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La Land Art come Arte Liquida  

Francesca Cappellari
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 17 Gennaio 2021, n. 903
http://www.bta.it/txt/a0/09/bta00903.html
Articolo presentato il 1 Dicembre 2020, approvato il 4 Gennaio 2021 e pubblicato il 17 Gennaio 2021
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Area Architettura

L'esperienza della Land Art durante gli anni '60-‘70, la sfida dagli anni ‘90 fra attitudini ossequiose e rivoluzionari atti di rottura


«Contemplavo il giardino di meraviglie dello spazio col sentimento di guardare nel più profondo, nel più segreto di me; e sorridevo, perché non mi era mai accaduto di sognarmi così puro, così grande, così bello! Nel mio cuore scoppiò il canto di grazia dell'universo. Tutte le costellazioni sono tue, sono in te, non hanno realtà al di fuori del tuo amore»1

L'uomo liquido vaga affannato e inquieto, proiettato in spazi senza forma e senza spessore in cui costruisce per poi distruggere incessantemente la sua identità. Trova, nell'accesso alla contemplazione della natura, breve tregua al suo tormento. Questa condizione esistenziale è approfondita, in campo sociologico, da Zygmunt Bauman, dal quale, alla fine degli anni '90, prende l'avvio una ricerca, che poi si rivelerà multidisciplinare, in cui appare evidente che le forme prodotte dall'uomo moderno siano lo specchio della sua condizione liquida.

Questo rende possibile instaurare una connessione tra la liquidità, metafora della modernità, caratterizzata da una tendenza in fieri e guidata da un processo combinatorio, in cui ogni principio razionalizzante non sembra più essere applicabile, e il movimento artistico della Land Art, fenomeno contestualmente americano ed europeo, che attua una sistematica fuga dai sistemi istituzionali d'arte per rifugiarsi nella natura.

L'anamnesi della sintomatologia della liquidità, collocata in queste coordinate, fa pensare che i primi campanelli d'allarme siano riscontrabili già dalla fine degli anni '60, per poi concretizzarsi nelle manifestazioni degli anni '90. L'esperienza di questi anni si rivela, inoltre, supportata da una letteratura che semiologicamente individua, nella definizione della Liquidità, il concetto in cui leggere le caleidoscopiche forme in cui si realizza la complessità della modernità che, nell'embrionale fase di gestazione del movimento, oscillavano fra incerte definizioni, impossibili e rassicuranti collocamenti nelle correnti artistiche coeve.


La modernità liquida

Abbattuta ogni forma di controllo e ordine, quello messo in atto è un processo di liquefazione. I corpi solidi, infatti, non resistono più all'attacco messo in atto contro la tradizione, contro il passato, contro tutte quelle strutture che garantivano protezione: consuetudini e abitudini garantiti dall'appartenenza ad una collettività normativizzata nella sua secolare tradizione.

È una rivoluzione che fa i conti con il superamento delle illusioni, tipiche del positivismo ottocentesco: è impensabile concepire il cammino di emancipazione come una progressione verso un telos, inteso come stato di perfezione, condizione storica ideale in cui la quantità della domanda è soddisfatta da una proporzionale offerta, in cui non esistono disuguaglianze e tutto sembra essere al posto giusto e il futuro sembra essere un tempo facile da coniugare. Niente di questo sembra essere vero, il progresso, le innovazioni tecnologiche, le scoperte scientifiche non sono state in grado di mantenere la promessa di uno stato ideale tanto agognato. Per l'uomo, il processo di liquefazione è ormai un destino più che una scelta. Non solo sa di correre incessantemente, perché incapace di stare fermo, senza poter tagliare un traguardo, ma ha anche con la consapevolezza che il percorso iniziato non è altro che una marcia in solitaria e non una staffetta in cui contare su una squadra con cui passarsi il testimone.

Nella modernità liquida la società si configura come una «Società di Individui»2dove manca uno spiccato senso di aggregabilità fra individui-monadi che, pur condividendo la stessa condizione, non sono capaci di combattere su un fronte comune, convinti che combattere per un interesse comune possa minare la soddisfazione dei propri bisogni.

È uno scontro fra libertà e responsabilità. L'uomo, libero da una società troppo chiusa nella sua burocrazia, tendente a un'apparente democrazia, si ritrova ad essere sempre più lontano dalla condizione di cittadino, pagando il conto di un inarrestabile processo di emancipazione che si configura come rivendicazione del diritto di autoaffermazione e di controllo. Di fatto, la distanza fra una realtà de iure e una de facto è incolmabile perché mancano le condizioni effettive per mettere in atto la volontà di autodeterminazione.

Ancora una volta, la questione si lega ai problemi dell'identità. Questa è un'entità, inventata più che scoperta, traguardo di una costruzione da zero, una scelta fra le numerose proposte possibili e tesoro da custodire nonostante il suo carattere transitorio.3 L'identità, in realtà, è la vera vittima della mentalità post–moderna, costretta a essere continuamente demolita e distrutta per essere poi nuovamente ricostruita e ridefinita: ontologicamente proiettata nel futuro, come costruzione incessante che oscilla fra quello che si richiede di essere e quello che si vorrebbe essere. «Se nella modernità era oggetto di creazione, nella condizione della postmodernità si declina nel verbo riciclare. Il vero dilemma risiede, quindi, nella sua durabilità: nella modernità era fatta di cemento armato nella post-modernità di plastica biodegradabile».4 Nei paesi economicamente e tecnologicamente più avanzati la natura negoziabile e in fieri dell'identità è dovuta alla perdita dell'ancoraggio sociale che la faceva sembrare naturale e predeterminata.5

Questa condizione crea individui che presentano i sintomi di un disturbo schizofrenico-paranoico e che vagano come schegge impazzite da uno spazio all'altro: sono i flânuers postmoderni di cui parla Georg Simmel.6 Moderna moltitudine, sono alla disperata ricerca di appartenere a qualcosa, che sia una comunità o un ideale, con un atteggiamento blasé, avidi spettatori della caleidoscopica fenomenologia dei drammi messi in atto nel tessuto urbano, insignificanti ma complessi: costruiscono la loro identità mentre sono in movimento senza una vera e propria direzione.

Il movimento, prima condizione tanto agognata, sembra una condanna nell'epoca della complessità, e la velocità, prima fonte di eccitante brivido di conquista, ora è un ritmo incessante a cui non è possibile sottrarsi in un vortice in cui manca sempre più un centro di gravità permanente. Mancano in questa incessante corsa indicatori di direzione e stelle polari a indicare il cammino e l'appoggio di una comunità su cui contare.7

In questa cornice, il processo di costruzione dell'identità si concretizza nel fallimento della tradizionale metafora del puzzle: il miglior incastro possibile, infatti, non risulta essere, nella modernità liquida, una strategia vincente. La natura coesiva di un puzzle sarebbe un peso insostenibile e un vincolo alle infinite possibilità di scelta. Inoltre, se nel puzzle, dotato di un'immagine finale a cui fare riferimento, è messa in atto una strategia finalizzata all'obiettivo, questa è impraticabile nella società Liquida e, necessariamente, da sostituire con una tattica orientata ai mezzi. Ricorrendo a una razionalità strumentale, diventa, quindi, imprescindibile scegliere di quale mezzi non si può fare a meno o valutare quali è necessario procurarsi. Ancora una volta, le dinamiche che si prospettano sono ansiogene e motivo di paura e angoscia. Ed è proprio la paura ad essere l'unica fedele e inseparabile compagna dell'uomo che affronta le complicazioni derivate dal trionfo della complessità.

È lo stesso Freud ad aver intuito le radici di questo malessere, ma la disamina delle paure provocate dalla complessità fa emergere un aspetto nuovo: non è possibile rintracciare un univoco agente scatenante delle angosce, piuttosto compilare un inventario delle inquietudini.8 La paura è generata da tre fonti, la consapevolezza di non poter esercitare il controllo sul proprio corpo soggetto agli effetti provocati dal passare del tempo; l'impossibilità di prevedere e di potersi difendere dalle minacce esterne e, infine, le relazioni con gli altri. Non essendoci, tra l'altro, un'esperienza collettiva in cui è possibile riconoscersi, diventa più difficile generare uno spirito di classe, base per una lotta comune come avveniva per i lavoratori-soldati: come per la proprietà privata, è un compito che il solo proprietario può adempire. La sua posizione è ambivalente: attento ad ottenere il massimo grado di godimento delle sensazioni, al tempo stesso, l'individuo deve recensire l'esperienza che ha vissuto e controllare il suo involucro nel turbinio dell'incontro con gli altri. Essere fuori e dentro di sé: è come gettato nelle sabbie mobili. Inoltre, l'incapacità di gestire consapevolmente i mutamenti a cui è soggetto nel corso del tempo lo spaventa. Il cambiamento è incapace di fornirgli un'autentica bellezza ideale poiché qualsiasi forma è destinata a fare i conti con la morte: questa rimane la fonte primaria della paura più grande.

La condizione di essere per la morte determina, di conseguenza, il rapporto qualitativo con il tempo: da una parte lo vincola time-binding e da un'altra parte la sua esistenza è vincolata dal tempo time-bound.9 Pensa in un'ottica di eternità ma fa poi i conti con il suo carattere transitorio, ed essere umani significa essere spietatamente a conoscenza di questa contraddizione.

Anche la percezione dello spazio, in passato modulata sul vettore tempo, è sottoposta a una continua rimodulazione.10 Lontano/ vicino, subito/dopo assumono nuovi significati: di fatto, le categorie oggettive risultano inapplicabili perché non tengono conto del fattore di wetware, cioè l'individualità dell'esperienza soggettiva. Questa consapevolezza dà inizio al tempo della storia: «la modernità è il tempo nell'epoca in cui il tempo ha una storia».11

La produzione di mezzi tecnologici per accorciare le distanze rende il tempo una funzione legata alle potenzialità di questi mezzi, svincolandolo dal legame con lo spazio. Inoltre, la scoperta che «il tempo è denaro»12, si presta al progetto di abbattere ogni distanza fisica conquistando lo spazio. Se la solidità si definiva nella febbrile conquista di hardware, la liquidità rincorre l'istantaneità dei software. Questa13 rende il tempo incorporeo, insignificante ma lo carica di infinite possibilità. L'immortalità degli oggetti durevoli si fa effimerità14. L'azione, orientata all'obiettivo razionale rispetto al valore, fallisce perché la condotta razionale e calcolatrice che promuoveva, ora, è inefficace. La razionalità si trasforma nell'applicazione della maggiore soddisfazione possibile che produce infinite possibilità liquide che non possono diventare consuetudini, piuttosto, presentano date imminenti di scadenza.

La liquidità può essere infatti definita nell'impossibilità che i modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure.


La Land Art Come Arte Liquida

«I fluidi non conservano mai a lungo la propria forma e sono sempre pronti a cambiarla; così che ciò che conta per essi è il flusso temporale più che lo spazio che si trovano a occupare e che in pratica occupano solo “per un momento” […] La modernità non fu forse dall'inizio un processo di liquefazione?»15.


Nella prefazione «Sull'essere leggeri e liquidi» del saggio «La modernità liquida», Bauman contrappone la capacità dei solidi di creare legami alla fluidità, come principale attributo dei liquidi, affermando che questa, con le sua intrinseca leggerezza, mobilità e variabilità, ben rappresenta il processo di liquefazione che caratterizza tutta la modernità.16

E la Land Art non è forse il risultato di questo processo?

Non è forse vero che il solido impianto dell'arte, tradizionalmente inteso, è stato sottoposto a un liquido disfacimento di tutte le sue più radicate convinzioni per aprirsi a nuove e meno sistematiche opportunità di definirsi?


Non è altresì vero, al tempo stesso, che la Land Art, specchio della modernità liquida si palesa in forme eterogenee che sfuggono alle canoniche definizioni?

Non è forse vero che le opere di Land Art, come i liquidi, non «fissano lo spazio e non legano il tempo»17? E che l'inadeguatezza di materiali solidi come il marmo, la tela sia una metafora della dematerializzazione delle reti sociali? Questa cruda fisicità della materia , «sempre più mobile, sdrucciolevole, mutevole, evasivo»18, può essere considerata un effetto collaterale di una generalizzata sensazione di mancata credibilità dei sistemi istituzionali? Infine, chi potrebbe smentire che le prime reliquie della tradizione, che caddero sotto gli attacchi dei land artist, furono in realtà macerie di un sistema già irrimediabilmente in crisi, «perché già arrugginiti, ammuffiti, scricchiolanti e nel complesso inaffidabili»19?

Ma si può parlare di una fine dell'arte? Forse muore l'atavica convinzione che per arte si possa intendere «un insieme di cose prodotte da tecniche differenziate ma aventi tra loro affinità per cui costituiscono un sistema, precisamente, il sistema che inquadra l'esperienza estetica della realtà. In tutta la storia della civiltà l'esperienza estetica costituisce una componente necessaria dell'esperienza globale. È accaduto che alcune di quelle tecniche finissero: per la prima volta, tuttavia, si ha una crisi simultanea di tutte le tecniche artistiche, del loro sistema. Finirà con esse ciò che si chiama l'esperienza estetica?» 20

L'esperienza estetica, di fatto, non si è esaurita, si è, però, dislocata in luoghi eterotopici, instaurando nuove relazioni con il tempo e con lo spazio e si è collocata al di fuori, altrove, dal «cubo bianco» in cui si era trincerata per non subire gli attacchi messi in atto da una modernità sempre più liquida, ma cosa sono le eterotopie? «Esse sono la contestazione di tutti gli altri spazi, e questa constatazione si può esercitare in due modi: o creando un'illusione che denuncia tutto il resto della realtà, oppure creando realmente un altro spazio reale tanto perfetto, meticoloso e ordinato quanto disordinato e caotico»21. Di conseguenza, la Land Art sembra essere un'esperienza eterotopica che ben interpreta lo spirito della modernità liquida.

Luoghi Eterotopici: lo spazio liquido della Land Art

L'uomo costantemente fa i conti con i limiti che la sua condizione ontologica gli impone: «Il corpo è sempre altrove, è legato a tutti gli altrove del mondo e, in verità, è altrove rispetto al mondo. È il punto zero del mondo, laddove le vie e gli spazi si incrociano, il corpo non è da nessuna parte: è al centro del mondo questo piccolo nucleo utopico a partire dal quale sogno, parlo, procedo, immagino, percepisco le cose al loro posto e anche le nego attraverso il potere infinito delle utopie che immagino. Il corpo è come la Città del Sole, non ha luogo, ma è da lui che nascono si irradiano tutti i luoghi possibili, reali o utopici»22 Il corpo stesso pesa come un macigno di cui non ci si può liberare, non ci si può percepire nella categoria dell'interezza.


Il suo essere limitato, nell'accezione più spaziale del termine, lo porta a fare costantemente i conti con il suo essere duplice e singolare: «essere un che di limitato e illimitato insieme, relegato nei confini del suo corpo, ma anche curioso e desideroso di andare altrove»23, vuole costantemente trasgredire.

La trasgressione che attua può essere spiegata nell'accezione latina di questo verbo: trans- gredi24. La necessità di andare oltre il limite25, manifestata nell'irrequietezza generata dalla percezione dei propri confini, ha spinto da sempre l'uomo di ogni tempo a cercare un altrove. Lo ha fatto Prometeo, pagando con il fegato l'aver condiviso con gli uomini il segreto degli dei, Giordano Bruno che pagò con la vita il voler superare i limiti delle conoscenze tolomaiche.26 E noi continuiamo a vagare nello spazio alla ricerca di pianeti inesplorati, galvanizzati dalla conquista della Luna che ha aperto, non appena l'uomo ci ha potuto metter piede, straordinarie e impensabili spazialità illimitate.

Sembra che, ad un certo punto della Storia, la ricerca abbia trovato il suo spazio ideale nei luoghi eterotopici della modernità liquida. «L'eterotopia è uno spazio determinato che si oppone e nega un altro spazio inserendo sostanziale discontinuità esclusione che diventa opposizione e incompatibilità. Sono luoghi che neutralizzano e contestano tutti gli altri spazi, perché, una volta che vi entriamo, la differenza è assoluta. Questo è anche il motivo per cui le eterotopie sono contraddistinte da una funzione fondamentalmente anarchica: liberano l'immaginazione rivelando come illusoria l'angusta realtà degli spazi normali».27 Pare da ciò, che è l'immensità interiore a farsi metro di misura del mondo esteriore: l'uomo cerca nella natura la grandezza straniante che non capisce essere già dentro se stesso28: è in questo percorso che si inserisce il movimento della Land Art.

La Land Art disloca la sua esperienza dal tradizionale studio d'arte per realizzarsi compiutamente in ampie distese. Ciò che rende questi luoghi ideali per una fuga in uno spazio eterotopico, in grado di ricondurre inconsciamente ad uno spazio interiore, è la loro illimitatezza, il loro essere così altrove da essere agli antipodi del contesto urbano: spazi improduttivi lontani dalla corsa al profitto, motore della quotidianità. In questi si assiste al ribaltamento, alla negazione e sospensione delle regole vigenti nella realtà urbana in cui tutto è a portata di mano ma di fatto non accessibile a tutti. Sono spazi pieni del loro vuoto o completamente abbandonati o irraggiungibili.29 Si tratta di non-luoghi che hanno ispirato le opere di Land Art come i non-site di Smithson e il Double Negative di Michael Heizer.30

Si prediligono luoghi inviolati che non abbiano altra traccia se non quella della natura stessa che li ha creati e ne determina l'evoluzione, con l'intenzione esplicita di rendere impattante la traccia umana dell'artista.

Questa tendenza crea l'evidente divario fra l'esperienza americana e quella europea. La prima significa «bulldozer e grandi progetti, […] è un costruire nella terra che è stata comprata dagli artisti, lo scopo è di creare un monumento imponente e permanente»31.

La seconda, e a parlare qui è Fulton, partendo dalla convinzione che questi «usino il paesaggio senza alcun tipo di rispetto verso di esso […] Vedo la loro arte come una continuazione del “Destino Manifesto” … la cosiddetta conquista eroica della natura (“Tu non conquisti le montagne esse semplicemente tollerano la tua esistenza”)»32 propone un'azione che si fa delebile traccia del passaggio dell'artista nella natura. Vedi «A line made by walking»: la vera arte è lo «stare fisicamente in quel luogo»33

In conclusione, gli artisti prendono residenza in questi luoghi eterotopici che si configurano come contro-spazi in cui fallisce ogni utopia consolatoria per esistere in spazi che spezzano ogni legame con il tempo circadiano, impostato sul profitto e il capitalistico sfruttamento delle risorse: «Le utopie consolano: se, infatti, non hanno luogo reale si schiudono tuttavia in uno spazio meraviglioso o liscio; aprono città dai vasti viali, giardini ben piantati, paesi facili anche se il loro accesso è chimerico. Le eterotopie inquietano, probabilmente perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i nomi comuni, perché devastano anzi tempo la sintassi e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma anche quella meno manifesta che li tiene insieme (a fianco e di fronte le une alle altre) le parole e le cose. Se l'utopia è cancellazione del luogo reale e con essa anche la cancellazione della realtà del luogo, perché mostra come sia ben possibile fare esistere qualcosa che non è da nessuna parte, le eterotopie sono, non soltanto gli accostamenti incongrui fra elementi eterocliti, ma anche, e più letteralmente, gli spazi altri o contro spazi assolutamente differenti, gli spazi altri o i contro-spazi».34


L'insostenibile “irrilevanza” del tempo nella Land Art

«Èxegì monumèntum àere perènnius règalìque sitù pýramidum àltius, quòd non ìmber edàx, nòn Aquilo ìmpotens pòssit dìruere àut ìnnumeràbilis ànnorùm seriès èt fuga tèmporum. Nòn omnìs moriàr»35

Orazio, pioniere fra tutti gli artisti, si fa di questi portavoce, rivendicando come scopo e finalità della produzione artistica la missione di creare forme più resistenti del bronzo, tali da non sortire il logorio del tempo. E, se l'arte dura in eterno, l'artista è destinato ad essere immortale.

La scoperta che il tempo si fa vissuto, vivibile in un determinato spazio come proiezione dei dati sensibili prodotti dall'uomo, implica che esso ha smesso di declinarsi all'infinito per farsi spietatamente irrilevante. Non conta più la durata del tempo ma le possibilità fenomenologiche che al suo interno avvengono. Viene da chiedersi cosa sia il tempo, «è per dirlo con Bergson, questa “massa fluida”, questo oceano mobile, misterioso, grandioso e possente che vedo intorno a me, in me, in una parola ovunque, quando medito sul tempo. È il divenire. È universale, è impersonale […] è caotico»36

Osservato dal punto di vista della Land Art, il tempo gioca un ruolo fondamentale. Per assurdo, il tempo si congela nell'incisività della sua più piccola unità di misura: il momento. Ossia, l' istantaneità dilatata in cui l'uomo entra in contatto con la primordiale scoperta o riscoperta della sublime potenza della natura che sfugge da tutti i sui progetti, calcoli e previsioni. Produce opere che sfidano i limiti del tempo, consapevoli di non poterne controllare la durata

È il caso dell'opera di Dennis Oppenheim, «Time Pocket» (1968) in cui l'artista traccia una linea in un lago ghiacciato, a Fort Kent, presso la frontiera canadese, che materializza la linea del cambio di data sviluppandosi per alcune miglia. Il titolo, letteralmente, «la tasca del tempo», o meglio le repli du temps37, evoca lo stesso re-flusso di tempo che scorre in una tasca che è essa stessa un vuoto fra due ore.

Il tempo si fa discrasia, esiste un tempo dell'uomo e uno della natura. Quello dell'uomo è coniugato al futuro, inevitabilmente votato alla velocità che fagocita lo spazio per attraversarlo, ma mai per viverlo. Costringe l'uomo a una corsa incessante, lo spinge oltre i limiti, arrivando perfino a conquistare il cielo ma ciò gli impedisce di radicarsi in un posto per un tempo superiore a quello dell'istantaneità, proiettandolo sempre oltre i suoi limiti. Esiste poi un tempo, quello della natura, che si fa lento, dilatato e che conosce periodi di letargo, condizione che l'uomo liquido non tollererebbe, il tempo dell'esplosione immediata di colori e profumi: tempi di cura e attesa. In altri termini, c'è un tempo in cui si semina e uno in cui, pazientemente, si aspetta di scoprire se la natura ha permesso al seme di trasformarsi in vita che si fa frutto; un tempo che è organizzato su scadenze cicliche e ritmato come una litania sacra. C'è, poi, un linguaggio, con cui lo si può interpretare, fatto di segnali, presenze e assenze. Solo uno uomo che vive, convive e compartecipa al suo rituale può leggerlo e interpretarlo. Allora, il tempo si riappropria del tempo, del suo scorrere incessante ma mai vuoto, sempre pieno di sublimi scoperte che meravigliosamente si svelano.

Quando questi due tempi si incontrano ne generano uno in cui l'uomo guarda avanti e crea miraggi che lo invoglino a proseguire la sua corsa verso l'oltre: questo è il tempo dell'uomo liquido nel paesaggio che disegna con la Land art, seminando marcatori per i sensi. È un tempo che guarda al passato e lascia dietro di sé tante tracce del suo passaggio, briciole di Storia sgretolatesi da un tempo lento che esiste a prescindere dall'uomo che le osserverà.


ROVINE E MACERIE: l'obsolescenza programmata della Land Art

L'uomo della modernità liquida, turboconsumatore38, soffre di un'inguaribile bulimia da consumo39, accumula serialmente oggetti nella speranza che questi durino per sempre: «la sua caratteristica in quanto attività implica una rincorsa apparentemente senza fine dei desideri.

Il tratto specifico del consumo moderno è la sua insaziabilità».40 L'uomo moderno varia continuamente esigenze e, affinché la sua domanda possa sempre essere esaurita, il sistema produttivo continuamente rigenera l'offerta. Ma lo fa in modo spietato: immette nel mercato oggetti destinati a essere usati solo per brevissimi periodi. La strategia applicata è quella dell'obsolescenza programmata. Il sistema in cui è vertiginosamente gettato l'uomo «esige che facciamo del consumo il nostro stile di vita. Abbiamo bisogno che i nostri oggetti si logorino, si brucino e siano sostituiti e gettati a un ritmo sempre più rapido»41. Tutto questo nega alla materia di farsi maceria e rovina perché non si dà a questa la possibilità di usurarsi, poiché al primo segno di cedimento si provvede a sostituirla: «La storia futura non produrrà più rovine. Non ha più tempo»42

Le rovine sono però generatrici di esperienze estetiche che permettono di ripensare all'essenza stessa del tempo, «la vista delle rovine ci fa fugacemente intuire l'esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. È un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini»43

Della trasformazione delle rovine sono a conoscenza anche i land artist. Questi, infatti, entrano in contatto con gli scheletri che la società del consumo ha prodotto, monumenti, pallide vestigia del glorioso passato industriale44: The monument of Passaic 45

Qui è possibile osservare un paesaggio che accoglie rovine al contrario46 dove è possibile immaginare strutture, ingranaggio della catena del profitto, che in breve tempo si trasformeranno in «vuoti monumentali che delimitano, senza provarci, le tracce- memoria di una serie di futuri abbandonati».47

L'artista interviene in questo paesaggio prima che questo sia sottoposto all'azione di un agente geologico48 bloccandolo, come in un fermo immagine, in un remoto passato primitivo, favorendo un'idea del tempo screditata49: non è che un passato che non è razionale e un futuro in cui non possono avvenire i grandi eventi della Storia.50

Se c'è un principio che regola l'evoluzione all'interno di questo spazio, è quello dell'entropia. Questa spiega l'origine dei cambiamenti fisici e chimici che avvengono all'interno di un sistema e quantitativamente li misura. Nel secondo principio della termodinamica emerge che queste modifiche sono spontanee, a tal punto da diventare una tendenza stabile che si genera senza l'intervento umano, questi cambiamenti generano energia ma anche disordine.

Il disordine di questi svela le contraddizioni insite nel rapporto con la natura. Per quanto l'uomo si sforzi, sempre si categorizza nella dimensione del limite, mentre la natura in quella dell'illimitato. Il contatto con questa realtà, per lo più incomprensibile perché all'uomo è negato l'accesso ai meccanismi che la regola, sarebbe possibile attraverso una visione omogenea, se non intervenisse un agente disturbante, il disordine, che annulla ogni tipo di visione privilegiata. Piuttosto obbliga l'osservatore a punti di vista multipli che annullano ogni tipo di stereotipo solido abituale. Smithson pensa al tempo in questi termini time as decay51, come se questo fosse una deriva entropica che non risparmia nessuno dei suoi materiali dall'essere programmati all'obsolescenza.

Però, questo comporta un'altra riflessione, «contemplare le rovine non equivale a fare un viaggio nella storia, ma a fare esperienza del tempo, del tempo puro. […] riguardo al presente l'emozione è di ordine estetico, ma lo spettacolo della natura vi combina quello delle vestigia. Ci accade di contemplare dei paesaggi e di ricavarne una sensazione di felicità tanto vaga quanto intensa; […] più la coscienza che noi ne abbiamo è quella di una permanenza, di una lunghissima durata che ci fa misurare per contrasto il carattere effimero dei destini universali»52

«et je me crée d'un trait de plume. Maître du Monde. Homme illimité»53


L'uomo liquido non può, però, evitare che questo incontro, che lo avvicina alla sua dimensione più intima, produca forme che siano lo specchio del terremoto interiore che vive. Per questo, è il caso della Land Art, produce monumentali installazioni che plachino il suo terrore di non essere abbastanza, o di non lasciare un segno di lui che duri nel tempo, nell'illusione di creare qualcosa che lo leghi per sempre alla terra. Ingenuamente non si rende conto che porta nella natura la stessa lacerante distruzione che vive, creando opere che molto probabilmente non potranno mai essere sotto il suo controllo o che, molto probabilmente, gli sopravviveranno senza che lui possa controllarne l'evoluzione.

Così, come costantemente scappa da se stesso, finisce per trincerarsi in luoghi così lontani da pensare che in realtà questi non esistano davvero. Compulsivamente accumula ricchezze per poi scontrarsi con la povertà emotiva che queste generano. In altri termini, riscopre la concreta realtà nella sua più brutale essenza: particelle elementari che non controlla, sottoposte come lui all'azione erosiva del tempo, spietatamente vuoto e irrilevante perché lo priva della possibilità stessa di farlo diventare progettualità. La natura che si fa contestualmente costruzione e distruzione lo avvicina al fascino delle rovine, e l'uomo non sa che le macerie che osserva sono le stesse che, come un fardello, lo opprimono impedendogli di essere leggero e di spostarsi con la velocità immediata che i nuovi mezzi gli garantiscono. Ha un disperato bisogno di trasgredire, illuso che uscire fuori da i suoi limiti gli conceda pace. Non c'è luogo in cui va in cui non porti i suoi drammi.

Tutti questi sintomi, per cui una cura non ancora esiste, si traducono in tagli profondi, cumuli di polvere, lampi, labirinti senza uscita e specchi forvianti che parlano della sua essenza liquida: incessante camminata senza una precisa direzione in cui il cambiamento è l'unica costante.



La sfida dagli Anni ‘90 fra attitudini ossequiose e rivoluzionari atti di rottura

L'evoluzione della Land Art è un procedere lento e incessante, un percorso fatto camminando «A line made by walking»54, che ha più volte ricalcolato le coordinate del suo percorso, strade eterogenee si sono immesse nel suo procedere fino a confondere la destinazione finale…o forse, sembra ragionevole pensare che una vera meta, a priori, non fosse mai stata stabilita.

Gli artisti, impegnati in questa marcia, non si sono mostrati disponibili ad essere legati fra di loro da un forte legame coesivo, non esiste di fatto un manifesto che raccoglie le intenzione artistiche di questi, quanto piuttosto un polifonico manifestarsi di voci che hanno deciso di percorrere strade fatte di contradizioni, ripensamenti, orgogliosi impuntamenti, direzioni opposte e poco concilianti.

Questo ha reso il movimento della Land Art criptico, di difficile comprensione, potremmo dire liquido. Le idee, le opere, i processi concettuali, le attitudini estetiche, emerse alla fine degli anni '60, fluidamente si sono prestate ad essere messe, continuamente, in discussione e ridefinite nella loro essenza. Questo emerge, prepotentemente, se si analizzano le manifestazioni artistiche degli anni '90, decennio in cui una florida letteratura multisciplinare aveva trovato, nella Liquidità , la più congeniale metafora per descrivere i sintomi sempre più diffusi della modernità.

Anche la Land Art in quegli anni non sembra essersi risparmiata alla tendenza dematerializzatrice tipica della liquidità, che si era precocemente manifestata nella sua più embrionale fase di gestazione negli anni '60. Sostanziali differenze emergono chiaramente se ci si sofferma nell'analizzare le opere prodotte a distanza di quarant'anni. Il critico d'arte Gilles Tiberghien dedica a quest'argomento un capitolo, Hors Champs, nella sua monografia del 1995 Land Art55 e una conferenza56 dove, in maniera convinta, afferma che in quell'arco di tempo, soprattutto negli anni '90, sono emerse similitudini ma anche rivoluzionari atti di rottura che segnano un'incolmabile distanza con le tendenze artistiche inaugurate nei primi anni della Land Art.57

I generatori di conflitti di natura estetica sono ancora una volta, come era successo negli anni '60, questioni di natura socio-economico- politica che in quegli anni si facevano strada non solo nel dibattito artistico ma coinvolgevano piani di interesse sempre più disparati, fino a diventare problemi di natura etica che chiamavano gli artisti a nuove responsabilità: la conquista di uno spazio sempre più globale, l'inevitabile condizionamento di questo sfruttamento nella rottura di un equilibrio climatico sempre più fragile, la gestazione di un'intelligenza sempre più artificiale che sacrifica la dimensione più intima e umana delle emozioni e l'immediatezza dei trasporti che permetteva una maggior fruizione delle opere d'arte.

Tutto questo produceva, negli artisti, il brivido della sfida che si trasforma in segni e idee che si fanno polemico strumento di battaglia contro uno sviluppo, sempre più impostato al profitto, che si stava manifestando.

Paradossalmente, il cammino della Land Art negli anni '9058 conduce questa manifestazione artistica lontano dalla natura, fuori campo59 come sottolinea Tiberghien, ripensando, in realtà, al significato di cui l'aveva caricata configurandola come spazio di fuga lontano e inaccessibile. Ora, pur conservando la sua natura di luogo eterotopico, anarchico e simbolico, lo spazio in cui si manifesta la fenomenologia estetica si fa più accessibile, si colloca in una dimensione urbana e questo porta l'arte lì realizzata a scendere a compromessi, costretta a piegarsi a quelle contraddizioni del sistema da cui sfuggiva. Differenze e similitudini emergono se si confrontano le opere collocate all'interno dell'esperienza che si sviluppa ai poli opposti dell'arco temporale preso in considerazione.


Fig. 1 - Michael Heizer, Double Negative (1969-1970) vs. City (1970-)
Fig. 1 - Michael Heizer, Double Negative (1969-1970)
vs. City (1970-)

L'opera60 consiste in due canyon artificiali simmetrici monumentali realizzati come solchi profondi.


È la poetica dell'assenza quella che Heizer attua attraverso un sapiente gioco di luci e sfruttando le proprietà della materia impiegata in ampie distese desertiche dove realizza delle sculture al negativo. Questo lavoro può essere definito come un size-scale, dove per size si intende la dimensione reale, mentre per scale, una dimensione immaginata, quasi estetica. L'impatto con la monumentalità del vuoto dell'opera genera nello osservatore stranianti e contrastanti emozioni legate alla sua sfera interiore. Si percepisce minuscola entità che si confronta con la maestosità dell'ambiente. Questo gli permette di conoscersi mai internamente ma attraverso quello che lui mostra agli altri, proprio come l'opera che non permette mai una visione totale da una posizione centrata ma svela un lato alla volta decentrando la posizione da cui la si osserva.

Fig. 2 - City (1970-): 45°, 90°, 180° (1980-1999)
Fig. 2 - City (1970-): 45°, 90°, 180° (1980-1999)



Se la poetica degli esordi di Heizer era fondata sull'ontologia dell'inesistente, le sculture negative realizzate non erano che contenitori di un'essenza che nella concretezza si faceva assenza, City (1970-), mile-and-a-half-long sculpture61, un progetto che lo impegnerà tutta la vita, segna invece il passaggio a maestose forme geometriche che si fanno crudelmente concrete.

Esiste in questa, infatti, una contraddizione potentissima. Seppur le forme siano concrete, queste non sono che il simulacro di una città ormai inesistente, forme archetipe e imitazione dei modelli con cui le antiche civiltà progettavano le loro città. Una esplicita fisicità, piena del suo vuoto, che ora fa dell'assenza un relitto: cadaveri i cui resti di un glorioso passato non sono che un imbalsamato rimpianto di una magnificenza ormai perduta.


Per assurdo, data l'inossidabile materialità con cui è stata realizzata, l'opera è spietatamente immortale e destinata a sopravvivere all'umanità. Questo sembra tradire le premesse fondanti della Land Art ma, ancora una volta, diventa azione polemica per riflettere sullo scellerato uso che l'uomo fa delle risorse di cui dispone.62 La sua collocazione in una base aeronautica, che testava impianti nucleari, veicola un messaggio imprescindibile della Land Art: riflette la visione singolare, graffiante, sostenuta e autocritica di un uomo che ha raccolto ogni possibile risorsa e si è spinto sull'orlo della morte nella speranza di realizzarla.


Messe a confronto le due opere, emerge quanto nel corso della sua carriera Heizer abbia continuamente ripensato alla sua estetica e le forme proposte lo dimostrano. L'assenza si è trasformata, con il tempo, in ingombrante presenza, ma questa non ha smesso di essere speculare rappresentazione dell'angosciante vuoto che caratterizza la modernità liquidità.


Fig. 3 - 
-Joseph Beyus: 7000 Querce (1982-1987) vs Christo e Jeanne Claude: Wrapped Trees (1997)
Fig. 3 - -Joseph Beyus: 7000 Querce (1982-1987)
vs. Christo e Jeanne Claude: Wrapped Trees (1997)


In occasione della Documenta 7 di Kassel del 1982, Joseph Beyus realizza un'opera che rivoluziona l'idea tradizionale della scultura.

È contestualmente azione corale, performance concettualmente molto suggestiva, arte che si fa azione etica, atto di protesta che diventa potenza che genera inevitabili e sempre più urgenti interrogativi e nessuno può ritenersi esente dalla ricerca di queste risposte. In occasione dell'inaugurazione della Documenta, nei pressi del Museo Federiciano di Kassel, colloca 7000 pietre di basalto con cui realizza un triangolo: chiunque versi una somma di denaro, acquista una pietra e «adotta» una quercia.63

Il triangolo si rompe, le pietre diminuiscono e si trasformano in alberi, nuovo ossigeno per i polmoni di un sistema globale sempre più affaticato, corrotto dalle polveri, dal fumo e dall'inquinamento di un progresso poco sostenibile.


Fig. 4 - Christo e Jeanne Claude: Wrapped Trees (1997)
Fig. 4 - Christo e Jeanne Claude: Wrapped Trees (1997)


Christo e Jeanne Claude, dal 13 Novembre 1997 64, fino al 22 Novembre, impacchettano 178 alberi realizzando, gentili agenti di disturbo65 con cui sperano di innescare, in chi li osserva, una matura consapevolezza della bellezza dell'ambiente in cui vivono. Per farlo, ricorrono a materiali come il tessuto, plasticamente inteso, come generatore di effetti di luce, producendo maestosi e suggestivi interventi site-specific che generino intense esperienze estetiche in una dimensione outdoor destinate a una durata relativamente breve. Il sito su cui gli artisti intervengono, alla fine del temporaneo utilizzo, è poi riportato alle condizioni precedenti, come se l'azione artistica non fosse mai avvenuta.

Questa è una radicale dichiarazione di indipendenza: per quanto l'uomo possa tentare di dominare la natura non può possederla se non per sparuti sprazzi di breve durata. Per questo, tentano attraverso la fotografia di rendere immortale la loro estetica: «si avverte una maggiore urgenza di vedere quello che domani non ci sarà più… Nemmeno noi possediamo queste opere. Il nostro lavoro parla di libertà. La libertà è nemica del possesso e il possesso equivale alla permanenza. Ecco perché l'opera non può rimanere»66

Da un lato Beyus, dall'altro i coniugi Christo. Da una parte, le querce come seme che piantato si fa metafora della vita che si rigenera, nuova linfa e ossigeno che riconquista il suo spazio vitale creando un bosco che di fatto priva una porzione dello spazio dal suo infelice destino di essere fagocitato in nome del progresso.

Dall'altra parte, a distanza di anni, gli alberi sono soffocati con teli prodotti da un sistema industriale con cui gli artisti diventano complici. Se pensiamo a queste due opere la materia prima è comune, così come il processo e l'attitudine artistica che l'hanno generate: cioè, se le pensiamo come azione che prevede il coinvolgimento di numerosi attori e come arte che supera i confini della scultura. I risultati sono, però, agli antipodi se si considera l'approccio alla temporalità. Nella prima è declinata al futuro. L'azione infatti non si fermerà solo al momento in cui le querce verranno piantate, ma si dilata per tutta la vita della pianta.

Nella seconda opera, il tempo è spietatamente destinato ad una programmata obsolescenza, nulla, se non traccia fotografica, rimarrà dell'installazione. La prima è affidata alla capricciosa volontà della natura, la seconda non è stata pensata per essere sottoposta a destini che non fossero già stati stabiliti in partenza.

Eternità contro momentanieità, istinto di vita contro un inevitabile destino di morte, coraggiosa protesta contro una resa e una connivenza con il sistema.

Figg. 5 e 6 - Hamish Fulton: Arkle Sutherland (1976) vs. Wind through the Pines 1985 (1991)
Figg. 5 e 6 - Hamish Fulton: Arkle Sutherland (1976)
vs. Wind through the Pines 1985 (1991)






Auto-proclamatosi walking-artist, Hamish Fulton67 fa del camminare il tratto peculiare della sua arte. L'interazione generata con l'ambiente non prevede che l'artista produca modifiche che ne alterino l'aspetto. Fulton, infatti, si limita a realizzare appunti visivi con la sua macchina fotografica.

Se in un primo momento realizza foto in bianco e nero in cui il paesaggio non è che lo sfondo che accoglie interazioni umane e animali, materia sfuggevole percepita transitoriamente in un viaggio in automobile, con il tempo, diventa la protagonista di brevi viaggi fatti di lunghe camminate che diventano processualità artistica, sempre più tendente ad assumere i connotati di attitudine consolidata. Queste sono rappresentate da metonimiche tracce fotografiche che testimoniano l'atto creativo, quanto piuttosto l'opera che ne deriva come risultato: «no walk, no work».68

Con il passare dell'attività artistica, nuove consapevolezze rinnovano la produzione di fotografie. Queste si caricano di tentativi di implicazioni concettuali ottenute attraverso una manipolazione che introduce testi che accompagnano le fotografie che produce. Queste da semplici foto diventano wall printings simili a cartelloni pubblicitari.

Questo scarto differenziale nella produzione trova una ragione nelle convinzioni a cui approda l'artista. Il mezzo fotografico non sempre riesce ad essere traccia esaustiva della dimensione del sublime in cui avviene il momento artistico. Per questo, intervengono le parole che guidano chi le osserva in un viaggio che non è esperienza fisica ma occasione emotiva disturbante.

Analizzate alcune opere, alcune evoluzioni all'interno della produzione degli artisti qui considerati, è necessario porsi delle domande.

Cosa porta un artista a riconsiderare forme consolidate, arrivando quasi fino a negarle? Come possono processi artistici simili produrre risultati così agli antipodi? Come è possibile stabilire connessioni fra artisti geograficamente e nel tempo così lontani? Molto probabilmente è utopico pensare che le risposte possano essere univoche.

È piuttosto realistico, invece, pensare che il movimento, avendo rifiutato ogni tipo di caratterizzazione che gli garantisse una solida messa a sistema, faccia i conti con quesiti destinati a rimanere irrisolti.

Venendo a mancare premesse chiare, prevedere gli esiti delle riflessioni estetiche di questi artisti è impossibile. Sembra ragionevole che queste siano guidate da un processo combinatorio, in cui il vero agente di evoluzione siano gli incontri fortuiti, le connessioni garantite da reti sempre più fitte, una sensibilità comune che si scontra con un'esperienza personale così piena di contraddizioni che non permette una vicinanza che non sia un'ingannevole illusione. Se il cambiamento è l'unica costante, a cosa è destinata questa estetica, così criptica, che fuggendo da un sistema impostato al profitto si rifugiava nella natura? Viene quindi da chiedersi, a quale destino va incontro la Land Art, è possibile ancora definirla così, dato i tanti compromessi a cui è scesa con quel sistema da cui fuggiva? Saranno necessari ulteriori disastri ambientali affinché l'uomo possa diventare consapevole del ruolo che svolge e che la sostenibilità più che un'opzione sia un imperativo a cui deve sottostare ? Prima o poi sarà consapevole che la natura non dà scampo all'incessante azione erosiva del tempo?

Potrà la Land Art aiutarlo in questo processo?

        
        
        

NOTE

1 MILOSZ 1944, p.64.

2 «Rappresentare i membri della società come individui è il marchio della società moderna. La società esiste nella sua incessante attività di individualizzazione così come le attività degli individui consistono nella quotidiana riformulazione della rete di obblighi reciproci chiamata società»: BAUMAN 2000, p.22.

3 BAUMAN 2003, p.13.

4 Ibidem

5 DENICK 2001, p.194.

6 SIMMEL 1957, pp.227-242.

7 TOCQUEVILLE 1981, p.385.

8 BAUMAN 1999, p.99.

9 Ibidem

10 «Se qualcuno fosse stato costretto a spiegare cosa intendesse per spazio e tempo avrebbe detto che lo spazio è qualcosa che puoi attraversare in un dato tempo, mentre il tempo è ciò che serve per attraversare lo spazio»: BAUMAN 2000 p.123.

11 Ibidem

12 PERULLI, Il tempo da oggetto a risorsa Milano F. Angeli, 1996, pp.77-80.

13 L'istantaneità liquefa la resistenza dello spazio e la materialità degli oggetti.

14 THOMPSON 1979, pp.11-13.

15 BAUMAN 2000, p. XXII.

16 Ibidem, pp. XXI-XXXVIII.

17 Ibidem

18 Ibidem, p. XXXVII.

19 Ibidem, p. XXIV.

20 ARGAN, OLIVA 1991, p.249.

21 MOSCATI 2008, p.12.

22 Ibidem, p.43.

23 Ibidem, p.49.

24 Trans (aldilà), gredi (da gradis- camminare), cioè camminare attraverso

25 Limite da limes- confine

26 LATOUCHE 2012.

27 MOSCATI 2008, p.59.

28 BACHELARD 1975, p.219.

29 BAUMAN, op., cit., p.108.

30 L'opera è realizzata sulla Mesa del Mormon vicino a Overton in Nevada con il finanziamento della gallerista Virginia Dwan. Consiste in due canyon artificiali simmetrici monumentali realizzati come solchi profondi di 15 metri, larghi 9 metri e lunghi 457 metri, rispettivamente quasi 230 metri. È la poetica dell'assenza quella che Heizer attua attraverso un sapiente gioco di luci e sfruttando le proprietà della materia impiegata in ampie distese desertiche dove realizza delle sculture al «negativo». Questo lavoro può essere definito come un size-scale, dove per size si intende la dimensione reale mentre per scale una dimensione immaginata, quasi estetica. L'impatto con la monumentalità del vuoto dell'opera genera nello osservatore stranianti e contrastanti emozioni legate alla sua sfera interiore. Si percepisce minuscola entità che si confronta con la maestosità dell'ambiente. Questo gli permette di conoscersi mai internamente ma attraverso quello che lui mostra agli altri proprio come l'opera che non permette mai una visione totale da una posizione centrata ma svela un lato alla volta decentrando la posizione da cui la si osserva

31 LONG 1986, p. 8.

32 FULTON 1982, p. 87.

33 LONG, Interview with Martina Giezen in B. TUFNELL, Richard Long: Selected Statements and Interwies, London, Haunch of Venision,2007, p. 39.

34 MOSCATI 2008, p.58.

35 «Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo e più alto del regale sito delle piramidi, tale che né la pioggia corroditrice né l'Austro sfrenato potrebbero distruggerlo, né l'innumerabile serie degli anni e la fuga delle stagioni. Non morirò del tutto» BETTINI 2012, p.632.

36 MINKOWSKI 1968, p.18.

37 TIBERGHIEN 1995, p. 141.

38 LIPOVETSKY 2007

39 «Senza entrare nel dettaglio entrare nel dettaglio di queste malattie create dall'uomo, non si può che sottoscrivere la diagnosi del professore Belpomme: la crescita è diventata il cancro dell'umanità», LATOUCHE 2012

40 SLADE 2006, p.274.

41 BEVILACQUA 2006, p.80.

42 AUGÉ 2003.

43 Ibidem, p.8.

44 STEVANIN 2016, p.180.

45 SMITHSON 1967, pp.48-51.

46 Ibidem

47 Ibidem

48 PETTENA, SMITHSON 1972, p.56.

49 SMITHSON 1967 p.50

50 Ibidem

51 SMITHSON 1967.

52 AUGÈ 2003, p.37.

53 BIROT 1945, p.192.

54 A LINE MADE BY WALKING, England 1967 (1967) Il titolo si riferisce a un'opera di Richard Long, è stato scelto come metafora che ben si presta a indicare il percorso intrapreso nella fine degli anni '60 che ha portato alla multiforme e complessa esperienza della Land Art.

55 TIBERGHIEN 1995

56 «Depuis les années soixante on parle de Land art ou d'Earthworks pour caractériser le travail des artistes dans la nature. Or c'est là une façon peu rigoureuse de faire dans la mesure où en quarante ans les choses ont beaucoup changé, les pratiques se sont diversifiées et les attendus ne sont plus les mêmes. Tous les artistes qui interviennent dans la nature ne font pas du Land art, et ceux que l'on peut regrouper sous ce terme – même s'il reste toujours problématique – ne sont pas non plus tous concernés par le paysage. Cette conférence en repartant des années soixante tentera d'éclaircir un peu ces questions» TIBERGHIEN 2000, p.29–31.

57 «Similarly, the conceptual aspect of certain sixties works which played with territorial representation would be produced differently in contemporary works where map-making is very much present. If as a whole, we can bring to light a certain number of practices from the sixties, we should perhaps also consider the appearance of other forms of art in nature that break with this period or that look at earlier references» Ibidem

58 «But from roots to branches and leaves, we go from an art of sculpture which still retains the logic of the object, to an art of almost nothing in which the support is essentially a photograph. In the later case, nature is also seen

as a setting, in which chromatic qualities are highlighted and formal relationships made visible through a few subtle movements. And in a second phase there are practices that are more embodied, more closely linked to individual perception, thus creating relationships between the body and certain kinds of constructed spaces. This is what Morris called an art of "the space of the self," an environmental art centred on psychological phenomena. Architectural objects correspond to this example which maintains an intimate and internalized relationship with nature» Ibidem

59 «In this context, it can perhaps be said that nature has become the "off-camera" of art. What interests the artist most often today is what can not be seen. Nature is a power of transformation and we can grasp only conditions and fixed moments. If, in many respects, one is far from the first Land Art works built in deserts or abandoned quarries, one could also say from a certain viewpoint that a portion of their spirit remains» Ibidem

60 L'opera è realizzata sulla Mesa del Mormon vicino a Overton in Nevada con il finanziamento della gallerista Virginia Dwan. Due solchi profondi di 15 metri, larghi 9 metri e lunghi 457 metri, rispettivamente quasi 230 metri.

61 «City is a monumental architectonic work, with dimensions comparable to those of the National Mall, in Washington, D.C., and a layout informed by pre-Columbian ritual cities like Teotihuacan. Heizer started it in 1972, when he was in his late twenties and had already established himself as an instigator of the earthworks movement, a group of artists, including Robert Smithson and Walter De Maria, who made totemic outdoor sculptures, often in the majestic wastelands of the American West. “City” is made almost entirely from rocks, sand, and concrete that Heizer has mined and mixed on site. The use of valueless materials is strategic, a hedge against what he sees as inevitable future social unrest» GOODYEAR 2016

62 «“City” reflects the singular, scathing, sustained, self-critical vision of a man who has marshalled every possible resource and driven himself to the brink of death in the hope of accomplishing it. “It takes a very specific audience to like this stupid primordial shit I do,” Heizer told me. “I like runic, Celtic, Druidic, cave painting, ancient, preliterate, from a time back when you were speaking to the lightning god, the ice god, and the cold-rainwater god. That's what we do when we ranch in Nevada. We take a lot of goddam straight-on weather.”» Ibidem

63 GIANQUITTO 2018, pp.93-94

64 «178 trees were wrapped with 592,015 square feet (55,000 square meters) of woven polyester fabric (used every winter in Japan to protect trees from frost and heavy snow) and 14.3 miles (23 kilometers) of rope. The wrapping was completed on November 22. The height of the trees varied between 82 feet (25 meters) and 6.5 feet (2 meters) with a diameter from 47.5 feet (14.5 meters) to 3.3 feet (1 meter)»

65 BAAL-TESHUVA 2003, p.44

66 Ibidem, p.82

67 FULTON 2000

68 STEVANIN 2017, p.237

                          
                          
                          
                          

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