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Forme urbane e dell’abitare.
Note su Leon Battista Alberti
 

Ettore Janulardo
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 27 Aprile 2016, n. 804
http://www.bta.it/txt/a0/08/bta00804.html
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«Occorre poi tener presente che una città non è destinata solo ad uso d’abitazione;

dev’essere bensì tale che in essa siano riservati spazi piacevolissimi

e ambienti sia per le fun­zioni civiche sia per le ore di svago

in piazza, in carrozza, nei giardini, a passeggio, in piscina etc.». [1]

 

«E avremo sempre presente il detto di Socrate: quella soluzione nella quale risulti evidente che nulla si possa mu­tare se non in peggio, è da reputare la migliore. Stabiliremo dunque che una città dev’essere interamente priva di tutti gli svantaggi esaminati nel primo libro; dev’essere inoltre prov­vista di tutti quei requisiti che esigono le necessità della vita civile. Avrà terreni sani, molto vasti, di diversi tipi, ridenti, fertili, ben dife­si, assai produttivi, provvisti di frutti e di sorgenti in abbondanza. Nel territorio dovranno trovarsi fiumi e laghi, ed essere agevole la via verso il mare, attraverso cui procurarsi ciò che manca ed esportare ciò che avanza. Infine per instaurare nel modo migliore e far fiorire le attività civili e militari, occorre che siano a disposizione tutti i mezzi atti ad abbellire la città e a difendere i cittadini, a renderla ben accetta agli amici e temibile ai nemici». [2]

Rivisitazione-superamento del De architectura di Vitruvio, rielaborazione concettuale nell’ambito di un’estetica e di una metodologia conoscitiva del costruire che si propone di riformulare anche linguisticamente partizioni e suddivisioni antiche, i dieci libri del De re ædificatoria di Leon Battista Alberti [3] pongono al centro dell’attenzione questioni di carattere urbanistico e formale, strutturando in modo decisivo – con il contributo di considerazioni presenti in altre opere dell’architetto-umanista – tematiche come quelle della collocazione del sito cittadino, della sua tipologia, del rapporto con il territorio circostante: all’interno e all’esterno del perimetro abitato, si riflette sulla forma urbis.

Che l’urbanitas coincida con la civilitas emerge persino da vicende apparentemente secondarie come l’episodio della sorella di Tersite nel satirico Momus, ove la bellezza è esibita nei crocicchi cittadini mentre la bruttezza trova rifugio, o cerca rimedi, nell’indefinitezza dell’area rurale. [4] All’insegna della medietas e della ripresa di modelli che da Esiodo giungono al suo tempo appare nell’opuscolo Villa la mitizzazione albertiana della vita rustica, presente anche in altri suoi scritti: ma comunque essenziale si configura il ruolo della città, pure in ambito economico. Poiché si suggeriscono investimenti per metà in campagna e per metà nel centro abitato, l’una è da intendersi come luogo della produzione, l’altro come spazio della distribuzione ed entrambi come sedi di un parco consumo: e interconnettono quella che si potrebbe definire, alla Le Corbusier, un’ “unità di abitazione” familiare con l’intimità e gli equilibri della parentela, sentiti da Alberti tanto importanti e fragili da fargli costruire un intero trattato su di essi.

Se nei Libri della famiglia, [5] con un andamento che sembra anticipare l’afflato machiavelliano del Principe, il Prologo di Leon Battista si dispiega in una proposizione positiva del rapporto tra fortuna e virtù – con esempi tratti dalla storia antica orientati a definire le fattive potenzialità dell’umano calato nella storia, sino all’apice rappresentato dalla romanità –, in misura analoga, nel Prologo del De re ædificatoria, si coglie la valenza antropomorfa della costruzione architettonica: «Anzitutto abbiamo rilevato che  l’edificio è un corpo, e, come tutti gli altri corpi, consiste di disegno e materia: il primo elemento è in questo caso opera dell’ingegno, l’altro è prodotto dalla natura […]». [6]

Comparando i Libri della famiglia con l’elaborazione architettonico-urbanistica di Palazzo Rucellai a Firenze (fig. 1) – ridisegnata dimora di famiglia del committente, arricchita dalla Loggia aperta sulla città –, il trattato appare definire il luogo della gloria, lo spazio della corretta nomea come civica estensione modulare dell’abitazione. Il costruttore-umanista si diletta di celebrare una triplice immagine della città toscana. S’intersecano e s’inverano di luce reciproca la Firenze dei primi decenni del Quattrocento: cantiere della coeva “modernità” architettonica umanistico-rinascimentale, ove Brunelleschi  lavora alla Cupola di Santa Maria del Fiore dal 1420; la Firenze del passato: quella della celebrata morigeratezza e dell’evocazione rassicurante-celebrativa della «nostra famiglia Alberta»; e infine la città dell’avvenire, quella nella quale Leon Battista si accinge a introdurre segni e tracce del suo raffinato umanesimo: edicole ed emblemi, ordini e lesene, trabeazioni e partiture (fig. 2).

Nucleo generatore di una teoretica che attinge all’etica del fare di Brunelleschi, la visione albertiana trae alimento anche dalla tradizione dei libri di mercanti fiorentini, riattualizzati attraverso rimembranze personali e capacità di legare “geneticamente” storie di famiglia e geometrico-simboliche costruzioni dello spazio nella città: come la trama della facciata di Palazzo Rucellai riveste, trasforma e connota i pregressi costrutti architettonici facendo di essi unità di segni nel tutto urbano (fig. 3). Il messaggio di Leon Battista corona la stagione dell’umanesimo civile fornendo elementi essenziali – nel privato della famiglia e nel pubblico della costruzione urbana – all’esaltazione dell’operosità umana rivendicata da Giannozzo Manetti nel De dignitate et excellentia hominis: «Nostre infatti, e cioè umane perché fatte dagli uomini, sono tutte le cose che si vedono, tutte le case, i villaggi, le città, infine tutte le costruzioni della terra, che sono tante e tali, che per la loro grande eccellenza dovrebbero a buon diritto essere ritenute opere piuttosto di angeli che di uomini. Sono nostre le pitture, nostre le sculture, le arti, le scienze; nostra la sapienza […] Nostre sono infine […] tutte le invenzioni, nostra opera tutti i generi delle varie lingue e delle varie lettere […]». [7]

L’apporto albertiano sembra dunque stagliarsi nell’orizzonte sapiente e fiducioso, raccontato e architettato, ove la stagione civile fiorentina si coniuga con la definizione dello spazio come divenire urbano (fig. 4).

Luogo deputato della riflessione albertiana sull’arte del costruire, il Proemio del De re ædificatoria indica i nuclei tematici costituenti la struttura del trattato. Oltre le qualità e le conoscenze richieste alla figura professionale del doctus artifex«Architetto chiamerò colui che con metodo sicuro e perfetto sappia progettare razionalmente e realizzare praticamente […] opere che nel modo migliore si adattino ai più importanti bisogni dell’uomo» [8] – la caratterizzazione epistemologica albertiana va nel senso della sottolineatura del ruolo civile e fondativo dell’abitare insieme. Se è tradizionalmente indicata la disponibilità di acqua e di fuoco come «cagione» del convivere, partendo dalla valenza protettiva dell’abitazione – «ma noi, con­siderando quanto un tetto e delle pareti siano convenienti, anzi in­dispensabili, ci convinceremo che queste ultime cause ebbero in­dubbiamente maggiore efficacia a riunire e mantenere insieme degli esseri umani» [9] –, l’Alberti intende evidenziarne anche la fondamentale funzione commemorativa, come sede di memorie condivise, riconnettendosi alle articolazioni pubblico-privato, alla funzionalità socio-economica e alla simbologia etico-protettiva del nucleo familiare prima illustrata: «All’architetto tuttavia dobbiamo riconoscenza non sol­tanto perché ci fornisce un accogliente e gradito riparo […], ma anzitutto per i suoi innumerevoli ritrovati che riescono di indubbia utilità, sia privata che pubblica […]». [10] E in uno dei passi albertiani nei quali la struttura protettiva dell’abitazione si abbina alla percezione – anche affettiva – dello spazio urbano, si osserva: «Quante casate nobilissime, decadute per l’ingiuria del tempo, sa­rebbero scomparse dalla nostra città e da tante altre in tutto il mondo, se il focolare domestico non ne avesse mantenuti riuniti i superstiti, quasi accolti in grembo agli antenati!». [11] È in questo continuum tra vita privata e abitazione incastonata nello spazio pubblico che si situa la stagione fiorentina di Alberti, teorico e visionario di un mondo d’idealizzato equilibrio già lontano nel tempo, destinato poi ad essere riassorbito in una concezione monumentale della costruzione, ove l’oggetto – nelle sue geometrie comunicanti – è forma ideale che esprime visione dello spazio e rivisitazione della storia.

Se, come osserva Portoghesi, molte «delle virtualità della rivoluzione culturale iniziata dal Brunelleschi erano rimaste senza ascolto» e appare alla metà del Quattrocento smarrito «quel lievito universalistico che aveva dato alle opere brunelleschiane il valore di fondamenti per un nuovo metodo», [12] il senso ultimo del contributo albertiano all’arte del costruire e alla percezione del mondo come “volontà e rappresentazione” risiederebbe nella delineazione di una forma urbis come nuova potenziale forma orbis.

Distante dalla personale epistemologia della famiglia tracciata nei Libri del trattato – ma è presente il riferimento ad «amici eruditi» – e sorta di ridotto scheletro matematico della plurima monumentalità del De re ædificatoria, sul tessuto intellettuale del confronto con l’immagine della città l’albertiana Descriptio Urbis Romae è momento fondante: riappropriazione fisica e mentale, ricostruzione matematica che s’intreccia alla memoria storica, visita che si fa visitazione, topografia come rifondazione dello spirito, «in teoria una pianta della città di Roma, ma in pratica una lista di coordinate polari che permettono al lettore di ridisegnare l’immagine della pianta di Roma nella scala desiderata a partire dalle coordinate di 175 punti salienti». [13] L’incipit albertiano ritraccia il contesto ed esplicita il progetto: «Ho rilevato quanto più diligentemente possibile, con l’ausilio di mezzi matematici, il contorno delle mura della città di Roma, il percorso del fiume e delle strade, il luogo e la collocazione dei templi, delle opere pubbliche, delle porte e dei monumenti commemorativi e le delimitazioni dei colli ed anche l’area che è occupata dalle abitazioni, così come li conosciamo in questo nostro tempo. Ho inoltre escogitato un metodo per cui chiunque […] possa con precisione e con facilità disegnarli su una superficie grande quanto si voglia. Mi hanno spinto a fare ciò amici eruditi, i cui desideri ho ritenuto ragionevole assecondare». [14]

Continuatore della tradizione vitruviana, con il De Architectura pervenutoci privo di illustrazioni, della Geografia di Strabone – i cui diciassette libri delineano una cosmografia dell’antichità senza rappresentare alcun disegno –, l’Alberti, abbreviatore apostolico dal 1432, riconosce negli spazi e nei resti della classicità l’antitesi di un Trecento che a Roma è stato a-pontificio, senza configurarsi come costruzione di un’identità urbana altra. La Descriptio riprende la metodica della Geografia di Tolomeo – fornire ad ogni studioso i mezzi matematici per costruire una mappa –, passando dalla dimensione globale (oltre 8.000 punti sono individuati dalle coordinate tolemaiche) al perimetro urbano. Evidenziata dall’Alberti, l’identità dell’Urbe comincia a ritrovare dignità spaziale, sebbene in forma semplificata e parziale. [15]

Il «contorno delle mura della città di Roma» riporta il discorso alla forma urbis come rapporto tra centralità ed espansione, tra abitato e circostante contado, richiamando la concezione aristotelica secondo la quale città ben configurata è quella sinotticamente percepibile nella sua interezza, che comprende l’insieme del territorio; [16] ove le mura non svolgono mera funzione utilitaria ma possono essere «d’ornamento alla città». [17] Così circoscritta, la città per Aristotele ha tre punti di riferimento sociali e spaziali: l’area templare, quella degli edifici pubblici, la piazza del mercato. E sulle diverse tipologie di edifici osserva Alberti: «alcuni sono Sacri, alcuni Secolari, alcuni Pubblici, alcuni Privati, alcuni fatti per necessità, alcuni per piacere […]». [18] La lettura albertiana, avvicinabile a una percezione “funzional-zonizzata” della città, verte visioni aristoteliche degli spazi urbani in una prospettiva umanistico-modulare dell’edificare – la «suddivisione» – che si articola dimensionandosi su vari livelli: «La suddivisione infatti è rivolta a commisurare l’intero edificio nelle sue parti. […] E se è vero il detto dei filosofi, che la città è come una grande casa, e la casa a sua volta una piccola città, non si avrà torto sostenendo che le membra di una casa sono esse stesse piccole abitazioni […]». [19] Bisogna curare con attenzione le singole componenti edilizie – «Occorre perciò studiare con la massima cura e diligenza questi ele­menti, che hanno importanza per l’opera intera; e adoprarsi perché anche le parti più piccole risultino eseguite a regola d’arte […]» [20] –, ricordando che, per converso, la variazione dimensionale opera anche su vasta scala, con i necessari adattamenti.

Se Aristotele individua punti di riferimento focali e sociali nella città, la percezione albertiana dell’organizzazione urbana, con la citazione di Platone, riconnette il settore del mercato all’area ove far alloggiare i forestieri, nel timore di una loro perniciosa influenza sull’ordinato e tradizionale vivere della cittadinanza: «Ad una ben costumata ed ordinata città, dice Platone, bisogna provvedere per via di legge, che non vi s’introducano le delicatezze de’ forestieri […] Presso de’ Greci […] era usanza di non ricevere dentro nella città que’ popoli che non erano in lega insieme […], ma nè anche scacciarli, e però gli alloggiavano lungo le mura, non lungi dal mercato delle cose da vendersi». [21] Applicazione della variatio dalla retorica all’arte di definire forme e mura urbane, il testo di Alberti prescrive e riferisce: «variare il circuito di essa Città, e il modo del distribuire le parti, secondo la varietà de luoghi […]». [22]

Una provvisoria conclusione di queste osservazioni non può che mettere in evidenza l’articolata capacità di sintesi albertiana, che contempera in poche righe disegno, pittura, modelli – «io certo lodo sempre grandemente, lo antico costume degli edificatori, che non solamente con disegno di linee, e con dipintura, ma con modelli ancora […]» [23] – si consacrano alla forma urbis. Concettualmente teso a riportare nel tempo presente modalità operative e artigianali del passato e, in ottica panoramico-prospettica, a considerare valenza e articolazione del sito nel territorio – «Nel fare i modelli ti si porgerà occasione di vedere, e ben considerare la ragione, e la forma, che debba avere il sito nella regione […]» [24] – il costruttore-umanista tali modalità riporta, storicizzate, in prospettiva, delineando una traccia che si dispiega verso l’avvenire. La riflessione albertiana fa del suo tempo una forma aperta, uno sporgersi nella storia, da contrassegnare e ridisegnare. 




NOTE


[1] L. B. Alberti, De re ædificatoria, L’architettura, traduzione a cura di Giovanni Orlandi, Milano 1966, p. 290.

[2] L. B. Alberti, De re ædificatoria, op.cit., pp. 276-278.

[3] Trattato redatto tra il 1443 il 1445 oppure, secondo altre fonti, tra il 1447 e il 1452.

[4] L. B. Alberti, Momus, Momo o del Principe, traduzione a cura di R. Consolo, Genova 1986, p. 81 versione elettronica http://www.e-text.it.

[5] Redatti a Roma, ove Leon Battista è abbreviatore apostolico dal 1432, i primi tre libri del trattato risalgono agli anni tra il 1433 e il 1434, mentre il quarto è composto a Firenze intorno al 1440. Per queste e altre considerazioni sui Libri della famiglia, si riprende in parte quanto presentato in E. Janulardo, L’architettura della famiglia nei “Libri” dell’Alberti, in Atti del Convegno Internazionale “Vita pubblica e vita privata nel Rinascimento”, Firenze 2010.

[6] L. B. Alberti, De re ædificatoria, op. cit., Prologo, p. 14.

[7] G. Manetti, De dignitate et excellentia hominis, II 37-47 III 20-21, cit. da E. Garin, Filosofi italiani del Quattrocento, Firenze 1942, p. 239.

[8] L. B. Alberti, De re ædificatoria, op. cit., Prologo, p. 1.

[9] Idem, p. 8.

[10] Idem, p. 8.

[11] Idem, p. 8.

[12] P. Portoghesi, Introduzione a L. B. Alberti, De re ædificatoria, op. cit., p. XIV.

[13] M. Carpo – F. Furlan, Riproducibilità e trasmissione dell’immagine tecnico-scientifica nell’opera dell’Alberti e nelle sue fonti, Introduzione a L. B. Alberti, Descriptio Urbis Romae, Firenze 2005.

[14] L. B. Alberti, Descriptio Urbis Romae, Firenze 2005. Per le considerazioni sulla Descriptio Urbis Romae, si riprende in parte quanto presentato in E. Janulardo, Costruzioni e visioni: Roma e il mecenatismo spirituale alla metà del '400, in Bollettino Telematico dell'Arte, 29 Luglio 2011, n. 616, http://www.bta.it/txt/a0/06/bta00616.html.

[15] Cfr. M. Carpo – F. Furlan, op. cit. Osserva Carpo: “L’Alberti può già creare, ma non può ancora comunicare immagini moderne”.

[16] Cfr. Aristotele, Politica, Libro VII, 4, 5, Roma-Bari 1973, p. 85 versione elettronica http://www.centrogramsci.it/classici/pdf/politica_aristotele.pdf.

[17] Cfr. Aristotele, Politica, Libro VII, 11, p. 90.

[18] L. B. Alberti, De re ædificatoria, L’Architettura, trad. da Cosimo Bartoli, p. 166 versione elettronica https://books.google.it.

[19] L. B. Alberti, De re ædificatoria, op. cit., p. 64.

[20] Ibid., p. 64.

[21] L. B. Alberti, De re ædificatoria, L’Architettura, op. cit., p. 201.

[22] Ibid., p. 105.

[23] Ibid., p. 36.

[24] Ibid., p. 36.






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Fig. 1
L. B. Alberti, Facciata di Palazzo Rucellai, ca. 1446-1465, Firenze

Fig. 2
L. B. Alberti, Tempietto del Santo Sepolcro, ex-Chiesa di S. Pancrazio, ca. 1457-1467, Firenze

Fig. 3
L. B. Alberti, Facciata di Palazzo Rucellai, ca. 1446-1465, Firenze

Fig. 4
L. B. Alberti, Facciata di Santa Maria Novella, ca. 1458-1478, Firenze




Foto cortesia Ettore Janulardo

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