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Anticipazioni della Poetica degli Affetti di Pomponio Torelli nel pensiero di Torquato Tasso

Daniela Silvana Astro
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 19 Novembre 2018, n. 858
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L’importanza e le implicazioni del complesso pensiero di Pomponio Torelli (Fig. 1), conte di Montechiarugolo, (Montechiarugolo, 1539 – Parma, 1608), autorevole letterato e uomo di corte, precettore del Duca Ranuccio Farnese I, tra i principali animatori e ricercatori dell’Accademia degli Innominati di Parma, di cui fu guida intellettuale[1], uno dei più salienti e innovatori tragediografi italiani della fine del XVI secolo, figura nuova di «letterato – politico barocco e controriformista»[2], studioso della natura e delle implicazioni delle passioni e degli affetti, della poetica aristotelica, «neoplatonico controriformato»[3], non sono state fatte oggetto di uno studio sistematico se non in tempi relativamente recenti[4].

Torquato Tasso, come ben noto, è stato ampiamente studiato in molteplici discipline, ma non è stata approfondita invece un’eventuale relazione del suo pensiero con la quasi coeva teorizzazione degli affetti di Pomponio Torelli, pur essendo compagni di Accademia sin dal 1581, anno nel quale Tasso entra a far parte degli Innominati col nome di «Pentito»[5].

Fig. 1: Cesare Aretusi, Ritratto del Conte Pomponio Torelli, olio su tela, 1602, Galleria Nazionale di Parma.


Giovanni Potente nel suo libro Eros e allegoria nella Gerusalemme Liberata, del 2005, tratta ampiamente il tema del controllo e uso a fini morali delle passioni nell’opera di Tasso, e pur rilevando il crescere col passare del tempo della consapevolezza dell’autore della funzione morale ed etica dell’arte nel suo tempo, con una conseguente messa a fuoco teorica, non pone mai in relazione in alcun modo questa consapevolezza con la sua affiliazione alla Accademia degli Innominati di Parma, che pure risale agli anni ’80 del sec. XVI ed ai quali invierà il suo sonetto di dedica ed impresa solo più tardi, nel 1586, quando verrà liberato da Sant’Anna[6], e alla coeva e molto vicina teorizzazione della loro guida intellettuale, Pomponio Torelli.

La poetica degli affetti, elaborata da Torelli lungo tutta la sua produzione, viene analizzata in rapporto alle arti e l’influenza esercitata su alcuni capolavori da Stefano Colonna nel suo libro sulla Galleria dei Carracci di palazzo Farnese a Roma[7]. La complessità del pensiero torelliano viene messa a paragone con quella di altri letterati, compreso il Tasso. In Torelli il tema della Ragion di Stato, «il dilemma ragione – non ragione», «essere – dover essere» viene ricondotto sotto la luce razionale della morale cattolica dopo il Concilio di Trento, vedendo in ciò un superamento della «concezione primitiva» del Tasso, meno serena e più manichea rispetto alla conciliazione degli opposti di gran parte della cultura umanistica con la nuova ideologia controriformistica, perseguita da Torelli.[8] Colonna ravvede in ciò un subentro degli «affetti barocchi» alla «ratio rinascimentale», facendo predominare «la moderazione, la conoscenza ed il controllo di sé»[9], riconducendo l’etereo mondo platonico delle idee ad un più proficuo contatto con la terrena medietas aristotelica. La differenza tra Torelli e Tasso risiederebbe, tra le altre cose, nel fatto che quest’ultimo trova la conclusione della tragedia nella «disperazione, mancato riscatto», mentre Torelli riprenderebbe il concetto della catarsi aristotelica potenziando l’elemento drammatico teleologicamente volto ad una purificazione finale[10], scopo ultimo della poesia.

Infine il tema degli affetti nell’opera di Tasso è stato affrontato anche da Giovanni Careri[11]. Molte delle istanze affrontate trovano paragoni stringenti con il pensiero torelliano, come la moderazione degli affetti[12], o le passioni quali l’amore, il desiderio, l’ira, indirizzate ad un fine morale che le regoli e utilizzi a fin di bene[13], il principio gesuitico di purgazione dell’arte nell’arte[14], eppure anche qui manca ogni riferimento alla frequentazione culturale di Tasso con l’Accademia degli Innominati e alle elaborazioni di Torelli, pure così rilevanti in quel torno di tempo.

Il letterato parmense si dedicò fortemente allo studio e teorizzazione delle passione e suoi effetti, in particolare su cavalieri, principi e potenti, che potevano col loro comportamento essere dannosi o al contrario porsi come esempio morale per la società. Torelli non propone tuttavia l’annullamento delle passioni, cosa che non sarebbe fattibile per l’animo umano, bensì la loro temperanza e reindirizzamento verso più utili fini morali. Quindi l’anima, che non può fare a meno di subire il corpo, non potrà evitare ogni passione, ma tenderà verso quel piacere e amore divino originari che erano essenti dal dolore; così le passioni sono provvidenzialmente utili a mettere in moto l’animo e spingerlo verso l’ascesi contemplativa di Dio.[15] In Torelli si verifica un singolare e interessante sincretismo filosofico che coniuga l’aristotelismo con un neoplatonismo ficiniano, il tutto alla luce della Controriforma. Anche se in Tasso non troviamo una simile teorizzazione, così teleologicamente chiarita, vi sono tuttavia degli aspetti comuni quantomeno singolari. Non bisogna dimenticare infatti che anche il Tasso seguiva interessi filosofici molto vicini, un aristotelismo temprato da neoplatonismo, lo studio di Marsilio Ficino, sempre con riguardo alla dottrina cattolica.

La critica ha spesso valutato Torquato Tasso sotto l’ottica di un dualismo che lo vedrebbe combattuto in un sofferto dissidio interiore tra valori cristiani, istanze controriformistiche da una parte e retaggi della cultura «“laica” e “materialista” di stampo umanistico»[16] dall’altra. Un «bifrontismo spirituale»[17] che produrrebbe l’alternanza tra «carattere lirico e carattere romanzesco», una interpretazione che trae matrice da De Sanctis, che nella sua Storia della Letteratura Italiana ritiene l’argomento epico–religioso del poema tassesco «forzato ed estraneo alle vere vocazioni dell’autore».[18]

Ma questa interpretazione non fa del tutto i conti con le diverse fasi del pensiero tassiano. Il poeta stesso ammette un’evoluzione in corso da quando è cominciata la revisione e lettura del suo poema da parte del gruppo di letterati a Roma, dal 1575. Tra l’altro è già qui possibile apprezzare, ben prima della affiliazione del Tasso all’Accademia degli Innominati che avverrà nel 1581, un suo riguardo non indifferente ad accordare le varie istanze, filosofiche e poetiche, con la dottrina cristiana, dovendosi soprattutto «accomodare all’umor di questi tempi», in pieni anni di Controriforma[19]. Il poeta, pur avendo affermato nei suoi giovanili Discorsi dell’arte poetica che fine della poesia è il diletto[20], non esclude con ciò un impegno etico e morale, anzi, lo contempla esplicitamente, solo che non come compito principale del poeta in quanto tale, bensì in quanto cittadino:

 

«Taccio per ora che dovendo il poeta aver molto riguardo al giovamento, se non in quanto egli è poeta (che ciò come poeta non ha per fine), almeno in quanto è uomo civile e parte della repubblica, molto meglio accenderà l’animo de’ nostri uomini con l’esempio de’ cavalieri fedeli che d’infedeli, movendo sempre più l’esempio de’ simili che dei dissimili […]»[21].

 

Comunque, sia compito del cittadino piuttosto che del poeta, qui c’è già un esplicita citazione dell’esempio insito nella poesia, volto al giovamento; esempio che meglio farà presa quanto più muoverà gli affetti in virtù del principio di somiglianza ed immedesimazione del lettore.

Tasso e Torelli condividono le idee aristoteliche su come debba essere la lirica moderna, che non potrà prescindere dalla verosimiglianza e la fama dei fatti ad esempio.

Una teorizzazione del poema epico moderno compiuta da Tasso, che sembra avere un peso non indifferente nella riflessione accademica di quegli anni, con le lezioni torelliane, databili agli anni tra il 1580 e 1590, che seguono dappresso, pur con varianti di non poco conto, le orme dei Discorsi dell’arte poetica di Tasso, pubblicati nel 1587 ma molto probabilmente già noti nei contenuti all’Accademia, visto che Torquato lavorò alla loro stesura verso il 1561 – 1562,[22] e avendo verosimilmente influenzato il dibattito innominato riguardo il genere epico.[23] Un esempio viene dato per quanto riguarda il canone aristotelico della scelta dell’argomento storico, illustrato da Tasso nei Discorsi dell’arte poetica in termini che verranno ripresi in modo pressoché identico nelle successive lezioni di Torelli:

 

Tasso:

«La materia, che argomento può ancora comodamente chiamarsi, o si finge, […] o si toglie dall’istorie. Ma molto meglio è a mio giudicio, che dall’istoria si prenda, perché dovendo l’epico cercare in ogni parte il verisimile […], non è verisimile ch’una azione illustre, quali sono quelle del poema eroico, non sia stata scritta e passata alla memoria de’ posteri con l’aiuto d’alcuna istoria».[24]

 

Torelli:

«fingere l’attione in persone già note per istoria o per fama, pur che quell’attioni non fossero convinte da contaria fama, o contraria istoria», poiché «non è verisimile che uomini illustri et sopra umani siano stati, de’ quali non si abbia notitia, et tolto il fondamento del verisimile cade tutta la macchina della Poesia Epica, non potendosi imprimer l’affetto tanto difficile senza gran vero similitudine».[25]

 

Come possiamo però notare, Tasso fa principalmente appello a principi letterari aristotelici quali la verosimiglianza delle storie, alla fama già diffusa di un argomento, si appella alla libertà del poeta, all’autorevolezza di scrittori antichi come Omero, ma non indica il fine catartico che potrebbero avere tali difetti, e che per Torelli sarebbe stata la ragione più importante.

Ma, attraverso le lettere che Torquato scambia coi revisori romani del suo poema in sviluppo e con amici, è possibile cogliere un divenire, un crescendo di preoccupazione ed insoddisfazione per quanto riguarda la validità della sua opera e la convenevolezza ai tempi che corrono, come esplicita preoccupato in una lettera dell’ottobre 1575 a Scipione Gonzaga:

 

«[…] forse anco io non ho avuto tutto quel riguardo che si doveva al rigor de’ tempi presenti, ed al costume c’oggi regna ne la corte romana: del che è buon tempo ch’io vo’ dubitando; ed ho temuto talora tant’oltre, che ho disperato di potere stampare il libro senza gran difficoltà»[26].

 

Viste quindi le rimostranze fatte nei confronti del poema da alcuni dei revisori più severi, Tasso decide di scrivere una allegoria del poema. In una missiva dell’ottobre 1575 a Scipione Gonzaga, Tasso parla della allegoria che servirà a veicolare comunque messaggi buoni e santi:

 

«E cominciando da l’allegoria, dico che dubitando io che quelle parti mirabili non paressero poco convenevoli a l’azion intrapresa, ne la quale forse alcun buon padre del collegio germanico[27] avria potuto desiderare più istoria e men poesia; giudicai ch’allora il maraviglioso sarebbe tenuto più comportabile, che fosse giudicato c’ascondesse sotto alcuna buona e santa allegoria.»[28]

 

Un famoso passo contenuto in una lettera indirizzata dal Tasso a Luca Scalabrino nel giugno 1576, venne spesso citata dalla critica letteraria per dimostrare l’artificiosità , il non sentimento, di questa allegoria aggiunta praticamente alla fine:

 

«Stanco di poetare, mi son volto a filosofare, ed ho disteso minutissimamente l’Allegoria non d’una parte ma di tutto il poema; di maniera che in tutto il poema non v’è né azione né persona principale che, secondo questo nuovo trovato, non contenga meravigliosi misteri. Riderete leggendo questo nuovo capriccio. […] Farò il collo torto e mostrerò ch’io non ho avuto altro fine che di servire al politico, e con questo scudo cercherò ben bene di assicurare gli amori e gl’incanti. Ma certo, o l’affezione m’inganna, tutte le parti de l’allegoria son in guisa legate fra loro, ed in maniera corrispondono al senso litterale del poema, ed anco a’ miei principii poetici, che nulla più; ond’io dubito talora che non sia vero, che quando cominciai il mio poema avessi questo pensiero. Vi vedrete maneggiata, e volta e rivolta gran parte de la moral filosofia così platonica come peripatetica, ed anco de la scienza de l’anima»[29].

 

Quindi, sebbene Tasso parli di far «il collo torto» alla severità dei tempi che corrono, non per questo ha realizzato un’opera che non corrispondesse ai suoi principi poetici. Lui stesso lo conferma in una lettera anteriore a quest’ultima, indirizzata a Scipione Gonzaga nel carnevale del 1576:

 

«non solo ho accomodato a mio gusto tutto ciò ch’apparteneva alla favola; ma ancora migliorate molte cose che riguardavano l’allegoria, della quale son fatto, non so come, maggior prezzatore ch’io non era; sì che non lascio passar cosa che non possa stare a martello»[30].

 

E anche se sarebbe in certo qual senso una contraddizione parlare di «allegoria istintiva», come suggeriva Adolfo Jenni in «Studi tassiani»[31], verrebbe pur da credere che all’inizio della composizione il poeta non avesse un programma così ferreo e strutturato di allegoria, ma che questa facesse già parte del suo modo di sentire e scrivere, per cui quando si decise a redarla rimase quasi sorpreso della precisione con cui il testo corrispondeva alle figure allegoriche.

Per ammissione dello stesso Tasso, parte importante in certi cambiamenti, soprattutto intorno alla materia amorosa, l’ha avuta uno dei suoi revisori romani, Flaminio De’ Nobili:

 

«Quanto a gli amori et a gli incanti, quanto più vi penso, tanto più mi confermo che siano materia per sè convenevolissima al poema eroico. Parlo de gli amori nobili, non di quelli della Fiammetta, né di quelli che hanno alquanto del tragico. Né tragici io chiamo solamente gl’infelici di fine (sebbene questi maggiormente son tragici), perché la infelicità del fine, come testimonia Aristotele, non è necessaria nella tragedia; ma tragici chiamo tutti quelli che son perturbati con grandi e maravigliosi accidenti e grandemente patetici; e tale è l’amore di Erminia, della quale accennerei volentieri nel poema il fine, e ’l vorrei santo e religioso. Ora questa parte de gli amori io spero di difenderla in modo che non vi rimarrà peraventura luogo a contraddizione; e mi varrò anco, fra le altre ragioni, della dottrina del signor Flaminio nostro, insegnatami da lui ne’ suoi libri morali, ov’egli attribuisce l’eccesso dell’ira e dell’amore a gli eroi, quasi loro proprio e convenevole affetto; e questa opinione è in guisa platonica, ch’insieme è peripatetica»[32].

 

In questo passo ho ravvisato un punto di concordanza con Torelli che, nelle sue disquisizioni sull’arte poetica, contempla la presenza di personaggi suscettibili di eccessi, sia di vizi che di virtù, ma puntualizza che su di essi non deve ricadere la catarsi finale, essendo essi cause efficienti e non agenti della favola[33]. Torelli va però più a fondo nella chiarificazione teorica, identificando come questi «errori umani» «mossi d’affetti, che rapiscono la natura nostra»[34], mettono sì in moto il meccanismo della narrazione, come già detto da Tasso, ma al fine di innescare l’effetto catartico. Così nel Trattato del debito del cavalliero, Torelli spiega che se queste passioni soverchie possono essere presenti negli eroi, tanto più possono esserci nei cavalieri, che identificandosi quindi con tali errori ne possono venire mondati:

 

«[…] perciò posero i buoni poeti molti falli in molti Heroi; non perché non vedessero, che male si convenivano in persone eccellenti errori simili; ma per far noi più cauti con gli errori loro, & così molti affetti smoderati, ne gli Dei, & ne gli Heroi si espongono»[35].

 

Il conte di Montechiarugolo riprende alcuni concetti comuni al Tasso, ma ne approfondisce e chiarifica alla luce della dottrina controriformistica gli aspetti morali teleologicamente volti ad una precisa finalità. Ma pochi anni dopo, in un altro scritto del Tasso, vediamo riprendere il tema degli eccessi passionali negli eroi già con una maggior coloritura etica, in chiave di contenimento degli affetti eccessivi. Nel dialogo «Il Forno overo de la nobiltà», composto dal poeta nel 1578 e poi rielaborato più volte negli anni ‘80, nel periodo di maggior travaglio spirituale e psicologico, precipitato nella reclusione nell’ospedale di Sant’Anna dal 1579[36], l’autore torna sulle intemperanze eroiche per voce dei dialoganti, Antonio del Forno, nobile modenese e Agostino Bucci, medico e cortigiano alla corte dei Savoia:

 

Forno:

«La giustizia qualche volta è odiosa a molti , e la temperanza pare odiosetta anzi che no, e la nemica sua fu amata almeno negli eroi, io dico in Ercole, in Achille, in Alessandro, i quali si lasciarono vincere bene spesso da l’amore e da l’ira e dal vino; laonde io non so che mi dica de gli eroi: perché, se risguardo le cose fatte da loro, mi paiono maggiori degli altri uomini, ma ne le passioni gli stimo simili, se non peggiori».

 

Risponde l’interlocutore Bucci:

«Come l’onde de l’oceano sono maggiori di quelle del Meditarraneo, così la tempesta de le passioni negli eroi supera gli affetti umani di gran lunga. […] Ma chi giudicate voi miglior nocchiero, quel che ne le maggiori fortune sa regger la nave o quel che ne le minori? […] Dunque la prudenza che può regger l’animo degli eroi ne’ grandissimi affetti è maggior di quella ch’è moderatrice de’ piccioli movimenti»[37].

 

Ecco richiamato l’esempio degli eroi atto a moderare le passioni eccessive, sebbene il concetto non sia espresso così puntualmente come in Torelli.

Flaminio de’ Nobili, filosofo neoplatonico, grecista, traduttore di Aristotele[38], intrattenne una nutrita corrispondenza col poeta, purtroppo non pervenuta, che richiedeva molto i suoi pareri[39]. Nel 1556 aveva scritto a Ferrara il suo primo successo editoriale, il Trattato dell’amore humano, pubblicato poi nel 1567[40], opera letta e postillata da Tasso[41]. In questo trattato il Flaminio denota l’influenza di Marsilio Ficino soprattutto per quanto riguarda il tema dell’amore divino in rapporto con quello umano. Parte da qui per una analisi della natura dell’amore, che distingue tra intellettuale e bestiale quando preda dei sensi, onde evitare gli eccessi a cui può portare. Arriva infine a parlare dell’Amore Divino che è di altra natura e si coltiva con la contemplazione del mistero del creato. Quindi lungi dal condannare l’amore, lo riconosce come cosa buona, anche se va trattato con cautela, potendo «allontanare dalla famiglia e da Dio, poiché sua ineliminabile funzione è procurare nobiltà d’animo e soffocare ciò che di ferino e bizzarro risiede nell’uomo»[42]. Ritroviamo qui una teorizzazione che si avvicina sempre più alla trattazione degli affetti di Pomponio Torelli. Tasso si era servito già all’inizio del 1570 del Trattato dell’amore humano per prepararsi alla disputa sul tema dell’affezione amorosa, che svolse nell’Accademia Ferrarese[43]. La conoscenza col De’ Nobili, che potrebbe risalire al breve soggiorno romano del 1571[44], perfezionatasi sicuramente alla fine del 1575[45], può aver rappresentato a mio parere un tramite per il successivo avvicinamento tra il pensiero di Tasso e Torelli.

Passando all’analisi della Allegoria, salta allo sguardo sin dal primo paragrafo un cambiamento di rotta rispetto ai giovanili Discorsi dell’arte poetica, dove sosteneva che, pur dovendo contemplare il giovamento dell’uomo in quanto cittadino piuttosto che in quanto poeta, fine ultimo della poesia era il diletto[46]. Qui invece, pur non rinnegando le sue vecchie posizioni e ribadendo l’importanza del diletto, contempla come secondo elemento costitutivo della poesia la allegoria che guida gli uomini alla virtù:

 

«L’eroica Poesia, quasi animale, in cui due nature si congiungono, d’imitazione, e d’Allegorìa è composta. Con quella alletta a sè gli animi e gli orecchi degli uomini, e meravigliosamente gli diletta; con quella nella Virtù, o nella Scienza, o nell’una, o nell’altra gli ammaestra»[47].

 

Qui le posizioni di Tasso e Torelli si sono notevolmente avvicinate. In questo momento, la neonata Accademia parmense degli Innominati, con in primis il Conte Pomponio Torelli, sta lavorando ad un aggiustamento della filosofia neoplatonica ficiniana ai canoni dell’ortodossia cattolica contro riformata, ma comunque non si è ancora abbandonato il «patrimonio sapienziale umanistico e laico»[48]. Torquato Tasso sta compiendo un analogo percorso, seppure più accidentato e di più lunga gestazione, che solo a questo punto sta volgendo nella simile direzione di una finalità morale e formativa dell’arte. Il comune patrimonio culturale composto da aristotelismo, declinato per entrambi nella scuola padovana, neoplatonismo di Marsilio Ficino, e la severità  dell’ambiente post-tridentino, creerà  le basi per un avvicinamento tra i due letterati, con l’affiliazione del Tasso all’Accademia Innominata nel 1581[49].

Questo veicolare messaggi virtuosi attraverso il diletto è già  presente sin dalle prime ottave nella Gerusalemme Liberata quando il poeta invoca, sul modello della poesia epica antica, la musa, che però questa volta è cristiana. Si scusa se adorna di soverchi ornamenti la verità, adducendo che ciò, attraverso il diletto, veicolerà il bene nel lettore distratto, come un fanciullo al quale si addolcisce la medicina affinchè riceva la salute, qui intesa come salute dell’anima:

 

«O Musa, tu che di caduchi allori

non circondi la fronte in Elicona,

ma su nel cielo infra i beati cori

hai di stelle immortali aurea corona,

tu spira al petto mio celesti ardori,

tu rischiara il mio canto, e tu perdona

s'intesso fregi al ver, s'adorno in parte

d'altri diletti, che de' tuoi, le carte.

Sai che là  corre il mondo ove più versi

di sue dolcezze il lusinghier Parnaso,

e che 'l vero, condito in molli versi,

i più schivi allettando ha persuaso.

Così­ a l'egro fanciul porgiamo aspersi

di soavi licor gli orli del vaso:

succhi amari ingannato intanto ei beve,

e da l'inganno suo vita riceve».[50]

 

Seppure Tasso abbia chiaramente espresso, nei già  citati Discorsi giovanili, che fine della poesia era il diletto, a quest’altezza è già  apprezzabile un cambiamento, una limatura del suo pensiero, che vedremo poi sarà  drammaticamente compiuta nell’ultimo decennio della sua vita. Così ora ci sembrano meno distanti le sue posizioni rispetto a quelle più tardi espresse da Torelli nel Trattato del debito del cavalliero, ma già  presenti nelle sue lezioni all’Accademia degli Innominati:

 

«[…] ne perch'io la ponga qui per Arte, che ricreare possa gli animi, si pensi alcuno, ch'io stabilisca il suo fine nel diletto, perche in questo mi rimetto, alle lettioni lette, & disputate nell'Academia de gli Innominati di Parma. Dico bene, che ò fine essentiale, & ultimo, ò mezano, & subordinato, in essa è il diletto; nè cosa è in lei, che diletto non ci apporti. […] Ma molto più ella ci ricrea; perchè è d’affetti piena, che con simigliante forma toccandoci nel cuore quelle passioni, ch’impresse vi habbiamo, ci apporta non poco piacere. Viene dunque la Poesia sopra modo dilettandoci à  ricreare; & utile & honesto è quel diletto; perchè ci propone passioni d’animo, & con ingannevole arte, mostrandoci, i diffetti suoi ci apparta da loro»[51].

 

Tasso descrive la multiformità  dell’esercito cristiano impegnato nella guerra come figurale dell’uomo, che è composto di corpo e d’anima, e quest’ultima a sua volta è molteplice, governata da varie potenze. Gerusalemme,

 

«Città forte, ed in aspra, e montuosa regione collocata, alla quale, siccome ad ultimo fine, sono dirizzate tutte le imprese dell'Esercito fedele, ci segna la felicità civile, qual però conviene al buon Cristiano […]; la quale è un bene molto difficile da conseguire, e posto in cima all’alpestre, e faticoso giogo della Virtù; ed a quello sono volte, come ad ultima meta, tutte le azioni dell’uomo politico»[52].

 

Fig. 2: Annibale Carracci, Ercole al bivio, 1595 ca. Napoli, Museo di Capodimonte, già camerino di Palazzo Farnese, Roma.


Sembra qui di leggere quasi una descrizione dell’Ercole al bivio, pensieroso nel decidere tra il cammino facile del vizio e quello erto e faticoso della virtù (Fig. 2). Si continua poi con l’identificare Goffredo, capitano dell’esercito, come figura dell’intelletto, e poiché lui è stato eletto e ispirato da Dio quale capo dell’impresa, così Tasso spiega che il nostro intelletto è stato eletto da Dio quale capo che deve governare sulle altre virtù dell’anima e del corpo; ma mentre il corpo va dominato «con imperio regale», sulle passioni dell’anima il comando deve essere «con podestà civile»[53]. Quindi lo scrittore ci sta indicando come i moti dell’animo non possano venire soppressi o repressi con la forza. L’intelletto deve addivenire ad un controllo e reindirizzamento di queste passioni, volgendole al giusto fine. Così come Goffredo non elimina dall’esercito i pur valenti soldati che cadono preda di difetti e vizi, ma cerca di ricondurli, ridurli, re-ducere, all’unità  dell’esercito che permetterà la conquista della Città Santa, la «felicità civile» che sarà  poi premessa della ascesi contemplativa a cui deve tendere il perfetto cristiano, come Goffredo ritiratosi in preghiera nella città  finalmente conquistata. Giovanni Potente mette giustamente questo ragionamento in rapporto con l’idea eminentemente platonica «che le passioni non vadano represse o castrate bensì indirizzate, corrette e guidate dalla ragione». I sentimenti, ineliminabili per non svuotare l’anima, vanno conservati, ma trasformati in modo da poter essere purificati ed avviati al raggiungimento del Bene. Ecco la vera sofrosyne[54]. Mentre «la podestà  della mente sovra il corpo è regia», non ammette deroghe, quella sulle potenze dell’anima, soprattutto quelle giudicate più vicine alla mente come l’ira, dev’essere fatta «con civil moderazione», «cittadinescamente»[55]. E questo diviene evidente quando, per esempio, Goffredo acconsente a che alcuni cavalieri si allontanino momentaneamente per prestare aiuto alla presunta donzella in difficoltà, Armida. In un primo momento il capitano nega il permesso, ma vedendo che ciò rischia di creare pericolose spaccature nell’esercito, li asseconda in parte, avvertendoli però, se ancora hanno in lui fiducia, «temprate i vostri affetti»[56]. Ecco che l’intelletto non può esercitare una forza brutale sulle passioni dell’animo, ma richiede loro di esercitare un autocontrollo in modo di sottostare di buona lena alla ragione. Giovanni Careri rileva in questo «un programma di civilizzazione che associa l’esercizio del potere assoluto all’interiorizzazione, da parte dei sudditi, di un controllo della propria affettività »[57]. Così, tenuta sotto controllo l’aggressività, e gli impulsi individuali fini a sè stessi o a mete troppo materialistiche, può venire incanalata e istituzionalizzata dal capitano dell’esercito – Intelletto, dando luogo ad una «violenza istituzionale e centralizzata», volta ad un più alto e utile fine sotto l’egida della ragione; e l’appetito concupiscibile ricondotto nell’alveo del religioso e lecito matrimonio[58]. Pensiero che coincide con quello espresso da Torelli in più occasioni. Così come per Tasso i soldati rappresentano le varie virtù dell’animo che sottostanno all’intelletto – Goffredo, così più tardi Torelli scriverà : «[…] percioche alla ragione come à  Reina furono dati i sentimenti, che à  guisa di ministri, & servi le stessero all’intorno, & d’ogni parte a lei obbedissero […]»[59]. Come notato da Fabrizio Bondi, Torelli fa suo il pensiero di Platone su una «politica dell’anima», arricchendola tra l’altro con la catarsi aristotelica nella poesia[60]: le passioni non vanno nè possono venire eliminate, ma nemmeno subite. Esse possono giocare un importante ruolo in dinamiche virtuose; destare con il loro moto altre virtù che bisognano di una spinta all’agire, come indica ad esempio in una delle sue lezioni quando parla dell’amore, del appetito concupiscibile, che può spingere all’azione il cavaliere, spronarlo ad ottenere onori, a dare un freno all’ira[61]; concetto ribadito più tardi anche nel Trattato del debito del Cavalliero, «perchè il piacere lo farà  più pronto alla fatica, et al travaglio»[62] e «perciò il Cavalliero non solo non sarà  dall’amore sviato dal bene operare; ma come da pungente sprone vi sarà  spinto»[63] .

Tasso e Torelli sono concordi nel bisogno di un governo politico delle passioni.

Quindi si evince che anche l’amore terreno per una donna, per le bellezze di questo mondo, pure se insidiato da incontinenze, può giovare, in quanto per piacere all’amata si cercherà  di essere persone migliori e ci si adornerà  di altre virtù. Così anche gli amori di matrice cortese, accesi dalle terrene bellezze, purchè onesti, possono essere utili e contribuire alla purgazione e temperanza degli animi.

Anche in Tasso la matrice della sua concezione dell’amore è platonica: distinto in due diversi tipi, l’amore «Pandemio, ossia volgare» e quello «Uranio, ossia celeste» in Platone[64], per lui divengono l’«amor lascivo» e l’«amor divino», e li analizza in rapporto ad alcune canzoni scritte da M. Battista Pigna, nel 1571, ossia nelle prime fasi della composizione della Gerusalemme Liberata[65]. Torquato distingue tra due tipi di eros, quello basato sui sensi e quello basato sull’intelletto:

 

«Onde è ragionevole che la corporea bellezza sia conosciuta dal senso, virtù similmente congiunta ad istrumenti materiali: o che la bellezza immortale, e separata, si comprenda dall’ intelletto, che solo in noi mortali è divino, ed eterno, e simile a colui, che ne fu donatore. Ma la maestra natura al senso ed all’intelletto, che sono le due potenze, colle quali conosciamo, e giudichiamo tutte le cose, congiunse, e quasi innestò i due appetiti: uno de’quali segue i giudicj del senso, e però sensitivo si chiama: l’altro quelli della mente, e con proprio nome è detto volontà »[66].

 

Ma come si evince già  da questa introduzione, seppure un tipo di appetito è superiore e l’altro è legato ai sensi terreni: in realtà  sono due aspetti di un unico amore, quello assoluto che ci riporta verso Dio[67], poichè anche gli stimoli e gli affetti terreni servono a mettere in moto le cose, che altrimenti «tutte pigre e neghittose se ne starebbono», per raggiungere la perfezione, la dimensione superiore dell’amore divino[68]. Quindi di per sè, l’amore non è mai «cattivo», poichè è sempre emanazione della originaria tendenza dell’essere umano a mettersi in moto per cercare di ritrovare il bene e l’amore assoluto, senza dolore.

Non quindi una brutale repressione dell’eros, come sostenne parte della critica tassesca, ma una concordia civile tra ragione e sensi, che infine devono obbedire alla prima per non pregiudicare la salute dell’anima, una «giustizia naturale»[69]:

 

«Or che l’anima sottoposta al lascivo appetito non sia concorde, assai è noto per se stesso. Perciocchè, oltre che le cupidità  sono infinite, e contrarie tra se stesse, quando non è giustizia nell’animo, non vi può esser concordia fra la parte ragionevole, e l’appetito concupiscibile. Dico essere giustizia nell'animo, allora che comanda chi dee comandare; ed obbedisce chi dee obbedire: ma la parte ragionevole è nata in sua natura per signoreggiare con imperio civile l’uno, e altro appetito, che segue i giudicj delle sentimenta»[70].

 

Un esempio interessante che accomuna i due letterati è dato dall’ira. Tasso, nell’Allegoria della Gerusalemme, identifica Rinaldo con l’irascibile virtù, che tra le varie è quella che «fra tutte l’altre potenze dell’anima meno s’allontana dalla nobiltà  della mente»[71]. L’ira, sotto il comando politico della ragione, è strumento fondamentale della mente per operare fattualmente contro i vizi e le ingiustizie, come i guerrieri sono imprescindibili per l’esercito guidato da Goffredo:

 

«[…] Così è debito della irascibile, parte dell'animo guerriera e robusta, armarsi per la ragione contra le concupiscenze, e con quella veemenza, e ferocità , che è propria di lei, ribattere, e discacciare tutto quello, che può essere d'impedimento alla felicità : ma quando essa non ubbidisce alla ragione, ma si lascia trasportare dal suo proprio impeto, alle volte avviene, che combatte non contra le concupiscenze, ma per le concupiscenze […][72]».

 

Un esempio della potenza irascibile che si lascia traviare dalla lussuria è da lui indicato nell’episodio di Rinaldo e Armida, e così viene citato più tardi anche da Torelli nel Trattato del debito del cavaliere, che indica come Tasso, eccellentissimo poeta, ci abbia con questo episodio mostrato come «il piacere de i sensi disperde, & miete in herba le operationi della fortezza, & della giustitia, & ritira il cavalliero da fare quello, che piu deve»[73].

Torelli mette dunque in chiaro che «senza fortezza, come mezzo; et giustitia come fine, il Cavalliero esser non può»[74], e sembra qui riprendere letteralmente il concetto già  espresso da Tasso, che scrisse che la parte ragionevole non deve escludere la irascibile, come invece fecero a torto «gli stoici», ma «dee farsela compagna e ministra»[75].

Così Torelli:

 

«[…] l’ira deve nell’estremo, non nel principio accompagnar l'operationi del forte, perchè com’è allora ministra della ragione, cosi nel principio la perturba, nè lascia discernere le risposte, nè operare con prudenza, che è il vero governo di tutte l’attioni […]»[76].

 

Il Perduto chiarisce poi come la potenza concupiscibile e quella irascibile si combinano e operano al fine del mantenimento della virtù e della giustizia:

 

«[…] si come il senso nostro, ch’è potenza concupiscibile non desidera altro, che ‘l piacevole, & s’attrista nel contrario, cosi secondo il parer commune de dotti l’irascibile non brama altro, che la conservatione di questo stesso piacere, senza impedimento veruno; et perciò quando ci viene impedita quella voluttà , che il senso diletta sorge l’ira per difendersi, o per vendicarsi»[77]. 

 

Nel suo Trattato delle passioni dell’animo, Torelli individua nelle virtù «purgatorie» o «civili» gli agenti utili a ridurre gli affetti a mediocrità , dato che in un sistema che non esclude le passioni, ma le re-duce, riconduce e riduce nel loro giusto alveo, come Goffredo che «sotto a i santi segni ridusse i suoi compagni erranti»[78], ogni virtù è «moderatrice di qualche affetto»[79]: «la fortezza è mediocrità  tra la paura e l’audacia», per esempio, e così via.

Molto indicativa a tal proposito la pressochè contemporanea teorizzazione del Tasso sul medesimo argomento, con l’utilizzo di un lessico in tutto simile a quello Torelliano, basandosi entrambi sull’analisi delle virtù e delle passioni nell’Etica e nella Poetica di Aristotele. Nel tassiano discorso Il Forestiero Napolitano overo della gelosia, composto in una prima redazione nel 1579, ma rielaborato più volte fino alla stampa nel 1586[80], lo scrittore analizza il tema della gelosia, in chiave morale, ma non solo:

 

«Laonde questo effetto ancora, scemando quello ch'è in lui soverchio e riducendosi a bella e, per così dire, aurea mediocrità , diverrà  nobile e graziosa virtù, per la quale, temendo l'amante di perder la grazia de la sua donna, temerà  in conseguenza di far cosa per cui la perda meritamente: laonde d'intemperante diverrà  temperato, d'avaro liberale, di timido forte, di vile magnanimo; e in questo modo la gelosia sarà  cagione che l'animo s'adorni di tutte le virtù […]. Se dunque tale è la gelosia, non è di così fiera e maligna natura […][81]».

 

Rispetto ai primi ragionamenti giovanili del Tasso, qui siamo in un periodo che vede l’approfondirsi del suo zelo cattolico e morale, un momento di intensi travagli spirituali e di irrigidimento teorico ed etico, ancora più sofferti dato il suo imprigionamento nell’ospedale di Sant’Anna[82]. Vediamo così comparire spesso termini tipicamente controriformistici che prima si ritrovavano più raramente, e che formano puntualmente la base della teoria degli affetti di Torelli:

 

«Ma s'egli è zelo diritto ch'avampi moderatamente, è virtù; perciochè tale è la moderazione de le passioni. […] Dunque non solo ella qua giù fra gli uomini è virtù morale, ma virtù purgatoria ancora. […] Così di grado in grado abbiamo veduta che la gelosia negli uomini è virtù morale, negli animi che si purgano virtù purgatoria, e virtù d'animo già  purgato in quelli che sono in cielo, s'è lecito di parlar con le parole de' poeti, cotanto gloriosamente accolti, e virtù essemplare in Dio»[83].

 

Durante la revisione della Gerusalemme Liberata da parte del circolo di letterati a Roma, dal 1575 circa, si verifica un approfondimento della questione etica e morale nelle opere d’arte, una revisione più serrata dei contenuti alla luce della Controriforma, una crescente preoccupazione del Tasso per quanto riguarda l’adeguatezza spirituale del suo poema, e questa deriva continuerà  accrescendosi fino alla fine della sua vita. Quindi si trova qui un sempre maggior riferimento alla «purgazione» e alla moderazione degli affetti. Le stesse virtù purgatorie tante volte enunciate da Torelli che portano gradualmente dalle passioni alla contemplazione, e, sembrano le stesse parole utilizzate da Tasso, negli animi più spirituali conducono alle «virtù dell’animo purgato» o «eroiche» che preparano alla contemplazione della Divinità [84].

Ma mentre Tasso sinora parla di queste virtù purgatorie solo in chiave di passioni dell’uomo, di comportamenti nella vita civile, Torelli le mette in stretta relazione con le funzioni della poesia:

 

«Lo sprezzo delle cose mondane […] è quel vero termino di purgazione ch’intende ogni Poesia; et questo per essere la Poesia ministra della civile facoltà . Alla quale essa prepara gli animi mediante la dolcezza degl’affetti, et la tristezza loro usandoli a sturbar l’un l’altro come meglio le torna: et questo perchè non solo siano disposti con le virtù purgatorie così chiamate dal commune uso dei Platonici che consistono nella mediocrità ; ma perchè siano ancora fatti perfetti con le Virtù purgate riposandosi nella quiete, come in porto sicuro da ogni passione»[85].

 

Dopo il crescendo di problemi personali e di crisi di Tasso, culminate con il suo imprigionamento nell’ospedale di Sant’Anna, il poema sulla crociata cominciò ad essere pubblicato e gestito prescindendo da lui e anche contro il suo volere. Le prime versioni «pirata» ed incomplete dell’opera uscirono a Genova e a Venezia nel 1579[86]. In seguito subentra la «adozione» del poema da parte degli Innominati di Parma, che cominciano ad appoggiarlo come esempio tra i più alti del momento di modello finito di poema eroico volgare, in linea coi loro coevi studi e con le lezioni torelliane sulla Poetica svolte in Accademia[87]. Così, nel 1581, esce in due versioni, a distanza di pochi giorni, a Parma e a Casalmaggiore, la prima edizione integrale della Gerusalemme Liberata, titolo datole da Angelo Ingegneri, accademico innominato, curatore della medesima insieme a Muzio Manfredi, principe dell’Accademia per l’anno 1580[88]. Secondo Lucia Denarosi, l’Accademia degli Innominati si pose come soggetto attivo nei confronti della formazione del modello epico tassesco, anche contro la volontà  stessa dell’autore[89], prendendosi larghe libertà  redazionali, visto che Torquato Tasso «non ha mai curato personalmente alcuna edizione della Liberata, […] non ha mai autorizzato alcuna edizione del proprio poema, […] non ha mai avallato alcuna delle edizioni uscite lui vivo», come ricorda Luigi Poma[90].

Ma d’altronde il poeta sorrentino era entrato a far parte dell’Accademia proprio in quel 1581[91], e la sua opera si prestava mirabilmente a venire cooptata «entro i canoni dell’aristotelismo militante sostenuti in quegli anni dall’Accademia»[92]. Pur senza osare arrivare fino alla pubblicazione della Gerusalemme sotto le insegne accademiche, il messaggio che passa è quasi quello che questa sia «frutto di quella medesima scuola poetica “Innominata”»[93].

Quasi in risposta a questa «appropriazione» da parte di un ambiente altro rispetto a quello cortese estense, appaiono due edizioni ferraresi, sempre nel 1581, curate dallo stampatore Febo Bonnà [94] (Tav. 7). I letterati parmensi non perdono tempo nel riaffermare la pertinenza del poema al loro ambiente culturale, e ancora nel 1581 si pubblica a Parma una terza edizione per i tipi di Erasmo Viotti[95], stampatore di moltissime opere Innominate. Questa edizione presenta per giunta un testo diverso da quello Bonnà , e si dichiara apertamente «l’arbitraria composizione del testo da parte del nuovo curatore»[96], che dice di aver interpretato come «ha creduto che fosse per fare l’istesso Autore»[97]. Qui vengono pubblicate insieme col testo le allegorie redatte da Tasso:

 

«In fronte di ciascun Canto poi sono poste alcune Allegorie, tolte da quelle, che in maniera di discorso, o di trattato, scrive l’Auttore»[98]. Addirittura Piero Antonio Serassi, amico di Ireneo Affò, ipotizza che il curatore di questa edizione, «che ridusse il poema alla sua vera lezione», possa essere lo stesso Pomponio Torelli, «cavalier intendentissimo dell’arte poetica, e grande amico del nostro Tasso»[99].

 

Torelli e gli accademici Innominati si pongono nei confronti del potente entro uno spazio di relativa indipendenza che permette loro di comporre liriche volte all’educazione e moderazione del principe, mentre si è fatto notare che invece per Tasso la celebrazione del potente è sempre presente, sin dalla composizione della Gerusalemme e fino alle seguenti riflessioni sulle caratteristiche del poema eroico[100]. Pur se questo è vero, cionondimeno Tasso non ha rinunciato, anche se in modo meno diretto, a proporre un’immagine ideale del principe giusto da seguire.

Tasso pone Rinaldo come cavaliere indispensabile per la conquista di Gerusalemme, che trionfa su essa dopo aver trionfato sulle devianza ed errori indotti dalle «soverchie passioni», per usare un lessico torelliano, e che si pone come un capostipite dell’attuale duca d’Este, il quale dovrebbe essere mosso a seguire il suo onorato esempio. Ma anche Goffredo è stato individuato dalla critica come modello ideale per il moderno principe - cavaliere[101]; più tardi, verso il 1585, nella Apologia in difesa del suo poema, Tasso porterà  a maturazione le sue riflessioni etiche, e dichiarerà  esplicitamente come Goffredo sia un esempio etico da seguire da parte dei principi cristiani[102].

Anche Torelli e l’Accademia Innominata si pongono come obiettivo l’educazione del perfetto principe – cavaliere, e poi in misura sempre crescente, la celebrazione come moderni emuli eroici delle casate nobiliari. Comprensibile, come sottolinea la Denarosi, l’identificazione di Alessandro Farnese, valoroso e religioso combattente, che ha strappato Anversa ai protestanti per ricondurla dopo faticosa guerra ai domini del re cattolico, con un moderno ed epico cavaliere cristiano[103], simile a Goffredo. Questa similitudine ed il riconoscimento Innominato della Gerusalemme come maggior esempio epico cristiano moderno, trova ulteriore suggello con l’edizione Innominata del poema del Tasso, per i tipi del Viotti, a Parma, il 7 ottobre 1581, e forse curata proprio da Torelli[104], dove compare una dedica ad Alessandro Farnese, paragonato esplicitamente a Goffredo.

Lo scrittore sorrentino aveva inoltre attuato in quegli anni un impegno «pionieristico» per dare dignità , alla luce della Poetica aristotelica, a letterature romanze e cavalleresche, quali le pastorali, ponendole al livello delle tragedie sia estetica che moralmente. Questo lavoro di normalizzazione coincideva grandemente con gli intenti poetici torelliani ed accademici, che accolgono di buon grado questa linea, approfondendola ed includendola nel loro filone, tanto che poco dopo la pubblicazione curata da Accademici Innominati della editio princeps della Gerusalemme, compare nell’aprile 1581, ancora in edizione Viotti, la Aminta, e dedicata per altro allo stesso Torelli[105]. La Denarosi mette in rapporto questa serie di pubblicazioni di lavori tassiani, a cui si aggiungeva una stampa sempre del 1581, perduta, dei Dialoghi amorosi del medesimo, per comprendere che si trattava di «un vero e proprio lancio editoriale in vasta scala riservato dall’Accademia al più prestigioso fra i suoi adepti», che comportò sicuramente anche un impegno critico e letterario da parte degli accademici.[106]

Poco dopo la pubblicazione del Torrismondo tassiano nel 1587, compare la prima tragedia del conte Pomponio Torelli, la Merope. Vincenzo Guercio vede dietro la vitalità  dei sentimenti di questo primo lavoro, un’influenza della quasi coeva tragedia del Tasso[107]. Ma questo momento di influenza «umanistica» si potrebbe dire, di Tasso su Torelli, è breve e circoscritto. Lo stesso Torquato cambierà  progressivamente indirizzo, nella medesima direzione controriformistica di Torelli, come si potrà  apprezzare nella Gerusalemme Conquistata o nel Mondo Creato. Anzi, ritengo che viceversa, si sia esercitata un’influenza di Torelli, o comunque del suo milieu accademico sulla tarda produzione tassiana.

Dello stesso avviso è Lucia Denarosi che, rilevando la trasformazione a favore del movente politico dal Galealto al Torrismondo, individua in ciò un’influenza Innominata, visto che l’Accademia parmense si stava ponendo quale «centro di elaborazione estetico-artistica di una nuova tragediografia protosecentesca»[108]. Questa ipotesi viene avvallata dal fatto che proprio nel periodo in cui Tasso riscrive la sua tragedia, egli frequentava assiduamente importanti letterati dell’Accademia: Ingegneri, Ariosti, Ferrante II, e Muzio Manfredi, che si trovava anch’egli a Mantova con Tasso in quel tempo, e che in una lettera racconta della continua frequentazione col letterato e dell’interesse di questo per la sua tragedia Semiramide[109]. Praticamente in contemporanea con Pomponio Torelli, Torquato Tasso porta avanti una «riqualificazione classicistica e aristotelica del modulo tragico» ed una «attualizzazione ideologica della tematica in senso politico», concomitante con la «nascente tragedia della tirannide» che si elaborava nella Accademia[110], con principale esponente proprio il Perduto. Se gli accademici parmensi studiano, fanno proprie, prendono spunti dalle opere tassiane, lo scrittore sorrentino non rimane certo estraneo a sua volta alla loro influenza.

Torquato Tasso aveva redatto in un periodo giovanile, probabilmente fra il 1561 ed il 1562[111], un trattato riguardante i fondamenti teorici del poema epico alla luce dei canoni aristotelici. Il testo uscì alle stampe molto più tardi, nel 1587[112], e come quasi sempre, senza l’avvallo dell’autore[113]. Già  in quell’anno però, lo scrittore aveva deciso di rielaborarli, ed era a buon punto con l’opera. Molti aspetti del suo pensiero erano cambiati in quegli anni, soprattutto in seguito alla detenzione nell’ospedale di Sant’Anna. Il suo zelo religioso era andato accentuandosi, di pari passo con l’irrigidirsi del clima culturale e con la sua crisi psicologica e spirituale. In questo contesto, molto hanno anche contribuito le sue letture e la frequentazione o vicinanza con letterati come quelli dell’Accademia degli Innominati. Tasso si dedicò alla lettura sia di opere teologiche che filosofiche e poetiche, quali la Summa di Tommaso d’Aquino, i libri di Sant’Agostino, i commenti biblici di Girolamo, Gregorio Magno e Bernardo di Chiaravalle, le versioni tradotte della Repubblica di Platone, ovviamente la Poetica e la Metafisica di Aristotele[114], ed i commenti al medesimo di Alessandro Piccolomini.

L’editio princeps dei Discorsi del poema eroico, apparve a Napoli nel 1594, stamperia Stigliola, e dedicata al cardinale Pietro Aldobrandini[115].

Sebbene fondamenti aristotelici sulla composizione dei poemi sia rimasta pressoché invariata, il cambiamento più rilevante è avvenuto sul piano etico, per quanto riguarda il fine della poesia. Benché Tasso contemplasse già da allora l’utilità del giovamento morale insito nella letteratura, cionondimeno l’argomento era citato brevemente e ci teneva a chiarire che comunque quello non era il compito del poeta, essendo fine della poesia il diletto[116].

In questa nuova stesura dei Discorsi, il fine etico e di giovamento della poesia è diventato elemento costitutivo dal quale non si può prescindere, e con un rovesciamento molto indicativo dei tempi correnti, il diletto è diventato fine secondario e strumentale all’edificazione morale. Già dal primo paragrafo appare chiaro che i poemi eroici saranno opere che stimolino l’emulazione delle grandi imprese e l’accrescimento delle virtù:

 

«I poemi eroici, e i discorsi intorno a l’arte, e il modo del comporli a niuno ragionevolmente dovrebbono esser più cari che a coloro i quali leggono volentieri azioni somiglianti a le proprie operazioni ed a quelle de’ lor maggiori: perciò che si veggono messa innanzi quasi un’imagine di quella gloria per la quale essi sono stimati a gli altri superiori; e riconoscendo le virtù del padre e de gli avi, se non più belle, almeno più ornate con varii e diversi lumi de la poesia, cercano di conformar l’animo loro a quello esempio; e l’intelletto loro medesimo è il pittore che va dipingendo ne l’anima a quella similitudine le forme de la fortezza, de la temperanza, de la prudenza, de la giustizia, de la fede, e de la pietà, e de la religione, e d’ogni altra virtù, la quale o sia acquistata per lunga esercitazione o infusa per grazia divina»[117]. 

 

Come Torelli esprimerà  nel Trattato del debito del cavalliero, le virtù possono essere già innate in persone nobili, ma si possono e si devono allenare col continuo esercizio, modellando la propria natura.

Se nei giovanili discorsi poi, l’imitazione delle azioni umane che caratterizza la poesia è volta soprattutto a coinvolgere emotivamente il lettore per dilettarlo, senza specificare un qualche fine catartico[118], qui la mimesis è volta ad una azione educativa:

 

«[…] debbiamo ne la definizione de la poesia preporci un ottimo fine; ma l’ottimo fine è quello di giovare a gli uomini con l’esempio de l’azioni umane, perché l’esempio de le bestie non può giovare egualmente, e quel de le divine non e nostro proprio: dunque a questo deve esser dirizzata. La poesia è dunque imitazione de l’azioni umane, fatta per ammaestramento de la vita. E perché ogni azione si fa con qualche consiglio e qualch’elezione, si tratterà del costume e de la sentenzia per conseguente, la quale da’ Greci è detta dianoia; e benché, facendosi questa imitazione, si dia grandissimo diletto, non si può dire che duo sian i fini, l’uno del diletto, l’altro del giovamento […], perché un’arte sola non può aver due fini, l’uno de’ quali a l’altro non sia subordinato; ma o si dee lasciare da parte il giovamento de l’ammonire e del consigliare (come dice Isocrate), e co l’esempio di Omero e de’ tragici rivolger tutto lo sforzo de l’orazione al dilettare; o volendo ritener il giovamento, si dee dirizzar il piacere a questo fine; e peraventura il diletto è fine de la poesia, e fine ordinato al giovamento. Però si legge ne la seconda orazione del medesimo Isocrate che gli antichi poeti lasciarono ammaestramenti de la vita, per li quali gli uomini divennero migliori; e nel Panatenaico, che la poesia ci divertisce da molti delitti. Però null’altro esercizio più conviene a la giovenezza»[119]. 

 

Quindi il diletto rimane uno dei fini della poesia, ma poiché questa non può avere due finalità diverse e non convergenti, il piacere sarà strumentale al giovamento, adesso diventato vero fine ultimo. Questa funzione della poesia, afferma lo scrittore, è tanto più utile in gioventù, quando si è maggiormente sottoposti alle passioni ed agli errori, ma non ci si è incalliti nel vizio[120], esattamente come teorizzato da Pomponio Torelli[121]. Ecco perché non qualunque tipo di piacere e diletto può essere ammesso nella poesia. Riprendendo la metafora già utilizzata all’inizio della Gerusalemme, di origine lucreziana e ricorrente nelle poetiche cinquecentesche come le Annotazioni alla poetica di Aristotele del Piccolomini[122], della medicina amara addolcita a fin di bene, Tasso specifica che il dolce va misurato, in modo da non divenire nocivo e deviante:

 

«[…] al politico s’appartiene di considerare quale poesia debba esser proibita e qual diletto, acciò che il piacere, il quale dee esser in vece di quel mele di cui s’unge il vaso quando si dà la medicina a’ fanciulli, non facesse effetto di pestifero veleno, o non tenesse occupati gli animi in vana lezione. Non dee dunque il poeta preporsi per fine il piacere, […] ma ’l giovamento: perché la poesia, come estima il medesimo autore, seguendo l’opinione de gli antichi, è una prima filosofia, la qual sin da la tenera età ci ammaestra ne’ costumi e ne le ragioni de la vita. […] Almeno si dee credere che non ogni piacere sia il fine de la poesia, ma quel solamente il quale è congiunto con l’onestà: perché sì come il diletto, il quale nasce dal leggere l’azioni brutte e disoneste, è indignissimo del buon poeta, così il piacere d’imparar molte cose congiunto con l’onestà è suo proprio»[123].

 

Il diletto ed il giovamento non contrastano, purché questo piacere sia giovevole e non disonesto. Giudizio che lo porta inevitabilmente a stroncare l’Ariosto dell’Orlando Furioso, spostando il loro lungo contrasto dal campo poetico a quello morale:

 

«Laonde non meritano lode alcuna coloro che hanno descritti gli abbracciamenti amorosi in quella guisa che l’Ariosto descrisse quel di Ruggiero con Alcina […]»[124].

 

Colpisce qui la frase di Tasso, mai da lui espressa più chiaramente, Non dee dunque il poeta preporsi per fine il piacere, […] ma ’l giovamento. Questa si può calzantemente confrontare con una frase di Torelli nel Trattato del debito del cavalliero, uscito alle stampe appena due anni dopo i Discorsi del poema eroico:

 

«[…] ne perch’io la ponga qui per Arte, che ricreare possa gli animi, si pensi alcuno, ch’io stabilisca il suo fine nel diletto [..]. Dico bene, che ò fine essentiale, & ultimo, ò mezano, & subordinato, in essa è il diletto; nè cosa è in lei, che diletto non ci apporti. […] Ma molto più ella ci ricrea; perché è d’affetti piena, che con simigliante forma toccandoci nel cuore quelle passioni, ch’impresse vi habbiamo, ci apporta non poco piacere. Viene dunque la Poesia sopra modo dilettandoci à ricreare; & utile & honesto è quel diletto; perché ci propone passioni d’animo, & con ingannevole arte, mostrandoci, i diffetti suoi ci apparta da loro»[125].

 

C’è una coincidenza teorica più che notevole: il diletto, utile e onesto, subordinato al giovamento, ed il suo utilizzo «ingannevole» per veicolare messaggi benefici. Ma si aggiunge un punto in comune in più rispetto a precedenti scritti. Torelli ha da sempre sostenuto che «è adunque il fine de i Lirici di purgar l’eccesso delle passioni co’l mezzo del diletto che dall’immitatione dell’istesse passioni e costumi de gli appassionati ci proviene»[126]. Tasso non si era espresso chiaramente al riguardo, se non en passant in qualche lettera, ma ora anche per lui la tragedia ha una funzione purgatoria. E sebbene il giovare si possa ritrovare anche in altri generi, è proprio della tragedia muovere la catarsi:

 

«Io dico che il poema eroico è una imitazione d’azione illustre, grande e perfetta, fatta narrando con altissimo verso, a fine di giovar dilettando, cioè a fine che ’l diletto sia cagione ch’altri leggendo più volentieri non escluda il giovamento. Ma ’l giovar dilettando è peraventura di tutte le poesie: perchè giova dilettando la tragedia, e giova dilettando la comedia. […] Ma l’operazione de la tragedia è di purgar gli animi co ’l terrore e con la compassione, e quella de la comedia di muovere riso de le cose brutte […] e da questa operazione de la comedia nasce il giovamento, perché è noi ridendoci de la bruttezza che veggiamo ne gli altri, ci vergogniamo di far cose che siano brutte egualmente. Dee dunque ancora l’epopeia aver il suo proprio diletto co la sua propria operazione; e questa peraventura è il mover meraviglia […]»[127].

 

Non solo col terrore e la compassione, ma anche con gli strumenti propri del genere «la tragedia, oltre il verso, adopera per purgar gli animi il ritmo e l’armonia»[128].

Tasso difende inoltre ancora una volta la presenza più volte contestatagli delle meraviglie nella Gerusalemme. La meraviglia, come fine dell’epopea, «è uno dei temi originali della poetica tassiana», elemento che ha portato ha considerare questa poetica del Tasso come «presecentistica», dato che in genere, gli scrittori delle poetiche del cinquecento la intendevano come quegli orrori e compassioni che muovevano la catarsi aristotelica[129]. Una meraviglia che per lo scrittore sorrentino non escludeva comunque il fine etico:

 

«Diremo dunque ch’il poema eroico sia imitazione d’azione illustre, grande e perfetta, fatta narrando con altissimo verso, a fine di muover gli animi con la maraviglia, e di giovare in questa guisa»[130].

 

Tasso arriva a paragonare il poeta al teologo e al dialettico, dato che hanno in comune il potere di introdurre e spingere il lettore o ascoltatore alla contemplazione delle cose divine, quel grado superiore di perfezione che segue dopo la coltivazione delle virtù. E le immagini sono il vettore privilegiato:

 

«Laonde il conducere a la contemplazione de le cose divine e il destare in questa guisa con l’imagini, come fa il teologo mistico ed il poeta, è molto più nobile operazione che l’ammaestrar con le demostrazioni, com’e officio del teologo scolastico. Il teologo mistico adunque e il poeta sono oltre tutti gli altri nobilissimi […]»[131].

 

A ben vedere, si dimostra lo stesso fine propugnato da Torelli per la poesia, che dopo aver «purgato dalle passioni soverchie», con l’acquisizione delle Virtù, porta gli animi alla quiete ed alla contemplazione, «perché siano ancora fatti perfetti con le Virtù purgate riposandosi nella quiete, come in porto sicuro da ogni passione»[132].

Infine, il cambiamento del pensiero di Tasso, si palesa notevolmente in un passo, che viene ripreso quasi testualmente dai precedenti discorsi, ma con la significativa ellissi di una parentesi pregna di significato. Si legge infatti nei giovanili Discorsi dell’arte poetica:

 

«Taccio per ora che dovendo il poeta aver molto riguardo al giovamento, se non in quanto egli è poeta (che ciò come poeta non ha per fine), almeno in quanto è uomo civile e parte della repubblica, molto meglio accenderà l’animo de’ nostri uomini con l’esempio de’ cavalieri fedeli che d’infedeli, movendo sempre più l’esempio de’ simili che dei dissimili […]»[133].

 

Circa trent’anni dopo il passo è così mutato:

 

«Ultimamente, dovendo il poeta aver molto riguardo al giovamento, molto meglio accenderà l’animo de’ nostri cavalieri con l’esempio de’ fideli che de gl’infideli, movendo sempre più l’autorità de’ simili che de’ non simili, e de’ domestici che de gli stranieri»[134].

 

Il poeta deve aver molto riguardo al giovamento. Questo è il nuovo fine della poesia, sebbene non disgiunto dal diletto. La precisazione che ciò non spettava al poeta, ma tutt’al più all’uomo in quanto cittadino, è scomparsa.

Tasso è riemerso dal suo naufragio nel mare della crisi della fine del Rinascimento.

Nel Mondo creato, composto tra il 1592 e il 1594, «finalmente il Poeta riesce ad esaltarsi consapevole di “risorgere” dagli abissi interiori, portando alla luce la “bella verità”: la verità cristiana, faticosamente recuperata e celebrata nell’ultima stazione del suo viaggio letterario»[135]:

 

«Così dal suo profondo [del mare] anch’io risorgo,

e da gli oscuri e tenebrosi abissi

la bella verità, ch’è più lucente

di gemme onde abbian pregio Arabi ed Indi,

la bella verità, ch’ivi sommersa

par che si giaccia, porto in chiara luce.

E pura a gli occhi de’ mortali esposta

l’offro da contemplar [...]»[136].

 

 

Tasso, l’ideal-classicismo e il proto barocco. La Galleria dei Carracci di Palazzo Farnese a Roma

Stefano Colonna ha ampiamente analizzato, nel suo volume sulla Galleria dei Carracci a Palazzo Farnese in Roma, le influenze esercitate dai letterati di corte sul tenore dei programmi iconografici ed il loro più profondo significato morale[137]. Lungi dal rappresentare una paganeggiante e lussuriosa carrellata di miti antichi, la galleria sottende un messaggio morale di moderazione degli affetti, che trova il suo culmine nella celebrazione del matrimonio di Margherita Aldobrandini e Ranuccio Farnese, avvenuto nel maggio del 1600, come casto e immancabile coronamento del loro amore, teso verso più alti livelli di amore neoplatonico.

Importante nell’interpretazione del messaggio, il ruolo teoretico degli uomini di cultura di entrambe le corti farnesiane di Roma e Parma, Fulvio Orsini e Pomponio Torelli.

Ritengo che, in quest’ambito, possa non essere del tutto estranea una certa influenza culturale di Torquato Tasso nel substrato culturale dietro la realizzazione della Galleria di Palazzo Farnese a Roma.

Sebbene lo scrittore sorrentino fosse già deceduto alla data di realizzazione degli affreschi, nel 1600, egli intrattenne rapporti di lunga durata con i Farnese, come segnalato da Prinzivalli[138] e Valente. Quasi sicuramente conobbe il Cardinale Alessandro Farnese durante i suoi viaggi a Roma, dato che il porporato aveva larghi interessi culturali e fama di generoso mecenate di letterati, come suggerito da Angela Valente[139]. Questo rapporto sembra confermato dal fatto che Tasso insiste fiduciosamente con il cardinale, affinché questi acconsenta all’accettazione di un suo nipote tra i familiari di Odoardo Farnese[140], e dalle lettere con cui il letterato insiste con Ranuccio per avere in ricordo una coppa già appartenuta al cardinale[141]. Ancora più chiara risulta questa relazione, in una lettera inedita riferita dalla Valente, in cui il duca Ottavio Farnese si rivolge al fratello Alessandro, per ottenere un beneficio del Tasso per un suo amico, vista la «molta autorità» che il prelato avrebbe sul poeta[142].

La continuazione del rapporto con il cardinale Odoardo Farnese, residente nel magnifico palazzo di Roma, e l’interesse di questo per l’opera di Tasso è testimoniata dal fatto che dopo la morte dello scrittore, nella spinosa diatriba seguita per il possesso dei manoscritti del letterato, il cardinale riuscì a spuntare da Marco Pio di Savoia il deposito di questi documenti[143].

Significativa risulta inoltre una delle rime del Tasso dedicata proprio al giovanetto Ranuccio Farnese, in cui lo incita a coltivare le virtù superiori e vincere l’empio Amore[144], con concetti paralleli a quelli di Pomponio Torelli, precettore di Ranuccio:

 

«Nel campo de la vita aspra contesa

farai, signor, con forte empio guerriero,

ma sì pietoso in vista e lusinghiero

che n’è dolce per lui mortale offesa:

or chi l’arme ti dà perché l’impresa

tu vinca, ardito giovinetto altero?

Indarno per sì nobil magistero

in fucina d’uom vivo è fiamma accesa.

Vengan dunque dal ciel come già quelle,

se Roma non mentì, che fabro eterno

fece al buon Numa, e ’l cor ne cingi e l’alma:

ch’al fin, domo il nemico, a le rubelle

voglie torrai di te l’alto governo

ed avrai lauro trionfale e palma»[145].

 

A parte le relazioni dirette o meno coi Farnese, Torquato Tasso ebbe un’indubbia influenza sulle arti situate alla nascita del barocco, come mise molte volte in luce Giulio Carlo Argan[146]. Lo storico dell’arte pone lo scrittore sulla scia della teoria del «ut pictura poà«sis», che riconosce un’unità di espressione alla pittura e alla poesia, con uno stesso fine, «che non è più la rappresentazione della natura, ma l’espressione degli affetti o dei sentimenti umani»[147]. In ciò Argan rileva che discendono proprio da Tasso i primi dipinti che intendono fare poesia tramite la pittura, con una originale elaborazione degli affetti, anziché essere intesi ad illustrare il solo testo poetico[148]. Una poetica quanto mai vicina anche agli interessi di Torelli e la sua teoria degli affetti, ma non solo. Anche per i pittori bolognesi dell’Accademia dei Carracci sussiste questo parallelismo assoluto di pittura e poesia, la pittura si riveste di maggiori concetti e discorsi[149], ma avvalendosi sempre dei propri mezzi per suscitare l’emozione e l’indagine su quelle insite nell’opera.

Tasso offre agli artisti figurativi, una minor descrizione plastica, per esempio rispetto all’Ariosto, che farebbe presupporre una sua lontananza dal campo pittorico o scultoreo. Ma proprio lo spazio che lo scrittore concede all’interpretazione di affetti, sentimenti, sconvolgimenti, sfumati e non descritti in ogni particolare, passibili di diverse interpretazioni e caricabili di ulteriori significati, il «progressivo dissolversi della plastica evidenza dell’immagine, nel suo sfumarsi in un ambiente che a sua volta si sensibilizza e drammatizza, nel suo caricarsi di significati che vanno al di là dell’oggetto rappresentato»[150] e che perciò esprimono «piuttosto un’aspirazione che un sicuro possesso», segnano il momento di passaggio dal Rinascimento al Barocco.

Il nuovo sentire che unisce le poetiche di Tasso, Torelli ed i Carracci, risiede proprio nell’analisi dei sentimenti. Un’analisi volta certamente ad individuare i moti interiori che generano quelli esteriori ed il modo di rappresentarli, ma non più con intenti puramente naturalistici. Si tratta di dar loro uno spessore convincente e di suscitarli anche nel fruitore, dato che l’arte deve sempre più «persuadere, stabilire dei tramiti, dei rapporti tra gli uomini»[151]. Come i pittori proto– e barocchi, Tasso e Torelli si spendono per rappresentare approfonditamente gli effetti delle passioni e comunicarli allo «spettatore», suscitando in lui un coinvolgimento emotivo che ingeneri una metamorfosi, una riflessione, una catarsi, la meraviglia. Loro si collocano agli albori del teatro seicentesco, con le passioni messe drammaticamente in scena, così come i pittori della scuola carraccesca. E non importa che la artificiosità teatrale sia visibile: non è più la natura pura al centro dell’interesse; la rappresentazione diventa «un banco di prova per sperimentare il comportamento umano o per verificare, in vitro, quali umani sentimenti vengano mossi da un avvenimento tanto grave, per misurare le reazioni, i contrasti che avvengono nell’animo sotto l’urto di simili eventi»[152].

Significativo a tal riguardo, nella Gerusalemme, un passo che crea la cornice epica e teatrale intorno al combattimento di Clorinda e Tancredi:

 

«Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno

teatro, opre sarian sà­ memorande.

Notte, che nel profondo oscuro seno

chiudesti e ne l’oblio fatto sí grande,

piacciati ch’io ne ‘l tragga e ‘n bel sereno

a le future et&arave; lo spieghi e mande.

Viva la fama loro; e tra lor gloria

splenda del fosco tuo l’alta memoria»[153].

 

Parallelamente al teatro, anche la musica, nel corso del XVI secolo, si adopera sempre pi&urave; per esprimere gli affetti che rivestono l’oratione; non pi&urave; quindi muovere soltanto gli affetti, ma mostrare anche gli effetti che esso produce[154], «& secondo le parole muover la misura per dimostrare gli effetti delle passioni della parole, & l’armonia&rquo;[155]. La ricerca si svolge soprattutto nel campo dei madrigali, dove Monteverdi ne dedicher&arave; uno superbo proprio al combattimento tra Clorinda e Tancredi.

 Ma Torelli è mosso da interessi maggiormente didattici ed edificanti, mentre nel Tasso della Liberata, quella che ha maggiormente influito nelle arti, la tempesta passionale, le contraddizioni e travagli dell’animo, sono palesemente messi in mostra e lasciati alla mercégli artisti per essere ulteriormente elaborati, aggiungendo o togliendo la propria interpretazione degli affetti e relative sfumature.

È stata più volte segnalata l’influenza o quantomeno la contiguit&arave; poetica, di Tasso su pittori veneziani come Tintoretto[156] e Tiziano, e proprio sul loro studio, segnatamente su Tintoretto, nell’ambito dell’influsso che l’arte della zona lagunare ha esercitato sulle scuole vicine, come quella bolognese, in seguito al Concilio di Trento[157], i pittori della scuola bolognese hanno fondato la loro riforma pittorica[158]. Quindi non potevano non sentire in Tasso «il creatore di un nuovo modo di espressione degli affetti o dei sentimenti umani»[159]. E sarà proprio Agostino Carracci, insieme all’ideatore Bernardo Castello, ad incidere le tavole per la prima edizione illustrata della Gerusalemme Liberata nel 1590 (Fig. 3).

Fig. 3: Incisione di Agostino Carracci per la prima edizione illustrata della Gerusalemme Liberata, Clorinda muore tra le braccia di Tancredi, canto XII, bulino su rame, 1590.


Il loro modo di far pittura è solo in apparenza «classico&rquo;. Si tratta di ideal – classicismo; un manierismo che pur facendosi erede del classicismo, e conservando la forma e la «struttura razionale della natura», muta i significati e le funzioni dell’immagine[160]. Un’artificiosità che ha tutta l’apparenza della naturalezza, una presunta spontaneità, atta alla persuasione e alla meraviglia, che nasconde nella struttura uno studio minuzioso e curato. Il precetto aristotelico di «nasconder l’arte», fondamentale per la teoria estetica barocca[161].

Tasso si fa portatore di questo principio estetico dell’«arte che tutto fa, nulla si scopre»[162], e proprio a lui si rifaranno i primi teorici estetici del barocco[163].

Numerosi i passaggi della Gerusalemme Liberata che espongono questo principio, come nella bellezza negligente e non cercata di Sofronia, che Vergine «d’alti pensieri e regi, d’alta beltà; ma sua beltà non cura»[164], di cui non si saprebbe dire se il caso o studiatissima arte abbiano composto le sue bellezze:

 

«La vergine tra ’l vulgo uscí soletta,

non coprí sue bellezze, e non l’espose,

raccolse gli occhi, andò nel vel ristretta,

con ischive maniere e generose.

Non sai ben dir s’adorna o se negletta,

se caso od arte il bel volto compose.

Di natura, d’Amor, de’ cieli amici

le negligenze sue sono artifici»[165].

 

Quando invece la maga Armida si presenta nel campo dei crociati per irretirli, le sue grazie sono curatissime e appositamente studiate, tanto bene da sembrare assolutamente naturali.

 

«Lodata passa e vagheggiata Armida

fra le cupide turbe, e se n’avede.

No ’l mostra già, benché in suo cor ne rida,

e ne disegni alte vittorie e prede»[166].

 

La descrizione delle opere d’arte presenti nel giardino d’Armida, è uno dei passaggi più alti poeticamente e più densi di significati, dove arte e natura gareggiano e si scambiano i ruoli, confuse dalle arti magiche della maga:

 

«Le porte qui d’effigiato argento

su i cardini stridean di lucid’oro.

Fermàr ne le figure il guardo intento,

ché vinta la materia è dal lavoro:

manca il parlar, di vivo altro non chiedi;

né manca questo ancor, s’a gli occhi credi.

[…]

Stimi (sí misto il culto è co ‘l negletto)

sol naturali e gli ornamenti e i siti.

Di natura arte par, che per diletto

l’imitatrice sua scherzando imiti»[167].

 

Proprio questi passaggi del Tasso ispireranno due fra i maggiori teorici estetici del periodo barocco: Mons. Giovanni Battista Agucchi e Giovan Pietro Bellori.

Il primo (Fig. 4), diplomatico pontificio e colto uomo di lettere, scrisse tra il primo e il secondo decennio del Seicento un Trattato della pittura, dato alle stampe nel 1646 e arrivato a noi solo in stralci frammentari[168], dove anticipa le linee del bello ideale che poi saranno più compiutamente teorizzate dal Bellori (che probabilmente deteneva anche i manoscritti del Monsignore)[169].

Fig. 4: Annibale Carracci (attr.), Ritratto di G. B. Agucchi, olio su tela, 1602-1604, New York, City Art Gallery.


Il prelato fu grande amico di Annibale Carracci e Domenichino. Bellori riferisce che il monsignore collaborò anche alla definizione dei significati morali della decorazione del camerino Farnese, realizzato da Annibale con la collaborazione ideativa di Agostino Carracci[170]. Giovanni Battista fu uno dei primi e più entusiasti sostenitori di Annibale Carracci, riconoscendo nell’opera dei Carracci la restaurazione della pittura dopo la decadenza rappresentata dal manierismo[171]. Agucchi vedeva risollevate le sorti della pittura da quegli artefici che

 

«s’innalzano più in alto con l’intendimento, e comprendono nella loro Idea l’eccellenza del bello, e del perfetto, che vorrebbe fare la natura, ancorché ella non l’eseguisca in un sol soggetto, per le molte circostanze, che impediscono, del tempo, della materia e d’altre disposizioni: e come valorosi artefici, conoscendo, che se essa non perfettiona del tutto un individuo, si studia almeno di farlo divisamente in molti, facendo una parte perfetta in questo, un’altra in quello separatamente; eglino non contenti d’imitare  quel che veggono in un sol soggetto, vanno raccogliendo le bellezze sparse in molti, e l’uniscono insieme con finezza di giuditio, e fanno le cose non come sono, ma come esser dovrebbono per essere perfettissimamente mandate ad effetto. […] Le cose dipinte, & imitate dal naturale piacciono al popolo, perché egli è solito à vederne di sì fatte, e l’imitatione di quel che à pieno conosce, li diletta. Ma l’huomo intendente, sollevando il pensiero all’Idel del bello, che la natura mostra di voler fare, da quello vien rapito, e come divina la contempla»[172].

 

Ecco uno dei passaggi che stanno alla base del discorso sull’Idea di Bellori e che sicuramente risentono anche dell’estetica tassiana. È presente anche il fine superiore che tende verso le cose divine, come insito nella poetica di Tasso ma anche di Torelli.

L’Agucchi era anche in rapporto con la famiglia Aldobrandini, visto che fu al servizio del Cardinale segretario di Stato Pietro Aldobrandini sin dal 1596[173]. Gli Aldobrandini erano legati ai Farnese dal matrimonio celebrato dal Pontefice proprio a Palazzo Farnese a Roma il 7 maggio del 1600, tra il duca Ranuccio Farnese e la nipote del Papa, Margherita Aldobrandini, a cui allude il riquadro centrale della volta della galleria affrescata dai Carracci[174] (Fig. 5). Anche Tasso si era in qualche modo legato agli Aldobrandini, essendosi messo sotto la protezione del cardinale Cinzio Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, dopo la morte del suo precedente protettore, il cardinale Scipione Gonzaga[175], deceduto nel 1593. Proprio negli anni in cui il cardinale Cinzio riuniva nelle sue stanze un nutrito gruppo di letterati, artisti, studiosi e scienziati attorno alla figura del Tasso, Agostino Carracci incise le armi del porporato[176] (Fig. 6).

Fig. 5: Annibale Carracci e collaboratori, volta della Galleria dei Carracci, affresco, 1597-1600 ca., Palazzo Farnese, Roma.
Fig. 6: Agostino Carracci, Stemma del card. Cinzio Aldobrandini tra la Prudenza e la Giustizia, 1594, Pinacoteca Nazionale, Bologna.


Monsignor Agucchi aveva letto con attenzione il Tasso, ed era rimasto particolarmente colpito da alcuni episodi, come quello di Erminia che arriva tra i pastori, ed il contrasto tra locus terribilis e locus amoenus che vi si verifica. Vi trovava una corrispondenza con la sua situazione, che il prelato descrive in numerose lettere, di permanenza travagliata e quasi forzata nella corte, mentre la sua inclinazione personale era verso la quiete e la contemplazione[177]. Così Giovanni Battista Agucchi commissiona una sua impresa dipinta, con tema Erminia tra i pastori, a Ludovico Carracci, durante il breve soggiorno a Roma di questo alla fine della primavera del 1602[178]. Agucchi invierà al pittore anche il programma iconografico preciso, intitolato Impresa per dipingere la storia di Erminia, capace di esprimere anche il «sentimento» del suo anelito di cambiamento a una vita maggiormente contemplativa[179]. Ludovico non esiterà a interpretare in modo maturo le richieste del committente, aggiungendo un carattere di «conversione filosofica» alla scena[180] (Fig. 7).

Fig. 7: Ludovico Carracci, Erminia tra i pastori, 1603, olio su tela, Spagna, Real Palacio de la Granja de San Ildefonso.


Agucchi chiude il suo trattato sull’ideale di bellezza proprio citando il Tasso: «manca il parlar, di vivo altro non chiedi; né manca questo ancor,  s’a gli occhi credi»[181].

In effetti Tasso stesso si era espresso in termini che precorrono la teorizzazione del bello ideale, dell’ideal – classicismo che contraddistinguerà  poi la scuola bolognese dei Carracci.

Nei tardi Discorsi del poema eroico, dedicati proprio al cardinale Cinzio Aldobrandini, Tasso così si esprime sull’esemplarità dell’idea:

 

«Dico adunque che in tutte le cose si dee riguardare a l’ultimo, come dice Aristotele ne la Topica; ma l’ultimo è uno, laonde non si può ritrovare unitamente in molti particolari; ma considerando le bontà ne l’eccelenze che sono divise fra molti, si forma l’idea de la bontà e de l’eccelenza, come formò Zeusi quella de la bellezza quando volle dipingere Elena in Crotone; e questa differenza è peraventura fra l’idee de le cose naturali che sono ne la mente divina, e quella de l’artificiali, de le quali si figura e quasi dipinge l’intelletto umano: ché ne l’una l’universale è innanzi le cose stesse, ne l’altro da poi le cose naturali. L’idea dunque de le cose artificiali è formata dopo la considerazione di molte opere fatte artificiosamente, ne le quali tuttavolta non è l’ottimo, ma quella è migliore che più gli s’avvicina. Dovendo dunque io mostrar l’idea de l’eccelentissimo poema eroico, non debbo proporre per esempio un poema solo, benché egli fosse più bello de gli altri; ma, raccogliendo le bellezze e le perfezioni di ciascuno, insegnare come egli si possa fare bellissimo e perfettissimo insieme. […] se per abondare d’argumenti debbiamo rimirare ne l’esemplare, rimiriamo ne l’idea, perché l’idea è ’l vero esemplare e ’l vero esempio»[182].

 

Dopo l’Agucchi, il concetto della bellezza ideale, specchio del mondo delle idee e non di quello contingente delle apparenze, verrà più profondamente sistematizzato dal più importante teorico estetico del Seicento, Giovanni Pietro Bellori. In un suo discorso tenutosi nel 1672 all’Accademia romana di San Luca, esplicita il concetto dell’Idea, mostrandosi vicino alla poetica di Tasso:

 

«Idea del pittore e dello scultore è quel perfetto ed eccellente esempio della mente, alla cui immaginata forma imitando, si rassomigliano le cose che cadono sotto la vista: Così l’Idea costituisce il perfetto della bellezza naturale, ed unisce il vero al verisimile delle cose sottoposte all’occhio, sempre aspirando all’ottimo, ed al maraviglioso; onde non solo emula, ma superiore fassi alla Natura, palesandoci l’opere sue eleganti e compite, quali essa non è solita dimostrarci perfette in ogni parte. […]

Insegna Leon Battista Alberti, che si ami in tutte le cose non solo la simiglianza, ma principalmente la bellezza, e che si debba andar scegliendo da corpi bellissimi le più lodate parti. Così Leonardo da Vinci instruisce il pittore a formarsi questa idea ed a considerare ciò che esso vede e parlar seco, eleggendo le parti più eccellenti di qualunque cosa. Rafaelle da Urbino il gran maestro di coloro che sanno, così scrive al Castiglione della sua Galatea: “Per dipingere una bella mi bisognerebbe vedere più belle, ma per essere carestia di belle donne, io mi servo di una certa idea che mi viene in mente”.

[…]

Dobbiamo di più considerare che essendo la pittura rappresentazione d’umana azzione, deve insieme il pittore ritenere nella mente gli essempi de gli affetti, che cadono sotto esse azzioni, nel modo che ’l poeta conserva l’idea dell’iracondo, del timido, del mesto, del lieto, e così del riso e del pianto, del timore e dell’ardire. Li quali moti deono molto più restare impressi nell’animo dell’artefice con la continua contemplazione della natura, essendo impossibile ch’egli li ritragga con la mano dal naturale, se prima non li averà formati nella fantasia; ed a questo è necessaria grandissima attenzione; poiché mai si veggono li moti dell’anima, se non per transito e per alcuni subiti momenti. Siché intraprendendo il pittore e lo scultore ad imitare le operazioni dell’animo, che derivano dalle passioni, non può vederle dal modello che si pone avanti, non ritenendo esso alcun affetto; che anzi languisce con lo spirito e con le membra nell’atto in cui si volge, e si ferma ad arbitrio altrui. È però necessario formarsene un’imagine su la natura, osservando le commozioni umane, ed accompagnando li moti del corpo, con li moti dell’animo; in modo che gli uni da gli altri dipendino vicendevolmente»[183].

 

Quindi non andrà rappresentata solo la natura visibile delle cose, ora assumono sempre maggior importanza i moti dell’animo ed il modo in cui questi agiscono sull’esterno. Interesse già dimostrato da Torelli, oltre che nelle sue lezioni accademiche, anche nel romanzo Movimenti dell’animo.

Bellori conclude infine citando proprio il Tasso della Gerusalemme:

 

«Dice Filone che Dio, come buono architetto, riguardando all’idea ed all’esempio propostosi, fabbricò il mondo sensibile dal mondo ideale ed intelligibile. Siché dipendendo l’architettura dalla cagione esemplare, fassi anch’ella superiore alla natura. Al che riguardò forse Torquato Tasso descrivendo il giardino di Armida: “Di natura arte par, che per diletto; L’imitatrice sua scherzando imiti»[184].

 

La mimesis dell’arte non riguarda più la natura, ora si tratta dell’imitazione dell’idea, sempre entro l’aristotelico limite della verosimiglianza o del possibile/credibile[185]. Tasso ha strenuamente difeso e spiegato la libertà dell’artista di immaginare e anche di utilizzare il meraviglioso, purché potesse essere credibile, conosciuto o possibile, finalizzato alla comunicazione col pubblico[186], anticipando i teorici barocchi. Torquato Tasso, unendo neoplatonismo e aristotelismo, ha messo le basi di quella correlazione di «idea, immagine, parola» che costituisce il nucleo delle poetiche barocche[187], dato che in questo periodo inizia e va sempre crescendo la certezza che la comunicazione persuasiva, il «docere, delectare, movere», il produrre un effetto sui comportamenti morali finalizzati alla felicità civile ed alla salvezza dell’anima, siano il fine ultimo e più importante delle arti, rispetto alla sola rappresentazione o diletto; concezione di cui Torelli è uno dei più grandi teorizzatori in letteratura. L’evoluzione di queste poetiche segue il percorso compiuto dal Tasso: dal diletto come fine, all’utilità morale e spirituale che si serve del diletto per raggiungere la meta. Come giustamente sottolinea Argan, «la contemplazione non può più essere disinteressata e, affinché non lo sia, bisogna che l’oggetto contemplato interessi, susciti una reazione affettiva, agisca sui movimenti dell’agire»[188]. Si passa «da un interesse sensorio a un interesse morale».

I Carracci non sono rimasti estranei all’influenza di Torquato Tasso. Agostino ha inciso insieme a Bernardo Castello le tavole e il frontespizio per la prima edizione illustrata della Gerusalemme Liberata, e Ludovico e Annibale hanno dedicato più opere loro a episodi del poema.

Appartiene a Ludovico Carracci una delle prime raffigurazioni dell’episodio di Rinaldo e Armida nel giardino, del 1593[189], (Fig. 8), che presenta un impianto poco classico ma più vicino a una sorta di «idillio boschivo» che insieme all'«accentuata tenerezza di ascendenza correggesca fanno pensare a una realizzazione del dipinto per la corte ducale di Parma, dove Ludovico si recò nel 1593, in occasione delle esequie di Alessandro Farnese»[190].

Fig. 8: Ludovico Carracci, Rinaldo e Armida nel giardino incantato, olio su tela, 1593, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.
Fig. 9: Annibale Carracci, Rinaldo e Armida nel giardino incantato con Carlo e Ubaldo nascosti che osservano, olio su tela, 1601, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.


Annibale Carracci realizza poi, intorno al 1601 forse in collaborazione con la bottega, per il palazzo romano dei Farnese[191], un’altra versione molto più classica dell’idillio di Rinaldo e Armida (Fig. 9), dove è messa in evidenza con una potente carica trasgressiva, la femminilizzazione e la soggezione del paladino cristiano alla maga, continuando lo stesso tenore e messaggio della galleria principale del palazzo. L’opera «rimase in loco per oltre sessant’anni, esposta nel primo camerino del ‘Palazzetto della Morte’ insieme con la ‘Venere dormiente’ e altri quadri di Annibale ed Agostino, come l’‘Arrigo peloso’ di Capodimonte o il ‘Ratto di Europa’ di Londra»[192]. Proprio la Venere Dormiente viene descritta in una famosa ekphrasis da Mons. Agucchi, riportata da Carlo Cesare Malvasia nel suo Felsina Pittrice del 1678, dove cita anche il quadro di Annibale:

«Perciocchè, essendomene ito a casa Farnese per vedervi un quadro della favola del Tasso, divinamente in pittura rappresentato dal Sig. Annibale Carracci […]»[193].

 

La Venere addormentata che era attigua all’opera di Annibale, crea una corrispondenza di forme orizzontali con Rinaldo[194], a sottolineare ancora di più la iperfemminilizzazione del cavaliere.

Fig. 10: Annibale Carracci, Ercole e Onfale, affresco, 1597-1607 ca., volta della Galleria dei Carracci, Palazzo Farnese, Roma.


Femminilizzazione presente anche nel riquadro della volta della Galleria, nella scena di Ercole e Onfale (Fig. 10), dove l’eroe indossa vesti femminili, scambiati abiti e ruoli con la donna, proprio come Rinaldo e Armida. La scena di Ercole e Iole trova quasi testuale corrispondenza nella descrizione del mito raffigurato nei fregi della porta del palazzo di Armida nella Gerusalemme; anzi, secondo Bellori, i Carracci si sarebbero rifatti proprio a quella descrizione per comporre la scena sulla volta della Galleria di Palazzo Farnese[195]:

 

«Qual forza resisterà più ad Amore? mirasi Ercole femminilmente avvolto nel manto d’oro dell’amata Iole, che gli siede a lato; con la destra domatrice de’ mostri scuote il rotondo timpano lascivo e verso lei si volge, che approva il suono e di Ercole trionfa. La superba fanciulla cinto il dosso con la spoglia nemea ed annodati li fieri artigli su le tenere mammelle, s’appoggia con la destra imbelle su la clava guerriera, e con la sinistra abbraccia la spalla dell’effemminato amante, soggiogando col molle braccio quella cervice che sostenne le sfere. Ben sembra il cuoio del leone ruvido troppo alle sue delicate membra; e troppo ruvido ancora l’amante che le siede appresso, posando essa la pulita gamba sopra l’erculea coscia ispida e dura. In questa favola Annibale seguitò la descrizione del Tasso, che mirabile scultore mostrossi nell’istessa poesia; e fecevi Amore che da una loggia mira Ercole e ride, e con la mano accenna il forte eroe effemminato e vinto»[196].

 

Anche nella descrizione che lo storico dà  di un altro soggetto, presente nel camerino Farnese, sembra di cogliere un parallelismo con l’idea tassiana, ma anche torelliana, del riposo contemplativo dopo le imprese compiute nel raggiungimento delle virtù nella vita attiva. Si tratta del riposo meditativo di Ercole dopo le sue fatiche (Fig. 11). Su di un masso si legge una scritta in greco:

 

«"PONOS TOU KALOS ESUXASEIN AITIOS" cioè la fatica è cagione di riposarsi bene. Sì come questa imagine comprende la vita attiva, che consiste nelle azzioni per tanti di Ercole gloriosi fatti, così l’altra del medesimo che sostiene il mondo è simbolo della vita contemplativa, e l’una e l’altra si confà alla virtù ed alla felicità umana, avendo l’una per fine il bene, l’altra il vero»[197].

 

Fig. 11: Annibale Carracci, Ercole in riposo, affresco, 1595-1597 ca., Camerino di Palazzo Farnese, Roma.


Stefano Colonna, nel suo saggio sulla Galleria dei Carracci, analizza l’importanza che rivestono gli Amorini in lotta agli angoli della volta, punto di partenza per l’interpretazione sostanzialmente corretta che Bellori dà della decorazione, e che li riconosce come Eros e Anteros che lottano, e che trovano finalmente un accordo di pacificazione nel nome della corresponsione tra Amor Divino e Amor terreno, che trova luogo nel matrimonio[198]. Una temperanza di amore che otterrà su di sé «corona e palma», come recita la conclusione della tragedia torelliana Tancredi, individuando la rilevanza del magistero torelliano per la cultura farnesiana[199].

Come ho già ricordato, anche Tasso parla di Anterote come Amore reciproco, nato per far maturare l’Amore fanciullo, che infine condurrà alla pace contemplativa del terzo stadio dell’amore[200]. Inoltre, nella rima per Ranuccio Farnese, poc’anzi citata, si ritrova una conclusione simile a quella che utilizzerà Torelli:

 

«ch’al fin, domo il nemico [Amore], a le rubelle

voglie torrai di te l’alto governo

ed avrai lauro trionfale e palma»

 

Sembra una calzante descrizione degli angoli della volta della Galleria, dove, domato finalmente l’amore terreno, si trionferà con alloro e palma (Figg. 12 – 13).

Fig. 12: Annibale Carracci, Eros e Anteros lottano sovrastati da una corona d’alloro, Roma, Palazzo Farnese, Galleria dei Carracci.
Fig. 13: Annibale Carracci, Eros e Anteros lottano per la palma, Roma, Palazzo Farnese, Galleria dei Carracci.


La fortuna pittorica della Gerusalemme Liberata verrà non solo continuata, ma anche ampliata, dai più dotati seguaci della scuola carracesca, come Domenichino, Giovanni Lanfranco (che collaborò alla decorazione della Galleria di Palazzo Farnese), Guercino, Sisto Badalocchio, dando spesso occasione di creare, tra le prime volte, della pittura di paesaggio, tradizione iniziata proprio dai Carracci e continuata dai nuovi classicisti come Poussin. Anche nel poema di Tasso vi sono ampi brani di descrizione del paesaggio. Una natura che avvolge i protagonisti ed assume di volta in volta caratteri legati ai significati spirituali più profondi degli episodi.

Argan mette in luce la compiutezza del principio ut pictura poësis verificatosi, attraverso il pensiero del Tasso, nell’«affinità tra la poetica letteraria di Giambattista Marino e la poetica figurativa di Annibale Carracci»[201]. Tasso ha esercitato un’importante influenza su Marino durante la sua formazione, e sebbene il rapporto con Annibale sia meno diretto, hanno pur condotto parallele e per certi versi simili riforme della letteratura l’uno, della pittura l’altro, proprio nel periodo nel quale a Bologna viene istituita l’Accademia dei Carracci[202]. Giulio Carlo Argan istituisce un parallelo tra questi autori per quanto riguarda proprio la nuova concezione della figura dell’artista, corrispondente a quella del poeta «di cui è prototipo il Tasso», che «imposta la propria arte non più su una concezione del mondo ma su una concezione dell’arte […], non avendo apparentemente altro fine che l’autonomia dell’arte, ma proprio perciò non potendo sfuggire al problema della specifica funzione e responsabilità dell’artista»[203]. L’artista deve creare un rapporto con lo spettatore che non si limiti più alla sola contemplazione o meraviglia fine a sé stessa; l’immaginazione è potente e viene stimolata, ma anche indirizzata, dall’autore verso un immaginare rivestito di utilità morale.

Torquato Tasso non portò mai avanti una teorizzazione così scientifica e sistematica delle passioni e loro moderazione, come fece invece Torelli, ma gli elementi che la compongono sono tutti presenti nelle varie opere dello scrittore sorrentino.

Negli ultimi anni della vita di Tasso, lui e Torelli seguono binari pressoché paralleli che si intersecano sovente, in un proficuo interscambio culturale e una continua osmosi tra i vivaci ambienti culturali delle corti principesche e papali. Dopo la morte dello scrittore sorrentino, avvenuta nel 1595, la sua eredità continuerà, più vitale che mai, ad influenzare i dibattiti letterari e culturali, ed anche le arti figurative. La poetica di Tasso accompagna le arti verso l’ingresso nell’età barocca, e avrà un peso che non si limiterà alla sola iconografia. La rivoluzione che lui ha portato avanti in letteratura, corre parallela nella riforma della pittura.

Così come Torelli ha influito in modo importante nella produzione culturale e figurativa della corte farnesiana, non solo di Parma ma perfino di Roma, non è assente in queste anche lo spirito di Torquato Tasso.

 



NOTE

[1] DENAROSI 2003 , p. 21.

[2] COLONNA 2007, p. 61.

[3] COLONNA 2012, p. 139.

[4] Marzio DELL’ACQUA, nel catalogo della mostra documentaria Pomponio Torelli: tra assolutismo e controriforma, Parma, 1976, p. 1 e segg., indica nell’esposizione dei soli documenti uno stimolo allo studio e ricerca sull’opera e pensiero del Torelli, che valuta ancora molto scarno. Vedere anche nota 1 in COLONNA Stefano, L’Accademia degli Innominati di Parma di Lucia Denarosi: una recensione, 2009, in Bollettino Telematico dell’Arte, www.bta.it/txt/a0/05/bta00526.html . Cfr. anche l’introduzione di Pietro MONTORFANI, 2010, in Uno specchio per i principi. Le tragedie di Pomponio Torelli (1539 – 1608).

[5] Una disamina di una Raccolta di Lettere nella Biblioteca Civica di Ferrara, ha permesso a Lucia Denarosi di anticipare a tale data l’affiliazione del Tasso all’Accademia, che fino allora veniva fatta risalire al 1586 e all’intervento di Ranuccio Farnese sulla scorta di Ireneo Affò, che scrisse una importante Memoria Storica dell’Accademia, tutt’ora base documentale per la conoscenza di molti aspetti del circolo letterario e dei suoi membri.

[6] DENAROSI 2003, p. 55 nota.

[7] COLONNA 2007.

[8] COLONNA 2007, p. 62.

[9] Ibidem, p. 63.

[10] Ibidem, p. 63.

[11] CARERI 2010, La fabbrica degli affetti. La Gerusalemme Liberata dai Carracci a Tiepolo, Milano, Il Saggiatore, 2010.

[12] Ibidem, pp. 82 – 83.

[13] Ibidem, pp. 31, 32, 34, 133.

[14] Ibidem, p. 126.

[15] Cfr. DENAROSI 2003, pp. 73 – 75.

[16] Cfr. POTENTE 2005.

[17] CARETTI Lanfranco, cit. in POTENTE 2005, p. 7.

[18] POTENTE 2005,  pp. 7-8.

[19] TASSO 1854, Lettera di Tasso a Scipione Gonzaga del 15 giugno 1576, pp. 192-194.

[20] […] Essendo il fine della poesia il diletto, quelle poesie sono più eccellenti, che meglio questo fine conseguiscono […]. Concedo io quel che vero stimo e che molti negarebbono, cioè che il diletto sia il fine della poesia», TASSO Discorsi I, Discorso secondo, p. 46.

[21] Ibidem, Discorso Primo, p. 13.

[22] Di solito i Discorsi vengono datati al 1565, ma l’autrice raccoglie la retrodatazione di Luigi Poma. Cfr. Ibidem, pp. 192-193. 

[23] Ibidem, p. 191.

[24] Torquato Tasso, Discorsi dell’arte poetica, cit. in DENAROSI, 2003, p. 197.

[25] Pomponio Torelli, Discorso sull’azione epica, in BPPr, Ms. Parm. 1643, p. IV, cit. in ibidem, p. 197.

[26] TASSO 1854, p. 114.

[27] Si riferisce a Silvio Antoniano.

[28] TASSO 1854, pp. 117 – 118.

[29] TASSO 1854, p. 185.

[31] Cfr. POTENTE 2005, p. 51.

[32] Lettera del 22 maggio 1576 a Scipione Gonzaga, TASSO 1854, pp. 180-181.

[33] DENAROSI 2003, p. 231.

[34] Cit. in Ibidem, p. 232.

[35] TORELLI 1596, p. 176 r/v.

[36] TASSO 1998, pp. 60-62, 77.

[37] Ibidem, pp. 154-155.

[38] GIGANTE 2007, pp. 129-130.

[39] DE BERNARDINIS, voce Flaminio de’ Nobili in Dizionario Biografico degli Italiani Treccani online.

[40] Ibidem.

[41] GIGANTE 2007, p. 130.

[42] DE BERNARDINIS, op. cit.

[43] Ibidem.

[44] GIGANTE 2007, p. 25.

[45] Ibidem, p. 130.

[46] TASSO Discorsi I , pp. 12-13, 46.

[47] TASSO 1576, p. 15.

[48] DENAROSI 2003, pp. 70-71.

[49] Ibidem, pp. 18-19.

[50] TASSO GERUSALEMME, Canto I, 2-3, pp. 55-56.

[51] TORELLI 1596, pp. 178 /v – 179 /r. Corsivo mio.

[52] TASSO 1576, p. 16.

[53] Ibidem.

[54] POTENTE 2005, pp. 105-107.

[55] TASSO 1576, p. 18.

[56] TASSO GERUSALEMME, C. IV, 83, 1-2.

[57] CARERI 2010, p. 132.

[58] Ibidem, p. 133.

[59] TORELLI 1596, p. 4/v.

[60] BONDI 2012, p. 27.

[61] Ibidem, pp. 26-27.

[62] TORELLI 1596, p. 172/v

[63] Ibidem, p. 174/r. e v.

[64] Platone, Simposio, cit. in POTENTE 2005, p. 108.

[65] POTENTE 2005, p. 107.

[66] TASSO 1571, p. 2.

[67] POTENTE 2005, p. 108.

[68] TASSO 1571, p. 2.

[69] Cit. in POTENTE 2005, p. 110.

[70] TASSO 1571, p. 14

[71] TASSO 1576, p. 17.

[72] Ibidem, p. 18.

[73] TORELLI 1596, p. 99/v.

[74] Ibidem, p. 97/v.

[75] TASSO 1576, p. 18.

[76] TORELLI 1596, p. 63/v.

[77] Ibidem, p. 21/r.

[78] TASSO GERUSALEMME, p. 54.

[79] Pomponio TORELLI, Cit. in DENAROSI 2003, p. 75.

[80] TASSO 1998, p. 183.

[81] TASSO 1958, pp. 138-139. Corsivo mio.

[82] Cfr. GIGANTE 2007, p. 334.

[83] TASSO 1958, pp. 139-140.

[84] DENAROSI 2003, pp. 75, 234-235.

[85] BPPr, Ms. Parm. 1273-1274, t. I, pp. 63-64, cit. in Ibidem, p. 235.

[86] Ibidem, p. 14.

[87] DENAROSI 2003, p. 218.

[88] Ibidem, p. 206.

[89] Ibidem, p. 211.

[90] Cit. in TASSO GERUSALEMME, introduzione, p. 14.

[91] DENAROSI 2003, pp. 18 – 19.

[92] Ibidem, p. 212.

[93] Ibidem, p. 213.

[94] F. TOMASI in TASSO GERUSALEMME, introduzione, p. 14.

[95] DENAROSI 2003, p. 216.

[96] Ibidem.

[97] Cit. in ibidem.

[98] Cit. in Ibidem.

[99] SERASSI 1785, p. 67. Cfr. DENAROSI 2003, p. 217.

[100] DENAROSI 2003, p. 228 e nota.

[101] Cfr. bibliografia in ibidem, nota a p. 184.

[102] TASSO 1585, p. 235 vers. Digitalizzata.

[103] DENAROSI 2003, p. 179.

[104] Ibidem.

[105] Ibidem, p. 295.

[106] Ibidem.

[107] Vincenzo GUERCIO in TORELLI 1589, p. 94.

[108] DENAROSI 2003, p. 316.

[109] Ibidem, p. 318.

[110] Ibidem, p. 319.

[111] Datazione stabilita da L. Poma, cit. in GIGANTE 2007, p. 76.

[112] Discorsi/ del Signor /Torquato Tasso/ dell’arte poetica; et in /particolare del Poema Heroico./ Et insieme il primo libro delle lettere/scritte a diversi suoi amici, le quali oltre la famigliarità, sono ri/piene di molti concetti, et avvertimenti poetici a di/chiaratione d’alcuni luoghi della sua/ Gierusalemme liberata./Gli uni, e le altre scritte nel tempo,/ch’egli compose detto suo poema […], in Venetia, MDLXXXVII. Ved. Nota in GIGANTE 2007, p. 76.

[113] Ibidem.

[114] Ibidem, p. 334.

[115] Ibidem.

[116] «Taccio per ora che dovendo il poeta aver molto riguardo al giovamento, se non in quanto egli è poeta (che ciò come poeta non ha per fine), almeno in quanto è uomo civile e parte della repubblica, molto meglio accenderà l’animo de’ nostri uomini con l’esempio de’ cavalieri fedeli che d’infedeli, movendo sempre più l’esempio de’ simili che dei dissimili […]»,TASSO Discorsi I, Discorso Primo, p. 13; «Essendo il fine della poesia il diletto, quelle poesie sono più eccellenti, che meglio questo fine conseguiscono […]. Concedo io quel che vero stimo e che molti negarebbono, cioè che il diletto sia il fine della poesia», Ibidem, Discorso secondo, p. 46.

[117] TASSO 1594, Libro primo, p. 143.

[118] «La materia, […] molto meglio è, a mio giudicio, che da l’istoria si prenda; perché dovendo l’epico cercare in ogni parte il verisimile (presupongo questo, come principio notissimo), non è verisimile ch’una azione illustre, quali sono quelle del poema eroico, non sia stata scritta, e passata a la memoria de’ posteri con l’aiuto d’alcuna istoria. I successi grandi non possono esser incogniti; e ove non siano ricevuti in iscrittura, da questo solo argomentano gli uomini la loro falsità; e falsi stimandoli, non consentono cosí facilmente d’essere or mossi ad ira, or a terrore, or a pietà; d’esser or allegrati, or contristati, or sospesi, or rapiti; ed in somma, non attendono con quella espettazione e con quel diletto i successi de le cose, come farebbono se que’ medesimi successi, o in tutto o in parte, veri stimassero», TASSO Discorsi I, p. 6.

[119] TASSO 1594, Libro primo, pp. 151 – 152.

[120] Tasso si rifà ad un trattato di Plutarco, Quomodo adolescens poetas audire debeat, Ibidem, nota a p. 152.

[121] Cfr. TORELLI 1596, pp. 19/r. e v.

[122] TASSO 1594, nota a p. 153.

[123] Ibidem, Libro primo, pp. 152 – 153.

[124] Ibidem, p. 154.

[125] TORELLI 1596, pp. 178/v. – 179/r.

[126] TORELLI, Trattato della poesia lirica, p. 602, cit. in BONDI 2012, p. 16.

 

[127] TASSO 1594, Libro primo, pp. 158 – 159.

[128] Ibidem, p. 158.

[129] Ettore Mazzali in Ibidem, nota a p. 159.

[130] TASSO 1594, Libro primo, p. 162.

[131] Ibidem, Libro secondo, p. 183.

[132] BPPr, Ms. Parm. 1273-1274, t. I, pp. 63-64, cit. in DENAROSI 2003, p. 235

[133] TASSO Discorsi I, Libro primo, p. 13.

[134] TASSO 1594, Libro secondo, p. 193.

[135] CERBO 2009, p. 11.

[136] TASSO,  Il Mondo creato, Giorno V, vv. 707-14, cit. in ibidem.

[137] Cfr. COLONNA 2007.

[138] Prinzivalli, Torquato Tasso a Roma, Roma, Desclèe- Lefebvre, 1895, p. 24, cit. in VALENTE 1921, p. 233.

[139] Ibidem, p. 233.

[140] Cfr. TASSO 1854, lettere nn. 300-303, 332-335, cit. in ibidem.

[141] Lettere di T. Tasso nn. 1145 e 1152, cit. in ibidem.

[142] Ibidem, p. 234.

[143] A. Solerti, Vita di Torquato Tasso, vol. I, p. 808, cit. in ibidem.

[144] Valente 1921, p. 231.

[145] TASSO Rime, Libro III, DALL’11 marzo 1579 al 12 luglio 1586, parte prima 11 marzo 1579-1582 , nĀ° 813

[146] Cfr. ARGAN 1957, Id. 1986 barocco, Id. 1986 capitali.

[147] ARGAN 1957, p. 387.

[148] Ibidem, p. 388.

[149] Ibidem, p. 395.

[150] Ibidem, p. 387.

[151] Ibidem, p. 396.

[152] Ibidem.

[153] TASSO GERUSALEMME, C. XII, 54, 1-8.

[154] TAGLIAVINI 1998, p. 83.

[155] Nicola Vicentino cit. in ibidem.

[156] Cfr. ARGAN 1957, CARERI 2010, EMILIANI 1997.

[157] EMILIANI 1997, p. 13.

[158] ARGAN 1957, p. 397.

[159] Ibidem.

[160] ARGAN 1986 Europa, p. 36.

[161] ARGAN 1957, p. 397.

[162] TASSO GERUSALEMME, C. XVI, 9, 8.

[163] ARGAN 1957, p. 397.

[164] TASSO GERUSALEMME, C. II, 14, 2-3.

[165] Ibidem, C. II, 18, 1-8.

[166] Ibidem, C. IV, 33, 1-3.

[167] Ibidem, C. XVI, 2, 3-8; 10, 1-4.

[168] GUINZBURG CARIGNANI 2000, p. 9.

[169] TOESCA – ZAPPERI.

[170] BELLORI 1672, p. 45.

[171] GUINZBURG CARIGNANI 2000, p. 9.

[172] AGUCCHI 1646, p. 65

[173] BELLORI 1672, p. 45..

[174] Cfr. COLONNA 2007, pp. 75-80.

[175] TASSO 1594, p. 141 nota.

[176] GINZBURG CARIGNANI, p. 149.

[177] CARERI 2010, pp. 73-74.

[178] Ibidem.

[179] Ibidem, pp. 74-75.

[180] Ibidem, p. 78.

[181] ARGAN 1957, p. 397.

[182] TASSO 1594, Libro primo, pp. 145-146.

[183] BELLORI 1664, pp. 14, 17

[184] Ibidem, pp. 20 – 21.

[185] ARGAN 1986 Barocco, p. 10.

[186] Cfr. TASSO Discorsi I, Discorso primo e TASSO 1585, p. 183.

[187] ARGAN 1986 Barocco, p. 11.

[188] Ibidem, p. 12.

[189] CARERI 2010, p. 152.

[192] Ibidem.

[193] MALVASIA 1678, p. 503.

[194] CARERI 2010, p. 153.

[195] Ibidem, p. 156.

[196] BELLORI 1672, pp. 69-70.

[197] Ibidem, pp. 50-51

[198] COLONNA 2007, pp. 69-71

[199] Ibidem, p. 67.

[200] TASSO 1958, pp. 753 – 754

[201] ARGAN 1986 Barocco, p. 12.

[202] Ibidem.

[203] Ibidem.




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Id., Gerusalemme Liberata, a cura di Franco Tomasi, Bergamo, BUR Rizzoli, 2010.

 

TASSO Mondo creato

Id., Il Mondo creato, ed. crit. con introduzione e note di Giorgio Petrocchi, Firenze, Le Monnier, 1951, Giorno V, vv. 707-14, p. 180.

 

TASSO 1571

Id., Considerazioni sopra tre canzoni di M. Gio. Battista Pigna intitolate «Le tre sorelle», nelle quali si tratta dell’amor divino in paragone del lascivo, in Opere di Torquato Tasso colle Controversie sulla Gerusalemme, poste in migliore ordine, ricorrette sull’edizione fiorentina, ed illustrate dal Professore Gio. Rosini, Volume XI, Pisa, presso Niccolò Capurro, 1823.

 

TASSO 1573

Id., L’Aminta. Favola boschereccia di Torquato Tasso. Aggiuntovi il poemetto Amore Fuggitivo, Venezia, presso Antonio Zatta, 1769.

 

TASSO 1576

Id., Allegoria del poema, in La Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso con la vita del medesimo. Allegoria del poema, Argomenti incisi ne’ rami del Tempesta, ed Indice di tutti i Nomi propi, e Materie principali contenute nell’Opera; e con le annotazioni di Scipione Gentili e di Giulio Guastavini, ecc., Roma, Stamperia di Girolamo Mainardi, 1758, versione digitalizzata in Getty Research Archives.

 

TASSO 1585

Id., Apologia del Sig. Torquato Tasso in difesa della sua Gierusalemme Liberata. Con alcune altre Opere, parte in accusa, parte in difesa dell’Orlando furioso dell’ARIOSTO, della Gierusalemme istessa, e dell’Amadigi del TASSO Padre, Ferrara, Giulio Cesare Cagnacini et Fratelli, 1585. Versione digitalizzata.

 

TASSO 1587 

Id., Il Re Torrismondo, Tragedia del Sig. Torquato Tasso. Al molto magnifico Sig. Hettor Pedemonte, Verona, appresso Girolamo Discepolo, 1587.

 

TASSO 1594

Id., Discorsi del poema eroico in Scritti sull’Arte Poetica, tomo primo, a cura di Ettore Mazzali, Torino, Einaudi, 1977.

 

TASSO 1854

Id., Le Lettere di Torquato Tasso disposte per ordine di tempo ed illustrate da Cesare Guasti, volume I, Firenze, Le Monnier, 1854.

 

TASSO 1854 V

Id., Le Lettere di Torquato Tasso disposte per ordine di tempo ed illustrate da Cesare Guasti, volume V, Firenze, Le Monnier, 1855.

 

TASSO 1958

Id., Dialoghi, voll. II 1 e III.2, edizione critica a cura di Ezio Raimondi, Firenze, Sansoni Editore, 1958.

 

TASSO 1998

Id., Dialoghi, voll. 1 e 2, a cura di Giovanni Baffetti, Milano, Rizzoli, 1998.

 

TORELLI 1589 

Pomponio TORELLI, La Merope, a cura di Vincenzo Guercio, Roma, Bulzoni, 1999.

 

TORELLI 1596 

Id., Trattato del Debito del Cavalliero di Pomponio Torelli Conte di Montechiarugolo, Nell’Academia de’ Signori Innominati di Parma, Parma, Stamperia di Erasmo Viotti, 1596, copia digitalizzata in Getty Research Archives.

 

TORELLI 1597 

Id., Il Tancredi. Tragedia di Pomponio Torelli, Conte di Montechiarugolo, Nell’Accademia de’ Sig. INNOMINATI di Parma, il PERDUTO, Parma, Erasmo Viotti, 1597, copia digitalizzata in Getty Research Archives

 

TORELLI 1983

Id., Movimenti dell’animo. Romanzo filosofico, con una Appendice di lettere inedite, a cura di Luigi VIGNALI e Gabriele NORI, Parma, Università  di Parma – Regione Emilia – Romagna, 1983.

 

VALENTE 1921

Angela VALENTE, Torquato Tasso e i Farnesi, in Giornale Storico della Letteratura Italiana, LXXVII, Torino, Loescher Editore, 1921, pp. 226 – 235.

 

 

SITOGRAFIA

 

CERBO 2009

Anna CERBO, Ombre e abissi interiori: modernità tassiana, pubblicato online sul sito dell’Associazione degli Italianisti, Roma, 2009, in italianisti.it: http://www.italianisti.it/upload/userfiles/files/Cerbo%20Anna.pdf

 

BELLORI 1664

Giovanni Pietro BELLORI, L’idea del Pittore, dello scultore e dell’architetto. Scelta dalle bellezze naturali superiore alla Natura. Discorso di Gio. Pietro Bellori, detto nell’Accademia romana di San Luca la terza Domenica di Maggio MDCLXIV, in Corpus informatico belloriano, a cura della Scuola Normale Superiore di Pisa, http://bellori.sns.it/bellori//TOC_42.html

 

BELLORI 1672

Id., Le Vite de’ pittori scultori e architetti moderni, in Corpus informatico belloriano, a cura della Scuola Normale Superiore di Pisa, http://bellori.sns.it/bellori//TOC_14.html

 

DE BERNARDINIS

Flavio DE BERNARDINIS, voce «Flaminio de’ Nobili» in Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 38 (1990), http://www.treccani.it/enciclopedia/flaminio-de-nobili_(Dizionario-Biografico)/

 

MUSEO CAPODIMONTE

Museo di Capodimonte, visitato in giugno 2017, http://cir.campania.beniculturali.it/museodicapodimonte

 

TASSO Cataneo

Torquato TASSO, Il Cataneo overo de le conclusioni amorose, in:

http://www.classicitaliani.it/tasso/prosa/Tasso_Cataneo_Conclusioni_Amorose.htm

 

TASSO Rime

Id., Rime, libro III, dall’11 marzo 1579 al 12 luglio 1586, parte prima 11 marzo 1579-1582, nĀ° 813, in Biblioteca italiana, http://ww2.bibliotecaitaliana.it/xtf/view?docId=bibit000099/bibit000099.xml&chunk.id=d3178e26850&toc.depth=1&toc.id=d3178e26850&brand=bibit

 

TOESCA – ZAPPERI

Ilaria TOESCA, Roberto Zapperi, voce «Giovanni Battista Agucchi» in Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 1 (1960), http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-battista-agucchi_(Dizionario-Biografico)/

 



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