ad una parte, mo ad l’altra avidamente discorrendo. Niente meno apparia negli vividi Caballi. Alcuni prosternati, alcuni cespitando corruenti. Molti vulnerati et percossi, indicavano la gratiosa vita efflare. Et malamente gli calcei sopra gli caduchi corpi firmantise, furibondi et effreni. Et gli Giganti proiecte le armature l’uno cum l’altro strictamente amplexabondi. Tali cum gli pedi retinuti nella subsolea traportati. Altri sotto gli corpi sui erano soppressamente calcati. Et chi cum li caballi saucii praecipitavano. Alcuni ad terra prostrati cum la parma resupini protegentise pugnavano. Molti cum Parazonii cincti et cum balctei ensati, et cum spathe antiquarie persice et multiplici instrumenti de mortale figuramento. La più parte pediti, cum teli et clypei confusamente pugnanti. Tali loricati, et galeati, cum variati apici insigniti, et altri nudi cum vivace core insultare indicando, intenti alla morte. Parte toracati, di varii et nobilissimi ornamenti militari decorati. Molti cum effigiato formidabile di exclamare. Alcuni di simulachro obstinato et furiale. Quanti erano per morire, cum filamento aemulario dilla natura, lo effecto exprimente, et altri defuncti, cum invise et multiplice machine bellice et loetale. Manifestavano gli robusti membri, et gli tuberati musculi, davano ad gli ochii de videre l’officio degli ossi, et le cavature, ove gli duri nervi trahevano. El quale conflicto et duello tanto spaventoso et horribile apparia, che diresti esso cruento et armipotente Marte ad essere per duello cum Porphyrione et Alcioneo, et la fuga, che heberon dal rudito asinino videre nella memoria soccorse.

Queste tutte imagine oltra la naturale proceritate et statura excedevano, et di cataglypho la scalptura di illustrissimo marmoro collustrabile et il piano intervacuo di nigerrima petra introducto a venustate et gratia della albente petra, et a sublevamento dilla statuaria operatura, perfectamente extavano.

Quivi dunque erano infiniti proceri corpi, ultimi conati, intenti acti, habiti toracali, et varia morte, cum ancipite victoria. Heu me gli spiriti fessi, et lo intellecto per tanta assidua varietate confuso, et gli sensi disordinati, non aptamente patiscono, non solum il tutto narrare, ma parte cum integritate di così depolita lithoglyphia exprimere non valeno.

Et dove poscia naque tanta iactantia, et tanta ardente libidine di coacervare coagmentando petre ad tanto congesto, cumulo, et fastigio. Et cum quale Veha? cum quali Geruli? et Sarraco? cum quali Rutuli violentato fusse tanta, et tale vastitate di saxi? Et sopra quale fultura commessi et confederati? Et sopra quale aggere di cementati rudimenti? Et di tanta immensitate dil altissimo Obelisco, et dilla immensa Pyramide? Che giamai Dinocrates al Magno Alexandro più iactabondo non proponi el

b III


modulo del suo altissimo concepto del monte Atho. Imperò che questa amplissima structura sencia fallo excede la insolentia Aegyptica. Supera gli meravigliosi labyrinthi. Lemno quiesca. Theatri sa mutiscano, non si aequa el dignificato Mausoleo. Perché questo certamente non fue inteso da colui, che gli septe miracoli, overo spectacoli del mondo scripse. Né unque in alcuno saeculo, né viso, né excogitato tale, silendo etiam el sepulchro mirabile di Nino.

A l’ultimo discretamente considerava, quale opposita et obstinata resistentia di fornici sotto mai potesseno sostenire, né supportare, et quale Hexagone, et tetragone Pile et quale nanitate di columnamento potria fermamente supposito, tanta gravitudine et intolerabile ponderatione tolerare? Per la quale discursione ragionevolmente iudicai, overo che tutto solido et massiccio ristato del monte fusse subdito, overo l’una compacta congerie de glutinato cemento et glarea et di rude petratura. Per cusì facta animadversione io explorai per l’ampia porta. Et vidi che nel intimo era densa obscuritate et concavitate. La quale porta inseme cum el mirando, et superbo aedificamento (cose digne di aeterno monumento) cusì nel sequente como era egregiamente disposita, sarae alquantulo descripta.

POLIPHILO POSCIA CHE EGLI HAE NARRATO PARTE DELLA IMMENSA STRUCTURA, ET LA VASTISSIMA PYRAMIDE, CUM EL MIRANDO OBELISCO NEL SEQUENTE CAPITULO DESCRIVE MAGNE ET MIRAVEGLIOSE OPERE, ET PRAECIPUAMENTE DE UNO CABALLO, DE UNO IACENTE COLOSSO, DE UNO ELEPHANTO, MA PRAECIPUAMENTE DE UNA ELEGANTISSIMA PORTA.


QUI POLIFILO NARRA CHE GLI SEMBRÒ DI DORMIRE NUOVAMENTE E DI TROVARSI SEMPRE SOGNANDO IN UNA VALLE, CINTA SUL FONDO DA UNA AMMIREVOLE CHIUSURA FATTA DA UNA PORTENTOSA PIRAMIDE DEGNA D’AMMIRAZIONE E SORMONTATA DA UN ALTISSIMO OBELISCO. CON PIACERE ED ATTENZIONE IL TUTTO VIENE COMPIUTAMENTE ESAMINATO.


Sfuggito all’inquietante selva e alla fitta boscaglia, abbandonati gli altri luoghi visitati in precedenza, con le membra stanche ed affaticate per il dolce sonno che vi si era diffuso, mi ritrovai di nuovo in un luogo ben più gradevole del precedente. Questo non era né cinto da monti inaccessibili, né attorniato da rupi scoscese e nemmeno solcato da impervie giogaie. Aveva viceversa dolci colline di modesta altitudine, coperte da mantelli di giovani Querce, Roveri, Frassini, Carpini, Ischi frondosi e Lecci, teneri Noccioli, Ontani, Tigli, Aceri, sterili Oleastri disposti secondo l’andamento dei lussureggianti colli. E in basso, nella valle, vi erano gradevoli boschetti di altre essenze selvatiche, di opime ginestre, di numerose erbe verdissime, tra le quali qui vidi il Citiso, la Carice, la Cerinta comune, la Panachia muscaria, il Ranuncolo fiorito, il Cervicello, anche detto Elafio [affine all’Angelica, ma privo di profumo], la Serratula, e ancora altre essenze veramente pregevoli come pure vidi sempre sparse nei prati altre erbe semplici ed sconosciute. Questa florida terra abbondantemente coperta di verde si offriva agli occhi con letizia. Dopo poco, più avanti, m’imbattei una spiaggia sabbiosa e piena di ghiaia, con radi cespugli erbosi. Qui mi trovai davanti ad un grazioso palmeto, dal dolcissimo frutto fecondo ed abbondante e le cui foglie a forma di coltello acuminato tanto giovano agli Egizi. Le palme, dalle quali pendono i grappoli di datteri, sono modeste e umili alcune, altre dritte e svettanti e, poiché resistono persino a grandi carichi, furono scelte come vessillo di vittoria. Sempre in questo luogo, non m’imbattei né in abitanti né alcun animale. Tuttavia, camminando in solitudine tra le palme disposte ad intervalli, distanziate l’una all’altra, ragionavo di Rachelaide, Phaselide e Libyade [di «Archelaide et Phaselide atque Liviade » argomenta Plinio seniore (Nat. Hist., XIII - 44), alludendo al liquore dolce estratto dalla Palma Archelaide; il riferimento è altresì presente in Leon Battista Alberti (De Re Aed., II,16),nella mediazione di Teofrasto (Hist. Plant.,V, 7)], non essendoci forza comparabile a queste. All’improvviso, da destra, mi apparve un affamato e carnivoro lupo, con la bocca piena. Al suo apparire mi si drizzarono i capelli sulla testa e, malgrado volessi gridare per lo spavento, rimasi muto. La fiera fuggì immediatamente. Così io, volgendomi laddove i boscosi colli sembrano unirsi, ritornai pienamente in me. In lontananza scorgo allora una torre, una torre d’avvistamento di ragguardevole altezza e di imponente aspetto, presso un grande edificio che, sebbene non sia ancora completamente visibile, appare opera e struttura antiquaria. Verso questo edificio si vedevano innalzarsi sempre di più i graziosi monticelli della convalle, che apparivano uniti alla pregevole fabbrica da un’intercapedine, ostruendo il passaggio tra l’uno e l’altro. Ritenendo intuitivamente ciò assai interessante, lì mi diressi senza frapporre indugi, avido di sapere. E quanto più mi andavo approssimando a quella, tanto più la scoprivo opera imponente ed ammirevole, e nel rimirarla il desiderio si ingigantiva. Poiché non appariva più un sublime luogo elevato, ma, viceversa, un alto obelisco collocato sopra un imponente basamento in pietra. La sua altezza superava senza eguali l’altezza dei monti limitrofi, anche fossero stati il celebre Olimpo, Caucaso, Cilleno. Giunto in questo luogo solitario, animato da un piacere impensabile, sostai tranquillamente ad ammirare con agio tanta audacia costruttiva e una così ammirevole monumentalità, rimirando e analizzando l’intera solidità ed imponenza di questo frammentario e diruto edificio in bianco marmo pario. I blocchi di marmo quadrati e quadrangolari, sia levigati sia rifinitamente scalettati nei margini, posti in filari isodomi, sono collocati senza legante di cemento che meglio non si potrebbe, tant’è che tra i giunti, ovvero tra le commessure, non potrebbe incunearsi alcunché di sottile o acuminato. Qui dunque trovai tante pregevoli colonne di ogni forma, disegno e materiale, che di più non sarebbe stato auspicabile; in parte erano mutile, in parte collocate nel sito originario, in parte integre, con gli epistili e i capitelli di elaborato disegno e raffinata fattura; cornici, rilievi zoofori, fregi, travi arcuate e statue mutile per gravi fratture, con le parti tronche. E, ancora, bacini, e conche, e vasi di marmo numidico [giallo antico], di porfirite e di altre varietà di marmi e di forme. E ancora grandi lavatoii, acquedotti, e altri frammenti, quasi infiniti per numero, alcuni di nobile fattura, altri dei quali invece non si può ipotizzare l’originaria forma, ridotti come sono ormai allo stato di materiale grezzo, ora caduti a terra e dispersi. Numerosi cespugli selvatici erano germogliati sopra le incolte rovine e tra queste; e principalmente l’Anagiro, che agita i baccelli a forma di fagiolo, le due specie di Lentisco, l’Unghia dell’orso [Allium ursinum], il Cinocefalo [erba simile alla testa canina], la Spada fetida [Spanila fetida], lo scabro Smilace [albero ghiandifero], la Centuarea, e molte altre essenze germinate tra le rovine. E tra le fenditure dei muri attecchiscono molte Aizoaceae, il rampicante ciombolino comune [Cymbalaria muralis] roveti di ciliegio selvatico [prunus]; tra questi strisciavano alcuni ramarri e si arrampicavano anche sui muri infestati dalle piante, provocandomi a più riprese, in quei luoghi solitari e silenzioso, dove tutto era sospeso, non poco orrore. Ovunque giacevano grandi pezzi circolari di Ofite [pietra serpentina verde], di Porfirite,e di color coralitico [marmo palombino]e di altre gradevoli cromie, frammenti variamente istoriati, rifiniti con panglifi ed emiglifi, raffinatamente decorati o semilavorati, così mostrando senza tema ai nostri tempi la sua eccellenza, a conferma che di tanta maestria oggi si è persa la perfezione. Dunque, nel mentre mi avvicinavo al centro di una così imponente e ammirevole opera, io scorsi un imponente e mirabile portale ben conservato e messo in proporzione rispetto all’intero edificio, che era una costruzione unitaria, posta tra i fianchi dei monti e si poteva ipotizzare che le sue misure fossero di venti passi e sei stadii. L’altezza dei monti era ugualmente e perfettamente perpendicolare per entrambi dalla cima fino al suolo. Ammirando ciò mi domandai con quali attrezzi in ferro, con quanto lavoro di manovalanza, con quale numero di operai fosse stata mai realizzata una così imponente opera ideata con indubbia forza e quanto tempo avesse richiesto la sua ultimazione. In questo punto, dunque, tale ammirevole fabbrica si congiungeva all’uno e all’altro monte con uno studiato accorgimento, che sembrava chiudere la valle all’orizzonte, al punto che nessuno avrebbe trovato via d’uscita o sarebbe potuto tornare indietro o andare avanti attraverso questa porta aperta. Al di sopra di tale imponente opera architettonica, che per altezza dalla cima, o sommità, al pavimento si poteva ipotizzare con facilità misurasse un quinto di stadio, era collocata una grandiosa Piramide, coronata da un fastigio adamantino; conclusi, ovviamente, che una tale costruzione così inusitata non potesse essere stata progettata e realizzata se non grazie ad un’ingente spesa, nonché al notevole impiego di manodopera. Di conseguenza, davanti alla sua straordinarietà che superava ogni limite, ritenevo che la si potesse soltanto ammirare, benché l’ammirazione avrebbe affaticato la vista e fiaccato gli altri sensi spirituali. Che altro dire di più ? Benché soltanto in parte, per quanto potrà comprendere il mio intelletto, così brevemente ora mi accingo a descriverla. Ciascun lato dello zoccolo quadrangolare sul quale poggia la scalinata che conduce all’ammirevole Piramide, posta all’apice di tale costruzione, misura in lunghezza sei stadii, che moltiplicati per ognuno dei quattro lati dello zoccolo equilatero ammonta a ventiquattro stadii. Tirando poi le linee dai quattro angoli in altezza, tanto quanto ogni angolo dista in lunghezza dall’altro, tutte e quattro le suddette linee incontrandosi al vertice costituivano una perfetta figura piramidale. La parte di linea perpendicolare mediana si sopraelevava dal punto di incontro delle diagonali del plinto e in essa confluivano le cinque direttrici ascendenti. La maestosa e imponente Piramide ,pari al diamante, con ammirevole e raffinata simmetria si ergeva con gradualità, attraverso 1410 gradini, scalini ormai privi di rivestimento. Gli ultimi dieci gradini si restringevano adattandosi all’assottigliarsi della struttura. Su questi era poggiato e fissato un meraviglioso Cubo dello stesso marmo Pario dei gradini, compatto, stabile e straordinario per mole, il che rendeva inspiegabile come fosse stato possibile collocarlo a quell’altezza. Io devo ora descrivere il già citato zoccolo quadrato e la base culla quale si imposta l’obelisco.

Questo smisurato blocco, che simile non fu tagliato e asportato da Diomede figlio di Tideo, presentava in basso una delle sei facce, due all’esterno e un’altra sul lato sommitale, coprendo la parte superiore con un diametro di quattro piedi. Agli angoli della stessa spiccavano quattro zampe di Arpia con le piume e gli artigli ungulati fusi in metallo, infisse e saldamente piombate agli estremi del monumentale blocco, sopra il punto di confluenza delle diagonali; la loro grandezza era proporzionata e misurava in altezza due passi. Le quattro zampe di Arpia di raffinata fattura si univano, coronando la parte finale con un monumentale Obelisco. Fiori e frutta di acconcia grandezza vi erano forgiati con ammirevole lavorazione; al di sopra insisteva l’Obelisco saldamente sovrapposto. La sua ampiezza era di due passi e tanto ragguardevole l’altezza di sette passi; era intagliato con perizia in Granito rosso di Tebe [pietra tebaica] e sulla sua superficie levigata e brillante come uno specchio assai luminoso erano incisi con maestria Geroglifici egizi.

Sulla punta dell’Obelisco con grande arte e perizia era stata collocata una base di oricalco [rame della montagna, ovvero lega di rame e zinco], sopra la quale era posto un duttile marchingegno, vale a dire una cupoletta fissata ad un saldo cavicchio, ovvero bloccata dal cardine, che sosteneva la statua di una fanciulla, una raffinata scultura del già citato materiale, tale da suscitare meraviglia in quanti attentissimi la rimirassero con sguardo insistito, poiché le proporzioni erano tali che sembrava fosse dell’altezza di una persona normale, sebbene vista tanto dal basso. E più della grandezza monumentale della statua era degno di ammirazione immaginare quanta audacia avesse permesso di trasportare una sì fatta opera a tale altitudine e di collocarla tanto in cima, con le vesti mosse dal vento, con parte delle tornite membra scoperte e con le due ali aperte applicate tra le scapole, in atto di spiccare il volo. Il bellissimo viso e il florido corpo volgevano verso le ali. Sopra la fronte chiomata aveva le trecce mosse dal vento, protese in avanti, mentre una parte della testa era calva, presentando il cranio nudo e quasi depilato. Nella sua mano destra recava una ben lavorata cornucopia, volta verso la terra e ricca di ogni bene, mentre teneva l’altra mano chiusa e serrata sopra il seno nudo.

Dunque questa statua si muoveva con agio ad ogni refolo di vento; allora dallo strofinio dell’aerea macchina in metallo si udiva un tintinnio che non se ne percepì mai simile nemmeno nell’Erario romano. E quando la statua si posava con i piedi sopra la sottostante base sottoposta a frizione, di un simile tintinnio non risuonava nemmeno il Tintinnabulo delle magnifiche Terme di Adriano né quello delle cinque Piramidi sopra il quadrato. Questo altissimo Obelisco a mio giudizio era tale che nessun altro potesse essergli paragonato, ma, eventualmente, stimato inferiore; non già il Vaticano, non l’Alessandrino, né gli Obelischi babilonesi. Suscitava tale e tanta meraviglia, che io la rimiravo inebetito di stupore ancor di più per la grandezza dell’opera, per la straordinaria abilità della sontuosa e raffinatissima invenzione, nonché della notevole accuratezza e della ricercata diligenza dell’Architetto.

Dunque con quale audace progetto è stata realizzata? Con quale virtù, con quali forze umane, con quanta inestimabile spesa, con quale emulazione degli dei è stato portato questo pesante basamento verso l’alto? Con quali argani, e con quali tondeggianti carrucole, con quali sostegni, o gru, o altri macchinari da trazione o rinforzate centine? Rimango in silenzio davanti a tale inaudita e grandiosa struttura rispetto ad ogni altra.

b

Torniamo dunque all’imponente Piramide, sotto la quale era un imponente e stabile Plinto, o sostruzione, o base quadrata, alto quattordici piedi e largo sei stadii, sul quale insisteva la parte più bassa della maestosa Piramide; anche di questo subito mi chiesi come fosse stato condotto lì ed estratto dallo stesso monte, con laboriosità secondo lo stesso disegno e progetto e nella sua ingente mole collocato al punto giusto. I rimanenti gradini erano composti da frammenti. Questo immenso quadrato non si univa alle montagne vicine, ma dall’uno e dall’altro monte distava dieci passi.

Alla mia destra, nel mezzo del Plinto, era arditamente nascosto il capo anguiforme dell’orrorifica Medusa, nell’atto di urlare e minacciare, con gli occhi spaventosi incavati nelle orbite sopraccigliari, con la fronte corrugata e la bocca spalancata.

Questa fungeva da amplissima entrata ed ingresso; di lì partiva un dritto corridoio, che, inoltrandosi verso l’alto, conduceva al centro della fabbrica, vale a dire fino all’apice dell’asse mediano perpendicolare della parte superiore della prodigiosa Piramide.

Dall’apertura della bocca, si saliva a mo’ di scala coclide attraverso i suoi attorcigliati capelli, grazie all’impensabile acutezza, alla perizia, all’inusitato progetto del suo artefice. Con maestria e abilità, infatti, dalla bocca spalancata comodamente partivano i gradini e tra le trecce attorcigliate con movimentati e voluminosi riccioli osservavo ammirato le vipere e le aggrovigliate serpi che si avviluppavano tutt’attorno alla mostruosa testa con straordinari vortici. Dacché il volto e i guizzanti serpenti squamosi, così abilmente lavorati, mi ingenerarono non poco orrore e spavento. Nei loro occhi erano state magistralmente incastonate pietre luminosissime, al punto che se non avessi saputo che si trattava di marmo, non avrei potuto facilmente osare alcuna ipotesi.

Il corridoio scavato nel solido sasso –del quale già si è detto- conduceva alle scale; da qui, con un flessuoso movimento, si saliva verso il centro attraverso la scala coclide fino all’apice della Piramide, alla parte superiore del blocco quadrato sul quale si impostava l’insigne Obelisco.

Dell’intera straordinaria e meravigliosa opera, proprio questo Obelisco ebbi a giudicare eccellentissimo poiché la scala coclide era in tutto uniformemente illuminata e l’ingegnoso nonché abilissimo architetto, prontamente, con notevolissima e raffinata invenzione, aveva progettato delle aperture nascoste dalle quali filtrava la luce, collocate in relazione ai movimenti solari e corrispondenti a tre parti, una sita più in basso, una al centro, una in alto.

b II




Con un gioco di luci chiastico, dall’apertura inferiore si illuminava la parte alta, mentre dall’apertura superiore si rischiarava il basso. Fu a tal punto accorto il calcolo del virtuoso architetto nel realizzare questa raffinata disposizione che ad ogni ora del giorno la scala coclide era illuminata e visibile dai tre lati, tanto ad Oriente che a Meridione e a Occidente. Queste aperture erano collocate in diversi punti della monumentale Piramide, simmetricamente disegnate e variamente poste.

Dal lato destro rispetto all’adito a forma di bocca spalancata, del quale già parlai, vicino al fianco del monte che dista dieci passi, vinto dalla curiosità, sebbene forse non sarebbe stato lecito, salii alla terrazza dell’edificio attraverso un’altra solida e diritta scala scavata nella propria pietra. Alla fine giunsi a tanta inenarrabile altezza non senza ingente fatica e vertigini, girando tutt’intorno alla scala dagli innumerevoli gradini, dopo aver oltrepassato la bocca spalancata. La mia vista non riusciva ad accomodarsi alle nuove misure e ogni cosa in basso mi sembrava sproporzionata; perciò non osavo riprendere la salita. Qui, nella piattaforma circolare superiore, dove terminava la tortuosa scala immettendo all’aperto, numerosi pilastri di metallo erano fissati e disposti con andamento circolare; lo spazio dell’intercolumnio, da centro a centro, aveva un’altezza di mezzo passo. Decorati in alto da una cornice ondulata metallica, circondavano e recingevano i bordi dell’apertura e lo spazio dello sbocco superiore della stessa scala, attraverso la quale acconciatamente si usciva in superficie, evitando in tal modo che qualche incauto precipitasse al termine della tortuosa scala, dal momento che la ragguardevole altezza avrebbe potuto indurre la vertigine. Sotto la base dell’ Obelisco era saldata sul pavimento una tavola bronzea in scrittura latina, greca e araba per cui io compresi con chiarezza che l’Obelisco era dedicato al Sole; inoltre tutta la maestosa struttura e le sue misure erano integralmente annotate e descritte, così pure il nome dell’ architetto, inciso sopra l’Obelisco in lettere greche.





MI COSTRUI’ LICA LIBICO ARCHITETTO


Torniamo ora al presente, alla Meta o Tavola sottostante alla Piramide, sul fronte di facciata della quale ammirai l’elegante e magnifico rilievo di una crudele Gigantomachia, mancante soltanto di soffio vitale, ammirevole per essere stata eccellentemente scolpita e cesellata, con i suoi movimenti e con tanta agilità degli atletici corpi che non è possibile narrarlo.

Tale imitazione della natura era così appropriatamente manifesta, come se i loro occhi si muovessero insieme ai corpi, correndo senza requie da una parte all’altra, e insieme s’andavano affaticando e pativano.

Non da meno erano i vigorosi cavalli. Alcuni erano raffigurati a terra, altri mentre inciampavano durante la corsa; molti feriti e battuti, sul punto di esalare l’ultimo prezioso respiro; con tracotanza i piedi infierivano, furibondi e sfrenati, sugli inermi corpi atterrati. E ancora i Giganti, gettate le armi, si avvinghiavano fortemente l’un l’altro; taluni venivano trasportati negli Inferi a piedi legati, altri erano schiacciati sotto cataste di corpi, alcuni, prostrati al suolo, combattevano atterrati, riparandosi con la parma [scudo piccolo e rotondo]; molti con i cinturoni ai fianchi, con i baltei per i gladii, con antiche spade persiane e svariate armi per il duello mortale. La maggior parte combatteva disordinatamente al modo della fanteria, con giavellotti e clipei [scudi rotondi della fanteria romana]; taluni si fronteggiavano, indossando le loriche e gli elmi variamente decorati, ancora altri nudi si gettavano nella mischia con indicibile coraggio, pronti alla morte. Un gruppo aveva le corazze insignite di molteplici e valorosissimi distintivi militari; molti erano mirabilmente effigiati nell’atto di gridare, alcuni in atteggiamento ostinato e furioso. Con forme pari alla natura si rappresentava l’agonia di quanti erano in punto di morte e di quanti erano deceduti a causa delle numerose e letali macchine belliche dei nemici. Le robuste membra, i muscoli prominenti si mostravano, offrendo alla vista il nocumento delle ossa e le cavità dalle quali si estendevano i resistenti tendini. Questi scontri, questi duelli apparivano a tal punto violenti e sanguinosi che avresti creduto il cruento e invincibile Marte stesse combattendo contro Porfirione e Alcioneo, facendo tornare alla mente quando fuggirono spaventati dal raglio dell’asino. Nell’intera Gigantomachia ogni immagine superava le naturali proporzioni; la scultura di luminosissimo e nitido marmo del rilievo e il piano mediano di pietra nerissima, raffinato e gradevole contrapposto alla bianca pietra, sul quale insisteva l’opera statuaria, aggettavano perfettamente.

Qui dunque c’erano immensi e giganteschi corpi, mentre tentavano gli ultimi sforzi e movimenti per un’improbabile vittoria, ancora indossando la corazza o, diversamente, ormai in punto di morte. Oimè l’animo fiaccato, l’intelletto smarrito a causa di una così ingente ininterrotta varietà, i sensi sconquassati non soltanto non sostengono adeguatamente tutta la narrazione, ma nemmeno sono atti ad esprimere con interezza una parte di tanto levigato rilievo marmoreo. E da dove scaturì tanta audacia, tanta insistita determinazione ad accumulare e a congiungere pietre in tanto ammasso, culmine, fastigio? Con quali mezzi? Con quali portatori? E carri? E quali Rutuli cavarono tanta vastità di materiali? E sopra quale terrapieno furono allettati e giunti l’un l’altro? E sopra quale sostruzione cementizia? E cosa dire della straordinaria immensità dell’altissimo Obelisco e dell’imponente Piramide, che nemmeno il più vanesio Dinocrate mai propose ad Alessandro

b III


mentre progettava avendo a modello l’altissimo Monte Athos?

Perciò questa immensa struttura supera senza dubbio alcuno l’ardita inventiva egizia, gli straordinari labirinti; tace Lemno, si ammutoliscono i teatri, si oltrepassa il significato di mausoleo, perché si certo questa fabbrica non era nota a colui che descrisse le sette meraviglie del mondo. Né si ritrova qualcosa di simile in alcun secolo, sguardo, progetto, riducendo al silenzio anche la mirabile tomba di Nino.

In ultimo mi domandavo pensosamente quanto contrapposto e gravoso peso potessero sostenere e sopportare i fornici, quali pilastri esagoni o tetragoni e quale numero di colonne, saldamente collocate sullo stilobate, fosse in grado di sorreggere un carico tanto ingente e pesante. Di conseguenza conclusi ragionevolmente che al di sotto ci fosse la parte solida e compatta del restante monte o che fosse stata realizzata una sostruzione coesa di malta cementizia, ghiaia e scaglie di pietrisco. Spinto da tanta curiosità, ripresi la mia investigazione attraversando l’ampia porta, che all’interno era una concavità densa d’ombra. Questa porta, insieme all’ammirevole superba fabbrica, entrambe degne di eterna memoria, era mirabilmente costruita nel modo che compiutamente sarà descritto in seguito.


POLIFILO, DOPO AVER ILLUSTRATO PARTE DELL’IMMENSA STRUTTURA E L’ALTISSIMA PIRAMIDE, CON LO STRAORDINARIO OBELISCO, NEL CAPITOLO SEGUENTE DESCRIVE GRANDI E MERAVIGLIOSE OPERE, PARTICOLARMENTE UN CAVALLO, UN COLOSSO A TERRA GIACENTE, UN ELEFANTE E SOPRATTUTTO UN’ELEGANTISSIMA PORTA.




Il labirintico viluppo della narrazione onirica di Polifilo – Francesco Colonna offre al lettore un ricco e variegato itinerario fatto di citazioni antiquarie monumentali, di rimandi allegorici sostanziati sull’antico, valore assoluto e paradigma di perfezione 1 ,come si evince dalla prefazione: «Lector si tu desideri intendere brevemente quello che in quest’opera se contiene, sapi che Poliphilo narra havere in somno visto mirande cose, la quale opera ello per vocabulo graeco la chiama pugna d’amor in somno. Ove lui finge havere visto molte cose antiquarie digne di memoria, et tutto quello lui dice havere visto di puncto in puncto et per proprii vocabuli ello descrive cum elegante stilo, Pyramide, Obelisci, Ruine maxime di edificii. 2 »

L’Hypnerotomachia Poliphili diventa così anche la redazione di un Itinerario di viaggio, sia pure un viaggio con riverberi danteschi, benché nella dimensione del sogno, intesa quale variante, nell’ambito retorico di tradizione classica, medievale e umanistica, dell’orazione epidittica, composta secondo i dettami di un genere celebrativo basato sulla descrizione e, in un momento immediatamente successivo, sulla riflessione: il tutto connotato da evidenti finalità didattiche 3 . In questa declinazione, il sogno si coniuga alla visio, pervenendo ad una prospettiva escatologica velata da evidenti riverberi mistici, nella quale la descrizione dei paesaggi e delle architetture, propedeutica alla meditazione, procede e trae legittimazione da un pregresso canonico, il Somnium Scipionis di Cicerone, fondato sul τόποσ della geografia. Frammento del VI Libro di De Republica, il solenne e arcaizzante trattato politico-filosofico ciceroniano termina proprio con una visione onirica nella quale appare il mondo visto dall’alto, secondo modalità che rammentano le vedute a volo d’uccello della chorographia, la carta territoriale 4 .

I luoghi sono presentati da lontano, in un percorso di evocazione mnemonica a fini meditativi 5 ; nelle descrizioni, connotate da frequenti εκφράσεισ sentimenti e pensieri si proiettano così attraverso rimandi precisi e puntuali a luoghi e paesaggi, componendo delle vere e proprie mappe mentali, che mettono in risalto determinati elementi dell’ambiente, soggettivamente percepiti,vale a dire loci mnemonici 6 . La descriptio, nell’economia narrativa del Polifilo, non si risolve nel contemplare un luogo naturale, un monumento o un’opera d’arte come un puro atto visivo, rischiosamente autoreferenziale, ma intercetta il suo significato più profondo nel saper trasformare l’immagine sensibile in processo conoscitivo e in esperienza etica, attingendo a modelli linguistici e retorici che costituiscono una vera e propria topica, un repertorio informativo e formativo da trasmettere per educare le nuove generazioni, fatto precipuamente di prudentia, scentia, virtus e mores.

L’occorrenza di verbi ricadenti nell’area semantica del vedere e ricordare, tra loro in costante rapporto chiastico, dichiarano in tutta evidenza la finalità didattica della visione, funzionale allo strutturarsi di un saldo orizzonte epistemologico e all’individuazione di modelli comportamentali. Il contesto monumentale diventa metafora comunicativa e la sua ricezione risponde alla necessità di farne veicolo per acquisire una più salda identità personale e collettiva e le immagini, in ragione della loro carica emotiva, si imprimono nella mente del lettore, trasmettendo la flagrante presenza di un mondo antico e del suo sapere, dacché la visione della «structura antiquaria » e delle testimonianze antiche, cariche di memorie straordinarie, sono infatti intese quali veicoli di un sapere ermetico che affonda le sue radici in un remoto passato 7 .

Le proposizioni principali sono frequentemente collegate dal polisindeto; un escamotage attraverso il quale le cadenze della narrazione sembrano seguire il ritmo del viaggio, fatto anche di allontanamenti dalla meta che servono però a familiarizzare meglio con l’ambiente circostante. Allora spazio fisico, contesto paesaggistico (rievocato con dovizia enciclopedica di sapore alessandrino), itinerario architettonico si caricano di significati diversi, spesso marcatamente simbolici, laddove lo studio dei monumenti e delle testimonianze della romanità diventano il tramite di un progressivo riappropriarsi del mondo antico che non è astratto referente, ma viene intimamente sentito. E’ il caso dello «iocundissimo Palmeto », con tutti i suoi interrelati rimandi iconologici,compiutamente indagati da Maurizio Calvesi e, in tempi più recenti, da Alessia Ferraro 8 .

Polifilo, dopo aver affrontato varie e drammatiche traversie – l’attraversamento di un’intricata, labirintica, oscura selva (eco dantesca a rimarcare le affinità con la Commedia e pendant del groviglio di cunicoli dell’antica Praeneste sotterranea) 9 , l’improvviso ingrossarsi di un torrente che diventa un fiume impetuoso, in un artificio retorico impregnato di sublime veterotestamentario 10 , come pure l’inutile inseguimento di un dolcissimo ma inquietante canto, l’apparizione di un famelico lupo, crocevia di riverberi mitologici e letterari 11 – giunge in un «delectabile sito ». Le osservazioni naturalistiche riportano per essenze arboree e floreali, nonché per ambito paesaggistico alla Campagna romana, al Latium Vetus ove le consolari Appia e Prenestina disegnano un ideale triangolo all’interno del quale la Via Labicana, la Via Casilina e la Via Tuscolana indicano ulteriori percorsi in un’area dalla morfologia particolarissima e dall’orografia spiccatamente eterogenea, che, molto recente sotto il profilo geologico, si traduce in un'ampia varietà di rocce. Qui, verso l’interno, i Monti Prenestini, di natura calcarea, e le colline a questi limitrofe, caratterizzate dalla morfologia terrazzata, cingono uno spazio fertile e lussureggiante, connotato da un’enciclopedica rassegna di essenze arboree, quali lecci, platani, querce, noci, pini e cipressi, mentre, nell’area tuscolana, il Vulcano Laziale, conosciuto anche come Tuscolano – Artemisio, e i Colli Albani, sempre di origine vulcanica, guidano lo sguardo verso il mare; nel fondo valle e sui terrazzamenti le coltivazioni a vite si alternano agli uliveti.

La prospettiva si dilata verso la linea dell’orizzonte, tra catene montuose da un lato e il litorale dalla parte opposta, in un rapido susseguirsi di zone boschive e pianori tufacei, valli e pianure coltivate, ambienti segnati da ampie varietà litologiche, laghi di derivazione vulcanica 12 .

In questa cornice unica, scelta come sede privilegiata di villae otium, nella quale armonicamente la storia si intreccia da sempre al paesaggio, Praeneste sul Monte Ginestro, legata alla devozione a Fortuna Primigenia, assieme Tusculum, luogo ciceroniano per antonomasia, nei pressi di Monte Cavo, e sede di una delle ville del Retore romano, cornice delle cinque dispute di filosofia morale discusse nelle Tuscolanae Disputationes, domina fisicamente e culturalmente lo spazio che fu dei prisci Latini, proprio in ragione del loro passato e della peculiarità ambientale, derivata in primis, come si è già detto, dall’origine vulcanica di un'area formatasi a ridosso dei rilievi calcarei.

Agli occhi di Polifilo, in una cornice paesaggistica di evidente suggestione, si mostra in lontananza una grande fabbrica in marmo Pario; sul fronte di facciata di questo tempio si apre una porta e sulla destra si intravvede una scala; si scorgono un colonnato, frammenti di colonne sulla piazza antistante alla piazza e ad altri lacerti in marmi vari, considerati con grande attenzione. 13 Sulla parte intermedia dell’edificio insiste un alto basamento, sul quale si imposta una monumentale Piramide, che consta di 1410 gradini ed è ornata da una vivida Gigantomachia; al suo interno la Piramide, che rimanda ai terrazzamenti e alla cavea del Santuario di Fortuna 14 , presenta una scala coclide 15 , alla quale si accede attraverso un corridoio preceduto da una porta in forma di bocca spalancata di Medusa 16 . Al culmine della piramide troneggia un immenso Obelisco sostenuto da un plinto in forma di bronzee zampe di arpia; in prossimità del pyramidion si erge una macchina aerea che reca l’effigie di Fortuna, conforme all’iconografia tradizionale. 17 La pregevole xilografia riproduce con dovizia i particolari della narrazione, consentendo i confronti incrociati con il Santuario di Fortuna a Praeneste.

Il brano è intessuto di osservazioni ricche di rimandi significativi, tanto per pregnanza simbolica quanto per aderenza al contesto prenestino. Allorché il tintinnio della macchina aerea di Fortuna è confrontato al rumore percepibile nell’Erario di Roma, non si può non ricordare che nel Foro intramuraneo di Praeneste, laddove si trovavano il monumento a Verrio Flacco, il cosiddetto Antro delle Sorti e l’Aula absidata, allora pavimentata con il celeberrimo Mosaico Nilotico, era collocato anche l’Erario pubblico. 18 Così come l’Obelisco, pregno di molteplici significati, riconduce ad un tratto precipuo della cultura dell’antica Praeneste, nella quale, all’interno del complesso ed interrelato quadro del sincretismo artistico – religioso, esercita un ruolo portante la cultura egizia. Di recente nel Museo locale sono stati collocati due frammenti (uno di cm. 65,5 di altezza per cm. 39,5 di larghezza, l’altro di cm. 44 per cm. 35, già conservati nei Magazzini del Museo) dell’Obelisco in granito rosso di Assuan (e di marmo tebaico è l’obelisco descritto da Polifilo) rinvenuto nel 1881 durante gli scavi nell’area del Foro intramuraneo, nei pressi dell’Aula Absidata. Si tratta di due frammenti che vanno collegati alle altre quattro parti, tutte contornate da una bordura a doppia linea, riportate alla luce nel 1791 sempre a Praeneste, in un luogo però imprecisato, dapprima confluite nella Collezione Borgia di Velletri, quindi, restaurate e ricomposte unitariamente, al Museo Archeologico di Napoli, dopo essere state acquistate da Ferdinando IV per la sezione egizia del Real Museo Borbonico, inaugurata nel 1821. L’Obelisco è dedicato da un Titus Sextus Africanus della tribù Vuturia, per la cui identificazione varie sono le ipotesi: forse un legato di Cesare, un Frater Arvalis al tempo di Claudio o, ancora, un console suffeto al tempo di Nerone o un altro all’epoca di Traiano. 19

La presenza egizia assume così un valore emblematico, come si evince anche nella statua colossale in marmo bigio, il marmo egizio per eccellenza, e marmo bianco per le parti nude e per il volto, di Isityche, Iside–Fortuna, realizzata alla fine del II secolo a. C. presumibilmente in ambiente rodio, un tempo collocata tra il cosiddetto Antro delle Sorti e l’Aula Absidata, oggi conservata nella Sala I del Museo Archeologico Prenestino.

L’Obelisco del Foro intramuraneo, la statua di Isityche, segno tangibile dell’identificazione tra Isis egizia e Fortuna Primigenia che procede già dal II secolo a. C., sottolineano il precoce sincretismo che accosta i due mondi culturali, ai quali rimanda la sostanza stessa del Polifilo, non certo alieno al sentire della Prisca Theologia intrisa di immagini considerate alla stregua di geroglifici, arcana mysteria, pregne di sapienza antica e gravide di sviluppi futuri. 20








NOTE

1 «Un esempio a sé dell’interesse sempre crescente che nel XV secolo cominciarono a destare le rovine di Roma è costituito dall’ Hypnerotomachia Polyphili di Francesco Colonna.[…] » R. Gnoli, Marmora romana, Roma, Edizione dell’ Elefante, 1988, pp.76-77

2 F. Colonna, Hypnerotomachia Poliphili. Edizione critica e commento a cura di G. Pozzi e L. A. Ciapponi, Padova, Antenore, 1980, 2 voll.; per gli aggiornamenti sulla storia degli studi cfr. S. Colonna, Hypnerotomachia Poliphili e Roma. Metodologie euristiche per lo studio del Rinascimento, Gangemi, Roma, 2012.

3 «Come infatti vedete, l’importanza del risultato tipologico e architettonico del Palazzo di Palestrina costruito nel suo assetto attuale sotto Francesco Colonna, è strettamente conseguente al nuovo spirito, di rispetto e quasi di simbiosi, con cui l’architetto si pone in relazione con l’antico Santuario. […] Ciò torna perfettamente con la poetica dell’Hypnerotomachia, il cui autore si rivela appassionato di antichità e pervaso da un profondo e sacrale rispetto per essa; e non solo, giacché egli si dimostra anche un esperto di architettura, di cui ha una concezione personale e, come dire, attiva, produttiva. » M. Calvesi, Il sogno di Polifilo prenestino, Roma, Officina, 1980,p.62. Sul tema, sia pure con accenti diversi, cfr. E. A. Arslan, Francesco Colonna e la memoria materiale dell’antico,”Quaderni ticinesi di numismatica e antichità classiche”, XXVIII, Lugano 1999, pp.357-380.

4 Tra le opere di Cicerone andate perdute va ricordato anche un trattato di argomento geografico, intitolato proprio Chorographia; si veda L. Perelli, Il pensiero politico di Cicerone. Tra filosofia greca e ideologia aristocratica romana, Firenze, La Nuova Italia, 1990.

5 E. La Rocca, La chorographia in Lo spazio negato. La pittura di paesaggio nella cultura artistica greca e romana, Milano, Electa, 2008, pp.17-27.

6 Si veda a tal proposito l’interessante contributo di P. Rossi, Geografia della percezione: la mappa dell’Italia nella poesia di Orazio in F. Coarelli, A. Corcella, P. Rossi, Un angolo di mondo, Osanna, Venosa 1993, pp.57-76

7 A. Ferraro, Polifilo tra le rovine di Roma: Il mito di Roma, ISSN 1127-4883 BTA – Bollettino Telematico dell'Arte,16Luglio2014,n.721http://www.bta.it/txt/a0/07/bta00721.html

8«Uscito dalla selva, Polifilo si trova tra dolci colline ed incontra un palmeto. Da lì avvista un tempio in lontananza. Una delle poche zone d’Italia in cui nasce la palma spontanea è proprio questa. La zona collinosa dovrebb’essere quella di Velletri, da cui Palestrina è ormai visibile.[…]Proprio in questo felice punto di osservazione abbondano i palmizi, raggruppati spesso in piccoli palmeti. »,p.115 in M. Calvesi, Seconda parte. Il tempio della Fortuna. XVIII. Riscontro con Preneste:la selva, la collocazione dell’ edificio tra le montagne, la gradinata e l’obelisco in op.cit., pp.113-126

9 «Di un’altra notizia spettante a Palestrina siamo debitori a Strabone, cioè che ella era traforata da vie sotterranee, e da cunicoli formati per trasportare le acque nascenti nella nostra campagna[…] » p.51 in P. Petrini, Memorie prenestine disposte in forma di annali, Roma, Stamperia Pagliarini, 1795

10 G. Lombardo, F. Finocchiaro, Sublime antico e moderno: una bibliografia, Palermo, Centro di studi di Estetica,Aesthetica-pre-print,vol.38,1993

11 A. Henkel – A. Schone, Emblemata : Handbuch zur Sinnbildkunst des XVI und XVII Jahrhunderts, Stuttgart, J.B.Metzler,1976

12 D. de Rita, La ‘meraviglia’ del Vulcano laziale tra scienza e conoscenza in I. Salvagni, M. Fratarcangeli (a cura di) Oltre Roma. Nei Colli Albani e Prenestini al tempo del Grand Tour, Roma, De Luca Editori d’Arte, 2012, pp.64-71

13 F. Corsi, Delle pietre antiche di Faustino Corsi romano, a cura di C. Napoleone, Milano, Franco Maria Ricci,2001

14 Sul tema: O.Marucchi,Guida archeologica della città di Palestrina, Roma, Tipografia della pace di Filippo Cuggiani, 1932; F. Fasolo, G. Gullini,Il santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina, Roma, Università di Roma, 1953; L. Quilici,L’impianto urbanistico della città bassa di Palestrina, in “Roma”, LXXXVII, 1980, pp.177-214; AA. VV., Urbanistica e architettura dell’antica Praeneste, Atti del Convegno di Studi archeologici 1988, Palestrina 1989

15 La Colonna di Traiano,inaugurata nell’omonimo Foro nel 113 d.C., presenta una scala coclide interna che dal podio porta alla sommità: R. Bianchi Bandinelli, Il Maestro delle imprese di Traiano, Milano, Mondadori Electa, 2003

16 Alla porta in forma di bocca spalancata di Medusa si accostano due esempi di età successiva, rispettivamente l’ingresso in forma di orco dalle fauci aperte nel Parco dei Mostri di Bomarzo e l’entrata in Palazzetto Zuccari a Roma. Il Parco dei Mostri di Bomarzo (Viterbo), progettato nel 1552 da Pirro Ligorio su commissione del principe Pier Francesco Vicino Orsini, che si rivolge ai visitatori del particolarissimo labirinto di simboli chiosando « Voi che pel mondo gite errando vaghi di veder meraviglie alte et stupende venite qua, dove son facce horrende, elefanti, leoni, orchi et draghi.  » Tra il Drago assalito dai cani, l’Elefante da guerra, il Cavallo alato, il Gigante, lo Stregone, Nettuno, la Casetta disassata preceduta da un piccolo ponte, si incontra un inquietante Orco con la bocca spalancata, accompagnato dalla scritta «Lasciate ogni pensiero voi ch’entrate », immette in un antro con sedile e tavolo. Cfr. J. Shearman, Mannerism, Harmondsworth, Penguin Books,1967, (edizione italiana Manierismo, Firenze, SPES, 1983, p.119); M. Calvesi, Gli incantesimi di Bomarzo. Il Sacro Bosco tra arte e letteratura, Milano, Bompiani, 2000. Il Palazzetto Zuccari in Roma, costruito da Federico Zuccari nel 1590 tra la Via Sistina e la Via Gregoriana (oggi sede della Biblioteca Hertziana), si ispira al Bosco di Bomarzo per le cornici dei tre mascheroni dell’ingresso e delle finestre esterne su Via Gregoriana; a tal proposito si veda. B. Cleri (a cura di), Federico Zuccari, le idee, gli scritti, Atti del Convegno di studi Sant' Angelo in Vado, 28-30 ottobre 1994, Milano 1997, pp.125-134.

17 V. Cartari, Le immagini degli dèi, a cura di C. Volpi, Roma, De Luca, 1996. Sulle statue di Fortuna Primigenia (forme, materiali, tecniche e modalità operative) oggi al Museo Archeologico Nazionale di Palestrina si veda N. Agnoli, S. Gatti ,Soprintendenza Archeologica per il Lazio, Palestrina. Il Museo Archeologico Nazionale, Milano, Electa,1999

18 S. Pittaccio, Il Foro intramuraneo a Praeneste. Origini e trasformazioni, Roma, Editrice Dedalo, Roma 2001

19 E. V. Bove, Obelisco di Palestrina in E. Lo Sardo (a cura di), La Lupa e la Sfinge. Roma e l’ Egitto dalla storia al mito, Milano, Electa, 2008, pp.88-91

20 Sul tema offrono un’esaustiva trattazione i contributi di G. Cipriani, Gli obelischi egizi. Politica e cultura nella Roma barocca, Firenze, Olschki – Accademia La Colombaria, 1993 e D. Stolzenberg, Egyptian Oedipus: Athanasius Kircher and the secret of antiquity, Chicago The University of
Chicago Press, 2013








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