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Il Ninfeo di Genazzano di Bramante: analisi critica delle fonti e ipotesi ricostruttiva tramite CAD  

Giacinta Battaglini, con Premessa di Mauro De Persiis
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 19 Febbraio 2020, n. 887
http://www.bta.it/txt/a0/08/bta00887.html
Articolo presentato il 30 Agosto 2014, Approvato il 4 Settembre 2019 e pubblicato il 19 Febbraio 2020
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Premessa

Volevo fare un ringraziamento speciale alla Dott.ssa Giacinta Battaglini per avermi coinvolto nello studio del Ninfeo di Genazzano. La stima e l’amicizia verso la Dott.ssa nonché la passione per la storia e i monumenti dell’epoca mi hanno portato, senza alcun indugio, ad accettare l’offerta per la ricostruzione del ninfeo.

 

Prima di iniziare con il rilievo tecnico-fotografico, ho ritenuto opportuno procedere con uno studio preliminare di tutta la documentazione esistente del monumento, di non facile reperimento. Dopo aver studiato in maniera approfondita la storia, aver reperito altri esempi di ninfei realizzati all’epoca del Bramante ho cercato di capire, in qualità di architetto, quali potessero essere le reali intenzioni rappresentative e architettoniche del genio bramantesco. Con diverse copie della planimetria del ninfeo, mi sono recato in loco in compagnia della Dott.ssa Battaglini e  servendomi della strumentazione a mia disposizione ( metro laser, fettuccia, metro rigido, macchina fotografica, qualche chiodo,  spago e una scala a pioli) e  ho iniziato i rilevamenti scattando foto in di tutta l’area, dall’alto,  dal basso, foto generali del manufatto e foto di dettaglio con metro rigido per avere le giuste proporzioni in fase di restituzione grafica. Sono state necessarie due campagne di rilievi, la prima per prendere le misure generali e di dettaglio per eseguire la ricostruzione virtuale, la seconda come verifica se quanto restituito all’interno dell’ambiente cad rispondesse o meno alla realtà, e quindi effettuare qualche aggiustamento. Il rilievo è  stato eseguito prendendo le misure perimetrali del manufatto e quindi tutto l’ingombro esterno e tutti gli ambienti interni sfruttando la tecnologia laser, successivamente, considerando che non tutti gli ambienti hanno le pareti a squadro  ho eseguito le triangolazioni utilizzando la posizione del chiodo, per avere un punto fisso, e misurando tutte le diagonali, dapprima con la fettuccia (metro a nastro) e poi verificando con il laser. Successivamente sono passato alle misure di dettaglio per definire le nicchie con tutti i relativi dettagli architettonici, anche in questa circostanza ho utilizzato il metro laser e il metro rigido. Per collocare correttamente le nicchie all’interno dei vari ambienti, ho eseguito, ancora una volta, le triangolazioni come sopra descritto. Successivamente ho rilevato la posizione del colonnato esterno con il relativo basamento e stilobate, ridisegnando a mano libera i vari dettagli. Infine mi sono concentrato sulla quinta interna delle serliane e con l’ausilio della scala sono riuscito a prendere le misure non solo dell’altezza totale del ninfeo ma anche di tutta la parte dell’epistilio e delle serliane stesse. Finita la prima campagna di rilevazioni ho eseguito la restituzione grafica al cad producendo la planimetria, successivamente ho realizzato prospetti e sezioni, prima di procedere con la ricostruzione tridimensionale del manufatto ho ritenuto necessario fare un secondo sopralluogo per verificare le misurazioni. Tornato in ufficio, fatti gli opportuni aggiustamenti, ho iniziato a realizzare la ricostruzione virtuale del ninfeo, di come secondo gli studi fatti da me doveva essere all’epoca del Bramante. In prima istanza ho realizzato il modello tridimensionale all’interno dell’ambiente cad per avere un controllo preciso e matematico della ricostruzione, e riuscire ad ottenere piante, prospetti, sezioni, prospettive e assonometrie di tutto il manufatto e con tutti i relativi dettagli assolutamente rispondenti alla realtà. Successivamente, affinché il lavoro potesse essere valutato e apprezzato al meglio ho deciso di realizzare un secondo modello virtuale costruito all’interno del programma AUTODESK 3D STUDIO MAX, basandomi sulla precisione dei dati espressi dal modello cad. Il 3D realizzato con  3DS MAX mi ha consentito di generare le immagini render attraverso l’applicazione dei materiali, lo studio delle luci, e il posizionamento di diverse telecamere virtuali contestualmente con quanto asserito dalla dottoressa Battaglini Giacinta.

Mauro De Persiis

 

Analisi dell’edificio

 

Evoluzione storica dell’Edificio

Immerso nel paesaggio di tufo dei monti Prenestini, il complesso del Ninfeo è situato nel fondovalle, in un luogo appartato, presso le rive del torrente Fossato. Poggia su un rilievo del terreno ed è collocato, con un leggero dislivello interno, contro il pendio.

Visto nel quadro generale dell’architettura rinascimentale, l’edificio di Genazzano appare singolare e isolato, lontano da ogni linea tradizionale specialmente per due motivi. Il primo motivo consiste nel tipo di edificio, costituito da piccoli vani chiusi, raggruppati attorno a una grande struttura aperta, a porticato. L’altro motivo risiede nella collocazione paesistica: in fondo ad una vallata, assai umida, senza vista in lontananza, in netto contrasto con le consuetudini dell’epoca e con le note regole degli autori classici[1].

Si tratta di un complesso molto originale e per questo merita di figurare tra gli esempi più interessanti di architettura rinascimentale.

La facciata si apre in tutta la sua larghezza verso est, ovvero verso il fondovalle e il ruscello che attualmente scorre accanto alla costruzione ad una distanza di 40-50 metri. Elemento centrale dell’insieme è la loggia, un ambiente a tre campate disposto in direzione nord-sud, dal quale si accede a tutti i rimanenti spazi (Fig. 1). In origine tre arcate aperte con imponenti semicolonne addossate a pilastri ne costituivano la facciata. Attualmente è visibile solamente l’arco posto a sud, mentre gli altri sono crollati a causa dell’incuria, delle calamità naturali susseguite negli anni e dall’instabilità del terreno. I lati corti della loggia si aprono in esedre con un ordine di pilastri, dotate ciascuna di due nicchie laterali contenenti sedute caratterizzate da andamento concavo e di un passaggio centrale (Fig. 2).

 

 

Fig. 1 - Ricostruzione virtuale del Ninfeo sulla base di nuove ipotesi. Foto cortesia di Mauro De Persiis.


Fig. 2 - Resti di uno dei lati corti della loggia, che si apre in un’esedra con un ordine di pilastri, dotata di due nicchie laterali contenenti sedute caratterizzate da andamento concavo e di un passaggio centrale. Foto cortesia di Mauro De Persiis.


 

Questi passaggi conducono a spazi adiacenti la loggia, anch’essi compromessi dal punto di vista statico. Una serliana in travertino a tre arcate di ordine tuscanico assolve ad una doppia funzione, separa e contemporaneamente unisce la loggia con un ambiente attiguo, posto sul fronte verso il pendio, rialzato lievemente e con abside centrale. Sul medesimo lato, si trova un corpo edilizio molto particolare, il cosiddetto "ottagono". Il suo interno è costituito da un ottagono con quattro nicchie semicircolari disposte diagonalmente dotato di sedute e un’imponente vasca d’acqua rotonda incavata nel pavimento. Verso sud, allo spazio absidato è connesso uno stretto corridoio la cui lunghezza corrisponde a quella del vano adiacente sud[2].

Nel 1997 il complesso del Ninfeo è stato oggetto di un accurato studio condotto dalla cattedra della Technische Universität di Berlino nella persona di Marina Döring, in collaborazione con la cattedra di Fotogrammetria e di cartografia[3]. Tali ricerche hanno permesso di chiarire alcuni punti oscuri e di stabilire che non si tratta di un complesso omogeneo edificato in una sola fase. Analizzando accuratamente il monumento è riscontrabile uno sviluppo in tre diversi periodi ma risulta chiaro che la fase intermedia si distingua nettamente da quella precedente e dalla successiva. Questa fase principale è stata collegata da diversi studiosi a Donato Bramante[4]; a conferma di ciò non sono stati ancora rinvenuti documenti, ma, come si chiarirà più avanti, vi sono molti indizi di natura stilistica ed ideologica che rendono tale ipotesi molto verosimile e attualmente quasi certa.

 

Fig. 3 - Prima fase edilizia. Foto cortesia di Mauro De Persiis.


 

Osservando la pianta del Ninfeo si può notare che due corpi edilizi divergono dalla tendenza alla simmetria assiale presente su due livelli dell’intero complesso: si tratta dei resti di una muratura del corridoio sud e dell’ottagono. L’opera muraria restringe l’ambiente del corridoio sud come un vero e proprio ostacolo spaziale ed essa non è in rapporto con altri corpi architettonici e attualmente assolve soltanto la funzione di asse per la scala di cemento costruita recentemente per unire la loggia, il corridoio e lo spazio absidato. La posizione delle giunzioni e la mancanza di ogni corrispondenza con il resto dell’edificio dimostrano che si tratta di resti ascrivibili ad un corpo architettonico non appartenente alla fase costruttiva principale. Nella muratura del passaggio incurvato tra la loggia e il corridoio sono ancora visibili i resti di un architrave di travertino rimosso in un secondo momento. Le indagini archeologiche hanno stabilito che originariamente il livello del corridoio corrispondeva a quello dello spazio absidato ed è stato adattato a quello della loggia soltanto in una fase costruttiva più recente. I reperti edilizi mostrano chiaramente come nell’erigere i vani lungo il fianco della collina sia stato preso atto delle preesistenze[5]. La traccia più evidente di ciò si trova nell’ottagono. Infatti se ad una prima analisi il piano di calpestio sembra pavimentato con grossolane lastre di tufo, un esame più accurato dimostra invece che questa “pavimentazione” si riduce a una zona a forma di anello sviluppata in maniera concentrica intorno all’apertura della vasca. Le superfici triangolari sono state riempite con materiale lapideo di piccolo taglio posto su un letto di malta disgregata di colore grigio. Tale materiale si distingue molto facilmente dal conglomerato cementizio della pavimentazione anulare. Le otto pareti dell’attuale costruzione sono state erette sopra, e di conseguenza, successivamente rispetto alla “pavimentazione anulare” e alla sua vasca, ambedue frutto di una fase costruttiva precedente. Essa non è stata realizzata per l’ottagono odierno ma per un ambiente circolare la cui parete interna è conservata in negativo nel bordo esterno concavo della pavimentazione anulare. Tutto ciò dimostra che nell’ottagono e nel corridoio sud sono stati integrati resti di costruzioni precedenti all’attuale Ninfeo. La datazione e la funzione di questo primo complesso sono ancora abbastanza enigmatiche, l’unico reperto materiale che si distingue nell’intera costruzione e che può essere considerato punto di riferimento per una collocazione cronologica delle preesistenze è il pavimento che circonda la vasca dell’ottagono. Esso si conserva in tutta la sua estensione e non in pochi frammenti come avviene nella loggia e nello spazio absidato. L’aspetto esteriore, la consistenza e l’assoluta resistenza all’acqua corrispondono alle caratteristiche dell’opus cementitium[6]. Questo cemento, il materiale più usato nell’antica Roma, rimane nascosto all’occhio in quanto opera muraria posta tra lo strato in laterizio e quello in pietra viva. La superficie irregolare del pavimento dell’ottagono documenta che attualmente è rimasto solo il sottopavimento, il pavimento vero e proprio è andato perduto. Conseguenza di questa osservazione è la proposta di datare l’edificio preesistente nell’antichità. Considerata la rarità di resti riconducibili a questa prima fase, l’attribuzione cronologica può avvenire esclusivamente per via teorica, nonostante esistano alcuni fattori di ordine architettonico in grado di confermare tale ipotesi. Infatti osservando gli elementi costruttivi dell’ottagono, si fa palese l’applicazione di un sistema metrico antico. Inoltre appare indicativo il fatto che nelle fonti che vanno dall’inizio del XVIII secolo fino ai primi del XX[7], il Ninfeo è definito antico perché considerato in relazione agli elementi preesistenti.  Il vero oggetto interpretativo è sempre solo la vasca per la quale vengono proposte due diverse letture: come luogo di culto e come complesso termale[8]. Attualmente quest’ultima ipotesi risulta poco accreditata, perché non sono emersi resti di ipocausti e di altri sistemi di riscaldamento indispensabili per un impianto termale. Inoltre, anche l’autore del Manoscritto Sublacense ha smentito la presenza di impianti di questo tipo presso Genazzano[9]. La collocazione temporale della costruzione originaria si basa su una tecnica costruttiva caratteristica, per quanto riguarda la spiegazione della funzione originaria, rimane come indizio soltanto la tradizione locale secondo la quale questo sarebbe un antico luogo di culto[10].

 

Seconda fase costruttiva

Gli elementi tipici del Bramante riscontrabili nell’edificio si trovano esclusivamente nella parte centrale ovvero nella loggia caratterizzata da esedre e nello spazio absidato.

Infatti soltanto in questi punti si trovano gli ordini di lunghezza maggiore, le serliane ornate di oculi e le decorazioni a conchiglia, tali riferimenti sono del tutto assenti nei vani adiacenti.

Osservando la geometria della pianta si può notare che il progetto per la loggia e per lo spazio absidato è basato su un modulo circolare determinato dalla misura dell’intercolumnio delle campate della loggia. La pianta risulta suddivisa in singole cellule geometriche, trattate come spazi a pianta centrale indipendenti, ma legati da una reciproca relazione. Si può facilmente constatare come il Ninfeo consenta di distinguere tre fasi costruttive.

 

Fig. 4 - Seconda fase edilizia. Foto cortesia di Mauro De Persiis.


 

Ad un edificio preesistente in questa seconda fase sono stati aggiunti la loggia e lo spazio absidato, procedendo anche con la restaurazione dell’ottagono. Successivamente sono stati posti in essere vani adiacenti, la cui realizzazione secondaria è confermata dalla presenza di giunzioni.

Nella seconda fase edilizia la struttura ha subito l’aggiunta di corpi ma è stata anche ridotta in alcune sue parti, risultando evidente che l’attuale passaggio tra il corridoio sud e lo spazio absidato è stato creato solo successivamente. Si tratta di un’apertura irregolare che nella larghezza riprende le dimensioni della nicchia cieca dell’interno. In questo tratto, l’opera muraria confrontata con le pareti della nicchia lavorate con cura risulta interrotta in modo grossolano e nella zona alla base sono riscontrabili ancora i resti della parete originariamente chiusa[11].

Alla luce di ciò si può stabilire che la parete posteriore della nicchia in origine fosse completamente chiusa e lo spazio absidato costituisse una semplice illusione ottica, uno spazio non percorribile. Anche le due grandi esedre poste all’estremità della loggia vengono dotate in questa terza fase di aperture che costituiscono gli ingressi laterali alla loggia. Esattamente come le campate laterali con le loro nicchie dotate di sedili, anche quella centrale, incorniciata da pilastri, originariamente era chiusa.

 

Fig. 5 - Terza fase edilizia. Foto cortesia di Mauro De Persiis.


 

L’analisi geometrica e le indagini architettoniche e archeologiche svolte nel 1997 dall’équipe di studiosi tedeschi, forniscono finora, relativamente alla concezione spaziale e alla struttura, i seguenti risultati: nella seconda fase edificatoria, il complesso del Ninfeo era costituito solo dalla grande loggia e dallo spazio absidato posto alle spalle delle serliane e costituiva la ricca parete retrostante, configurata su due piani mediante la sua articolazione gradonata. Le esedre formavano le due chiusure laterali dello spazio mentre l’ottagono si distingueva dal resto dell’edificio sia dal punto di vista formale, sia decorativo, come piccola costruzione centrale indipendente[12]. Al visitatore che si avvicinava frontalmente all’edificio si presentava una facciata disposta in larghezza con tre arcate accompagnate da un ordine di semicolonne tuscaniche.

Viste dal fondovalle con i loro archivolti arricchiti da oculi, le serliane dello spazio absidato apparivano incluse in maniera concentrica all’interno degli archi della facciata. Questo effetto era accentuato dall’impiego di diversi materiali da costruzione, i blocchi di pietra angolari dei piloni delle arcate prospicienti la valle non sono in tufo, come i lati interni ma in travertino come le serliane. Sulle semicolonne si sono conservati frammenti di uno strato di intonaco chiaro che evidentemente simulava il travertino. Grazie alle serliane retrostanti la facciata, dava l’impressione di costituire un prospetto omogeneo di travertino che, attraverso l’uso delle nicchie sullo sfondo e all’abside nella campata centrale, acquisiva una propria articolazione interna. A seguito degli espedienti ottici utilizzati e della disposizione degli elementi di travertino, il complesso risulta concepito in base ad una percettibilità frontale esterna.

 

La Loggia

Tutti e quattro i lati della grande sala sono posti in reciproca relazione attraverso i cinque ordini tuscanici e le loro combinazioni presenti nell’edificio. Tali ordini, quello monumentale a semicolonne nella facciata, quello a colonne delle arcate di facciata e delle serliane e infine dei pilastri maggiori e minori delle esedre, si differenziano, secondo la loro posizione, in base a dimensioni, proporzioni e materiali[13]. Nello spazio interno le esedre ricalcano, in semplice tufo, il profilo in travertino dell’imposta dei pilastri della loggia, convertendone la funzione in trabeazione per il proprio ordine di pilastri. I profili dei capitelli dei pilastri e del loro basamento concordano con quelli dei pilastri delle serliane.

 

Fig. 6 - Rappresentazione virtuale della loggia. Foto cortesia di Mauro De Persiis.


 

Quanto ad altezza e larghezza, essi non hanno attinenza con nessuno degli appoggi verticali presenti nella loggia e nello spazio absidato. Le loro basi sono state innalzate in corrispondenza del livello dei sedili nelle nicchie. Con questo espediente il fusto dei pilastri è stato accorciato ad una misura che risulta troppo corta per l’ordine dei pilastri della loggia e troppo lunga per l’ordine delle serliane e con una larghezza determinata in relazione a questa diversa altezza, sulla base degli elementi adottati, si viene a creare in questo modo un nuovo ordine proporzionale, dal quale dipendono le restanti parti architettoniche delle esedre. Da tale sistema decorativo coerente che si sviluppa all’interno della loggia si distingue perĂ² l’architrave della serliana, il cui profilo evidenzia analogie con quello delle imposte dei pilastri, ma si differenzia concettualmente in maniera netta al punto di far supporre che nei punti di contatto delle parti tagliate devono essersi verificati problemi di montaggio. Ad una più attenta osservazione dei due elementi risulta chiaro che la trabeazione della serliana, a confronto con quella delle imposte, presenta un profilo che non è né identico come sostenuto da Fasolo[14], né ridotto, come affermato da Denker Nesselrath[15]. In seguito ad una accurata analisi dei vari elementi architettonici risulta evidente che alcune componenti non furono realizzate direttamente per il Ninfeo ma provenissero da altre architetture, attualmente non classificabili cronologicamente. Il confluire armonico degli ordini viene interrotto dalle zone di applicazione dei materiali edilizi riutilizzati, contrastanti la concezione generale della decorazione architettonica. La decorazione a conchiglia compare solo nelle esedre e ve ne sono tre diversi tipi che di volta in volta vengono adattati con precisione per dimensioni, materiali e struttura al luogo di applicazione (Fig. 7). Su entrambe le esedre si sono conservati ancora resti delle originali calotte che si fanno notare per la loro particolarità strutturale: già in fase costruttiva è stata data loro la forma di conchiglia per cui le nervature sono state riprodotte con costole di pietra e di malta, murate all’interno di un complicato involucro. Nelle nicchie circolari, realizzate come esedre in miniatura, le costole sono costituite da materiale lapideo, irregolare e di piccolo taglio. Spessi strati di malta sulle superfici tra le nervature dimostrano che le conchiglie sono state pre-modellate prima della rifinitura a stucco. Le calotte sono state realizzate al di sopra di un arco di scarico in pietre cuneiformi irregolari. Le conchiglie più piccole sono quelle che si trovano nelle nicchie sopra le sedute, ricavate da monoliti di tufo[16]. In passato si è ipotizzato che originariamente lo spazio absidato presente dietro le serliane, percepibile dall’esterno e che appartiene visivamente alla loggia, avesse la funzione di teatro d’acqua. Tale ipotesi è motivata dalla presenza di recipienti in terracotta collocati in file irregolari e in corrispondenza con le nicchie circolari e angolari.

 

Fig. 7 - Nicchia sulla parete sud. Foto cortesia di Mauro De Persiis.


 

Conseguentemente, si pensò a possibili vasche di raccolta dell’acqua nelle nicchie e a vasche incavate nel basamento dello spazio absidato[17]. Dopo un’attenta analisi è plausibile ipotizzare che i fori alle pareti, considerate la loro forma e posizione, potrebbero essere il punto di ancoraggio per le impalcature utilizzate per l’esecuzione di spettacoli teatrali e giochi d’acqua. Attualmente l’edificio risulta sprovvisto di copertura ma la presenza di imponenti pennacchi nella parte superiore dei pilastri in corrispondenza degli attacchi con le arcate testimoniano la presenza di una copertura a cupola nella campata centrale e a crociera in quelle laterali. Considerando le misure cautelative adottate contro le infiltrazioni di acqua provenienti dall’alto, come evidenziato anche dalla Döring[18], si può ragionevolmente ipotizzare che nella zona centrale della loggia la cupola avesse un Opaion con chiaro riferimento ad una architettura classica romana come il Pantheon. Tale espediente si rivela un ulteriore elemento di prova dell’utilizzo del ninfeo come teatro, in quanto il fascio di luce che poteva entrare dalla suddetta apertura avrebbe potuto suscitare negli spettatori meraviglia e incanto.

Lo stato di disfacimento in cui versa attualmente quest’area del monumento è imputabile a problematiche strutturali emerse a causa della natura argillosa del terreno e alla forza distruttiva di un catastrofico terremoto che colpì la zona di Genazzano nel 1703. In passato l’ingresso al portico era costituito da una grande scala a gradoni la cui esistenza è stata rilevata anche dall’indagine archeologica; successivamente le campate laterali in origine chiuse furono aperte e la scala perse la sua utilità.

 

L’ottagono

Il piccolo corpo a pianta centrale con al centro la vasca in origine non presentava alcuna apertura della parete, salvo lo stretto ingresso. Perciò è possibile che la copertura consistesse soltanto in una cupola aperta avente la funzione di impluvium. Come già descritto, qui si trova la cellula originaria dell’edificio e cioè la vasca d’acqua rotonda (Fig. 8). Il ruolo di grande importanza assolto dall’ottagono in relazione all’intera costruzione è sottolineato da un sottile dettaglio, ovvero mentre le esedre della loggia sono costituite interamente da tufo, la nicchia che conduce nell’ottagono è stata realizzata in travertino. Questa differenziazione di materiali potrebbe essere stata messa in atto per creare una nobilitazione che si può interpretare come un omaggio all’edificio preesistente e quindi all’antico.

 

Fig. 8 - Vista serliane con oculi. Foto cortesia di Mauro De Persiis.


 

Fig. 9a,b - Particolare pilastri, capitelli, oculi. Foto cortesia di Mauro De Persiis.


 

Fig. 10 - Serliana con abside. Foto cortesia di Mauro De Persiis.


 

Osservando attentamente questo spazio costituito da una vasca d’acqua centrale, appare abbastanza palese che l’interpretazione di molti studiosi del passato secondo i quali si trattava di antichi bagni (a cui si è già precedentemente accennato) non è affatto casuale, infatti tra quest’ambiente e gli edifici termali ci sono molte analogie[19]. Oltre a ciò bisogna anche segnalare la presenza di un impianto idraulico funzionante in tre delle quattro nicchie circolari ovvero gli sbocchi di due tubi in terracotta che proseguono all’interno dell’opera muraria e sono collegati tra loro. La stessa vasca risulta alimentata dalle acque di falda della roccia locale.

Nelle immediate vicinanze non esiste una sorgente, tuttavia l’alimentazione del sistema di condutture sarebbe possibile anche senza impianti di pompaggio, grazie alla sorgente che si trova sull’altro versante della valle. La situazione all’interno non è facilmente descrivibile perché i bordi dei tubi delle nicchie risultano pesantemente danneggiati. Inoltre è necessario segnalare l’assenza di bacini di raccolta e dei loro alloggiamenti. Mentre un’alimentazione con acqua fredda è assicurata da due sistemi indipendenti, non è invece dimostrabile la presenza di impianti di riscaldamento. L’ambiente quindi si presenta agli occhi dell’osservatore come una sorta di teatro d’acqua concepito soltanto per essere contemplato, per assolvere al desiderio di diletto di chi lo frequenta[20].

 

Fig. 11a,b - Rappresentazione virtuale dell’Opaion . Foto cortesia di Mauro De Persiis.


 

Fig. 12 - Sezione ottagono vista nicchie. Foto cortesia di Mauro De Persiis.
Fig. 13a - Fotomontaggio di più foto della nicchia all'interno dell'ottagono del ninfeo scattate e assemblate da Giacinta Battaglini e da Mauro De Persiis.


 

Fig. 13b - Fotomontaggio di immagini della nicchia all'interno del Ninfeo. Foto cortesia ed elaborazione di Giacinta Battaglini e di Mauro De Persiis.


 

I materiali utilizzati

I materiali utilizzati per l’edificazione del Ninfeo sono essenzialmente tre: tufo, travertino ed arenaria[21]. L’elemento principale è sicuramente il tufo litoide reperibile a Genazzano e nei limitrofi Cave e Valmontone. Il tufo impiegato durante la prima e la terza fase di edificazione si distingue da quello usato durante la fase principale (la seconda quella bramantesca) perché risulta più morbido ed è di colore marrone più scuro. I blocchi presentano misure irregolari, su tutti i muri corrono strati orizzontali continui. Il tufo è impiegato anche per le squadrature degli angoli dei pilastri delle serliane e nelle nicchie. Il travertino invece proviene probabilmente dalle cave di Tivoli ed è stato utilizzato esclusivamente con finalità decorative. L’arenaria ferruginosa, estratta dalle montagne ad ovest di Genazzano, è stata impiegata per rinforzare i muri di sostegno dell’esedra nord e anche nell’apparato murario della loggia. In alcuni punti è stata inserita per colmare i vuoti nei muri tufacei[22].

 

Rivestimenti e finiture

Nell’intero complesso si conservano solo pochi resti di intonaco, tuttavia risultano sufficienti per avanzare alcune considerazioni. Dal momento che anche sulle pietre dei muri, sul tufo e sul travertino sono riscontrabili tracce sottili di questo materiale, è da supporre che si tratti di una sorta di scialbatura avente lo scopo di uniformare cromaticamente i materiali costruttivi. Nei frammenti di intonaco della loggia l’analisi chimica ha rivelato l’impiego di un intonaco di calce idraulica resistente all’acqua. Sporadicamente, negli angoli delle paraste dei piloni si trovano ancora resti della vecchia caldana che con il suo materiale ricco di pozzolana è molto simile alla malta di sigillatura, ma nel pavimento è arricchita di materiale lapideo, dello strato originario si conservano solo alcuni frammenti, lastre di pietra piatta e irregolari, di superficie liscia. Il ritrovamento di una pavimentazione cosi grossolana stupisce in uno spazio con serliane e conchiglie concepito come ambiente rappresentativo. Si potrebbe ipotizzare che si tratti di uno strato di raccordo e non del pavimento originale; il confronto con il livello della soglia dell’esedra sud e dei resti di caldana mostra però che queste lastre di pietra costituivano la superficie del pavimento vero e proprio.

Tutti i pilastri della loggia terminano poco al di sopra della linea d’imposta, bensì più in alto vi sono solo l’arco trasversale sud della campata centrale della loggia e i due brevi archi trasversali dello spazio absidato[23].

 

L’ordine tuscanico

Le colonne impiegate nel Ninfeo sono tutte, come già detto, in ordine tuscanico, i capitelli si distinguono nettamente dagli esempi coevi grazie ad un abaco non rifinito. Nei primi decenni del XVI secolo si assiste alla definizione dell’ordine tuscanico[24], elevato da "tuscanicae dispositiones" ad ordine architettonico. Vitruvio tratta del tuscanico in maniera incompleta descrivendo il tempio etrusco[25] e gli architetti rinascimentali confrontano gli esempi antichi con le descrizioni vitruviane del dorico e del tuscanico e, non trovando una precisa corrispondenza degli elementi, prediligono alcuni dettagli a dispetto di altri oppure considerano il carattere più o meno arcaico delle forme. Il testo di Vitruvio costituisce l’unica fonte a disposizione degli architetti del Cinquecento per distinguere il capitello tuscanico da quello dorico. Le uniche colonne tuscaniche, con basi e capitelli propri, nettamente distinguibili da quelle doriche si trovano nella scala elicoidale del Belvedere.

Frutto degli studi vitruviani che Bramante intraprende prima del suo arrivo a Roma, le colonne della scala hanno la base composta da un plinto, un toro e un listello con cavetto, il capitello invece ha un abaco liscio, un echino ed un collare con listello e cavetto [26]. Il fatto che l’antecedente diretto delle colonne del Ninfeo sia un’opera certa del Bramante è un ulteriore indizio dell’autografia dell’edificio. Solo dopo la pubblicazione del testo vitruviano ad opera di Fra Giocondo maturarono altri esempi di ordine tuscanico. La loggia del cortile di Leone X a Castel Sant’Angelo, può essere considerato in ordine tuscanico, pur avendo un capitello con abaco rifinito a gola rovesciata. L’ultimo piano di palazzo Alberini è una loggia scandita da un ordine tuscanico: le basi sono sempre con plinto, toro e listello con cavetto, mentre i capitelli sono molto simili all’interpretazione vitruviani del tuscanico del codice Mellon. Nel Ninfeo di Genazzano ci troviamo di fronte ad un vero e proprio ordine tuscanico completo di trabeazione, contratta nelle grandi esedre e tripartita nelle serliane.

L’ordine tuscanico, usato coscientemente in una forma riconducibile alle indicazioni di Vitruvio, insieme ad una elaborata articolazione delle membrature architettoniche, una trabeazione contratta che risalta sui pilastri come imposta e si trasforma nelle serliane in trabeazione tripartita, denotano una grande maturità artistica. L’edificio è articolato in cinque ordini tuscanici di dimensioni diverse[27]. Il fronte era scandito da un ordine gigante, con semicolonne che inquadravano le tre arcate centrali e paraste che segnavano gli angoli di due stanze laterali, simmetriche e leggermente aggettanti rispetto al fronte. Di quest’ordine gigante restano sia le basi che gran parte dei fusti. Le esedre sui lati corti della loggia sono tripartite da quattro paraste che reggono una trabeazione ridotta a cornice e fregio. Le basi delle varie versioni del tuscanico del Ninfeo di Genazzano hanno tutte le stesse modanature ma con proporzioni diverse. L’altezza delle basi è circa metà del diametro delle colonne o della larghezza delle paraste. Nell’ordine delle grandi esedre ed in quello del prospetto il plinto è alto quanto l’insieme del toro, listello e cavetto, mentre nell’ordine delle serliane e delle piccole esedre la base risulta meno schiacciata. Per quanto riguarda i capitelli bisogna segnalare che risultano divisi in abaco, echino e collarino.

Le proporzioni dei capitelli del Ninfeo si avvicinano alle prescrizioni vitruviane, la larghezza dell’abaco è sempre uguale al plinto di base. I capitelli sono di due tipi. Il primo, usato sia nelle grandi esedre che nelle serliane, ha l’abaco liscio rifinito superiormente da un listello con cavetto seguito verso il basso un echino con collare.  Il secondo, tipo usato nelle piccole esedre, invece è composto semplicemente da un abaco liscio, un echino ed un quarto di cerchio ed un collarino separato da un fusto tramite un bastoncino. Il primo tipo, utilizzato anche nel castello Colonna, non è affatto comune e denota la volontà di modernizzare l’ordine tuscanico unendo due elementi distintivi di tale ordine: la fascia e il listello con cavetto. Probabilmente il progettista intendeva creare un capitello tuscanico con un abaco elaborato. I capitelli delle grandi esedre rispetto a quelli delle serliane risultano più allungati, il collarino è alto quanto l’echino e l’abaco messi insieme; l’echino è più alto che sporgente [28].

 

Il Manoscritto Sublacense

Il manoscritto ad opera di un autore anonimo, contenente un’importante descrizione del Ninfeo, è noto fin dai tempi del Senni, che lo cita nel suo testo Memorie di Genazzano e dei vicini paesi, ma nel corso degli anni se ne sono perse le tracce fino al 1999 quando Marina Döring lo ha riportato alla luce. Successivamente, non essendo stato inventariato, è stato nuovamente smarrito, fino a quando nel luglio 2012 è stato riportato alla luce dalla scrivente, grazie anche alla pazienza del direttore dell’archivio frate Romano.   

Si tratta di un documento molto importante poiché risale al XIX secolo, è completo di un apparato di cinque tavole e analizza dettagliatamente l’intero complesso. Molte delle opinioni espresse dall’autore oggi si sono rivelate infondate ma l’analisi di questo manoscritto è comunque un importante strumento d’interpretazione.

Nella prima tavola sono riprodotte la pianta della prima facciata, la platea del primo atrio, quattro nicchie e una porticina che conduce ad una vasca d’acqua.

Più difficile da valutare è in che rapporto siano con le opere certe di Bramante le serliane della tribuna di Capranica Prenestina[29], terminata nel 1520 ma probabilmente già iniziata da Bramante. Sia ogni forma dell’originale vocabolario architettonico, sia la sua magistrale composizione, come pure i rapporti verticalizzanti sono compatibili con l’architetto di San Pietro.

A rafforzare l’ipotesi della presenza di Bramante a Genazzano contribuisce anche un’altra circostanza: l’operato di un gruppo di scultori di formazione lombarda nella Chiesa di San Paolo situata nei pressi del Ninfeo. La chiesa risale al 1222, anno iscritto sulla campata in bronzo del campanile, ma che agli inizi del Cinquecento fu interessata da un’importante operazione di restauro[30]. A questa fase sono ascrivibili l’ampliamento del coro e la realizzazione di statue raffiguranti il Redentore e i dodici apostoli. Tra queste spiccano soprattutto due busti in marmo raffiguranti San Pietro e San Paolo, caratterizzati da un naturalismo classicizzante, attribuiti da Fabio Benzi a Francesco Briosco, seguace del Bramante. Il ricco insieme scultoreo, databile intorno al 1510-12, dimostra l’esistenza di un cantiere lombardo particolarmente vivace nello stesso periodo in cui viene collocata la costruzione del Ninfeo[31]. Bisogna costatare anche che la struttura muraria della zona absidale mostra una tecnica costruttiva simile a quella del Ninfeo, a conci squadrati e spigoli irregolari. Anche l’arco trionfale della chiesa di San Paolo è quasi identico a quello del Ninfeo, che rende ancora più verosimile una continuità tra i due cantieri e rappresenta un’ulteriore prova dell’autografia bramantesca del Ninfeo[32].

 

Fig. 14 - Ricostruzione virtuale vista nord della loggia. Foto cortesia di Mauro De Persiis.


 

Fig. 15 - Ricostruzione virtuale della facciata esterna. Foto cortesia di Mauro De Persiis.


 

Fig. 16 - Subiaco, Archivio Colonna, Manoscritto Sublacense senza segnatura, pianta del ninfeo.


 

Viene messa in evidenza la presenza di un bagno, ma l’autore specifica di non essere in grado di poter affermare che vi sia comunicazione con la sorgente di acqua tiepida presente nei paraggi. Inoltre figurano anche nicchie che adornano il recinto dei bagni, la seconda facciata e la platea del secondo atrio, più alta del primo[33].

La seconda tavola presenta una veduta della prima facciata che già all’epoca risulta semi distrutta (Fig. 3). Nella didascalia posta sotto il disegno l’autore afferma che tutto l’edificio è in ordine tuscanico-dorico e aggiunge inoltre che le colonne di mezzo risultano interrate per metà.

 

Fig. 17 - Subiaco, Archivio Colonna, Manoscritto Sublacense senza segnatura, tavola 2 facciata principale


 

Fig. 18 - Subiaco, Archivio Colonna, Manoscritto Sublacense senza segnatura, tavola 3 seconda facciata


 

La terza tavola raffigura la seconda facciata, che divide il primo dal secondo atrio, gli archi in questo punto sono traforati e più stretti di quelli della prima facciata, le colonne sono caratterizzate da pilastri con le imposte che riempiono i vuoti.

La quarta raffigura uno dei due lati del primo atrio dove si trova una porta in mezzo a due nicchie.

La quinta tavola rappresenta la terza ed ultima facciata visibile al di fuori dell’edificio.

 

Fig. 19 - Subiaco, Archivio Colonna, Manoscritto Sublacense senza segnatura, tavola 4 nicchia


 

Fig. 20 - Subiaco, Archivio Colonna, Manoscritto Sublacense senza segnatura, tavola 5


 

L’edificio viene descritto come una sorta di teatro che si affaccia verso i monti Ernici e nel Manoscritto è esplicitato che il complesso oggetto della descrizione si trova sotto Genazzano, proseguendo sulla via Latina, in zona Giardino e più precisamente al trentesimo miglio. A partire da questo punto del manoscritto la descrizione farà sempre riferimento alla contrada, detta Casa del bosco.

L’autore sostiene che molti studiosi dopo aver visitato l’opera, considerando gli ornati e le dimensioni, sono rimasti affascinati dall’esecuzione, altri invece ritengono che non sia tra le migliori, ma ne sottolineano la singolarità.

Ribadisce che tutta la zona nei pressi dell’edificio è denominata Giardino e che l’uso di tale denominazione risulta usata in tutti i registi relativi ai tre secoli precedenti la stesura del Manoscritto.

Inoltre specifica che l’abbandono della frequentazione dell’edificio risale a poco dopo l’edificazione.

Dopo aver esaminato l’opera, essa viene valutata antichissima e fatta risalire addirittura ai tempi di Ovidio, perché nel quarto libro dei fasti si fa riferimento a celebrazioni di luoghi d’acque tiepide nel mese di aprile. L’autore presuppone che potrebbe essere proprio il famoso edificio il luogo di tali celebrazioni, sostenendo che la struttura si rivela adatta ad ospitare manifestazioni sia di carattere pagano che religioso[34].

Il manoscritto riferisce altre importanti notizie, rivela infatti, che nei dintorni si svolgevano danze di uomini aventi sembianze di satiri e smentisce con forza la presenza di sorgenti termali nel territorio compreso tra Genazzano e Paliano, sostenuta invece dal Petrini[35]. Quest’affermazione è particolarmente eclatante anche per quanto concerne il chiarimento della funzione perché smentisce l’ipotesi sostenuta dal Tommasetti[36], secondo il quale si tratta di un edificio termale.

 

Donato Bramante Architetto della seconda fase costruttiva

Anche dopo recenti ricerche d’archivio non sono emersi indizi inconfutabili relativi all’architetto del Ninfeo, ma le prove pro Bramante come progettista ed esecutore della seconda fase costruttiva sono aumentate in modo considerevole sulla base delle analisi formali dell’architettura. Le indagini mostrano che in questa fase di costruzione, gli spazi laterali e i corridoi non erano stati ancora realizzati. La parte esterna dell’edificio è retta da un sistema geometrico omogeneo e razionale nel quale è riconoscibile la logica del progetto. Esso si basa su modelli circolari che sommandosi dividono l’edificio in singole cellule. Un analogo procedimento è stato riscontrato anche nei progetti bramanteschi per San Pietro e per il coro di S. Maria del Popolo[37].

In numerosi progetti come nel Tempietto e in tutti i lavori svolti in Vaticano, l’architetto marchigiano di formazione lombarda si è dovuto confrontare con strutture preesistenti. Come il progetto bramantesco di San Pietro dipende dalle misure e dal tracciato delle fondamenta del coro, così nel Ninfeo i resti dell’antico edificio precedente, nel corridoio sud e nell’ottagono, vengono fusi con la nuova costruzione tanto da essere poco distinguibile dal resto del complesso. Difficilmente, in presenza di un pavimento rimasto integro, i resti dell’edificio precedente sottostante sarebbero stati percepiti come tali. Ciò nonostante l’architetto ha lasciato nell’edificio stesso un segno indicativo del significato storico di questo spazio. Infatti, sebbene l’ottagono e la sua posizione di tamponamento dello spazio absidato siano resi invisibili al visitatore del Ninfeo attraverso numerosi espedienti architettonici, la nicchia dell’esedra che costituisce l’ingresso all’ottagono è stata decorata con prezioso travertino.

L’analisi architettonica ha dimostrato che al posto dell’odierno portale che collega lo spazio annesso a sud e la loggia, si trovava in passato una terza nicchia, probabilmente di forma circolare con sedili, come nelle zone laterali delle pareti[38]. Ciò indica che in origine vi erano tre identici settori di nicchie, incorniciati da pilastri e con una calotta a forma di conchiglia. Questa ricostruzione trova, salvo la diversa proporzione, chiari punti in comune con quella ipotizzata da Frommel per il coro di San Pietro[39].

La facciata del Ninfeo si può confrontare con l’articolazione del distrutto coro bramantesco, osservabile in una veduta di Maarten van Heemskerck.  A San Pietro come a Genazzano un interno molto articolato era racchiuso da un ordine colossale, le proporzioni erano allungate e il ritmo era diversificato dall’inserimento di campate con nicchie[40].

La parete del Ninfeo rivela la sua tridimensionalità nelle nicchie delle esedre, ma soprattutto nella graduazione del rilievo tra la zona centrale e gli avancorpi della facciata, condizione che si verifica anche nei campi parietali e nei fasci dei pilastri del coro di San Pietro. Altro elemento che sorregge la tesi dell’attribuzione bramantesca è sicuramente l’uso della serliana con cinque oculi (Figg. 12, 13), molto amata dal Maestro e introdotta, come chiarito da Frommel, presso Santa Maria delle Grazie a Milano[41].

 

Fig. 21 - S. Pietro, primo progetto del coro di Bramante e progetto di facciata. Firenze, Uffizi, Arch. 5, in Arnaldo Bruschi, Bramante Architetto, Bari, Laterza, 1973, p. 216.


 

Fig. 22 - San Pietro in costruzione prima del 1536. A destra l’esterno del coro di Giulio II, innalzato da Bramante.


 

Fig. 23 - Arco trionfale della chiesa di S. Paolo a Genazzano. Foto cortesia di Mauro De Persiis.


 

Continuando con la citazione delle analogie esistenti tra l’edificio sito a Genazzano e le opere del Bramante, bisogna evidenziare che una delle peculiarità principali del Ninfeo è la proporzione allungata degli ordini, che si riscontra in molteplici opere del periodo romano. Le colonne del piano superiore del cortile del convento di Santa Maria della Pace sono molto affini alle serliane presenti nel Ninfeo, mentre le semicolonne del fronte esterno trovano un parallelo nella facciata di Palazzo Caprini. Paraste allungate simili a quelle presenti nella grande esedra di Genazzano si riscontrano nell’esterno del coro di San Pietro. Nonostante l’impiego occasionale del canone vitruviano, Bramante fece uso delle proporzioni degli ordini in modo più libero rispetto ai suoi allievi e successori.

Un altro indizio per collegare Bramante al progetto del Ninfeo è la scalinata, la cui sottostruttura è venuta alla luce in seguito ai recenti scavi. Il reperto ricorda un tipo di scala che, con il suo piano intermedio e gli scalini che penetrano nello spazio di approdo, potrebbe essere definita come tipicamente bramantesca. Nel primo XVI secolo si trovano solo pochi esempi paragonabili a questo tipo di scala, ma è significativo constatare che sono tutti presenti in opere di Bramante. L’esemplare più importante, ancora ammirabile, è costituito dall’ingresso al Tempietto di San Pietro In Montorio[42].  Qui i tre gradini del basamento continuano con altri due gradini che incidono il podio rotondo dell’edificio. Il secondo termine di confronto, una scala nel cortile inferiore del Belvedere, si è conservata solo in un disegno della pianta di Lafréry.[43] La scalinata esterna a tre rampe costituisce la parte inferiore del collegamento verticale nel quale i gradini terminano in un pianerottolo e da qui altri tre gradini intagliano lo spazio in cui approdare. Allo stesso modo l’emiciclo nel Cortile Superiore può essere paragonato a quello appena menzionato. Anche in questo caso, una scalinata con profilo semicircolare porta ad un podio intermedio e da qui penetra nell’ambiente successivo.          

La prova più importante di una partecipazione diretta di Bramante alla costruzione del Ninfeo viene fornita però come già precedentemente accennato dal confronto con l’incisione Prevedari. L’incisione dimostra l’interesse nutrito da Bramante nei confronti del tema della rovina, infatti essa non rappresenta lo sfondo di un’azione, ne è la protagonista, la rappresentazione dell’uomo dunque riveste un ruolo marginale[44]. Il concetto di rovina moderna è estremamente importante per Bramante, ciò è evidente anche dal fatto che l’architetto scelga di trasferire il concetto espresso nel disegno in un’incisione: avvalendosi dell’operato di Bernardo Prevedari stipula un contratto nel quale l’incisore si impegna a depositare una somma di denaro come garanzia per la restituzione del disegno in condizioni integre. Il forte legame esistente tra l’incisione e il Ninfeo fa supporre che Bramante tramite Prevedari voglia fissare graficamente la propria visione della rovina artificiale e dopo circa vent’anni la ribadisce nel Ninfeo di Genazzano.

Fino ad oggi non esistono elementi certi riguardo il coinvolgimento diretto di Bramante al progetto, tuttavia il numero di indizi architettonici in questa seconda fase è tale da rendere inequivocabile la sua partecipazione. Inoltre il Ninfeo esprime meravigliosamente la maniera grande bramantesca di cui il Belvedere è il simbolo più eclatante, frutto di scelte lucidamente critiche, guidate da una visione prospettico-illusionistica ma motivata da un rigore metodologico preciso e determinato che si pone come strumento scientifico di affermazione teorica e di verifica dei principi[45].

 

Il committente e la datazione

La discussione su chi sia il committente del Ninfeo è strettamente collegata a quella relativa all’architetto, ritenendo Bramante artefice della seconda fase costruttiva si può dedurre che i lavori in questa parte dell’edificio siano ascrivibili solo al periodo compreso tra l’arrivo di Bramante a Roma nel 1499 e il 1514 (anno della morte). In questo lasso di tempo caratterizzato da un breve interregno dei Borgia (1501-1503), Signori di Genazzano erano il condottiero Prospero Colonna, suo figlio Vespasiano e il nipote Pompeo.

 

Fig. 24a - Ricostruzione virtuale, con in evidenza chiari elementi di origine Bramantesca
Fig. 24b - Ricostruzione virtuale, con in evidenza chiari elementi di origine Bramantesca. Foto cortesia di Mauro De Persiis.


 

Molti studiosi[46] ritengono che il committente dell’edificio di Genazzano sia Pompeo Colonna, figlio di Girolamo principe di Salerno e della nobile dama romana Vittoria Conti.

A tre anni, in seguito alla morte del padre, Pompeo viene accolto in casa dello zio Prospero, in età adolescenziale si impegna negli studi letterari ed entra a far parte della cerchia umanistica raccolta intorno alla cugina Vittoria Colonna, Marchesa di Pescara, una tra le voci poetiche più importanti del periodo. Oltre alle lettere si interessa anche alle armi: la prima prova sul campo di battaglia risale al 1° marzo 1498 quando a fianco di altri membri della sua famiglia sconfigge gli Orsini[47]. Stringe un forte rapporto di amicizia con il re di Napoli Ferdinando d’Aragona e si schiera al fianco di quest’ultimo contro il sovrano di Francia Luigi XII. Dopo la partenza del sovrano napoletano per la Spagna, il 20 dicembre 1501 Pompeo Colonna è scomunicato dal Papa a causa di alcuni tentativi insurrezionali e si allea con la Spagna. Mentre i Colonna vengono reintegrati nei loro possedimenti da Giulio II, eletto Papa il 1° novembre 1503, sul Garignano, ove si attesta l’esercito francese e quello spagnolo, Pompeo impedisce il dilagare dei nemici francesi sulla sponda spagnola del fiume. Nonostante i brillanti inizi militari, decide di non abbandonare la carriera ecclesiastica[48].

Il Cardinale che rappresenta la famiglia entro il sacro collegio, Giovanni, fratello maggiore di Prospero, non è in buone condizioni di salute e Pompeo viene scelto come erede e nel 1508, dopo la morte dello zio cardinale, ottiene il vescovato di Rieti e le abbazie di Subiaco e Grottaferrata[49].

 Successivamente organizza una congiura contro il papa Giulio II ma temendo possibili ritorsioni decide di scappare e di rifugiarsi nella villa di famiglia a Nemi. A causa della sua ostilità contro il pontefice Giulio II, nel 1512 perde il vescovato di Rieti. Il 20 febbraio 1513 il Papa guerriero muore e viene eletto Leone X Medici. Gli anni di questo pontificato si rivelano positivi per Pompeo che instaura con il nuovo Papa un rapporto molto diverso da quello che ebbe con il suo predecessore e a trentotto anni viene nominato cardinale di Santi Apostoli[50]. Con la morte di Leone X termina il periodo d’oro del cardinal Colonna. Il nuovo Pontefice Clemente VII lo ostacola e nel 1526 lo scomunica privandolo di tutte le cariche che deteneva[51]. Poco dopo il Papa cade prigioniero dell’imperatore Carlo V per il quale Pompeo svolge importanti attività militari. Il cardinale si prodiga per la sua liberazione e come segno di gratitudine il pontefice concede a lui e a tutta la famiglia Colonna il perdono. Pompeo muore a Napoli il 28 giugno 1532 in un palazzetto sulla spiaggia di Chiaja[52].

Contatti tra Pompeo e Bramante sono dimostrabili solo indirettamente, tuttavia è ipotizzabile che durante il periodo in cui il Colonna svolge attività militare per la casa reale spagnola conosca l’architetto, occupato nella realizzazione del tempietto di San Pietro in Montorio, commissionato dalla stessa casata.

Altro probabile punto di incontro tra i due potrebbe essere individuato in Santa Maria della Pace dove Bramante è chiamato dal cardinale Oliviero Carafa per realizzare il Chiostro. Pompeo detiene molti contatti con gli esponenti del partito napoletano residenti a Roma e si reca spesso nei loro territori[53]. Inoltre non bisogna neanche escludere un incontro in Vaticano, oppure presso Ascanio Sforza, fratello di Ludovico il Moro, committente di Bramante a Milano e amico del Colonna.

Un’ulteriore possibilità viene offerta dagli stretti rapporti di Pompeo con gli esponenti del ramo Paliano dei Colonna. La madre dell’illustre poetessa Vittoria è Agnesina da Montefeltro, figlia di Federico, Duca di Urbino. Bramante probabilmente ha occasione di conoscerla in giovane età alla corte di Urbino. È probabilmente grazie a lei che giungono presso la corte dei principi di Paliano numerosi artisti di provenienza lombarda che, dopo le vicissitudini del 1499, lasciano Milano e i suoi dintorni per cercare nuovi luoghi di attività.

Pompeo dunque ha diverse possibilità di entrare in contatto con Bramante, dispone delle conoscenze adeguate, è dotato, come rivelato dalle fonti, di un forte senso artistico e di una rilevante passione per l’arte antica. Il Cardinale è infatti molto legato ad Andrea Fulvio, poeta e antiquario discepolo di Pomponio Leto, che nel 1510 scrive una lettera in versi elegiaci con dedica a Pompeo. L’ambiente antiquario dell’Accademia romana di Pomponio Leto conferisce alla figura del Cardinale i tratti di una passione mimetica per l’antichità.

Il possibile contributo di Pompeo alla definizione architettonica del Ninfeo, mette in relazione quest’opera alla complicata concezione dell’Antichità dell’Accademia pomponiana. Inoltre a partire dal 1508, quando ottiene il vescovato di Rieti, il Cardinale entra in possesso delle risorse finanziare necessarie a finanziare il progetto del Ninfeo[54]. Bisogna anche considerare che è del tutto naturale che un aristocratico ambizioso come Pompeo voglia realizzare un progetto grandioso in uno dei suoi possedimenti.  Nonostante la grande preparazione culturale e le sue conoscenze, Pompeo non è l’unico che può aver commissionato il Ninfeo, bisogna annoverare come committente anche il cugino Vespasiano, figlio di Prospero.

Vespasiano Colonna, duca di Traetto e principe di Genazzano, figlio di Prospero Colonna e di Isabella Carafa, nasce tra il 1480 e il 1490 e sulle orme paterne abbraccia la carriera militare. La prima notizia che si ha di lui è del 1521, nel dicembre di quell’anno, infatti, il Sacro Collegio arruola mille fanti e ne affida il comando a due Orsini e a due Colonna, uno dei quali è proprio Vespasiano.

Agli inizi del 1524 è al comando di sessanta lance, trascorre i mesi estivi a Genazzano e ad ottobre partecipa alla spedizione organizzata da Francesco I ad Asti. Contribuisce con esborsi di denaro ai preparativi per la guerra antipapale successivi alla posizione filo-francese assunta da Clemente VII.

Nella primavera dell’anno successivo torna per un lungo periodo a Genazzano e perde la moglie Beatrice Appiani, madre dell’unica figlia Isabella[55].

Dopo la conclusione della lega del Papa con la Francia e la partenza dei rappresentanti di Carlo V da Roma il 13 luglio 1526, il Colonna è convocato dal pontefice a Roma per fare da tramite nelle trattative successive alla battaglia di Pavia. Nel luglio del 1526 passa a seconde nozze, prendendo in moglie la tredicenne Giulia Gonzaga, una delle donne più famose della sua epoca. Il compromesso di matrimonio tra la Gonzaga e il poco avvenente Colonna, redatto in casa d’Isabella d’Este è rimasto segreto fino alla ratifica di Ludovico Gonzaga, padre della sposa, la dote è stimata in 12.00 ducati.

Nel mese di agosto la tensione tra i colonnesi e il Papa raggiunge il massimo livello e Vespasiano occupa Anagni, e solo a questo punto si verifica una possibilità di pacificazione. Il Colonna a Roma tratta un accordo con il pontefice, stipulato il 22 agosto, in base al quale i colonnesi si impegnano a restituire Anagni, a ritirare le loro armi dal Regno e a insorgere contro il Papa che a sua volta perdona ai Colonna le inobbedienze e si proclama garante dei loro beni. Il 24 agosto vengono emanati i brevi di assoluzione, che annullano le bolle emesse contro i Colonna nel mese di gennaio.

Imprudentemente tranquillo, il Papa assottiglia la guarnigione di Roma e quando il 20 settembre i Colonna arrivano fulmineamente in città la resistenza si rivela inefficace. Gli invasori capeggiati dal Cardinal Pompeo Colonna e dai cugini Vespasiano e Ascanio si impadroniscono di tre porte della città e penetrano da porta S. Giovanni. Il contingente, forte di ottocento cavalli e di tremila fanti, sosta dapprima a piazza SS. Apostoli, dove si trovano le case dei Colonna, poi al grido di “Impero Colonna e libertĂ ” si portano a Trastevere e da lì giungono al Borgo dove si danno al saccheggio, devastando anche i palazzi vaticani e la basilica di S. Pietro.

L’Accordo siglato il giorno dopo fra il Papa, che si rammarica del tradimento di Vespasiano, e l’inviato imperiale Ugo di Moncada stabilisce una tregua di quattro mesi, e il ritiro delle truppe dalla Lombardia e il perdono del Papa per tutti i Colonna[56]. Il Pontefice però non tiene fede agli impegni presi e il 20 febbraio 1527 emette una bolla contro Vespasiano Colonna e i suoi soldati.  I Colonna si macchiano nei confronti di Clemente VII anche di un’altra colpa: nel gennaio Napoleone Orsini organizza l’ingresso in città di truppe imperiali guidate da Ascanio Colonna ma come ricompensa Vespasiano Colonna offre la mano della figlia Isabella. Alla fine la congiura fallisce e il matrimonio salta[57].

I Colonna dopo aver ottenuto il perdono di Clemente VII nel marzo 1527, partecipano al sacco di Roma, Vespasiano rientra a Roma insieme al Cardinale Pompeo e partecipa alla capitolazione del Pontefice.

Vespasiano Colonna è un personaggio da tenere in forte considerazione: in prima linea insieme al cugino Pompeo nella lotta contro il papato, il poeta Pietro Gravina ne loda la precisione e la grande cultura[58]. Dopo aver tracciato le tappe fondamentali della vita del condottiero, alla luce delle frasi del Gravina riguardanti l’edificio di Genazzano, bisogna prendere in considerazione il coinvolgimento di Vespasiano in tale impresa. Oltre alla testimonianza del poeta non sono ancora emerse prove documentarie indicative ma alcune circostanze rendono verosimile quest’ipotesi. Vespasiano Colonna e il cugino Pompeo, hanno dei comuni obbiettivi e combattono fianco a fianco contro il papato, inoltre Pompeo è cresciuto con lo zio Prospero, i due cugini vivono nella stessa casa come fratelli ed è quindi verosimile pensare ad una collaborazione del capitano di ventura in un’impresa del cugino cardinale. Bisogna anche considerare che la moglie di Vespasiano è una donna di grande cultura, che ha vissuto la sua giovinezza presso la corte di Piombino e ha frequentato personaggi che l’avrebbero potuta mettere in contatto con Bramante, allevata dal colto padre Giacomo Appiani e dall’illustre Vittoria Piccolomini, probabilmente influenza le scelte del marito e lo indirizza verso progetti importanti. Vespasiano quindi può essere messo in relazione al Ninfeo anche se ancora non sappiamo se egli interviene attivamente all’ideazione del monumento oppure se si occupa soltanto della parte finanziaria. Inoltre è necessario anche capire se il Principe partecipa al cantiere a partire dalla prima fase, oppure se comincia a seguire i lavori in un secondo momento.

Ripercorrendo cronologicamente le tappe fondamentali della costruzione del Ninfeo per scoprire il probabile contributo di Vespasiano Colonna, si evince che nel 1518 l’edificio è già stato costruito perché, come segnalato da Frommel[59], costituisce lo schema di partenza per la realizzazione del primo modello per Villa Madama per il quale costituisce molto probabilmente il modello di partenza. Il primo progetto realizzato da Raffaello per la splendida villa, il GDSU 273 risalente all’estate del 1518, è caratterizzato da elementi riscontrabili a Genazzano quali la loggia centrale con campata sormontata da cupola, due campate laterali coperte da volta a crociera ed esedre laterali con nicchie diagonali e varchi centrali. Il secondo GDSU 314, ovvero quello definitivo, risulta invece decisamente più distante dalla concezione del Ninfeo. Questi elementi indicano che Raffaello inizialmente prende spunto dall’opera situata a Genazzano e successivamente preferisce intraprendere una strada diversa. Molto meno plausibile appare l’ipotesi che l’architetto del Ninfeo osservi in anteprima il primo progetto di Raffaello e ne tragga ispirazione, quindi il 1518 rappresenta un termine ante quem per l’edificio di Genazzano [60].

In quell’anno Pompeo Colonna torna nell’Urbe, quindi è probabile che ai tempi dell’edificazione della Villa posta su Monte Mario, la loggia e l’ottagono del Ninfeo, cioè le parti attribuite a Bramante, non siano ancora terminati e che di questi lavori se ne occupi proprio Vespasiano Colonna, che in quel momento vive stabilmente a Genazzano e può seguirli personalmente.

Come abbondantemente riferito da Gravina nelle sue opere, Vespasiano Colonna possiede le conoscenze necessarie per seguire tale impresa e ama l’antico quindi può essere verosimilmente accostato al Ninfeo. In mancanza di altre prove, le Sylvae costituiscono l’unica fonte per tale relazione, e quindi meritano di essere inserite di diritto tra i documenti riguardanti l’edificio. Volendo circoscrivere con più precisione il momento in cui l’opera fu commissionata, credo sia opportuno concentrarsi sul periodo compreso tra il 1508 e il 1511, anno in cui la conflittualità esistente tra Giulio II e i baroni romani culmina in una crisi profonda. Si ritiene poco probabile che in un momento di difficoltà economica dovuta alla crisi con il papato i Colonna abbiano commissionato il Ninfeo. Per questo si reputa più verosimile una datazione entro il 1511 e si può escludere, quindi, che il Ninfeo risalga al 1499, quando Bramante giunge a Roma, perché solo durante la progettazione di San Pietro arriva a concepire strutture robuste caratterizzate da un linguaggio plastico che distingue nettamente il Ninfeo dalle prime opere romane[61].

 

Il Ninfeo, elemento di un paesaggio artificiale

Osservando la valle del Ninfeo, l’attenzione viene catturata da particolari fenomeni topografici. La valle non presenta una sezione a forma di V tipica dei paesaggi di tufo, ma appare piatta e larga sia al di sopra che al di sotto del Ninfeo. Inoltre la superficie di questa zona non declina seguendo la naturale pendenza del ruscello, ma si divide, attraverso sbalzi di differente altezza, in almeno tre gradoni distinti[62].

La forma particolare della valle e le posizioni sicuramente non casuali degli sbalzi superiori del terreno, danno adito all’ipotesi che questi gradoni potrebbero non avere origine naturale, come la diga nella parte inferiore della valle.

A confermare questa supposizione contribuiscono anche le analisi archeologiche svolte nel 1998 dall’équipe di ricercatori tedeschi. In quell’occasione è emerso un tratto di muro alto mediamente 80 cm che segue inizialmente un corso lineare est-ovest e poi devia verso nord con una profonda curvatura. Il muro della parete arcuata è largo 1,10 m, il lato che dà sull’area antistante il Ninfeo, ha una sporgenza, larga 40 cm, simile ad un giardino. Completando graficamente la forma concava, si ottiene un semplice cerchio con un raggio interno di 9,30 m. Sia sul lato interno, sia su quello esterno dell’edificio si conservano resti di intonaco molto resistente all’acqua, grazie all’aggiunta di pozzolana rossa e laterizio. Le superficie delle pareti presentano caratteristiche molto diverse tra loro: il lato interno infatti è caratterizzato da un intonaco dello spessore di circa 2 cm e da resti di un rivestimento colorato, il lato esterno invece presenta uno strato di intonaco di spessore quasi doppio, privo di pigmenti e un profilo parietale obliquo[63].

Considerando che su entrambi i lati del muro è applicato dell’intonaco e data la curvatura verticale della parte esterna, appare chiaro che non si trattava di un muro di protezione. L’utilizzo di un intonaco particolarmente impermeabile fa dedurre l’esigenza di tutelare il Ninfeo dal contatto con l’acqua. Questa arrivava dal lato posto più in alto rispetto al ruscello, dove il muro era caratterizzato da uno strato di intonaco particolarmente impermeabile, pendente e curvato in forma convessa in modo da garantire una resistenza ottimale contro la pressione.

Le ricerche hanno dimostrato che in passato c’era un secondo lago artificiale collocato tra il Ninfeo e il Ponte Pizzuto. È stato inoltre riscontrato che la valle del Ninfeo è caratterizzata dalla presenza di tufo a ovest, di calcare a est, e da un largo strato di creta. Questo materiale argilloso, sul quale è stato fondato anche il Ninfeo stesso è perfettamente impermeabile.

Se quindi qualcuno dovesse cercare nei Monti Prenestini il luogo perfetto per la realizzazione di un lago artificiale, lo troverebbe nella valle del Ninfeo. Questa zona è ideale per tale scopo, sia per la presenza della creta, materiale adatto alla sigillatura del fondo, sia per la ricchezza d’acqua a disposizione. I risultati delle indagini mostrano che in passato non esisteva soltanto il lago artificiale del muro antico, ma anche un secondo bacino al di sopra dal Ninfeo. Tale notizia è confermata dai Notai di Genazzano del 18 febbraio 1576. Qui il complesso architettonico del Ninfeo viene definito «comedomus Iardini prope loco ubi erat lacus»[64].

 

Fig. 25a,b - Ricostruzione virtuale, con in evidenza chiari elementi di origine bramantesca. Foto cortesia di Mauro De Persiis.


 

La valle

Attualmente appare chiaro che non era stata progettata solo l’area circostante il Ninfeo, ma anche la valle intorno ad esso attraverso la creazione dei laghi artificiali. In questo paesaggio creato artificialmente il Ninfeo è soltanto un elemento architettonico decorativo.

A circa 150 metri al di sopra del Ninfeo si trova la contrada "La Soglia" che viene considerata già dal Senni come facente parte dell’edificio[65]. Qui il Fossato sfocia nella valle del Ninfeo, tra due formazioni tufacee che quasi si toccano. A pochi metri da questo luogo si trova il lavatoio, la cui sorgente è posta all’interno di una cella muraria, sulle pareti della quale figurano resti di affreschi medioevali colorati. Particolari architettonici come l’intonaco, l’utilizzo di enormi blocchi di tufo con complicati collegamenti e resti di apparati decorativi, indicano che non si tratta di una porta d’ingresso di un orto contadino ma di un elemento architettonico costruito con notevole spesa.

Nel 1703 la Porta del Giardino viene menzionata per la prima volta nel Catasto Giorgi[66], ma il primo ad occuparsene dettagliatamente è stato l’autore del manoscritto Sublacense nel 1800. Egli scrive «A distanza eguale di ca.200 canne sopra l’edificio andando contro il corso del ruscello alla parete sinistra si trova una sorgente di acqua tiepida che funge da lavatoio, ed è carissima alle nostre lavandaie nell’inverno, ma il suo fabbricato ed un suo interno reclusorio ne fa congetturare altro più nobile uso in addietro. Poco più sopra si osservano gli avanzi di un antico opificio ed è notabile un cunicolo sotterraneo che trafora tutto un colle per riunire le acque di due torrenti»[67].

L’autore sottolinea il fenomeno della sorgente calda e riconosce che la cella della sorgente del lavatoio, oggi inaccessibile, aveva un tempo una funzione estremamente importante, attualmente dimenticata. Non descrive il portale come tale, ma lo segnala come resto di un edificio antico (avanzi di un antico opificio). L’area si configura quindi come una sorta di locus amoenus.

Circa 70 m più a sud, seguendo il corso del torrente Fossato, si trova il Ponticello Pizzuto, un ponte largo circa 4 metri costruito in grossi blocchi di tufo che crea un passaggio attraverso il fiume e allo stesso tempo corrisponde allo sbalzo di terreno superiore. Più giù, lungo il ruscello, si trovano il Ninfeo e il muro lungo[68].

Un altro particolare all’interno dell’area merita di essere menzionato, anche se si trova ad una distanza di 350 metri dal Ninfeo. Si tratta di una formazione di tufo evidente anche osservando la carta topografica della zona dal livello della strada, le pareti rocciose si innalzano verticalmente per 20 metri. A circa 50 m da questo punto, a metà del pendio, è posta una vasca d’acqua tiepida con una propria sorgente. A prescindere dalla grandezza della vasca, bisogna sottolineare che il bordo del bacino rivolto a valle è rivestito con lastre di travertino regolare e quasi quadrate. Il rivestimento in travertino porta ad escludere che si possa trattare di un abbeveratoio per animali.

Dopo aver osservato attentamente il Ninfeo e l’area circostante si puà constatare che nella valle si trovano elementi architettonici che potrebbero essere relazionati all’edificio. Ciò indica che il Ninfeo costituisce parte di un complesso che trasforma la valle del Fossato in un parco con diverse attrazioni e punti di sosta. La porta del giardino ha la funzione di apertura e di ingresso a una porzione di paesaggio nobilitato da interventi artificiali. A ciò si aggiungono tre laghi artificiali, uno più piccolo al di sopra del Ponticello Pizzuto, uno a sud trattenuto dal bordo del bacino al di sopra della zona d’ingresso del Ninfeo e uno più grande regolato dalla diga sud[69]. Nel 1559 gran parte delle contrade che formavano la valle del Ninfeo viene ceduta, come già detto, da Marcantonio Colonna ad alcuni contadini di Genazzano per l’impianto degli orti. I coltivatori avevano però bisogno di terra e non di laghi, per questo motivo è possibile che la diga superiore abbia smesso di funzionare da questo momento in poi. Considerato che il livellamento della sezione trasversale della valle e la contestata sedimentazione testimoniano la presenza continua dei laghi per alcuni decenni, è possibile dedurre che questi bacini artificiali furono realizzati al più tardi nei primi anni del XVI secolo e furono in grado di appianare il fondo della valle per diversi anni.

Le tracce di carattere architettonico e geologico fanno supporre che la realizzazione di questo parco paesaggistico sia avvenuta durante la seconda fase di costruzione del Ninfeo. In riferimento a ciò è necessario accertare se nel Rinascimento siano stati realizzati altri giardini di esperienza. Bisogna tener presente che in merito a questo tema risulta più semplice individuare esempi risalenti all’epoca antica conosciuti nel Rinascimento rispetto a quelli realizzati proprio nel Cinquecento. Tra gli esempi antichi è possibile annoverare le descrizioni delle ville imperiali, i cui ampi giardini ricordano la valle del Ninfeo, sia per i loro diversi edifici di sosta sia per la loro natura. A parte i resti quasi inaccessibili della villa di Nerone con i suoi tre famosi laghi artificiali nel frattempo distrutti[70], il complesso di villa Adriana a Tivoli costituisce una delle poche ville antiche che nel ‘500 conservano ancora il giardino con antiche rovine di edifici. Il Belvedere di Giulio II in Vaticano e il Villino Chigi al Tevere rappresentano gli esempi romani di ville suburbane più illustri dei primissimi anni del XVI secolo, ma i loro impianti non sono paragonabili a quello della valle del Ninfeo. Solo a partire dalla seconda metà del XVI secolo si trovano giardini dalla concezione confrontabile, come quello del Sacro Bosco a Bomarzo.

Solo in un’altra opera quasi contemporanea al Ninfeo si individuano risonanze di un fantastico paesaggio artificiale, in uno scambio tra arte e natura. Si tratta di un’opera letteraria: l’Hypnerotomachia Poliphili[71].

 

L’Hypnerotomachia Poliphili

L’Hypnerotomachia Poliphili, pubblicata a Venezia nel 1499 da Aldo Manuzio il Vecchio, narra il combattimento amoroso di Polifilo in sogno, un vero e proprio viaggio iniziatico che ha per tema centrale la ricerca della donna amata, metafora della trasformazione interiore alla ricerca dell’amore platonico[72]. L’incunabolo aldino suscita da sempre un notevole interesse negli studiosi di arte dei giardini in quanto contiene la descrizione di un giardino che per conformazione e composizione, e soprattutto per essere pura idealità, può considerarsi l’archetipo dei parchi reali del Rinascimento. Il suddetto si configura con l’isola di Citeria, sacra a Venere, ed è innanzitutto metafora del traguardo del viaggio iniziatico compiuto da Polifilo, l’eroe protagonista. A prescindere dalle vicende narrate, l’isola giardino di Citeria costituisce la sintesi di tutti gli elementi del giardino umanistico, nonché l’anticipazione di alcuni principi manieristi. Fra i libri del Rinascimento l’Hypnerotomachia Poliphili è quello che più direttamente ha influenzato le scelte architettoniche ma anche simboliche e ideologiche del giardino cinquecentesco, offrendo indicazioni operative e proposte concrete senza comunque evadere dai confini di un’utopia, ragion per cui ha avuto, soprattutto a livello figurativo, una diffusione enorme nel Cinquecento[73].

Il giardino è il pretesto per mettere in evidenza quegli aspetti della cultura umanistica che entrano in gioco e sostanziano ogni forma d’arte, nella consapevolezza che nessun’arte è in grado di integrare e rappresentare le varie tendenze filosofiche, artistiche e matematiche dell’epoca più adeguatamente dell’architettura e di conseguenza della nuova arte dei giardini ad essa direttamente legata. L’opera è scritta nella forma di romanzo visionario, infatti, secondo una tradizione medioevale, il sogno è la forma letteraria che consente all’autore di far coesistere personaggi umani e creature mitologiche, illustrando vicende eroiche e idilliache nelle quali è magistralmente celato un insegnamento esoterico. La narrazione è caratterizzata da molte allegorie, le vicende descritte e i personaggi hanno significati molto profondi. Polia rappresenta la Saggezza e la ricerca di Polifilo è dunque una ricerca della saggezza e della conoscenza quale poteva apparire agli occhi dei filosofi dell’antichità[74]. L’itinerario percorso dal visionario lo conduce, attraverso la via della conoscenza ritrovata grazie alla Fortuna (il Destino), alle prese di coscienza che riguardano il destino dell’uomo verso la sorgente della vita. 

Il libro è suddiviso in trentotto capitoli, composto da due parti, distanti tra loro per quanto riguarda contenuti, elementi linguistici e stile narrativo. Nella prima parte, in cui emerge la passione dell’autore per l’architettura, Polifilo narra in prima persona i fatti accaduti in seguito alla perdita di Polia e il successivo ricongiungimento con l’amata; nella seconda parte, più introspettiva, la protagonista femminile prende la parola, racconta delle sue origini e dell’innamoramento.

Il testo è arricchito da centosettantadue xilografie in gran parte dedicate all’espressione dell’idea di giardino rinascimentale. Bisogna tener presente che l’Hypnerotomachia non è soltanto un libro illustrato, il modo in cui l’autore si serve delle immagini è infatti innovativo e atipico[75]. Un fatto notevole e inconsueto nella tradizione del libro è che in questo caso incisioni e testo sono stati ideati contemporaneamente. Sicuramente l’autore ha concepito i disegni nello stesso momento in cui ha ideato il testo; ciò significa che le immagini corrispondono a un personale progetto iconografico. Inoltre, guardando l’opera nel suo insieme, si può affermare che l’autore si sia servito in modo consapevole del disegno come di un secondo registro comunicativo rispetto alla parola. La collocazione delle immagini nel testo è libera, i centosettantadue disegni infatti sono sparsi lungo il racconto e non coincidono con l’inizio o la fine dei capitoli. Il disegno interrompe la lettura, o meglio irrompe nello scritto, determinando una continua integrazione tra i due registri comunicativi[76] e apparendo come mezzo principale per comunicare lo sviluppo narrativo. Le tavole risultano spesso sostitutive di descrizioni letterarie in quanto cercano di integrare momenti narrativi omessi nell’opera. In alcuni casi l’autore ha trasferito nel testo le caratteristiche del disegno e viceversa. Ciò si riscontra in alcune descrizioni di strutture architettoniche per le quali Polifilo spende fiumi di parole, ricorrendo a riferimenti e termini tecnici per esemplificare il metodo progettuale. Il testo risulta quindi pregno di dettagli architettonici, rendendo superfluo un disegno particolareggiato, come ad esempio la descrizione della Magna Porta nel Libro I. Questa particolare sinergia fra scrittura e immagini, che crea talvolta scompensi o squilibri, è intenzionale e rende evidente un aspetto fondamentale: l’inscindibilità del testo dalle figure.

A proposito dell’interazione fra i due sistemi comunicativi, disegno e parola, l’autore si avvale di due diversi artifici che costituiscono altrettanti casi limite dal punto di vista del rapporto testo immagini: i geroglifici (hierogliphica), nei quali il disegno si fa parola, e i technopaegnia, nei quali la parola si fa disegno. Il fascino dell’antico Egitto e la forte portata simbolica del significato dei geroglifici furono oggetto di attenzione fin dall’antichità e rappresentarono un fenomeno curioso dell’Umanesimo, in particolare l’interesse dei filosofi del Quattrocento era volto alla scrittura ideogrammatica degli egizi, considerata depositaria di grandi verità celate dietro un sistema linguistico difficilmente comprensibile.

L’universo dei simboli egiziani, sconosciuto e fantastico, si mostra agli occhi del mondo grazie a un importante rinvenimento, gli Hieroglyphica di Horapollo. Il manoscritto alessandrino, risalente al IV secolo d.c., è stato portato a Firenze nel 1419 dal sacerdote fiorentino Cristoforo Buontelmonti dall’isola greca di Andros ed è caratterizzato dalla spiegazione di duecento geroglifici[77].

Nell’Hypnerotomachia un’attenzione particolare meritano i fregi, epigrafi, oggetti di arredamento come vasi, altari, fontane e interi progetti architettonici. Il racconto di Polifilo appare sorprendente anche per questo aspetto. Infatti, utilizzando non solamente descrizioni ma veri e propri progetti, introduce in un romanzo d’invenzione una materia tecnica adatta piuttosto ad un trattato. Inoltre bisogna considerare che la prassi di illustrare con disegni tecnici un trattato che cominciò a diffondersi proprio nella seconda metà del Quattrocento è limitata al manoscritto. Sia l’edizione del De re edificatoria di Leon Battista Alberti, sia le edizioni quattrocentesche del trattato De Architectura di Vitruvio furono date alle stampe prive di corredo illustrativo.

Dal punto di vista letterario, le descrizioni di insiemi architettonici rientrano nella tradizione del romanzo allegorico di cui supportano l’apparato simbolico che dà luogo all’allegoria. La presenza di tali elementi contenutistici sia nel testo sia nelle immagini fa supporre uno specifico interesse architettonico dell’autore e apre un ulteriore campo d’indagine intorno all’Hypnerotomachia, ponendo interrogativi sulla cultura architettonica-figurativa dell’autore e sullo spazio concesso all’architettura nel testo[78]. L’espressione in apertura d’opera preannuncia la chiave di lettura dell’Hypnerotomachia «ubi humana omnia non nisi sommium esse docet» e nello stesso tempo giustifica quello che puĂ² apparire come un contrasto all’interno dell’opera: da una parte l’atmosfera onirica in cui sono calati tutti gli oggetti descritti, privi di coordinate spaziali e temporali, dall’altra lo zelo, talora eccessivo, con cui l’autore indugia sulle descrizioni dei manufatti architettonici, insistendo sulla procedura progettuale e compositiva o su questioni relative alla geometria e alla teoria delle  proporzioni, descrivendo analiticamente anche i più minuti particolari con l’uso di una terminologia tecnica erudita. 

Pur premettendo che un nuovo gusto descrittivo unito a una nuova attenzione a guardare, misurare, descrivere i fenomeni naturali si afferma nella seconda metà del Quattrocento come effetto di una rinnovata concezione della natura e del cosmo e diventa una tendenza generale riscontrabile in ambiti diversi, sembra comunque necessario fare alcune considerazioni a proposito dell’insistenza sugli aspetti metodologici e specialistici dell’architettura nell’Hypnerotomachia.  In primo luogo va riconosciuto un personale e reale interesse dell’autore per l’architettura, infatti numerosissimi e documentati sono i riferimenti ai trattati di Vitruvio, e soprattutto dell’Alberti[79]. Tenendo conto che l’intera vicenda del romanzo si svolge nella dimensione del sogno, si può comprendere come con l’apporto dell’elemento teorico, l’autore riesca ad avvicinare al reale ciò che è creazione fantastica, dando consistenza di cose concrete e tangibili ai manufatti che sono frutto della sua fantasia.

Per quanto riguarda l’architettura, la fonte principale a cui sono da riferirsi le teorie e molte volte la stessa terminologia usata da Polifilo, è Leon Battista Alberti[80].

L’opera è anonima ma la prima lettera di ogni capitolo, forma un acrostico: POLIAM FRATER FRANCISCVS COLVMNA PERAMAVIT (“Fratello Francesco Colonna amò intensamente Polia”). L’acrostico è stato individuato agli inizi del Cinquecento, come risulta dalla sua trascrizione sul frontespizio del Polifilo posseduto dalla Biblioteca Augustea di Perugia[81]. Il Frater Franciscus Columna è stato riconosciuto da Maurizio Calvesi nella persona di Francesco Colonna signore di Palestrina, uomo dotto, appassionato di antichità e appartenente all’Accademia romana di Pomponio Leto[82].

Un altro gruppo di studiosi appoggia la tesi - di Maria Teresa Casella, Giovanni Pozzi e Lucia A. Ciapponi secondo cui l’autore sarebbe da identificare in Francesco Colonna, frate domenicano nato a Venezia nel 1433[83].

Gli studi meticolosi di Calvesi hanno dimostrato che l’opera è riconducibile al Colonna romano, appartenente al ramo di Palestrina della famiglia, poeta e letterato, protonotario apostolico, canonico lateranense di San Pietro e governatore di Tivoli. Il suo nome compare sul portale del palazzo da lui fatto erigere sulle rovine del santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina.  Questo tempio è situato su una montagna arditamente tagliata con mezzi artificiali a creare una parete verticale, come quello intitolato alla medesima Dea incontrato da Polifilo nel suo peregrinare. Sulla cima del Tempio descritto nell’Hypnerotomachia è presente la statua della dea Fortuna. Una stampa di Hendrick van Cleeve risalente alla metà del Cinquecento mostra una soluzione analoga nel Santuario Prenestino[84].

La città laziale è menzionata tre volte nel romanzo così come le querce e i lecci che ne impreziosiscono il paesaggio.

Anche il Tempio di Venere descritto nel testo trova riscontro nell’emiciclo colonnato che coronava il Santuario prenestino inglobato da Francesco Colonna nel proprio palazzo. Nella realtà il Palazzo è un perfetto semicerchio; lo sviluppo circolare si otterrebbe con il suo ideale raddoppio[85]. Polifilo, descrivendo una volta poggiante sul tetto del Santuario spiega come questa forma sia generata da un "volvendo semicirculo" (COLONNA F. 1499, quad. n, c. ii, f. 1, l. 36). Il tempio è dedicato a Venere madre di Enea e antenata di Cesare, giudicato dal Colonna fondatore del Palazzo di Palestrina.

Questi indizi insieme all’epigramma di Raffaele Zovenzoni datato 1474, nel quale si indica Francesco Columna Antiquario come autore del Polifilo, fugano ogni dubbio riguardo la paternità dell’opera[86].

Il viaggio di Polifilo, tramite ideale tra il racconto allegorico alla maniera di Dante e le nuove esigenze culturali dell’Umanesimo, combina il lessico della tradizione cavalleresca medioevale e quello derivato dalla cultura classica, trovando nella raffigurazione reale, immaginata ed onirica di paesaggi e giardini, una delle sue tematiche principali, da un lato l’iconologia delle immagini viene composta su modelli e stilemi classici sulla rivisitazione filologica che ne fece l’Umanesimo, dall’altro l’insieme di questi dati antiquariali viene disposto e svolto concettualmente secondo l’estetica medioevale[87].

In questo complesso contesto culturale il paesaggio come agente narrativo ed elemento di lettura dell’anima diviene la cornice naturale alla vicenda di Polifilo e le rovine classiche trovano in questo procedimento un luogo d’elezione per il dispiegamento delle loro potenzialità semantiche ed evocative. Il paesaggio descritto dal Colonna, definito dall’alternarsi di luoghi d’abbandono, di monumenti e di ruderi lasciati allo sviluppo incontrollato della vegetazione, non appare neutrale, ma costituisce un elemento fondante della narrazione, intonato agli stati d’animo del protagonista ed alla temperatura emotiva del racconto[88].

Un interesse particolare riveste indubbiamente uno dei quesiti ripetutamente proposto dai critici che si sono occupati di analizzare i paesaggi onirici del Polifilo: quali sono le fonti figurative e iconografiche a cui si è ispirato l’autore delle tavole che accompagnano il testo del Colonna?

Secondo Acidini Luchinat, i paesaggi con rovine classiche, illustrati nelle tavole della Hypnerotamachia, divenuti modelli per la creazione di molti dei giardini rinascimentali, potrebbero ritrovare analogie figurative negli antiquaria umanistici en plein air, di cui il quattrocentesco giardino murato di Lorenzo de Medici in piazza San Marco costituisce uno dei primi esempi conosciuti. In effetti la potenza della combinazione allegorica proposta dal Colonna con tanta efficacia espressiva costituisce un precedente concettuale e figurativo che caratterizzerà tutta la produzione letteraria ed architettonica sull’argomento, stabilendo un sistema di relazioni estetiche, filosofiche, semantiche e culturali che interesseranno la costruzione del paesaggio fino ai nostri giorni[89].

 

Il ninfeo nel primo libro delle Sylvae di Pietro Gravina

 

Pietro Gravina

Pietro Gravina (1453-1528), umanista di origine siciliana ma vissuto dalla prima giovinezza alla morte quasi sempre a Napoli, sarebbe oggi certamente più conosciuto e apprezzato se non ci fossero stati ostacoli, tra cui la difficoltà di reperire le sue opere e la lingua da lui adottata, il latino[90]. Il suo Poematum libri contenente l’Epigrammatum liber, Sylvarum et elegiarum liber e i Carmen epicum è stato pubblicato a Napoli nel 1532, quattro anni dopo la morte grazie all’interessamento del Duca di Palena, che lo ha assistito durante gli ultimi mesi della sua vita[91]. Nonostante la poca fama nutrita dalle sue opere, Gravina merita un posto importante all’interno della letteratura cinquecentesca poiché egli sceglie coraggiosamente di scrivere in latino riportando in auge la tradizione del poema staziano e anche perché a partire dal 1498 frequenta la celebre accademia napoletana di Giovanni Pontano[92]. In una lettera indirizzata al Pontano per consolarlo della prematura scomparsa del figlioletto, Antonio de Ferris gli rammenta che agli antichi accademici se ne sono aggiunti di nuovi, legati al suo magistero destinati a lasciare una discendenza intellettuale duratura, tra costoro compare il nome del Gravina[93].

La stima e l’apprezzamento delle sue opere valgono al poeta palermitano la carica di canonico del duomo di Napoli per iniziativa del viceré Consalvo di Cordova. Alla partenza di Consalvo per la Spagna, il letterato è accolto in casa di Prospero Colonna e del figlio Vespasiano per il quale compone un epigramma.

 

Gravina e i Colonna di Genazzano

Le opere del poeta siciliano contengono importanti riferimenti a Genazzano e alla famiglia Colonna. Tra i destinatari delle elegie spiccano infatti Prospero Colonna, Pompeo Colonna, Vespasiano Colonna e Vittoria Colonna, oltre ad altri illustri personaggi napoletani e romani tra cui: Leone X, Traiano Caracciolo, Isabella d’Aragona ecc.[94]

A Pompeo Colonna sono rivolte quattro elegie, nelle quali sono messe in evidenza le doti dell’illustre personaggio, appellato come “firma Columna”. L’epiteto firma Colonna usato la prima volta da Petrarca nei confronti dei Colonna romani, ha assunto nel corso degli anni il valore di formula araldica.  Il componimento scritto da Gravina dimostra che l’epiteto è rivolto ai membri romani della famiglia e si rivela quindi risolutivo anche ai fini dell’attribuzione dell’Hypnerotomachia a Francesco Colonna romano definito anch’egli nello stesso modo[95].

L’epistolario di Pietro Gravina attesta che il letterato risiede a Genazzano e gode dell’ospitalità di Vespasiano Colonna certamente dal giugno al settembre 1524 e forse fino ai primi mesi del 1525 quando è ormai un anziano di circa settant’anni e qui si esilia con la speranza di fuggire dall’epidemia di peste che ammorba Napoli, forse, per trovare un’ultima definitiva dimora all’ombra di qualcuno che possa proteggerlo e sostenerlo[96].  Dall’analisi delle lettere inviate al figlio Tranquillo, si evince la considerazione nutrita da Gravina verso i membri della famiglia Colonna e in particolare verso Prospero, il figlio Vespasiano e il nipote Pompeo. Alcune epistole inviate da Genazzano decantano le lodi del Principe Vespasiano Colonna, descritto come un uomo estremamente intelligente e dotato di grande perspicacia oltre che di straordinaria memoria[97]. Il poeta confida di passare dalla mattina alla sera in compagnia dell’illustre amico e di condividere con lui qualsiasi cosa.

Prospero Colonna invece è il destinatario di una lettera inviata da Napoli e datata 6 dicembre 1518,  nella quale Gravina narra un episodio accaduto a Palermo durante una tempesta, ritienendo che il racconto del gesto eroico compiuto da alcuni marinai per salvare le loro navi possa servire da esempio al prode condottiero[98]. Il 4 luglio 1517 da Napoli indirizza una lettera a Pompeo Colonna nella quale si congratula per la carica di cardinale appena ricevuta e aggiunge che spera di essere considerato uno dei suoi più fedeli amici[99].

 

La descrizione del Ninfeo nelle Sylvae

Tra i Monti Prenestini Pietro Gravina compone il primo libro delle Sylvae, dedicato al patrizio Napoletano Girolamo Carbone, appartenente anch’egli all’Accademia di Giovanni Pontano. Il poeta descrive all’amico il viaggio fatto nei territori della famiglia Colonna e si concentra particolarmente sul soggiorno in un castello che non esplicita nei versi ma indica con nome greco equivalente all’espressione latina: “proles lovis”.

L’assenza del toponimo esatto potrebbe indurre erroneamente qualcuno a pensare che si tratti del castello della Colonna. Il suddetto castello, che peraltro non ha nulla a che vedere con la descrizione panoramica dell’oppidum celebrato dal Gravina, è in realtà feudo di Pier Francesco Colonna di Zagarolo, ramo laterale dei Colonna di Palestrina[100], e dunque non ascrivibile tra i luoghi residenziali di Vespasiano Colonna, Beatrice Appiani e la figlia Isabella.

Nel suo poema Gravina non rivela mai palesemente di trovarsi a Genazzano ma analizzando attentamente il componimento, le espressioni usate e i personaggi a cui fa riferimento appare chiaro che la cittadina oggetto della descrizione è proprio quella che ospita il Ninfeo. Ad avvalorare tale tesi contribuisce anche il poema del coevo letterato Minturno intitolato Geneazanos nel quale si narrano le vicende relative alla fondazione della città, avvenuta per mano di Ercole e ribadite anche da Gravina in riferimento al Castello della città da lui descritta.

Il Gravina spiega la posizione topografica che occupa il centro abitato e riferisce che è posto su uno sperone tagliato, la cui parte più alta guarda a nord, verso l’Orsa maggiore, mentre la parte più bassa declina verso l’Austro[101], rivelando che la cittadina ha dato i natali ad illustri personaggi che si sono fatti onore anche a Roma. Decanta poi il clima, i corsi d’acqua, le bellezze del passaggio e celebra il luogo in quanto culla di coraggiosi capi in guerra con ovvio riferimento a capi colonnesi. Inoltre il poeta loda Oddone Colonna, Papa con il nome di Martino V, Antonio Colonna prefetto di Roma e Prospero, da poco defunto, di cui vengono esaltate con prolisse iperboli i meriti militari e in particolari le vittorie sulle truppe francesi. Il condottiero è il protagonista di intense pagine delle Sylvae, nelle quali si narrano le vicende legate alla sua infanzia e si ripercorrono le tappe fondamentali della sua carriera militare; il poeta inoltre prevede che non sarà facile trovare qualcuno in grado di emulare i successi di Prospero[102].

Particolare enfasi è rivolta verso Vespasiano, giudicato degno erede del padre Prospero, Signore di Genazzano e suo mecenate, e a sua moglie Beatrice Appiani figlia di Giacomo Appiani, Signore di Piombino e di Vittoria Piccolomini.

La dimora di Vespasiano viene giudicata aperta alla poesia; la personalità del Principe è abbondantemente messa in risalto, è infatti descritto come una persona disponibile e capace di leggere ogni tipo di documento. Gravina rivela che dopo qualche ora di riposo il Principe passa la giornata ad occuparsi delle questioni del paese e assiste a cerimonie sacre[103].

Beatrice Appiani è paragonata ad una sibilla ammaliatrice dotata di indiscussa eleganza, parole d’affetto sono riservate anche alla giovane Isabella, protagonista di alcuni versi, giudicata degna figlia di entrambi i genitori. Il poeta ritiene che Vespasiano Colonna, la moglie e la figlia rappresentino tre ancore di salvezza per lui, tre stelle capaci di guidarlo nel porto desiderato[104].

Canta diffusamente le bellezze del paesaggio che ammira facendo riferimento anche al ruscello denominato da sempre Rio e a quello a est della valle chiamato Fossato.

Il letterato rivela l’abitudine di passeggiare a cavallo, per ammirare le bellezze della natura nei pressi di una costruzione romana di rara bellezza posta al di fuori delle mura a sinistra. Egli scrive:

 

Ipse ego vectus equo soleo descendere ad imum

Oppidum, ubi extremae  egressum extra moenia portae

In levam me blonde loci natura propinqui

Adlicit, hiuic faciem nunc munificentia nostri

Principis inducit pulchram, rariqe decoris

Romanum iam surgit opus, latioque colendum

Erigitur genio, e mufis curisqe, levamen

Secessus procerum, charitum domus , aura clientum,

Hic fontes vivique lacus et utrinque recedunt

Hippodromi densae incumbunt a vertice Sylvae[105]

 

La descrizione di elementi chiaramente riscontrabili nella valle del Ninfeo come la fonte, il lago e il bosco rende palese che il poeta napoletano si sia trovato a contemplare il monumento bramantesco. L’edificio viene definito romanum opus: manufatto romano, cioè in stile romano ed è attribuito alla magnificenza di un Principe facilmente riconoscibile in Vespasiano Colonna poiché l’autore nelle sue epistole riserva l’appellativo «nostri principi» solo a questo personaggio e anche perché come già detto Prospero Colonna era morto da pochi mesi. Il Gravina a Genazzano trascorre molto tempo con Vespasiano e insieme ammirano le bellezze del luogo; è quindi possibile che opus Romanum sia la definizione, generica ma univoca, assegnata al manufatto dai Colonna e, forse, dall’ architetto.

I plurali usati («fontes», «vivi lacus», «ippodromi», «sylvae») sono quasi certamente plurali di uso poetico, frequentissimi in Gravina e in questo poema. La fonte menzionata potrebbe non essere la celebre fontana di Genazzano chiamata "Soglia" come viene naturale pensare ma la cisterna d’acqua nell’ottagono. Il lago è quello artificiale citato anche negli atti notarili del 1576, in cui il notaio menziona le case del giardino in cui era il lago. L’ippodromo è invece un elemento inedito nella configurazione del Ninfeo, nessun’altra fonte riguardante il monumento rivela l’esistenza di questa struttura.

Considerando l’amore per i cavalli nutrito da Vespasiano, la presenza di un ippodromo non sembra impossibile e la conferma di una struttura di questo tipo rafforzerebbe la sua paternità.

Probabilmente il Ninfeo fu concepito come un giardino-ippodromo, utilizzato per lo svolgimento di spettacoli d’acqua.

L’idea del giardino-ippodromo deriva dalle descrizioni delle ville di Plinio il Giovane, da queste hanno tratto ispirazione Raffaello per il progetto di Villa Madama (1516 e 1519) e Peruzzi per il progetto, non realizzato, della villa a Salone per il cardinale Trivulzio (ante 1525; cfr. Fig. 3). Il laghetto ai piedi di un casino in una vallata ombrosa costituisce un topos ricorrente nel Rinascimento e compare anche in una celebre immagine dell'Hypnerotomachia Poliphili.

Il monumento è appellato da Gravina come luogo di ritiro per persone ragguardevoli, casa delle Ceriti, brezza dei clienti.

Il Sito del Ninfeo è indicato precisamente fuori le mura, uscendo dalla porta a sud, successivamente detta Romana, nella valletta sottostante la boscaglia di Colle Pizzuto.

Il primo libro delle Sylvae è un documento estremamente importante per quanto riguarda il monumento di Genazzano perché narra un viaggio compiuto nel 1524 quindi pochissimi anni dopo la realizzazione dell’edificio, svela l’esistenza di un ippodromo e soprattutto rivela il coinvolgimento di Vespasiano Colonna mai contemplato tra i possibili committenti-finanziatori.

Nel Ninfeo sono stati rinvenuti resti del pavimento originale e di intonaco sapientemente applicato, ciò testimonia che nella seconda fase di costruzione l’edificio era stato ultimato. L’esistenza dei rivestimenti smentisce l’ipotesi dell’abbandono dei lavori prima della fine, avallata in passato da molti critici[106]. Ciò spinge a pensare che il Ninfeo in questa fase di costruzione, a prescindere dall’ottagono strettamente collegato ad esso, doveva consistere solo in una loggia per giardino, priva di spazi di soggiorno, di cucine e di locali per servizi sanitari. Mancava quindi tutto il necessario per una permanenza prolungata e confortevole. Alla luce di queste considerazioni l’interpretazione dell’edificio come villa, sostenuta da Bruschi e Frommel appare oggi verosimile soltanto per la terza fase, durante la quale furono aggiunti ulteriori corpi. Inoltre, i reperti della loggia (Fig. 9) suggeriscono importanti spunti di riflessione, poiché sebbene l’edificio riporti tracce degli attacchi di una struttura a volta (Figg. 10, 11) lo spazio interno della loggia, al quale una copertura garantisce normalmente una chiusura superiore dello spazio, risulta accuratamente protetto dall’umidità. Si riscontra quindi l’uso di misure cautelari normalmente applicate in uno spazio esterno.

Le pendenze del pianerottolo, le grandi lastre irregolari della pavimentazione, la caldana, gli intonaci idraulici e una malta impermeabilizzante applicata sulle parti di muro particolarmente soggette a rischio, indicano l’intento di una protezione dalle infiltrazioni. Dal momento che il suolo naturale è costituito da creta, è da escludere che si trattasse di umidità ascendente. La spiegazione a questa precauzione potrebbe essere la presenza di un tetto parzialmente aperto.

La motivazione di un progetto cosi paradossale potrebbe risiedere nella volontà di emulare alcuni esempi di edifici con presupposti architettonici analoghi, in effetti innumerevoli disegni del XV e XVI secolo dimostrano l’interesse nutrito dagli artisti per la ricerca sulle testimonianze dall’antichità. Non venivano documentate soltanto rovine esistenti ma anche rovine inventate entro paesaggi di fantasia. Quest’ultime risultano concepite tenendo presenti modelli architettonici reali ma raffigurano un contesto architettonico e paesaggistico modificato. Nelle rappresentazioni di rovine fantastiche è possibile constatare che per i disegnatori era del tutto irrilevante se l’ambiente della rovina rappresentata fosse tratto da una rovina autentica, oppure da un edificio contemporaneo [107]. Una rappresentazione di rovina di fantasia molto particolare è costituita dall’incisione Prevedari di Bramante.

Nel commento a Vitruvio del Cesariano, diretto scolaro di Bramante, compaiono, come illustrazioni dei tempi antichi descritti dal trattatista romano, organismi molto simili a quello dell’incisione [108]. Queste circostanze autorizzano a pensare che Bramante volesse rappresentare un tempio dell’antichità caduto parzialmente in rovina e adattato a chiesa cristiana per indicare la continuità e la concordanza tra il mondo pagano e quello cristiano. Come è stato proposto dal Mulazzani, è possibile che Bramante abbia voluto rappresentare l’antico tempio di Giano, mitico fondatore di Milano, sul quale, secondo la tradizione, era stata costruita la chiesa di San Giovanni alle quattro facce, ora distrutta[109].

Poco dopo la realizzazione del disegno dell’artista marchigiano, l’incisore Bernardo Prevedari fu incaricato di eseguirne una trasposizione su rame. L’opera raffigura l’interno di un edificio a tre navate con una prospettiva centrale a più fasi, una vera e propria dimostrazione programmatica dei principi di Bramante agli esordi della sua attività milanese [110]. L’organismo rappresentato in questa incisione costituisce una variante del tradizionale schema architettonico, ovvero la realizzazione di edifici con pianta a croce inscritta in un quadrato. Ciò che spinge ad includere l’incisione Prevedari nel gruppo delle rovine è la condizione in cui l’edificio viene mostrato: il lato destro appare infatti in stato di decadimento e del pilastro in primo piano si è conservato solo il basamento. L’arcata che esso sosteneva è oggi spezzata nell’area intorno alla sommità, così che l’arco, la cornice dell’imposta e l’oculus inseriti nel muro frontale sembrano rappresentati in sezione trasversale. Il fusto della parasta rivolto verso la stanza adiacente presenta grosse fessure sotto la parte centrale del suo lato esterno, che forse hanno segnato l’avvio del crollo del suo arco trasversale, del quale si conserva soltanto un resto della zona dell’imposta. La volta al di sopra di esso presenta una grande apertura irregolare, su cui fiorisce una rigogliosa vegetazione. Attraverso le quattro opaia sulla volta a croce sopra il quadrato si vede il cielo, ciò dimostra che non vi è la copertura. Sulla base di una iscrizione architettonica disegnata riportante le parole «Bramantus fecit in Mlo» e confermata dal contratto tra Bramante e l’incisore Prevedari che ci è pervenuto[111], il progetto raffigurato nell’incisione è uno dei pochi lavori autografi del maestro.

L’edificio è tagliato nella sua parte anteriore, come una sezione prospettica, secondo un gusto riscontrabile nei disegni architettonici realizzati tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, e presente anche nella celebre rappresentazione del tempio rotondo di Venere nella Hypnerotomachia Poliphili[112].

Le analogie tra il Ninfeo e l’incisione Prevedari sono evidenti, entrambi gli edifici si basano su una composizione di arcate, la cui sequenza di volte, una campata con cupola ribassata affiancata da altre due con volte a crociera è certamente comparabile. In tutti e due i casi le campate sono accompagnate da profondi archi trasversali, inoltre anche analizzando i singoli dettagli è possibile scorgere notevoli somiglianze. Le più significative sono date dagli oculi che costituiscono un elemento caratteristico in entrambi gli edifici. Nell’architettura raffigurata nell’incisione Prevedari essi appaiono solo sporadicamente ed in forma monumentale nelle pareti frontali delle arcate ma presentano le stesse pronunciate incorniciature come quelle di Genazzano. Inoltre, in entrambi gli edifici sono presenti conchiglie nelle calotte delle nicchie, i cui lati sono innalzati nella caratteristica forma semicircolare e i cui snodi risalgono dall’arco della calotta con effetto plastico.

Tenendo conto delle caratteristiche contraddittorie dei reperti edilizi presenti nello spazio interno del Ninfeo, osservando il rudere di fantasia proposto dall’incisione Prevedari, si nota un’ulteriore analogia costituita dalle volte aperte.

Nell’incisione sono visibili due tipi di apertura delle volte, l’apertura nella navata laterale da intendere come una lesione e, in secondo luogo, le opaia inserite nella volta a crociera della navata centrale come elementi decorativi architettonici[113]. Ma anche con queste ultime, data la mancanza di un tetto protettivo l’architettura appare incompleta. Si verifica quindi un immediato contatto tra esterno e interno riscontrabile anche a Genazzano.

Confrontando l’architettura raffigurata nell’incisione Prevedari con la sala del Ninfeo dove uno spazio interno integro risulta avere misure di protezione contro gli elementi atmosferici, si arriva inevitabilmente alla formulazione dell’ipotesi che anche a Genazzano si sia verificata una situazione di apertura della volta (grazie alla presenza di un opaion) come nell’ambiente illustrato nell’incisione.

Tutte le analogie esistenti tra il ninfeo e l’incisione Prevedari hanno condotto la Döring a formulare l’ipotesi della rovina artificiale. Studi recenti hanno portato a ripensare e riformulare nuove ed interessanti ipotesi circa la destinazione d’uso del monumento.

Sono stati riscontrati elementi architettonico strutturali come ad esempio i pennacchi di partenza delle volte a crociera, accenni di cupole con finiture molto elaborate, che inducono fortemente a pensare al ninfeo come una struttura caratterizzata da una copertura eseguita da una serie di volte a crociera e cupole.

Evidentemente in entrambi i casi non si tratta di edifici incompiuti. Come nel Ninfeo testimoniano i rivestimenti, così la meticolosa stuccatura e il pavimento dell’incisione dimostrano che in tutte e due gli edifici si fa riferimento ad architetture che in un determinato momento del passato sono state portate a termine. Conseguenza delle concordanze tra l’architettura di Genazzano e la rovina d’invenzione dell’incisione milanese è l’interpretazione del Ninfeo come rovina artificiale[114].

Giacinta Battaglini

 





NOTE

[1] THOENES 1974, p. 575.

[2] DÖRING 2001, p. 350.

[3] DÖRING 2001, passim.

[4] BENZI 1989, p. 303; BARUCCO 2000, p. 143; FROMMEL 2003, p. 229.

[5] Ivi, p. 351.

[6] LAMPRECHT 1987, p. 37.

[7] DÖRING 2001, p. 354.

[8] Ibidem.

[9] AC MANOSCRITTO.

[10] SENNI 1838, p. 87.

[11] Ivi, p. 357.

[12] Ivi, p. 361.

[13] Ivi, p. 365.

[14] FASOLO 1964, p. 168.

[15] DENKER NESSELRATH, 1990, p. 181.

[16] DÖRING 2001, p. 367.

[17] FROMMEL 2003, p. 218.

[18] DÖRING 2001, pp. 367 sgg.

[19] SCAGLIA 1986, p. 161.

[20] DÖRING 2001, p. 370.

[21] DÖRING 1999, p. 34.

[22] ARNOLDUS-HUYZENDVELD 1999, p. 4.

[23] DÖRING 2001, p. 370.

[24] BURECA 2000, p. 141.

[25] VITRUVIO 1997, vol. I, p. 392.

[26] BARUCCO 2000, p. 143.

[27] Ivi, p. 145.

[28] Ivi, p. 146.

[29] Idem.

[30] BENZI 1989, p. 303.

[31] Ibidem, p. 307.

[32] Ibidem.

[33] AC MANOSCRITTO.

[34] Idem, senza pagina.

[35] Idem, senza pagina.

[36] PORTOGHESI 1986, vol. II, p. 488.

[37] FROMMEL 2003, p. 229.

[38] DÖRING 2002, p. 379.

[39] FROMMEL 1994, p. 1998.

[40] FROMMEL 2003, p. 229.

[41] Ivi, p. 230.

[42] DÖRING 2001, p. 379.

[43] Ibidem.

[44] Ivi, p. 381.

[45] BRUSCHI 1985, p. 131.

[46] BORSI 1995, p. 227; DÖRING 2001, p. 382, sgg.; FROMMEL 2003, p. 234.

[47] CONSORTI 1909, p. 15.

[48] PETRUCCI 1982, p. 407.

[49] Ivi, p. 408.

[50] GIOVIO 1551, senza pagine.

[51] CONSORTI 1909, p. 109.

[52] Ibidem, p. 110.

[53] DÖRING 2001, p. 382.

[54] BENZI 1989, p. 315.

[55] PETRUCCI  1982, p. 447.

[56] Ivi, p. 448.

[57] Ivi, p. 449.

[58] COPPI 1855, p. 287.

[59] FROMMEL 2003, p. 280.

[60] FROMMEL 2003, p. 233.

[61] DÖRING 2001, p. 379.

[62] Ivi, p. 386.

[63] Le operazioni di scavo sono state condotte dagli studiosi della Tecnische Universitat di Berlino in collaborazione con la Deutsche Forschungsgemeinshaft.

[64] ACS NOTAI 1769.

[65] SENNI 1838, p. 86.

[66] AC NOTULE.

[67] AC MANOSCRITTO.

[68] DÖRING 2001, p. 393.

[69] Ivi, p. 396.

[70] THOENES 1974, p. 578.

[71] CALVESI 1980, p. 63.

[72] BORSI 1995, p. 9.

[73] FOGLIATI, DUTTO 2004, p. 10.

[74] MATTEINI 2009, p. 61.

[75] FOGLIATI, DUTTO 2004, p. 14.

[76] Ivi, p. 15.

[77] CALVESI 1996, p. 141.

[78] FOGLIATI, DUTTO 2004, p. 17.

[79] MATTEINI 2009, p. 62.

[80] CALVESI 1987, Riscontri, p. 108.

[81] COLONNA F. 2004, p. 29 vol. II.

[82] CALVESI 1983, p. 35.

[83] COLONNA F. 1964, vol. I, pp. 5-106.

[84] CALVESI 1987, Riscontri, p. 95.

[85] Ivi, p. 96.

[86] Ivi, p. 85.

[87] MATTEINI 2009, p. 61.

[88] BORSI 1995, p. 16.

[89] Giardini Medicei 1996, pp. 186-194.

[90] GRAVINA 1992, p. 5.

[91] GRAVINA 1532, p. 1.

[92] CERRONI 2002, p. 770.

[93] Ivi, p. 771.

[94] CERRONI 2002, p. 772.

[95] COLONNA S. 1996, p. 316.

[96] GRAVINA 1992, p. 15.

[97] SCATIZZI 2011, p. 11.

[98] GRAVINA 1992, p. 81.

[99] Ivi, p. 122.

[100] SCATIZZI 2011, p. 11.

[101] GRAVINA 1532, p. 46 r.

[102] Ivi, p. 47 r.

[103] Ivi, p. 48 v.

[104] Ivi, p. 49 v.

[105] Ivi, p. 50 r.

[106] DÖRING 2001, p. 374.

[107] Ivi, p. 485.

[108] BRUSCHI 1985, p. 39.

[109] MULAZZANI 1978, p. 68.

[110] BRUSCHI 1985, p. 42.

[111] BELTRAMI 1917, p. 189.

[112] CALVESI 1996, p. 86.

[113] BORSI 1997, p. 85

[114] DÖRING 2001, p. 378




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Vedi nel BTA: LE XILOGRAFIE DELL'HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI






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