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Le Ville di Anton Francesco Doni: tra letteratura e pratica artistica

Giulia Sestili
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 4 Giugno 2019, n. 869
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M’è venuto voglia estrema, sentendo, vedendo, et leggendo di tante Ville, di farmi mezzo poeta, villaio intero; […] Così ho composto cinque libri di Ville, i quali stampati si vedranno. […] Io pongo hora qui le mie Ville distinte, non in quel modo ch’io l’ho lette in leggende; ma come l’ho studiate sul libro da Dio composto, scritto per mano della natura”1.

Con queste parole lo scrittore Anton Francesco Doni introduce il suo libro sulle Ville. Ciò che mi ha indotto ad occuparmi del testo delle Ville è stata la particolarità dell’argomento e l’ambiguità di un personaggio come il Doni, il quale nella sua opera è stato in grado di unire sia il mondo delle lettere, con il quale era in contatto, sia il mondo delle arti. Con questo termine intendo non solo l’arte in senso stretto, con il quale si include pittura, scultura e architettura, ma anche la musica e il teatro e quindi il mondo delle arti visive e figurative.

Particolarmente rilevante è il manoscritto di Doni delle Ville o Cinque Ville, in quanto permette un excursus completo sulla sua ampia rete di conoscenze, sia di ambito personale in riferimento alle varie dediche presenti nei codici manoscritti, sia di ambito artistico per la descrizione di pitture, sculture, apparati figurativi e ornamentali, i quali dovevano essere presenti nelle varie ville da lui descritte.

Il riferimento al mondo artistico è una costante e rivela una personale propensione alle rappresentazioni allegoriche di difficile decifrazione iconografica, dimostrando la cultura erudita dello scrittore.

Anton Francesco Doni, letterato, teorico, utopista e tragediografo può essere considerata una delle personalità di spicco del manierismo italiano. In relazione alla varietà dei suoi interessi non si può parlare di un percorso lineare compiuto dal Doni, in quanto si è occupato di vari aspetti riguardanti il panorama sociale, politico, culturale e artistico a lui contemporaneo. A contatto con i maggiori esponenti del mondo artistico, tra cui lo scultore Baccio Bandinelli2, di cui fu ospite negli anni trenta del Cinquecento, dimostra uno straordinario interesse per il mondo delle arti visive, oggetto di un cospicuo numero di scritti. Ognuna delle sue opere è caratterizzata da una scrittura piuttosto originale e artificiosa, che colloca Doni quasi in contrasto con gli stereotipi della cultura del suo tempo e con questo si può fare riferimento alla sua passione per l’arte di Tintoretto, Tiziano, Michelangelo e Bandinelli. Ovviamente ciò presuppone una consolidata conoscenza della differenza che caratterizza l’arte dei quattro grandi maestri e il loro modo di operare. Michelangelo, sostenitore del disegno, padre di tutte le arti e base dell’Idea artistica, così come Bandinelli, da Doni definito un eccelso disegnatore, mentre Tiziano maestro del colorito e uno dei principali esponenti della scuola veneta, al pari di Tintoretto, considerato uno dei punti di arrivo della grande arte veneziana.

In relazione alla mole della sua opera, Doni dimostra di essere uno scrittore prolifico, attivo soprattutto negli anni ’50 del XVI secolo e sebbene in alcuni casi si possa parlare di plagio da altri autori, il suo interesse per la teoria dell’arte, oggetto di dibattito tra gli studiosi a lui contemporanei, lo porta alla stesura di celebri trattati, tra cui “I Marmi”, ”Il Disegno”, ”Le Pitture” e “Le Ville”.

Ho ritenuto più interessante concentrarmi sullo studio delle Ville doniane, in quanto dalla pubblicazione di Ugo Bellocchi pochi sono stati gli studi relativi al testo e questo mi ha portato ad un’analisi critica sia del manoscritto, sia del contesto storico-artistico coevo. Infatti, dallo studio delle Ville sono giunta ad istituire dei nessi con il panorama artistico contemporaneo a Doni, cercando sempre di dimostrare il suo completo inserimento nell’èlite culturale del tempo.3


Le Ville della campagna fiorentina

Di fuori presso alle mura della città sono bellissime abitazioni di cittadini con ornati giardini di meravigliosa bellezza e il contado pieno di palazzi e nobili abitazioni”4. Così Gregorio Dati nella sua Istoria di Firenze descrive il fenomeno che sta interessando il territorio campestre fiorentino e a mio avviso, le sue parole sono particolarmente significative, perché ben illustrano la portata di quello che si rivelerà essere un totale cambiamento nelle consuetudini della vita quotidiana.

Le ville della campagna fiorentina sono formate da complessi rurali commissionati dai vari esponenti della famiglia De’ Medici, già da tempo intenti in investimenti fondiari, in maniera tale da aumentare il numero dei loro possedimenti. Sebbene numerose siano le ville che i Medici si sono fatti costruire, a partire dalla Villa di Cafaggiolo (fig. 1) e quella del Trebbio (fig. 2), ai fini dello studio ivi condotto ritengo di rilevante importanza un approfondimento di quei complessi architettonici presenti nel ducato fiorentino che sono stati commissionati, costruiti o ampliati durante gli anni di pubblicazione del testo doniano e quindi coevi alle Ville.

Una personalità coeva a Doni, che descrive come la campagna fiorentina sia caratterizzata dalla presenza di queste nobili dimore è Ludovico Ariosto, il quale esprime in versi la grande ammirazione per questo tipo di residenze:

A veder pien di tante ville i colli
Par che il terren ve le germogli.
Se […] fosser raccolti i tuoi palazzi sparsi,
non ti sarian da pareggiar due Rome”5.


L’attenzione, sia dei trattattisti che degli architetti, alla realizzazione dei vari complessi architettonici, designa un processo di sviluppo edilizio e di affermazione della villa suburbana come luogo ricreativo. La villa rappresenta il luogo ideale per istituire dei paralleli con la tradizione antica e ricreare lo stile di vita classico, attraverso un riferimento costante ai passatempi delle grandi civiltà classiche. Molto probabilmente, l’entusiasmo nei confronti di un passato glorioso dimostrato dalla classe aristocratica è dato dalla volontà di far rivivere la civiltà antica e i topoi che maggiormente l’hanno caratterizzata. Il principale referente è la concezione classica di otium delle antiche ville romane, ripreso dalla letteratura classica e che trova un’applicazione da un punto di vista tipologico e strutturale.

Tra le dimore con le quali è possibile istituire dei confronti con l’opera di Doni, vi sono la Villa medicea di Pratolino, oggi nota come Villa Demidoff (1568), la Villa di Lappeggi (1569), l’Ambrogiana (1574) e la Màgia (1583).

La particolarità delle ville medicee menzionate è la loro raffigurazione pittorica nelle famose lunette di Giusto Utens, che permettono un approfondimento della struttura architettonica e del contesto circostante data la precisione del rilievo architettonico e delle vedute a volo d’uccello, costituendo una fondamentale fonte documentaria iconografica , ma anche artistica e architettonica6.

La condivisione del medesimo arco cronologico determina degli ipotetici nessi, sia da un punto di vista architettonico, sia facendo riferimento agli apparati figurativi e decorativi presenti all’interno delle dimore. Inoltre, se si fa riferimento alla pubblicazione del manoscritto reggiano del 1565 si comprendono le infinite possibilità offerte da uno studio relativo alle Ville medicee di questo periodo. Una prima caratteristica che emerge da un confronto delle Ville di Doni con l’intensa fase di costruzione, è l’accostamento della residenza del signore con un contesto naturalistico scenografico, sintomo del gusto manierista, che mira a stupire e meravigliare il visitatore tramite fontane o grotte ad incrostazione e spettacolari giochi d’acqua. La diffusione di questo tipo di decorazione, specialmente nell’Italia centrale, è data dall’abbondanza dei materiali fossili, la cui “natura di pietra” permette le più disparate varianti per la realizzazione di grotte e fontane rustiche. Oltre l’uso di conchiglie e molluschi, vi è l’utilizzo di cozze, ostriche e telline, che permettono la realizzazione di mascheroni grotteschi e un tipo di ornamentazione detta “a rose”7.

Le ville, oggetto del presente studio, costituiscono una fonte di primaria importanza per un’analisi sia del mecenatismo mediceo e di autocelebrazione del potere politico, sia della vasta opera di investimento e rilevamento fondiario, iniziata sotto Cosimo I e proseguita con Francesco I e Ferdinando I. Essi sono i principali propulsori di un processo di sistematica conversione di aree urbane in rurali, iniziato nel Trecento e giunto all’apice nel Cinquecento.

Una testimonianza sulla massiccia edificazione in corso dal XII secolo fino al pieno XVI secolo è quella di Giovanni Villani, che scrive su quella che considera una moda, in quanto “non v’era cittadino che non avesse edificato o che non edificasse in contado grande e ricca possessione, e abitura molto ricca. […] E sì magnifica cosa era a vedere”8. A mio parere, l’affermazione del cronista trecentesco attesta di una vera e propria “mania” che i fiorentini, ed in particolar modo i Medici avevano per le ville, che diventano sia luoghi emblematici di raffinatezza e cultura erudita - grazie ai passatempi letterari e filosofici - sia tenute agricole e quindi fonte di sostentamento.

Il processo di privatizzazione di alcune aree può essere considerato come l’adozione di una precisa strategia politica che, attraverso la gestione privata del territorio, mira ad un programma autocelebrativo in cui il mito di hortus conclus viene accostato al concetto di sovranità totale sul territorio. La renovatio urbis dei Medici determina un legame tra il giardino e la politica granducale. Infatti, l’hortus è concepito come uno spazio deputato al doctum otium umanistico, quindi alla contemplazione filosofica e alle pratiche collezionistiche, ma diventa anche il luogo privilegiato di accordi politici e quindi deputato al negotium9. L’unione di otium e negotium determina la creazione di straordinari scenari naturalistici e artificiosi, il cui insieme viene considerato una rappresentazione autocelebrativa della dinastia medicea e del Granducato fiorentino, impegnato in controversie politiche, ma senza mai trascurare l’arte e la cultura, usate spesso come mezzi di propaganda politica.

Francesco I fa costruire la villa di Pratolino e acquista La Màgia e Lappeggi, mentre Ferdinando amplia l’Ambrogiana10. Esse costituiscono parte di un programma politico che mira alla trasformazione di tenute agricole in ville suburbane, sintomo della potenza granducale e simbolo di un nuovo modo di organizzare il territorio tramite scenari e invenzioni iconografiche sempre più grandiose ed effimere. Esse possono essere ritenute un’esemplificazione visiva di una nuova età dell’oro, data dall’unione tra politica, arti e passioni personali quindi, tra ubicazione strategica, architettura e caccia.


La Villa di Pratolino

La villa di Pratolino, voluta da Francesco I e progettata da Bernando Buontalenti nel 1568, si trova a nord di Firenze e domina la vista panoramica su Fiesole11(fig. 3). Gli anni del cantiere di fabbrica furono particolarmente intensi, a seguito della particolarità del progetto architettonico che richiedeva un oneroso impegno finanziario. Il Granduca aveva richiesto la realizzazione di un parco, che si qualificasse architettonicamente come un “giardino dei sensi”, assecondando la moda manierista e stravagante del tempo, già protesa verso un gusto bizzarro e tipicamente Barocco. La realizzazione dell’intero complesso, viene considerata come una riaffermazione del primato dell’arte fiorentina, secondo la logica dell’invenzione concepita come convivenza di arte e scienza, infatti “Francesco I, alle porte della città erge una specie di esposizione permanente della tecnica, una fiera delle meraviglie”12.

Il parco è considerato come un museo-officina sperimentale o una trasposizione esterna del personale Studiolo del Granduca, al cui interno convivono naturalia e artificialia, due delle categorie sotto le quali rientravano le passioni di Francesco I. Il parco, oggetto di poemi encomiastici, viene subito considerato una delle principali meraviglie della residenza, in cui:

L’Arte e la Natura
Insieme a gara ogni sua grazia porge
E fra quelle si scorge
La grandezza del animo, e la cura
[…]
E fa splender più chiaro ogn’ hor d’ intorno
Di nuove meraviglie il soggiorno”13.

Una testimonianza poetica sulla fortuna del parco è quella di Francesco de Vieri, filosofo e intellettuale estremamente colto, presente anche nelle illustrazioni dell’Attavanta delle Ville, il quale considera la residenza fiorentina come una manifestazione competitiva degli architetti moderni che confrontano le proprie capacità con gli antichi, in quanto “le opere stupende dell’arte più ingegnosa degli antichi artefici con quelle dei presenti che in esso Pratolino si contengono con grande meraviglia e stupore”14.

La costruzione si presenta con un corpo di fabbrica centrale, caratterizzato dalla presenza di un sistema simmetrico di scale che permettevano di entrare negli ambienti interni della villa. Queste, dalle dimensioni ampie, sembrano riprendere quelle ideali descritte da Doni, che si rifà a quelle della Libreria di San Lorenzo a Firenze.

Inoltre, dalla terrazza della Villa si poteva godere della vista del parco sottostante, caratterizzato da grotte, fontane, sculture e statue realizzate da Giambologna, Ammannati e Buontalenti. Infatti, essendo la Villa a muro pieno, essa è costituita da una serie di grotte artificiali, connotate da artificiosi giochi d’acqua, i cui meccanismi suscitavano meraviglia ed estasi. I giochi d’acqua creati dalle fontane caratterizzano la villa iconograficamente, determinando un’esaltazione dell’elemento acquatico in senso simbolico. La fortuna di Pratolino è data dal predominio dell’artificio umano sulla natura e dalla combinazione di fontibus e xystum, quindi acqua e viali alberati, che determina la realizzazione di un complesso architettonico e naturalistico idoneo per il ristoro dell’animo e la contemplazione filosofica15.

La supremazia dell’ingegno umano è ben testimoniata da un componimento encomiastico di Giovanni Rosini, che nel 1834 scrive “per mezzo di macchinette […] l’acqua scaturendo con impeto, e rempiendone i vuoti, veniva a formare, […] le più curiose e le più mirabili cose. Il Buontalenti […] avea superato se stesso. Era in quella rappresentato il passaggio degli uomini dalla barbarie alla civiltà”16. Le parole di Rosini sono particolarmente significative, in quanto testimoniano la meraviglia e lo stupore suscitatogli dalla visione di opere considerate “miracolose e di stupendo artificio”.

L’importanza delle grotte presenti a Pratolino è data dalla preziosità dei materiali di costruzione che connotano la decorazione interna come allegorie di una Wunderkammern de aquatilibus. Nella residenza la realizzazione di grotte e fontane, con materiali facilmente reperibili, ma estremamente preziosi, ha determinato un’accentuazione del binomio naturalia e artificialia, a favore di una considerazione della villa di Pratolino come “giardino delle meraviglie”17. Quelle maggiormente degne di nota sono l’Appennino di Giambologna scolpito nel 1580, al quale venne aggiunto il Drago di Foggini, la cappella esagona del Buontalenti, la Fontana del Mugnone e la Grotta di Cupido18.

A mio parere, la statua di Giambologna (fig. 4) può essere considerata una delle meraviglie sia della storia dell’arte del Cinquecento che di Pratolino. La scultura è stata oggetto di interesse sia da parte dei contemporanei che degli antichi visitatori, estasiati di fronte alla visione di un così “maraviglioso colosso[…] in atto di sedere […]; composto di pietre e, spugne”19.

L’interesse di Francesco I per la realizzazione del complesso e il posizionamento delle statue, fontane e sculture è di tipo decorativo, ma soprattutto egli mirava a stabilire dei nessi con gli antichi Déi e gli uomini del passato visti come exempla virtutis. In quest’ottica risulta ben comprensibile l’affermazione di De Vieri, secondo cui l’Appennino ricorda “la gran superbia degli antichi giganti; che tentarono mettendo monte sopra monte di prendere il cielo; i quali furono fulminati da Giove”20.

Inoltre, una fonte iconografica da tenere in considerazione sono alcuni disegni di Giovanni Guerra( fig 5 – 6 ), che illustrano i mirabili giochi d’acqua realizzati dalle fontane e dalle grotte presenti. La loro realizzazione costituisce una testimonianza visiva di quel legame che Francesco I mirava a stabilire con la mitologia, che rivive nelle parole del Verino. La descrizione della Fontana della Fama “la cui statua stando dritta con una tromba menando l’ali terribilmente suona”21 e del Dio Pan “mirabilissimo, perché non solamente e’ si muove rizzandosi e riponendosi a sedere, ma ancora perché suona il suo strumento musico e muove gli occhi e tutto il capo”22costituiscono delle ekphrasis che nobilitano l’ingegno umano, artefice della spettacolarizzazione di Pratolino.

La loro importanza è data da una enfatizzazione sia del ruolo dell’acqua, che viene mitizzata, sia del ruolo stesso della Villa, le cui opere sono “piacevolissime a riguardare per la loro bellezza e diversità, sono per l’importanti verità il viver bene di gran pregio e per l’occulte e ingegnose e stupende”23.

A mio avviso, la loro presenza concorre a rendere Pratolino uno scenario ideale direttamente legato alla mitologia a seguito della presenza del Mugnone (fig. 7), divinità fluviale che accentua l’importanza dell’elemento acquatico. Gli apparati scultorei presenti all’esterno caratterizzano la villa in opera d’arte e di architettura, la cui unione la connota come natura artificialis.

Una testimonianza iconografica delle grotte è costituita dalla lunetta di Giusto Utens, il quale dipinge dall’alto la villa e il parco circostante, soffermandosi su dettagli artistici e architettonici, che possono sfuggire ai più. Dalla veduta prospettica del pittore emerge una suddivisione simmetrica del parco, bipartito in Parco Nuovo e Parco Vecchio.24 Questa ripartizione ritorna anche in Anton Francesco Doni, il quale afferma la necessità affinchè “il giardino o horto, […] ha da esser diviso in duo parte, […] con belle vie larghe tirate a filo compartitamente. Alcune siano benissimo lastricate, […] et altre stiano nette del continuo e rase”25. Inoltre, il Parco Vecchio era dominato dalla presenza della scultura Giove di Baccio Bandinelli (fig. 8), connotata dai suoi attributi, l’aquila e il fulmine. La presenza di questa scultura determina un’ulteriore sottolineatura della bipartizione del parco, che si trovava sotto il segno della terra nella parte vecchia e quindi del logos, e dell’acqua nella parte nuova connotata da grotte e ninfei, dedicati a Venere26.

Dalla lettura del testo e dalla visione della lunetta dipinta emerge una corrispondenza testuale e iconografica e dalla veduta prospettica a volo d’uccello si può godere in maniera individuale di una percezione visiva ammirabile solo dall’alto.

Purtroppo, la villa è andata distrutta ed è possibile immaginare la Pratolino di Francesco I, nota come “teatro di delizie, di magnificenza e di comodi”27, solo tramite raffigurazioni artistiche e descrizioni testuali, che costituiscono delle ekphrasis pittoriche. Infatti, la fortuna di Pratolino e il fascino che suscitava rivive nei componimenti poetici del tempo, che descrivono la Villa come “un luogo nel quale sono boschi, piante domestiche con arte disposte a statue di uomini rari per virtù e di Dii de’ gentili”28.

La Villa è da sempre stata considerata uno straordinario complesso architettonico e scenografico, per la cui realizzazione sono intervenuti i più eccelsi maestri d’arte che sono stati in gradi di esplicitare in forma visiva la volontà del Granduca “amante dell’alchimia e delle arti meccaniche, e soprattutto, dell’architettura”29.

Il complesso riunisce i vari interessi di Francesco I, interessato alle scienze, alla botanica e alla tecnica, ma anche alle arti figurative, sebbene possa essere considerato come un esempio architettonico e artistico della volontà di isolamento del Granduca, dedito ai suoi personali esperimenti nei propri laboratori scientifici.

La costruzione, dopo essere passata di proprietà ai Lorena, inizia un periodo di lungo degrado e viene spogliata degli arredi, solo nella metà dell’Ottocento fu trasformata in una residenza principesca, abitata dai Demidoff fino al Novecento ed infatti, oggi è nota come Villa Demidoff30.



La Villa di Lappeggi

Lappeggi (fig. 9) - “luogo del Serenissimo Gran Duca nell’Antella, intorno al quale rigira il prato ed ha la medesima larghezza, et fuori del palazzo, non molto lontano sono stalle e tinaie grandissime”31- è uno dei luoghi che meglio simboleggiano lo splendore della dinastia medicea.

La villa, a sud di Firenze, fu acquistata da Francesco I nel 1569 dai Ricasoli per 13.000 fiorini d’oro e fu oggetto di lavori di abbellimento condotti sotto la diretta supervisione di Bernando Buontalenti. La durata dei lavori, di ben 47 mesi, determina la trasformazione di un complesso fondiario in luogo di svago e di villeggiatura32.

Inoltre, durante la fase di trasformazione del complesso, furono realizzate stalle, granai e stanze per la servitù, la cui realizzazione può essere considerata il sintomo di un processo edilizio diffusosi dal Veneto in Toscana.

Lo stesso Doni ne parla nella descrizione della Villa Civile, soprattutto in relazione alla presenza di “una fabrica rozza, lavorata alla rustica ma bella, con quella proportione, et comodo che sia alla famiglia servitrice […]. In questa ci si faranno le stalle, […] le colombaie, i pollai, forni”33. La descrizione degli ambienti destinati alla servitù permette sia di delineare la diffusione di un nuovo di tipo di sviluppo edilizio, sia di dimostrare come lo scrittore sia ben informato sulle diverse realtà locali, non dimenticando i suoi contatti con il Veneto. Infatti, molto probabilmente non è da escludere una diretta influenza di questo processo durante il soggiorno veneto dell’autore, precedente la stesura delle Ville.

Inoltre, il riferimento alla presenza di ambienti di servizio, costituisce un nesso con le Ville doniane, in cui si sostiene la loro necessaria presenza per il benessere personale del signore.

Una testimonianza sulla planimetria e la realizzazione di spazi deputati alla servitù è data da Giorgio Vasari il Giovane, che scrive “Appeggio, luogo del Serenissimo Gran Duca nell’Antella, intorno al quale rigira il prato ed ha la medesimo larghezza, et fuori del palazzo, non molto lontano sono stalle e tinaie grandissime”34. Questa tipologia è riscontrabile nelle ville venete del tempo, rispetto quelle tosco-fiorentine, che si rifanno principalmente al modello della basis villae romana.

Inoltre, Lappeggi può essere paragonata al Podere di Spasso di Doni in riferimento alla sua destinazione d’uso e all’architettura generale del complesso.

Il collegamento con il Podere di Spasso, è dato da “una corte chiusa con le mura attorno, d’un ampia e ben composta entrata: nella quale sieno da duo parte gli orticini alti […] pieni di melaranci, cedri fiori, et erbette odorifere, fragole o altro […]. Due loggette al piano […] nel mezzo delle quali sia l’entrata del casamento […] che nello entrare abbia bella et honorata apparenza”35.

L’edificio, dipinto da Utens, si presenta come una corta chiusa con le mura intorno - la facciata caratterizzata da due ordini di logge e il giardino - assumendo i connotati di una tenuta agricola.

Dopo essere stata utilizzata come luogo di villeggiatura e ricreazione da Ferdinando I, la villa passa agli Orsini di Pitigliano, ma nel 1640 ritorna di proprietà dei Medici, raggiungendo il massimo splendore con Cosimo III.

Solo dopo la sua morte la dimora viene abbandonata e battuta all’asta36.



La Villa La Màgia

La villa La Màgia è una residenza di campagna ubicata nei pressi di Quarrata e acquistata nel 1585 da Francesco I dai Panciatichi, tramite il suo segretario personale, Pietro Conti, che tratta con i creditori di Niccolò Panciatichi37(fig. 10).

Sebbene la dimora si trovi isolata rispetto il centro urbano, essa si trova in una posizione di strategica importanza, in quanto è in un punto ideale per il controllo della viabilità tra Pistoia e Firenze.

Inoltre, l’acquisto della residenza si può considerare come la volontà di aggiungere ai propri possedimenti un ulteriore podere, in maniera tale da estendere l’area di influenza medicea. Infatti, “la tendenza conscia od inconscia ad una riconferma delle origini e della provenienza del ceppo familiare, […] si dissolve ormai nell’identificazione delle fortune del ceppo familiare mediceo con quelle dell’intera Firenze. Di qui un programma di investimenti che si estende sull’intero contado fiorentino, disponendosi a corona intorno alla città e allargandosi a comprendere l’intera fascia tra Firenze e Pistoia”38.

La denominazione “Màgia” è stata oggetto di studio da parte degli studiosi, i quali hanno portato avanti diverse ipotesi relative al particolare toponimo con il quale la residenza è nota da sempre. Secondo Silvio Peri, la denominazione deriva dal prototipo di “Magio”, che molto probabilmente era da riferirsi ai proprietari precedenti i Panciatichi, i Magi. Un’ipotesi molto più accreditata è quella di Emanuele Peretti, che risale fino ai primi anni del Duecento per dimostrare come la denominazione derivi dal nome di un casato pistoiese. Infatti, un riscontro reale delle supposizioni di Peretti si ha nel Liber finium del 1255, in cui sono delineati i confini dei comuni pistoiesi39.

La dimora viene trasformata dal Buontalenti in una vera e propria tenuta agricola. La villa era precedentemente utilizzata come fortilizio dai proprietari originari che la usarono per sfuggire ai Cancellieri di Pistoia40.

L’architetto, impegnato nella realizzazione delle diverse residenze medicee, dimostra una straordinaria capacità di soddisfare e assecondare le esigenze della famiglia granducale, che si vi si affida completamente per far ispezionare, fortificare e fornire disegni e pareri su opere di ingegneria idraulica, edilizia civile e militare. Infatti, numerose sono le testimonianze che documentano l’eccezionalità dell’intervento buontalentiano, che “passo in tanta stima che fu capo di tutte le fabbriche così civili come militari”41 e ancora “essendo egli stato sempre in carica per lo serenissimo Granduca di soprintendente delle fabbriche civili e militari”42.

La nuova residenza medicea assume i connotati di una residenza agricola, grazie ai lavori dell’architetto che si occupa della sistemazione del parco. Esso risulta essere interamente coltivato e si presume che fosse usato sia come terreno agricolo che da caccia, a seguito della passione che aveva il Granduca per tale attività, così come per la pesca. La pratica di attività ludiche da condurre nella villa è più volte sottolineata da Doni, che le considera “il nerbo della necessità di nostra vita”43. Un nesso con le Ville di Doni si può istituire facendo riferimento al Podere di Spasso, luogo deputato alla caccia, alla pesca e adatto al signore che necessita di allontanarsi dalla frenesia del volgo.

Una testimonianza iconografica che rende visibile la tenuta al tempo di Francesco I è la lunetta di Giusto Utens, il quale si sofferma sulla resa pittorica del territorio circostante e della villa. Dal dipinto del fiammingo si nota la ricerca di un assetto unitario da dare alla costruzione, la quale però risulta essere piuttosto irregolare, essendo di epoca medievale44. Il terreno dipinto da Utens permette di ricollegarsi al Podere di Spasso e fornisce una testimonianza visiva della descrizione testuale di Doni, che si sofferma sulla varie coltivazioni del podere. Le diverse coltivazioni agricole determinano la necessaria realizzazione di “una cucina delle più forbite che habbia quel paese. […] Con pozzi, et quante comodità fanno bisogno”45.

La specificazione di un ambiente esclusivamente dedicato ai cibi è data dal fatto che il Podere di Spasso ideale è pensato come luogo di ristoro, per allontanarsi dalla frenesia quotidiana della città. A mio avviso, la Màgia è il tipo di dimora reale che può essere confrontata con quella ideale di Doni proprio per la perfetta corrispondenza sulla destinazione d’uso.

Inoltre, la presenza di un lago sia nella proprietà medicea, sia in quella ideale descritta da Doni, diviene parte integrante della tenuta e costituisce un ulteriore collegamento con l’opera doniana. Infatti, “per ultimo diletto tiene il gentiluomo una barchetta da scorrere in mezzo a i laghetti […] et per potere tal volta sopra l’acqua cenare”46.

Le notizie sulla presenza di un lago nella residenza, provengono dal provveditore Benedetto Uguccioni, il quale informa il Granduca che “da maestro Bernardo Buontalenti Architetto di V.A.S et maestro Davitte Fortini chapo maestro di questo ufficio mi fu detto che la A.V.S. haveva comandato che si provvedessi a tutte le appartenenze per fare muraglia per il lago da farsi cinchuvicino alla Magia”47.

Inoltre, gli studi condotti hanno dimostrato come l’assetto planivolumetrico della residenza, coincidente con quello attuale, fosse caratterizzato dalla presenza di un porticato ad L, successivamente rimaneggiato a seguito dell’esigenza di realizzare nuovi ambienti48. La totale assenza di giardini, artisticamente intesi, può essere considerata un’anomalia, in quanto essi erano parte integrante della tipologia ideale di villa, contribuendo ad un’organizzazione visiva del paesaggio circostante.

Inoltre, un’altra fonte figurativa e iconografica è fornita da Giorgio Vasari il Giovane, che realizza una serie di piante rappresentanti le dimore medicee e vi include la planimetria della residenze pistoiese, in maniera tale da dimostrare quale assetto essa aveva al tempo in cui era di proprietà della famiglia granducale49.

A mio parere, la villa si può considerare come una fondamentale testimonianza architettonica dell’estensione dei possedimenti terrieri e agricoli, ma anche dell’aumentato potere politico del Granducato, a seguito della vicinanza con Poggio a Caiano.

La residenza, dopo la morte di Francesco I passa a Ferdinando I, il quale dopo aver abbandonato la porpora cardinalizia prende le redini del Granducato e assegna la Villa al figlio di Francesco I e Bianca Cappello, Don Antonio De Medici50. In seguito, la residenza viene venduta da Ferdinando II a Pandolfo Attavanti nel 1645, rimanendo di proprietà privata fino ad oggi51.


La Villa dell’Ambrogiana

L’Ambrogiana è una tenuta che viene trasformata in villa da Ferdinando I, dopo essere stata acquistata nel 158752 (fig. 11). Questa costruzione, così come la Màgia, viene utilizzata come tenuta da caccia e ciò è testimoniato dal segretario granducale, che afferma “in Toscana comprò e fabricò l’Ambrogiana solo per comodità della caccia, con molte comodità”53.

La villa, al pari delle altre, viene progettata da Buontalenti, il quale ingloba la precedente struttura e giunge alla definizione di un assetto architettonico piuttosto complesso a seguito anche della presenza di un fiume. Esso è un elemento naturalistico di primaria importanza, che connota il giardino della villa attraverso l’unione dell’elemento acquatico con quello terreno. La presenza di un corso d’acqua è fondamentale per la realizzazione di un “mirabil sito” e determina un collegamento con il Podere di Spasso di Doni quando descrive una tenuta nei pressi del fiume Marzinigo.

L’Ambrogiana è caratterizzata dalla presenza di uno scenografico giardino, grotte e giochi d’acqua, dimostrando una maggiore connotazione artistica rispetto La Màgia, soprattutto in relazione della presenza del gruppo scultoreo di Ercole e Anteo dell’Ammannati54.

La presenza di grotte, fontane e di diversi gruppi scultorei concorre ad abbellire artisticamente ed esteticamente l’edificio, che almeno in questo punto può essere paragonato alla Villa Civile doniana, in quanto lo scrittore nella descrizione della residenza ideale si sofferma sulla delineazione dei diversi apparati decorativi esterni, quali una “artificiosa montagnetta, […] un laberinto bello, et in mezzo un chiara fontana”, formata da canali che “hanno da cadere per via di doccioni ben contesti, sotto la rozza montagna […] fatta con gran maestria, fabricata di pietre rozze tutte bizzarre, et stravaganti”55.

Il dipinto di Giusto Utens costituisce una testimonianza iconografica e visiva della fase di ultimazione dei lavori, presentando l’assetto originario complessivo che è stato poi rimaneggiato. L’edificio, infatti, è una costruzione piuttosto regolare circondata sul lato sinistro dal giardino, caratterizzato da decorazioni arboree.

L’acquisto della villa era dovuto al fatto che essa era stata pensato come luogo di sosta, in quanto si trovava a metà strada da Pisa e soprattutto come luogo di ristoro e di caccia. Quest’ultima destinazione d’uso risponde perfettamente ai canoni del Podere di Spasso doniano, in quanto “queste son ville da gentiluomini, et da letterati, perché affistidito uno da travagli della repubblica, cerca qualche spasso di mente”56.

Inoltre, l’Ambrogiana fu una delle dimore preferite da Cosimo III, il quale vi raccolse numerose collezioni pittoriche, botaniche e naturalistiche. Infatti, fece costruire una loggia per ospitare il Gabinetto di Storia naturale, in maniera tale da permettere a Francesco Redi, medico e naturalista, di lavorare in ossequio al nuovo culto dello sperimentalismo galileano57.

Quando la tenuta passa di proprietà ai Lorena viene quasi completamente abbandonata e Leopoldo II la fa trasformare nell’Ottocento in una casa di cura per malattie mentali58.

A mio avviso, le lunette di Giusto Utens costituiscono una testimonianza artistica sulla fortuna politica della famiglia Medici, che attraverso l’unione della componente architettonica, politica e personale giunge alla realizzazione di complessi, dove “quanto sarà beatissimo lo starsi in villa: felicità non conosciuta”59.

Le parole di Leon Battista Alberti, sono particolarmente significative ed eloquenti, in quanto esplicitano il rinnovato interesse per la realizzazione di complessi architettonici in cui l’uomo può dedicarsi a tutte quelle attività ricreative per il corpo e lo spirito. Infatti, lo stesso Doni nelle Ville compie un vero e proprio elogio della vita in villa, criticando coloro che cadono nell’otium negativo.


In conclusione, ritengo l’opera di Doni centrale per il dibattito storico-artistico dell’epoca, sia in relazione alla nascente letteratura artistica, sia in merito alle varie sperimentazioni architettoniche.

Lo scrittore richiamandosi alla tradizione classica di Orazio per quanto riguarda il concetto di ut pictura poesis, a lui estremamente caro, e alla tradizione degli scriptores de re rustica romani dimostra una completa familiarità con il mondo legato alla pratica artistica. Infatti, il panorama delle arti figurative del tempo, in un momento di intenso fervore, permette agli artisti e agli scrittori di partecipare e di contribuire sia con opere d’arte figurativa, sia letteraria, consentendo loro di richiamarsi al mondo classico. Sebbene sempre celata da reconditi simbolismi, la passione per l’antico di Doni può essere considerata una particolare chiave interpretativa di quella renovatio umanistica della cultura classica, vista come exempla virtutis.

A mio parere, le Ville sono un testo di fondamentale rilevanza per l’epoca, sia per il riferimento alla tradizione trattatistica romana di Catone, Varrone, Rutilio e Columella, sia quella rinascimentale di Leon Battista Alberti, dimostrando come nel Cinquecento ormai si è giunti ad un’evoluzione della concezione classica di otium e di come Doni non contempli l’unione otium-negotium, concependo la villa come luogo puramente ristorativo. L’idea di un luogo concepito puramente per il puro piacere è ben delineata da Doni, soprattutto in relazione all’opposizione di una dimora modesta, in quanto la villa viene vista come corrispettivo architettonico visivo del potere del signore e per questo lo splendore delle sue forme architettoniche deve essere un riflesso del potere del signore.

Inoltre, considero la divisione delle varie tipologie ideali o reali di Ville, fondamentale ai fini della ricerca condotta in quanto ciò mi ha permesso di giungere ad una maggiore comprensione del personaggio e di quanto egli fosse inserito nelle maggiori cerchie culturali di èlite. Infatti, le Ville permettono al lettore di comprendere bene le frequentazioni di Doni, che fanno riferimento a personaggi di alta caratura sociale, ma anche ad artisti da lui consigliati per la realizzazione dei vari tipi di ville, la cui divisione strutturale dimostra l’esistenza di una gerarchia sociale in relazione alle dimore da lui descritte.

La stesura di un testo riguardante le tipologie ideali di Ville, ha trovato un riscontro nella pratica artistica e in particolar modo nell’architettura del tempo. Molteplici sono stati i legami e i nessi che ho tentato di istituire, dimostrando sempre come la figura di Anton Francesco Doni, membro di diverse Accademie del tempo, fosse tenuta in grande considerazione e non escludo, la possibilità che i vari architetti, ingegneri e artisti abbiano fatto riferimento a lui nella costruzione delle diverse dimore signorili.

Ritengo che i nessi derivanti dalle Ville doniane, possono essere considerati un segnale del rapporto, caro a Doni, tra il loci e la imagines, in virtù dei legami sempre presenti, tra la parola poetica e l’immagine artistica che si riscontrano nelle sue opere. Questo concetto, derivante dal ben noto motto oraziano, può essere qui tradotto come ut aedificandi poesis, in relazione al principale punto di partenza testuale, dal quale poi derivano una serie di costruzioni della mirabile bellezza, che rispettano i canoni architettonici dell’epoca.

Nonostante la figura di Doni sia stata, il più delle volte, oscurata da quella dei grandi nomi della letteratura, dell’arte e della tipografia, lo ritengo un personaggio centrale dell’epoca, la cui subordinazione a tali personalità ha determinato una sorta di oscurantismo, che però sta venendo meno grazie ai recenti studi sulla sua persona. Infine, credo che la ricerca condotta e lo studio del manoscritto abbiano fatto luce sulla sua personalità, sul ruolo svolto in ambito artistico e letterario, in relazione alla nascente letteratura artistica e sui suoi molteplici contatti con due delle città considerate centrali per il mondo dell’arte, Firenze e Venezia.





NOTE

1 Bellocchi 1969, pp. 20 – 30.

2 Per un approfondimento su Baccio Bandinelli: Vasari – Urbini 1913; Heikamp 2014.

3 Per un approfondimento su Anton Francesco Doni: Curcio 1941; Ricottini Marsili – Libelli C. 1960; Bolzoni 1987; Candela 1993; Bolzoni 1995; Rizzarelli 2012; Bolzoni 2012.

Inoltre, si rimanda alla lettura del volume Dissonanze concordi: temi, questioni e personaggi intorno ad Anton Francesco Doni, a cura di Giovanna Rizzarelli, Bologna 2013.

4 Orlandi 1978, p. IX

5 Orlandi 1978, p. XXVIII

6 Mignani 1993.

7 Vezzosi 1985.

8 Rebecchini 2008, p. 9.

9 Rinaldi 1980.

10 Mignani 1993.

11 Per un approfondimento sulla Villa di Pratolino: Conforti 1980; Mignani 1993; Vezzosi 2009; Ballerini 2011. Inoltre, si rimanda alla lettura dei seguenti volumi: Zangheri L., Pratolino: il giardino delle meraviglie, Firenze 1979; Il concerto di statue, a cura di Alessandro Vezzosi, Firenze 1986; L’Appennino del Giambologna: anatomia e identità del gigante, a cura di Alessandro Vezzosi, Firenze 1990; Il parco mediceo di Pratolino: Villa Demidoff, una storia per immagini, a cura di Massimo Becattini, Firenze 2005.

12 Conforti 1980, p. 29.

13 Gualtierotti1579, p. 10.

14 Vezzosi 1985, p. 17.

15 Vezzosi 1985.

16 Eadem, p. 15 – 16.

17 Eadem.

18 Lapi Ballerini 2011.

19 Baldinucci 1681, II, p. 566.

20 De Vieri 1587, p. 29.

21 Ibidem, p. 32.

22 Ibidem, p. 33.

23 De Vieri 1587, p. 55.

24 Lapi Ballerini 2011.

25 Bellocchi 1969, p. 36.

26 Conforti 1980.

27 Lapi Ballerini 2011, p. 99.

28 De Vieri 1587, p. 56.

29 Rebecchini 2008, p. 48.

30 Mignani1993.

31 Vasari il Giovane 1970, p. 25.

32 Mignani1993.

33 Bellocchi 1969, p. 38.

34 Orlandi 1978, p. 42.

35 Bellocchi 1969, p. 47.

36 Mignani 1993.

37 Per un approfondimento su Villa La Màgia: Mignani 1993; Barni 1999; Ballerini 2003.

Per un approfondimento sulle considerazioni dei due studiosi Peri e Peretti in merito alla denominazione “La Màgia” si rimanda a Barni 1999.

38 Pardo 1978, p. 50

39 Barni 1999.

40 Mignani 1993.

41 Giovannozzi 1932, p. 508.

42 Baldinucci 1681, p. 503.

43 Bellocchi 1969, p. 31

44 Mignani 1993.

45 Bellocchi 1969, p. 49.

46 Ibidem, p. 51.

47 Lettera di Benedetto Uguccioni, Firenze a Francesco I de’ Medici, Firenze il 16 – 19 febbraio 1585 in Barni 1978.

48 Barni 1978.

49 Barni 1999.

50 Lapi Ballerini 2011.

51 Mignani 1993.

52 Per un approfondimento sulla Villa dell’Ambrogiana: Fossi 1976; Mignani 1993; Ballerini 2011;

Inoltre si rimanda anche alla lettura del volume di Vasìc Vatovec C., L’Ambrogiana: una villa dai Medici ai Lorena, Firenze 1985.

53 Mignani 1993, p. 92.

54 Fossi 1976.

55 Bellocchi 1969, pp. 35 - 36

56 Bellocchi 1969, p. 51.

57 Lapi Ballerini 2011.

58 Mignani 1993.

59 Alberti 2012, p. 80.




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Fig. 1 - Iustus van Uten detto Giusto Van Utens, Villa di Cafaggiolo, 1559 – 1602, Museo Topografico di Firenze Com’era, Firenze.

Fig. 2 - Iustus Van Utens detto Giusto Van Utens, Villa del Trebbio, 1599 – 1602, Museo Topografico di Firenze Com’era, Firenze.

Fig. 3 - Iustus Van Utens detto Giusto Van utens, Villa di Pratolino, 1599 – 1602, Museo Topografico di Firenze Com’era, Firenze.

Fig. 4 - Jean de Boulogne detto il Giambologna, Colosso dell’Appennino, 1580, Villa Demidoff, Pratolino.

Fig. 5 - Giovanni Guerra, La Fontana di Tetide nell’Appennino, Disegno, Gabinetto Stampe Albertina Vienna (GSA).

Fig. 6 - Giovanni Guerra, La Grotta della Fama (fig. 6 a); La Grotta di Pan a Pratolino (fig. 6 b), Disegno, Gabinetto Stampe Albertina, Vienna (GSA).

Fig. 7 - Jean de Boulogne, Fontana del Mugnone, 1577, Villa Demidoff, Pratolino.

Fig. 8 - Bartolomeo Brandini detto Baccio Bandinelli, Giove seduto, 1566, Giardino di Boboli, Firenze.

Fig. 9 - Iustus Van Utens detto Giusto Utens, Villa di Lappeggi, 1599 – 1602, Museo Topografico di Firenze Com’era, Firenze.

Fig. 10 - Iustus Van Utens detto Giusto Utens, Villa La Màgia, 1599 – 1602, Museo Topografico di Firenze Com’era, Firenze.

Fig. 11 - Iustus Van Utens detto Giusto Utens, Villa L’Ambrogiana, 1599 – 1602, Museo Topografico di Firenze Com’era, Firenze.

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