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Fenomenologia del Barocco leccese. Un delicato compromesso fra Controriforma e Riforma cattolica  

Francesco Del Sole
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 25 Luglio 2021, n. 916
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Articolo presentato il 19 Luglio 2021, approvato il 20 Luglio 2021 e pubblicato il 25 Luglio 2021
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È opinione diffusa che il “Barocco leccese” sia il frutto del raccoglimento della società salentina attorno ai valori edificanti della propria terra, descritta nelle fonti come un territorio «dal quale si cava, e grano, e vino, e olio, e mandorle, e limoni, e aranci, e altri frutti in molta copia», 1 che gode del «benefizio dell’aria», posto «sotto cielo benigno». 2

Come ogni periferia, Lecce è stata spesso associata allo stigma del ritardo nei confronti dei centri egemoni. Di conseguenza, è stata proposta la definizione di “architettura controriformata” per indicare quei modelli della chiesa post-tridentina introdotti nel Cinquecento dagli ordini regolari ai quali la cultura locale fa resistenza. 3

In questa sede, sulla via aperta dai più recenti studi sull’argomento, si intende porre l’accento su una diversa prospettiva da cui guardare il Barocco leccese, inteso come fenomeno inclusivo, nato non per opporsi a un modello dominante ma per elaborarlo selettivamente. 4 In una prima fase controriformata, la carica dirompente del nuovo viene accolta “con riserva”, esasperando al contempo alcune modalità della tradizione locale. In una seconda fase, la soluzione del contrasto fra i modelli della Controriforma e le resistenze tradizionaliste si deve al vescovo Luigi Pappacoda, che farà di Lecce una vera e propria città della Riforma cattolica.


  1. Tensione ed equilibrio: la scelta di un modello

La storiografia si interroga ancora sulle ripercussioni avute in tutto il mondo cattolico dopo l’affissione delle tesi luterane a Wittenberg nel 1517, un fenomeno definito, congiuntamente, con i termini di Controriforma e Riforma cattolica. Da un lato, evidente è l’impeto “reazionario” della Chiesa che affronta in campo aperto gli eretici protestanti; tutta interiore è invece la ferita che si apre in seno alle istituzioni ecclesiastiche, consapevoli della necessità di un profondo rinnovamento dell’ideale di vita cattolica. Il lungo e appassionato dibattito ha proposto, più che una opposizione, una vera e propria compresenza dei due termini, 5 giungendo alla conclusione che le definizioni di Controriforma e Riforma cattolica focalizzano momenti distinti ma concatenati l’un l’altro, aiutando a identificare una maturazione dottrinale intrinseca al mondo cattolico dopo lo scisma protestante.

La nascente civiltà barocca si nutre della profonda tensione che, nella seconda metà del Cinquecento, viene generata dall’onda controriformata. Il periodo immediatamente successivo al Concilio di Trento è espressione dell’interpretazione più rigida del dibattito riformatore cattolico. La Chiesa viene colpita da una rigorosa “ansia da normazione”, da un’esigenza di dare ordine e di imporre regole chiare alla liturgia e al culto. Sempre più evidente è inoltre la necessità di una ingente opera di rievangelizzazione al fine di dar vita a una nuova compagine sociale depurata e santificata. Si dovrà però aspettare la precoce santificazione di Carlo Borromeo (canonizzato nel 1610, dopo soli 26 anni dalla morte), affinché gli organi ecclesiastici propongano la più efficace manifestazione della spinta rinnovatrice della Controriforma. 6 Carlo Borromeo è elevato a modello universale «d’ornamento alla chiesa trionfante e utile alla militante», 7 capace di esprimere quell’equilibrio tanto ricercato in un momento di grave tensione conciliando rigore e affettuosità. 8 Anche se la perfezione morale del nuovo santo pare riunire sotto un’unica immagine le necessità del mondo post-tridentino, il Borromeo riflette in sé tutte le contraddizioni della sua epoca. Basti pensare alla doppia veste che il santo assume nel corso del tempo. Nel periodo del suo episcopato milanese, Carlo è visto come il vescovo amorevole e zelante che applica i dettami tridentini sfruttando la sua capacità oratoria. 9 Dopo la morte, con lo svolgersi del processo di santificazione, si assiste a un ribollire di metafore e giochi linguistici costruiti ad personam che spazzano via la purezza formale della dottrina carolina ed evidenziano, sopra ogni cosa, la potenza propagandistica della chiesa controriformata.


  1. Le Instructiones di Carlo Borromeo e il binomio vescovo-architetto

È stato il gesuita Achille Gagliardi (1537-1607), in una relazione inviata a Milano nel 1603, a mettere a fuoco l’aspetto riformatore intrinseco all’azione pastorale del Borromeo, definito il Sapiens Architectus. Sulla base degli scritti carolini, il vescovo controriformato deve apparire come un architetto che ordina la Chiesa secondo una ramificata struttura di governo, dove i vescovi sono i cardines e i sacerdoti i voluti nervi. 10 Il Buon Pastore non si deve occupare solo della dottrina ma deve porre attenzione anche allo spazio sacro, che con la sua razionale e ordinata struttura, crea le premesse per l’incontro dell’uomo con Dio. Su questa necessità si fonda il senso profondo dell’idea di architettura di Carlo Borromeo, che si traduce nelle Instructionum Fabricae et Supellectilis ecclesiasticae (1577), l’unico trattato che applica i princìpi tridentini alla disciplina architettonica. 11 Il testo si configura come una gigantesca opera di scomposizione dell’edificio sacro nelle sue parti, scendendo progressivamente di scala. In tale disamina si esprime la meticolosità dell’autore indirizzata verso una revisione della realtà fisica della fabbrica: la visibilità, la gerarchia degli elementi architettonici, le misure e le dimensioni delle parti, l’arredo fino alle prescrizioni più minute. 12 Unica preoccupazione del vescovo-legislatore è quella di ridurre in “norme” i vari aspetti della liturgia, assicurandosi che ogni elemento dello spazio sacro non vada a intralciare lo svolgimento del rito cristiano.

Nella crisi religiosa apertasi in seguito allo scisma protestante, San Carlo propone una nuova forma di devozione fatta di un continuo rinnovamento di fede, alla ricerca di un equilibrio fra ragione e sentimento. Lo stesso bilanciamento si riflette in quel rapporto fra vescovo e architetto da cui maturano le principali “istruzioni” per la costruzione dello spazio sacro. Al primo è richiesto di tenere ben presenti le finalità spirituali dell’edificio, che non vanno obliterate in nome della “ricerca formale”; 13 al secondo spetta il compito di creare nuove soluzioni architettoniche, favorendo una continua renovatio in cui l’unica “unità di misura” da prendere in considerazione è il fedele nella sua condizione di fruitore. 14


«Dobbiamo necessariamente e continuamente vegliare sulla salute del nostro gregge […] e soccorrerlo con ogni mezzo suggerito dalla sollecitudine paterna. […]. Come riteniamo necessario fruire del consiglio di esperti architetti, così proponiamo di imitare l’antica pietà e religione dei fedeli.» 15


Al giudizio del vescovo deve seguire il parere dell’architetto. Questo dualismo ritorna in maniera costante in tutti i capitoli delle Instructiones, dove il vescovo conclude la trattazione affidandosi «al di lui parere». 16 L’architetto non appare dunque come un mero esecutore tecnico ma come una professionalità riconosciuta. 17 Egli condivide col vescovo le scelte più idonee per fare in modo che la fabbrica sacra risulti non solo un luogo da esperire esteticamente ma un vero e proprio «vivere creativo […] che sappia far fruttificare i talenti umani, di cui alla parabola evangelica». 18 La compresenza delle due figure garantisce la possibilità di trovare soluzioni adatte agli «infiniti modi in cui si manifesta la fragilità dell’uomo, per sorreggerlo e accompagnarlo con carità cristiana nel percorso di fede». 19

Il dibattito storiografico sull’intransigenza delle disposizioni post-tridentine ha influenzato anche la modalità con cui le Instructiones sono state analizzate nel corso del tempo. 20 Lo scostamento dell’opera dai tradizionali trattati di architettura cinquecenteschi (sia nella struttura testuale che nel modo d’intendere la disciplina) ha fatto sì che il testo venisse considerato un semplice manuale della Controriforma, con precetti pratici da seguire rigidamente. 21 Al contrario, le Instructiones vanno lette come linee guida della Riforma cattolica sperimentate con successo nella diocesi milanese e proposte come modello, favorendo tacitamente grande libertà di azione proprio a partire dalle norme esposte nel trattato. 22 In più occasioni il Borromeo evidenzia quanto sia fondamentale valorizzare le consuetudini e le tradizioni locali che, se non appaiono in contrasto coi dettami della Chiesa, sono una garanzia di una continuità che rassicura il fedele. In fondo, la scelta di fare del vescovo milanese il simbolo della pastoralità tridentina è legata anche all’importanza assegnata, nei suoi scritti, alle chiese particolari, ossia a ogni chiesa locale che «verrà a servire l’universale coll’esempio delle sue attioni». 23 Il carattere inclusivo delle “Istruzioni” caroline (ben lontano dalla rigidità con cui solitamente sono intesi gli scritti tridentini) ha permesso all’opera di diffondersi capillarmente al di fuori del contesto milanese, soprattutto in quel Meridione che vive il picco della sua stagione controriformata nel corso del Seicento. 24






  1. Lecce, città della Controriforma

L’identità di Lecce è strettamente legata alla sua ubicazione periferica che ha fatto del capoluogo di Terra d’Otranto una città-cerniera fra Oriente e Occidente, nodo di scambio economico e culturale con le popolazioni mediterranee. 25 Fin dalle sue origini, Lecce è nata su un profondo senso di “sdoppiamento”. Le vicende dei due siti di Lupiae e Rudiae esprimono molto bene l’identità composita e “divisa” del territorio. 26 Lo stesso emblema civico è il risultato della fusione della lupa con il leccio (vedi il capitolo 1 di Marcello Fagiolo in CAZZATO, FAGIOLO 2013). Descritta da Vincenzo Cazzato a forma di “nave” sentinella fra due mari, lo Ionio e l’Adriatico, Lecce ha vissuto la rivalità con Brindisi per imporsi quale «punto d’arrivo di un sistema rassicurante di relazioni, centrato sull’Urbe; resistendo, così, ad una propria insopportabile identità indeterminata». 27 È proprio il perdurare nel tempo di questa oscillante duplicità culturale che ha fatto della città il terreno perfetto per la costruzione, nel XVI secolo, di una ideale città sacra.

Le vicende costruttive che animano la Lecce cinquecentesca sono il perfetto rispecchiamento di quel processo di assestamento della Chiesa post-tridentina che affronta, subito dopo lo scisma luterano, la stagione della Controriforma. L’accesa devozionalità che dà vita alla stagione barocca fiorisce a seguito di una duplice vittoria. Da un lato il Concilio di Trento (1563) aveva cercato di dare risposte a quella crisi generata dallo scisma protestante; dall’altro la battaglia di Lepanto contro i Turchi (1570) aveva permesso al mondo cristiano di ottenere una significativa vittoria contro l’infedele: due occasioni di grande slancio per la città salentina che, durante la stagione del dominio turco sui mari, si era andata progressivamente isolando consapevole di aver perso ogni alternativa di gravitazione territoriale. 28 La sensazione che i nemici fossero stati allontanati innesca nella società un fervore costruttivo (materiale e spirituale) di cui si cibano le compagini religiose post-tridentine.

Gli ordini regolari che maggiormente incidono sulla trama urbana sono i Teatini e i Gesuiti, che si insediano a Lecce rispettivamente nel 1574 e nel 1586. Giunti con l’obiettivo di diffondere sul territorio la rinnovata dottrina, si incrociano con altre presenze ben più radicate sul territorio, come i Celestini. Questa tensione (che è poi la linfa del dibattito controriformato) si percepisce in quegli anni nei cantieri del Gesù (1575-77) e di S. Croce (la prima fase dal 1549 al 1582). 29 La chiesa dei Gesuiti, firmata dal De Rosis, presenta in facciata tutto quel pedagogico irrigidimento di un’architettura che ha carattere enunciativo, con poche concessioni al coinvolgimento emotivo. La veste architettonica si adegua ad un autorevole stereotipo, realizzato nelle «centrali di elaborazione ortodossa dell’ordine: Roma e Napoli». 30 I Celestini, al contrario, impostano il cantiere di S. Croce dando peso alla tradizione locale, fatta di una figuratività rigogliosa e seducente a rappresentare il trionfo fiammeggiante della fede. Questo contrasto fra i due edifici si rispecchia nel contrasto “intrinseco” alla chiesa di S. Irene, costruita dai Teatini a partire dal 1591. 31 Come nella chiesa del Gesù, il progetto è di un “forestiero”, Francesco Grimaldi, il massimo architetto dell’Ordine che verrà poi chiamato a dirigere i lavori romani di S. Andrea della Valle. Avverrà quindi che tutto il rigoroso impianto grimaldiano sarà eseguito di fatto da maestranze locali. 32 Per dirla con Manieri Elia, «ai caratteri denotativi dell’opera ha pensato con ortodossia religiosa il maestro di cultura napoletana; quelli ‘connotativi’ invece sono rimasti saldamente nelle mani laiche delle maestranze locali». 33

Da queste esperienze della seconda metà del Cinquecento, appare chiaro quanto l’architettura esprima il profondo senso di sdoppiamento dell’identità culturale della città controriformata, in preda alla contrapposizione fra rigore della norma e resistenza ad esso. Questo periodo, sovente identificato come Protobarocco, è di grande importanza poiché costituisce il tentativo di un compromesso fra le due esigenze. Il linguaggio di architetti come Francesco Antonio Zimbalo (che proprio in quegli anni lavora nei cantieri di S. Irene e S. Croce) sarà fondamentale per stimolare fondamentali congiunture che sono alla base della seicentesca esplosione barocca.


  1. Lecce, città della Riforma cattolica

La disciplina architettonica delineata nelle Instructiones, che propone un continuo intrecciarsi fra vescovo e architetto, fra dottrina dell’anima ed edificio costruito, è il filo conduttore che guida Luigi Pappacoda nelle operazioni di “edificazione” morale e materiale della sua Lecce barocca. Il vescovo fa il suo ingresso trionfale in città nel 1639, inviato da Urbano VIII per concludere l’opera di tridentinizzazione del territorio, portando con sé tutto il bagaglio di aspirazioni della Riforma cattolica che impone agli uomini di chiesa di «vigilare e faticare in tutto con zelo apostolico» perché «la irreligiosità è una malattia del cuore prima d’essere una malattia del cervello». 34 Al suo arrivo, molti erano i problemi lasciati in eredità dall’episcopato di Scipione Spina; fra tutti, il più urgente, la crescente presenza nella società del clero regolare (Teatini, Gesuiti, Olivetani, Celestini, Domenicani, Agostiniani). Di fronte al protagonismo degli ordini religiosi, la tridentinizzazione pappacodiana si configura come un vero e proprio restauro della funzione episcopale, messo in atto sfruttando lo sventato pericolo dell’epidemia di peste che colpisce il Regno di Napoli nel 1656. 35

La sua prassi pastorale è tutta impostata sugli insegnamenti carolini. 36 Giocando sul binomio amore-timore, il Pappacoda intende aiutare il popolo a raggiungere il giusto equilibrio di fede conciliando devozione sincera e rigore del culto. La stessa alchimia si riflette in quel rapporto fra vescovo e architetto che è alla base della rifondazione urbana di Lecce, scenografico mezzo di propaganda politica (Fig. 01).

Fig. 1 - Veduta aerea della piazza del Duomo, Lecce. Foto: P. Bolognini. Cortesia di Francesco Del Sole
Fig. 1 - Veduta aerea della piazza del Duomo, Lecce
Foto: P. Bolognini. Cortesia di Francesco Del Sole


Profondo infatti è il legame imbastito con Giuseppe Zimbalo, «persona paesana e non straniera»,
37 scelto come architetto di fiducia proprio in quanto erede della vivace tradizione locale che aveva animato le vicende costruttive del secondo Cinquecento. Ed è proprio allo Zingarello che il vescovo affida il progetto della nuova Cattedrale, una “chiesa dalle due facciate”. L’idea è nella mente del Pappacoda fin dal 1655, ma sarà solo nel 1658 che si opterà per una sua completa ricostruzione «poiché [la chiesa] più non bastava ad accogliere le popolazioni». 38


4.1 La fabbrica del Duomo

4.1.1 “Dispositio”: la facciata principale

Basterebbe leggere il paragrafo delle Instructiones dedicato ai “muri esterni” per comprendere quanto, in fase di realizzazione del prospetto principale del Duomo, le norme caroline siano state seguite pressoché alla lettera (Fig. 2).

Fig. 2 - Facciata principale del Duomo, Lecce. Foto: P. Bolognini. Cortesia di Francesco Del Sole
Fig. 2 - Facciata principale del Duomo, Lecce
Foto: P. Bolognini. Cortesia di Francesco Del Sole


Il clipeo col busto del regnante spagnolo Filippo IV posto sopra il finestrone centrale testimonia la natura politica e istituzionale dell’intera facciata.
39 Adiacente al palazzo vescovile, è concepita «in funzione della struttura della chiesa e della grandezza dell’edificio». 40 È suddivisa in due ordini della stessa larghezza conclusi da un timpano e scanditi da quattro paraste scanalate con capitelli zoomorfi. La parte centrale del prospetto corrisponde alla navata principale, mentre le specchiature ai lati, che disegnano scomparti rettangolari arricchiti agli angoli da punte lanceolate, corrispondono alle navate laterali e alle cappelle.

Tenendo fede alla dottrina di San Carlo secondo cui il decorum deve consistere in elementi iconografici e ornamentali, e non struttivi, uniche componenti decorative sono le statue di santi entro nicchie. Le parti architettoniche, infatti, devono «dare un’idea di solidità, più che di decoro». 41

Nel timpano che sormonta il portale è un altorilievo con la Vergine Assunta, a cui la chiesa è dedicata.


«Si provveda affinché sulla facciata di ogni chiesa, in particolar modo se Parrocchiale, al di sopra del portale principale, si dipinga o si scolpisca […] l’effigie del Santo o della Santa a cui è intitolata la chiesa». 42


Le nicchie contengono le statue di San Pietro, San Paolo (ordine inferiore), San Ludovico da Tolosa e San Gennaro (ordine superiore). Le quattro statue dei “grandi padri” sono scelte dallo stesso Pappacoda che fa di questa facciata un monumentum personale, proponendo santi lontani dalla tradizione locale. San Pietro è espressione del fondamento giuridico del suo investimento episcopale nonché missionario che converte le genti e le rafforza nella fede; San Paolo, maestro di San Giusto, conferisce l’episcopato a Oronzo commissionandogli la costruzione della prima Cattedrale leccese. Gli altri due santi, San Ludovico e San Gennaro, appaiono molto più personalizzati, scelti per richiamare il nome del vescovo e le sue origini napoletane.


«Inoltre, le altre sculture o pitture o gli altri ornamenti cospicui o modesti, che rendono maestoso e solenne il frontespizio della chiesa, saranno stabiliti dal vescovo, dopo aver anche consultato l’architetto». 43


4.1.2 “Elocutio”: la facciata laterale

Se il prospetto principale del Duomo è espressione dell’adesione rigorosa alle norme tridentine da parte di un vescovo zelante, la facciata laterale è una deroga alle Instructiones da parte dello stesso Pappacoda che muta, corregge e innova princìpi e corollari del trattato (Figg. 3-5) (sull’argomento vedi FAGIOLO 2013).

Fig. 3 - Veduta in prospettiva della facciata laterale del Duomo, Lecce. Foto: P. Bolognini. Cortesia di Francesco Del Sole
Fig. 3 - Veduta in prospettiva della facciata laterale del Duomo, Lecce
Foto: P. Bolognini. Cortesia di Francesco Del Sole




Fig. 4 - Statua di sant'Oronzo nell'arco
Fig. 4 - Statua di sant'Oronzo nell'arco "traforato" della facciata laterale del Duomo di Lecce
Foto: P. Bolognini. Cortesia di Francesco Del Sole




Fig. 5 - Elaborazione grafica del prospetto laterale del Duomo di Lecce e del palazzo vescovile adiacente alla fabbrica (elaborazione Gabriele Rossi)
Foto cortesia Francesco Del Sole
Fig. 5 - Elaborazione grafica del prospetto laterale del Duomo di Lecce e del palazzo vescovile adiacente alla fabbrica (elaborazione Gabriele Rossi). Foto cortesia Francesco Del Sole


Per questo si affida ancora all’abilità di Giuseppe Zimbalo, il quale fa in modo che «nel conformare la facciata allo stile e alla grandezza della chiesa […] nulla apparisca in essa di profano,
riesca splendida più che è possibile e conveniente alla santità del luogo». 44


«Le porte di aprano sulla facciata della chiesa […]. Sul retro e sui fianchi non si apra nessuna porta […]; Ciò per evitare che possa verificarsi una qualche situazione di ostacolo, irriverenza o disturbo ai sacri ministeri». 45


La scelta di non dare peso alla norma carolina che vieta di aprire altri ingressi oltre quelli della facciata principale fa capire come il Pappacoda applichi le Instructiones vagliandole sulla concreta dimensione della tradizione locale. Il vescovo propone «quelle regole che […] si sono sorte adatte a’ bisogni, ed universalmente necessarie non meno a praticarsi che a sapersi». 46 D’altronde, lo stesso Borromeo aveva dato alle stampe il suo trattato affermando che il vescovo, «secondo il suo discernimento», possa scegliere e stabilire «quali siano le [norme] più necessarie e quelle da attuare per prime […] a seconda delle esigenze delle chiese e dell’opportunità». 47

La facciata laterale è ripartita nella parte inferiore in cinque zone da paraste e colonne scanalate; ai lati del portale sono due nicchie con le statue di San Giusto e di San Fortunato. A separare l’ordine inferiore da quello superiore è una balaustra che alterna colonnine e pilastrini, oltre la quale, al centro, si innalza un vero e proprio arco di trionfo “traforato” con la statua di Sant’Oronzo che vola sulle nubi sovrastata dal leone pappacodiano. Sant’Irene e Santa Venera sono invece in posizione marginale, sulle volute di raccordo. La posizione dei tre nuovi protettori maschili dà vita a un ideale triangolo che rispecchia «l’ordine nuovo del pantheon dei patroni leccesi». 48 Lo stesso sistema gerarchico si ritrova all’interno del Duomo nell’altare dedicato a Sant’Oronzo, frutto della collaborazione fra lo Zimbalo e Giovanni Andrea Larducci (1671-74). Figura centrale è ancora il protovescovo leccese, protagonista della tela di Giovanni Andrea Coppola (1656) ai cui lati sono le nicchie con le statue di Giusto e Fortunato mentre le sante femminili sono relegate in alto; lungo l’asse mediano si dispongono poi la targa epigrafica della municipalità e gli emblemi civici della lupa e del leccio.

Il trionfo di sant’Oronzo è insomma il trionfo del Pappacoda che, attraverso una lucida iniziativa politica, sancisce il consolidamento della Lecce barocca. Se il prospetto principale accoglie “santi forestieri” legati intimamente alla figura del vescovo, la facciata laterale è il tripudio festoso di una chiesa particolare che trova la propria identità stringendosi attorno al santo martire locale.


  1. Conclusioni

In un’iscrizione che ricorda la posa della pietra “fondamentale” che dà l’avvio ai lavori di ricostruzione del Duomo a fundamentis, Luigi Pappacoda è definito Lupiensium Pontifex. Per la sua significativa posizione aggettante in corrispondenza dello spigolo in cui convergono le due facciate, l’iscrizione riflette emblematicamente l’idea che la società leccese aveva del “gran Luigi”, arbitro della città. 49 L’equilibrio politico e devozionale costruito con rigore nel corso degli anni fa dimenticare i contrasti controriformati che animano la Lecce cinquecentesca. Ciò consente al presule di affermare che finalmente, in questa Provincia, «summa quies, summaque securitas florebat». 50

In questo contesto, l’architettura del Duomo è un vero e proprio specchio della politica pappacodiana, tutta incentrata sullo sforzo di conciliare l’edificazione morale dei decreti tridentini con la tradizione locale. I due prospetti si spartiscono i ruoli: da un lato la facciata principale è simbolo dell’affermazione pedagogica e normativa; dall’altro quella secondaria, rivolta verso la città - e pertanto principale sotto l’aspetto urbanistico - è simbolo di un festoso richiamo all’identità tradizionale. L’obiettivo è quello di fare in modo che il fedele si identifichi con la casa di Dio divenendo egli stesso «chiesa di pietre vive». 51 Il Pappacoda, seguendo scrupolosamente le Instructiones, non combatte l’ossimoro che lega ordine e ornamentum ma lo gestisce sapientemente, divenendone l’ago della bilancia. Come suo architetto di fiducia, Giuseppe Zimbalo dimostra infine che l’architettura barocca leccese altro non è che sostanza semantica del compromesso raggiunto nell’epoca pappacodiana. Il principio di questo Barocco di provincia va ritrovato pertanto nel delicato equilibrio raggiunto tra dispositio ed elocutio, tra “ordine” e “ornato”, tra cura dell’anima (di competenza del vescovo) e cura dello spazio sacro (di competenza dell’architetto) che fa di Lecce, in pieno Seicento, una vibrante città della Riforma cattolica.

*Questo saggio è frutto di una ricerca finanziata coi fondi dell’Unione Europea - Fondo Europeo di sviluppo regionale - PON Aim - Ricerca e Innovazione - International and Attraction Mobility (2014-2020).



				

NOTE

1 Raccolta di varie notitie historiche 1675, p. 60.

2 «Se si guarda il benefizio dell’aria, giace talmente sotto cielo benigno, che […] il Sole misura di tempi e Signore dei Pianeti rende i giorni giocondi e con la influenza della celeste virtù, sana, conserva ogni cosa»; SCARDINO 1607.

3 Nel volume di Michele Paone dal titolo Chiese di Lecce (Congedo, 1979), il capitolo sulle “chiese della riforma cattolica” è nettamente diviso dal capitolo sulle “chiese dell’età barocca”, testimoniando la tendenza storiografica a separare, come due fenomeni dalle radici distinte, l’architettura della Controriforma da quella “del periodo barocco”.

4 Nel monumentale studio sul Salento in seno all’Atlante del Barocco in Italia, Vincenzo Cazzato imposta lo studio sul barocco «senza limitazioni aprioristiche, non rinunciando ad individuare i momenti di svolta da quelli di declino». L’obiettivo, in queste ultime ricerche pubblicate, è quello di studiare il fenomeno tenendo presente la sua completa evoluzione, che si estende dal Cinque al Settecento inoltrato. Vedi CAZZATO V., CAZZATO M. 2016

5 Hubert Jedin, nel 1946, ha proposto una innovativa definizione di ‘riforma cattolica’, espressione di più necessità da leggere non come una semplice risposta al protestantesimo ma in continuità con quei tentativi di autoriforma che la Chiesa aveva proposto fin dal Quattrocento. In altri termini, dopo un secolare periodo di incubazione, il problema della riforma giunge a maturare e, con lo scossone generato da Lutero, ad esplodere. Vedi PRODI 1980.

6 Gli altri personaggi tipicamente “controriformati” furono canonizzati almeno un decennio dopo la cerimonia in onore di Carlo Borromeo. Al 1622 risale la santificazione di S. Teresa d’Avila, S. Filippo Neri, S. Ignazio da Loyola e S. Francesco Saverio. Molto più tarda è la canonizzazione di S. Francesco di Sales (1665) e S. Gaetano da Thiene (1671). Su Carlo Borromeo, la sua canonizzazione e l’importanza della sua dottrina nel mondo controriformato si veda almeno: TURCHINI 1984; San Carlo e il suo tempo, Atti del convegno 1986; ZARDIN 2010; FROSIO, ZARDIN 2011.

7 TURCHINI 1984, p. 21.

8 Nelle immagini votive, il Borromeo è rappresentato come un uomo con una finestra in petto «donde si vedea il cuore». Maurizio Fagiolo, già nel 1977, notava come l’immagine del cuore fosse un tema ricorrente e quasi ossessivo, legato alla canonizzazione, «fisicamente presente nella reliquia […], simbolo su tutti gli apparati della perfezione morale del Santo e dell’anima umana»; FAGIOLO, CARANDINI 1977, I, pp. 36-38.

9 Il metodo di lavoro intellettuale del Borromeo, che risente della sua mens iuridica, si fonda sulla perspicuitas, la massima chiarezza ed efficacia comunicativa. Il vescovo milanese, infatti, si è laureato in diritto canonico e civile presso l’Università di Pavia (1552-59) dove si addottorò con Francesco Alciati. Si veda FROSIO, ZARDIN 2011, pp. 165-210.

10 PAREDI 1963. Il riferimento ai vescovi come “cardines” è ripreso dall’omelia del 21 luglio 1583 presso S. Prassede in Milano (vol. II, p. 122); il riferimento ai sacerdoti come “voluti nervi” è ripreso dall’omelia del 3 gennaio 1584 (vol. III, p. 300).

11 In questa sede è stata presa in considerazione la traduzione dell’opera in italiano a cura di S. Della Torre (2000). Fra gli studi più importanti sull’opera sono da segnalare i preziosissimi scritti di Maria Luisa Gatti Perer. Tra gli altri: GATTI PERER 1980; GATTI PERER 1982; GATTI PERER 1986. Si vedano anche ACKERMAN 1986; BENEDETTI 1984, pp. 105-131.

12 Si pensi, a mo’ di esempio, ai paragrafi delle Instructiones dedicati al numero dei gradini necessari per elevare la facciata della chiesa rispetto alla strada o alle righe che descrivono la profondità e la lunghezza dei gradini utili a sollevare l’altar maggiore dalla navata.

13 Il Borromeo, per far fronte a questa esigenza, arrivò a istituire una commissione di soprintendenza alle fabbriche delle chiese dal titolo “de fabrica et reparatione”. Si veda il riferimento in BENEDETTI 1984, nota 11, p. 127.

14 “Sarà perciò conveniente calcolare per ogni persona lo spazio di un quadrato che abbia un cubito e otto once per lato”; BORROMEO 1577, p. 13.

15 Ivi, pp. 398-399.

16 «Laddove, in base al parere dell’architetto, le caratteristiche del sito inducano a preferire una pianta diversa da quella allungata, la chiesa potrà essere realizzata nel modo prescritto dall’architetto stesso, previo giudizio favorevole del vescovo»; Ivi, p. 15. Il passo, ripreso dal paragrafo dedicato alla “Forma della chiesa”, è solo un esempio dei numerosi punti in cui compare l’invito del Borromeo a tenere conto del parere essenziale dell’architetto.

17 Di tutt’altro avviso sono i commenti all’opera inseriti da Paola Barocchi in appendice al suo volume sui Trattati d’arte del Cinquecento. L’autrice imposta l’analisi dell’opera carolina insistendo sul carattere di “sudditanza” dell’architetto al volere del vescovo, prova (secondo la Barocchi) di uno svilimento della professione considerata meramente “tecnica”. Vedi BAROCCHI 1962, vol. III, pp. 3-113.

18 BENEDETTI 1984, p. 113.

19 GATTI PERER 1986, p. 624.

20 Poca attenzione è stata prestata in passato alle ragioni più profonde che legano l’opera al contesto storico e alle esigenze spirituali della Chiesa post-tridentina. Emblematica, a tal proposito, è l’esclusione del testo carolino dalla celebre Letteratura artistica (1924) di Julius von Schlosser. Sarà Antony Blunt, nel 1940, a definire Carlo Borromeo “l’unico autore che applichi al problema dell’architettura il decreto tridentino”; BLUNT 1940, pp. 127-132.

21 Sul piano pratico, Carlo Borromeo instaura una collaborazione con Pellegrino Tibaldi, uno degli architetti più creativi del secondo Cinquecento. È stato Ackerman ad affermare che, di fatto, le “regole controriformate” definite nelle Instructiones sono seguite diligentemente solo nei pochi anni che intercorrono dalla loro stampa (1577) alla partenza di Pellegrino Tibaldi per la Spagna nel 1587. Lo stesso studioso nel corso del tempo ha cambiato radicalmente opinione sul modo di interpretare le Instructiones. In un primo tempo l’opera fu intesa come una semplice «codificazione dell’usanza stabilita nel decennio dopo il 1560 dai tre più importanti architetti di quella generazione (cioè Alessi, Vignola e Palladio)»; ACKERMAN 1975, p. 465. Nel 1984 invece egli parla di un’opera che propone «un cambiamento radicale nella concezione della pianta di cappelle e chiese di dimensioni grandi o modeste». ACKERMAN 1986, p. 573.

22 «È come se la memoria di san Carlo nel corso dei secoli si fosse riflessa in più specchi invece che in uno solo intero, a seconda delle diverse prospettive da cui si guardava»; FROSIO, ZARDIN 2011, p. 198.

23 C. Borromeo, “Lettera del 20 novembre 1566”, in San Carlo e il suo tempo, Atti del convegno 1986, p. 208.

24 Le Instructiones, a partire dal 1577, sono disseminate nel mondo cattolico. Fra le varie ristampe che si sono susseguite almeno fino alla fine del Seicento si segnalano quella di Parigi del 1643 e quella di Lione nel 1682. Molto interessanti sono le opere scritte durante l’episcopato beneventano di Vincenzo Maria Orsini, tra le più conosciute varianti locali dell’opera milanese: SARNELLI 1686; CAVALIERI 1688.

25 Su questo tema dell’identità urbana di Lecce si veda MANIERI ELIA 1995 e i capitoli ad opera di Marcello Fagiolo in CAZZATO, FAGIOLO 2013.

26 «Secondo la tradizione antica il re salentino Malennio, nipote di Sale, avrebbe contemporaneamente fondato Rudiae e Lupiae, distanti due miglia fra loro e collegate da una fantomatica strada sotterranea (la “via Malenniana”), attaverso la quale si prestaano mutuo soccorso in caso di pericolo. Il lieto e insolito evento gemellare avrebbe consentito di radunare tutto quel popolo salentino con una perpetua legge, che fusse sempre uno»; CAZZATO, FAGIOLO 2013, p. 15.

27 MANIERI ELIA 1995, p. 541. Nel 1666 una delle colonne brindisine che rappresentavano il termine della via Appia fu poi innalzata nella piazza dei Mercanti di Lecce. Ciò contribuì ad infrangere la convinzione che Brindisi fosse il “non plus ultra” e il capoluogo salentino si trovasse addirittura “oltre” i confini della civiltà. Dedicata ad Oronzo, la colonna rinasce come trophaeum (o martyrium), ma soprattutto come colonna triumphalis che però non smette di dialogare con la sua gemella colonna brindisina, ispirandosi al “sistema doppio” delle colonne coclidi romane riconsacrate ad opera di Sisto V.

28 Fra i più importanti studi sul Barocco leccese, oltre al già citato Atlante del Barocco in Italia. Lecce e il Salento, si ricordano: CALVESI, MANIERI ELIA 1971; MANIERI ELIA 1989; CAZZATO 2003; CAZZATO, FAGIOLO 2013; CAZZATO 2013.

29 Su Santa Croce vedi CASSIANO, CAZZATO 1997.

30 MANIERI ELIA 1995, p. 550. Il prospetto a due ordini, scandito da nicchie lasciate vuote e lesene leggermente aggettanti, ha un solo portale sormontato dallo stemma della Compagnia di Gesù adorato da due angeli. Il secondo ordine esibisce una grande finestra centrale ed un fregio composto da metope con rilievi raffiguranti simboli della passione. Nel fastigio spezzato, infine, un pellicano che nutre la sua prole col sangue che sgorga dal petto.

31 La facciata è suddivisa in due piani separati da un’alta fascia occupata al centro dal timpano spezzato del portale, inquadrato da due colonne corinzie e decorato con lo stemma di Lecce. Alle colonne del portale (ripetute poi anche nell’ordine superiore) si alternano ai lati delle paraste ribattute ad animare l’intero prospetto.

32 La relazione di Grimaldi fatta ai suoi committenti teatini nel 1649 è riportata dal Minioti. Vedi CAZZATO V., CAZZATO M. 2016, p. 106.

33 MANIERI ELIA 1995, p. 558.

34 NOVELLI 1910, p. 131.

35 Il morbo pestifero sanziona la promozione di Oronzo - insieme a Giusto e Fortunato – a nuovo patrono della città per essere stata l’intera Terra d’Otranto preservata dal contagio. L’iconografia oronziana recepisce a sua volta il patrimonio simbolico del Borromeo. Si pensi al cuore da cui sgorga una fonte d’acqua pura, o al cuore rosato, fiore per eccellenza a cui la città di Lecce viene associata in un’opera pubblicata da Tommaso Angiulli nell’anno della peste. Sul culto oronziano e la Lecce pappacodiana vedi PELLEGRINO, SPEDICATO 1990; COSI, SPEDICATO 1995 (si veda in particolare il secondo volume dal titolo Una capitale di periferia: Lecce al tempo del Pappacoda).

36 A partire dalla canonizzazione, la venerazione nei confronti di Carlo Borromeo si radica fortemente nel territorio salentino. Basterebbe ricordare la lettera che il vescovo Luigi Pappacoda indirizza alla comunità leccese nel 1656, in occasione dello sventato pericolo dell’epidemia di peste che colpì il Regno di Napoli. Alla lettera, infatti, il vescovo allega, come guida per tutti i devoti, una ristampa dei Ricordi per il vivere cristiano del Borromeo: «Abbiamo ordinato che si ristampino in un libretto gli Avvertimenti del glorioso San Carlo arcivescovo di Milano che, dapoi che cessò la peste in quella città, diede al suo popolo per vivere cristianamente»; L. Pappacoda, “Lettera di Luigi Pappacoda per gratia di dio e della S. Sede apostolica”, in I primi martiri di Lecce 1714, pp. 72-73. Sull’argomento vedi: PALESE 1985; PAONE 1986.

37 A.C.V.L., Platea del Capitolo di Lecce, 1672, f. 663.

38 Si può pensare che la decisione di distaccare il campanile dalla fabbrica della Cattedrale ponendolo ai margini del “cortile” (nella vecchia basilica risultava integrato alla fabbrica, come dimostra un’incisione presente nella Lecce sacra dell’Infantino) sia avvenuta proprio per consentire la giusta ampiezza al sito della chiesa, secondo le precise misurazioni previste da S. Carlo: «L’ampiezza del sito della chiesa deve essere tale da poter accogliere non solo la gente della comunità del luogo in cui si edifica la chiesa […]ma anche tale da prevedere l’affluenza di altri fedeli per determinate occasioni solenni. Un criterio da non trascurare è quello in base al quale, per ogni persona, da ogni parte, sia previsto uno spazio di un cubito ed otto once»; BORROMEO 1577, p. 13.

39 Sarà proprio il Duomo dell’Assunta che diverrà, anche in occasione delle esequie per la morte del sovrano, un luogo privilegiato dell’effimero, “teatro di lutto” in cui è proprio il Pappacoda a farsi promotore dell’innalzamento del “nobile mausoleo” in onore di Filippo IV. Sull’argomento vedi CAZZATO 1985.

40 BORROMEO 1577, p. 15. Le Instructiones prevedono espressamente che «non è in contrasto con i criteri di edificazione della chiesa il fatto che, lungo qualche adiacenza di essa, sorgano gli alloggi dei ministri ecclesiastici, intesi come la casa del Vescovo, dei Canonici e del Parroco»; Ivi, p. 11.

41 Ivi, p. 23.

42 Ivi, pp. 15-17.

43 Ivi, p. 17.

44 Ivi, p. 15.

45 Ivi, p. 23.

46 CAVALIERI 1688, p. 26. In quest’opera, interpretata molto spesso come una semplice traduzione “alla lettera” delle Instructiones cinquecentesche, le norme caroline subiscono importanti modifiche poiché adattate alle esigenze funzionali della diocesi. Fra i più evidenti cambiamenti su questo punto è presente la possibilità di prevedere aperture sui lati della chiesa, espressamente vietate da san Carlo.

47 BORROMEO 1577, p. 200.

48 CAZZATO, FAGIOLO 2013, p. 93.

49 CAZZATO 2013, p. 54.

50 PAPPACODA 1658

51 DOMINICI 1860, p. 133.

 

















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