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Palma Bucarelli e gli apporti critici di Lionello Venturi e Giulio Carlo Argan alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma  

Emanuele Carlenzi
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 19 Aprile 2015, n. 768
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Individuare una linea di ricerca attraverso la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, consente di affrontare le nuove problematiche critiche che nel secondo dopoguerra costituiscono punti di dibattito accesi attorno all’arte contemporanea, non solo per il territorio italiano ma anche per quello internazionale.

Palma Bucarelli è certamente tra i protagonisti più attivi di una stagione italiana, e romana, fatta di grandi difficoltà politiche e di pregiudizi nei confronti del contemporaneo, in un Paese che deve ancora rialzarsi da una dittatura che ha lasciato tracce compromettenti tra le menti degli intellettuali, un Paese che si sarebbe consegnato ad un futuro comunque difficile e sempre restio a legittimare la valenza dell’arte contemporanea.

La Galleria nazionale d’arte moderna1 diviene a partire dalla metà degli anni Quaranta luogo di sperimentazione artistica, di scambio interculturale, di applicazione di nuove tecniche museografiche finalizzate a depurare lo spazio espositivo dai residui di teorie ottocentesche e kantiane di percezione, per modellarlo sull’esempio di realtà estere più all’avanguardia. La Galleria diventa con rapidità l’oggettivazione dei nuovi quesiti critici che vogliono sfondare la concezione tradizionale dell’arte e che ha abituato da troppo tempo l’opinione pubblica a non apprezzare la produzione artistica della società coeva.

Per acquisire credibilità però e fare in modo che si possano definire dei confini entro i quali poter valorizzare l’attività degli artisti italiani in linea con i movimenti d’avanguardia del Novecento, c’è la necessità primaria per la Galleria e per Bucarelli (fig. 1) di un appoggio critico. Lionello Venturi2 è per lei e per la sua attività un’emblematica ispirazione intellettuale a questo proposito e permette di comprendere il metodo attraverso cui si sviluppano i progetti della GNAM, dalla sua riapertura ufficiale, avvenuta tra il 1944 ed il 1945, in poi.


Fig. 1

Fig. 1 - Palma Bucarelli nel suo studio


Il primo incontro tra i due avviene con probabilità tra il 1930 ed il ’31 presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Università “La Sapienza” di Roma, dove la Bucarelli si laurea con Pietro Toesca, illustre medievista, e Lionello Venturi (fig. 2) segue le orme di suo padre, Adolfo, del quale avrebbe acquisito la cattedra dal 1945 al 1955. Quest’ultimo costituisce uno dei primi punti di contatto nel pensiero dei due: Adolfo Venturi, infatti, in netto anticipo con i tempi, spinge a sensibilizzare l’opinione degli intellettuali sulla necessità di creare una storia dell’arte nazionale scevra da municipalismi e a concepire finalmente il patrimonio culturale in modo più complesso. Il che significa evitare di pensare alla storia dell’arte come la sola storia dei capolavori e dei geni artistici ma come espressione dell’uomo. Questo ha come conseguenza fondamentale la valutazione di forme artistiche anche minori, che vengono concepite in nome di uno specifico valore storico d’appartenenza.


Fig. 2

Fig. 2 - Palma Bucarelli e Lionello venturi durante la conferenza del 1957 Introduzione all'Astrattismo


L’acutezza critica di Lionello Venturi risiede principalmente nel fatto di aver capito l’importanza che la filosofia di Benedetto Croce ricopre nella cultura del Novecento, a partire dalla pubblicazione dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale nel 1902. Non è di sicuro un caso che la stessa Palma Bucarelli abbia frequentato il salotto del filosofo quando viene trasferita alla soprintendenza campana per meno di un anno, nel 1936. Con questo non si vuol certo asserire che il legame tra Venturi e Bucarelli è indotto dal Croce ma risulta piuttosto evidente come quella generazione di critici e storici dell’arte ne sia profondamente influenzata.

Il concetto su cui Venturi si concentra per avviare la sua speculazione attorno alla figura di Croce è quello dell’intuizione3, intesa come mezzo di conoscenza della realtà fenomenica e dell’opera d’arte, concepita non più in termini strettamente stilistici e formali, come nel caso del filosofo, ma come attività profondamente spirituale, ossia guardando all’espressione artistica come la materializzazione di concetti manifestati attraverso una forma suggerita dal contesto storico e sociale nel quale, e per il quale, l’opera è stata prodotta4. Non che Croce non avesse tenuto in considerazione la storia come mezzo d’analisi di un’opera d’arte ma c’è la necessità in Venturi di sfruttarla in senso più evoluzionistico ed hegeliano, di applicarla cioè in maniera precisa e circoscritta all’opera d’arte come aveva fatto il filosofo e al contempo di porre in relazione quest’ultima con altri termini spaziali e temporali. Questo consente di conseguenza al critico di incrociare mondo classico, Medioevo, Rinascimento ed arte contemporanea, di porli in relazione quindi e comprenderli in modo nient’affatto isolato ma compenetrato.

Quello che manca al pensiero crociano e che ritroviamo in Venturi è cioè da un parte la presa in considerazione del metodo puro visibilista5 di Fiedler, Riegl e soprattutto Wölfflin, tanto criticati dal Croce perché sostenitori del dominio della conoscenza ottica del reale, da cui ne deriverebbe l’elaborazione di schemi formali da parte dell’artista che si rivelano del tutto indipendenti dal mondo fenomenico, frutto cioè di una elaborazione propriamente individuale; e dall’altra l’applicazione di questi schemi formali al concetto storico di gusto, cui Venturi dedica un’importante pubblicazione intitolata Il gusto dei primitivi.

Il gusto è cioè inteso con Venturi come il metodo di espressione stilistica selezionato coscientemente dall’artista che, seppur padrone di un atto creativo che appartiene a lui, e a lui soltanto, risponde imprescindibilmente all’ambito culturale di cui quel determinato artista fa parte in quel determinato momento e che gli suggerisce l’adozione di precisi schemi formali. Porre in relazione l’opera con il gusto, quindi, significa in definita storicizzarla, farne la testimonianza oltre che dell’autore e della sua volontà artistica anche di una società, di un tempo, di una civiltà. Ciò consente a Venturi di compiere quel passo che manca all’Estetica crociana: il passaggio dalla Kunstgeschichte alla Kulturgeschichte, ossia dalla storia dell’arte alla storia della cultura.

Non stupisce, visti i presupposti, che Lionello Venturi divenga un pionere del contemporaneo ed appoggi appieno l’attività di Palma Bucarelli. Esattamente come lei, anche Venturi non dà giuramento al Fascismo e questo lo costringe a fuggire dall’Italia dal ’31 al ‘44 e a recarsi prima in Francia, dove ha l’occasione di diventare un fine critico impressionista e poi negli Stati Uniti, dove viene a contatto con realtà museali di cui fa tesoro e che sono indispensabili per rendere la Galleria un apparato pulsante d’arte contemporanea, quando nel ’45 fa ritorno a Roma per rimanere al fianco di colei che è, in quegli anni, la prima direttrice donna d’Italia e condurre con Bucarelli la battaglia del contemporaneo.

L’avversione di Venturi per il figurativo del rappel a l’ordre, della pittura storica ed allegorica, considerate pura irrazionalità perché non coerentemente allineate con lo sviluppo contemporaneo dell’arte e della sua società, trova negli Stati Uniti un pubblico pronto ad annuire, a condividere un punto di vista che in quell’esatto momento sta trovando un supporto artistico di incredibile risonanza, qual è quello dato dall’Espressionismo Astratto.

Gli Stati Uniti hanno già conosciuto in tempi più recenti l’arte delle avanguardie europee, basti pensare all’Armory Show del 1913 e alla memorabile attività di Alfred H. Barr Jr. presso il Museum of Modern Art di New York6. Ma non si dimentichi che la cultura americana è una cultura pragmatica, ben poco abituata a trattare con le scottanti idee europee e volta ad approcciare all’arte in senso fondamentalmente anti teoretico. Dunque l’impatto con una cultura squisitamente italiana produce di conseguenza una coscienza critica dell’arte non ancora presa del tutto in considerazione.

Quello che l’America ha da apprendere è senza dubbio moltissimo dagli intellettuali europei rifugiati sul continente ma ciò che ha da insegnare è altrettanto importante. Il filosofo e pedagogista statunitense Jhon Dewey, per esempio, le cui teorie interessano in maniera ravvicinata Venturi, mette in luce in termini più pratici lo scopo dell’arte e quello che Dewey individua è uno scopo di genere profondamente sociale ed educativo7. L’opera cioè diventa un mezzo istruttivo attraverso cui lo spettatore può comprendere in maniera diretta lo sviluppo della sua società e del suo tempo ed attivare di conseguenza una percezione che gli ricordi che l’atto creativo dell’artista e la vita quotidiana coincidono in un tutt’uno. Dewey vuole cioè evitare quella mitizzazione romantica dell’artista visto come genio creativo avulso dalla storia e dal tempo, quasi come uno spettatore esterno al ciclo naturale dell’umanità, e riportarlo ad una dimensione saldamente terrena quanto vitale e difenderne al contempo l’immaginazione creativa.

La vicinanza di queste teorie con quelle crociane di Venturi, rivela quanto l’asse portante del dibattito critico sull’arte a partire dagli anni ’30 del Novecento sia la valutazione storico-sociale dell’opera d’arte, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti. Non è un caso che i musei americani incentivino alla collaborazione con le scuole, con lo scopo di creare un trait d’union diretto tra la formazione degli studenti e la comprensione ravvicinata delle espressioni artistiche, da quelle maggiori a quelle minori. In questo senso l’America obbliga lo spettatore ad elevarsi ai nuovi linguaggi dell’arte e a percepirli criticamente, adoperando una linea di insegnamento diametralmente opposta rispetto a quella italiana che, facente capo a critici di stampo tradizionale come Ugo Ojetti8, per esempio, tende invece a mortificare le espressioni artistiche contemporanee, inneggiando anacronisticamente alle tradizioni dell’antichità e a formare i suoi giovani con una preparazione “troppo libresca”9 e poco concreta.

Non si deve dimenticare tuttavia che l’Europa è soggetta a totalitarismi che non possono lasciare spazio alla libertà creativa degli individui, benché la situazione italiana sia meno drammatica in questo senso rispetto a quella tedesca: basti pensare che il ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai è uno dei primi a tutelare il contemporaneo. Mussolini infatti, pur intento a costruire un’arte di regime e ad avere dell’espressione artistica un’idea eminentemente strumentale, è anche consapevole che la repressione può accelerare un processo di scollamento politico e condurre gli artisti ad investire le loro opere di un significato forzatamente antifascista. Favorisce dunque una via di mediazione tra un’arte che gli obbedisse ed una che invece non può controllare e che preferisce ignorare piuttosto che combattere apertamente.

Quando Venturi fa ritorno a Roma nel ‘45 molte cose sono cambiate e già molte lotte sono state combattute. Palma Bucarelli è in prima linea durante il periodo della seconda guerra mondiale in queste lotte e prima che la Galleria si potesse identificare con la sua persona, ci sono lavori pesanti da svolgere. Dopo l’esperienza alla Galleria Borghese, la permanenza napoletana, l’arrivo di Hitler a Roma nel ’38, un anno dopo diventa ispettore presso la Galleria nazionale d’arte moderna, guidata prima da Roberto Papini, con il quale non mancano scontri dovuti a due visione opposte dell’arte: Papini concentrato a conservare una collezione ottocentesca che sottolinea di fondo un carattere piccolo borghese e provinciale dei suoi spettatori e della concezione che si ha di guidare un museo, la Bucarelli concentrata a spingere la Galleria verso un futuro più vasto e competitivo con realtà museali estere di gran lunga più avanzate.

Intanto la guerra è scoppiata e l’Italia si prepara ad un avvenire disastroso, come tutto il mondo, d’altronde. Nel ’40 la sostituzione di Papini, allontanatosi da Roma, conduce Bucarelli verso la direzione della GNAM, che inizia a dirigere a pieno regime dal ’41. Il ritmo bellico si è fatto via via più incalzante ed i rischi sono aumentati esponenzialmente per il patrimonio culturale e per la collezione della Galleria. Palazzo Farnese di Caprarola prima e Castel Sant’Angelo poi, diventano i rifugi selezionati dalla soprintendente per mettere al sicuro le opere dai bombardamenti e che riesce a trasportare non senza esporsi a seri pericoli. Nel giro di due anni le sale della Galleria vengono completamente svuotate e nel ’42 il furtivo riallestimento di ben cinque sale della stessa sui recenti acquisti dello Stato, individuano la Bucarelli in tutte le sue qualità di funzionario e storico dell’arte militante. Afro, Birolli, De Pisis, Guttuso, Mafai, Mazzacurati, Scialoja, Soldati, Vedova, diventano scelte estremamente coraggiose per impegnare le uniche sale fruibili dello spazio museale, scelte che ritagliano nell’immediato le linee guida che la Galleria avrebbe assunto, scelte che espongono la direttrice ad accuse violente sin da subito. Questa riapertura è la dimostrazione più concreta della resistenza romana ed italiana al regime, la volontà più viva di opporre al rumore dei cannoni quello della cultura, benché si tratta di una cultura che deve lottare a lungo per essere legittimata.

Domenica, 10 dicembre 194410: Palma Bucarelli accoglie le autorità, la Galleria riapre ufficialmente ed è la prima a farlo nel Paese quando ancora la guerra non è definitivamente terminata. Gli alleati sono ancora in casa e c’è la necessità di dimostrare che a Roma ed in Italia “l’arte non si è fermata con il Caravaggio”11. Esposizione d’arte contemporanea 1944-45, questo il titolo della mostra che rilancia la Galleria, risponde esattamente a questa esigenza: è arrivato il momento di far conoscere l’arte contemporanea italiana al mondo, benché la rassegna non sia completa (come potrebbe esserlo d’altronde, la guerra è appena terminata e i mezzi a disposizione sono scarsi, soprattutto se si considera il fatto che molte opere italiane sono rimaste a New York in occasione di una mostra organizzata al MoMA nel ‘39 e lì ancora in congedo a causa della guerra).

È davvero questo il primo evento ad ufficializzare la rinascita di una Roma sfiduciata, di un’Italia assai spesso più intenta a ripiegare su certezze lasciate in eredità dal passato piuttosto che decisa a porsi in contatto con il presente.

La selezione della Bucarelli è certo interessante per quest’esposizione, sia nelle esclusioni che nelle inclusioni. La mostra affonda le radici nell’Ottocento, da Boldini, a Mancini, a Medardo Rosso, per arrivare sino ai più giovani contemporanei come Carrà, Casorati, Manzù, Martini, Morandi, oltre alle altre personalità precedentemente citate, nell’intento di riannodare un legame con l’Impressionismo da un lato e l’Espressionismo in una declinazione materica dall’altro, a conferma della sua profonda repulsione (condivisa con Venturi) di tutte le forme surréalisant dell’arte (De Chirico infatti compare solo sporadicamente). Intento che punta a disegnare dei confini entro cui sono racchiusi tutti coloro che hanno adottato il figurativo come un mezzo e non come un fine dell’opera d’arte, coloro cioè che, pur non smentendo il soggetto rappresentato, lo hanno sottoposto a ricerche formali coerenti con i movimenti d’avanguardia e si sono aperti a sperimentazioni che hanno rigettato il carattere imitativo dell’arte. Dalle undici sale a disposizione del pubblico è espunta infatti la Metafisica ma anche il Futurismo, movimenti che hanno una posizione nient’affatto secondaria nel panorama italiano e soprattutto internazionale del contemporaneo, oltre che l’Astrattismo. Perché?

Il perché della Metafisica è stato già svelato: il ritorno all’ordine è visto da Bucarelli come un’inversione di marcia, come ciò che in arte non deve esser fatto se non si vuole cadere in una pittura aneddotica. Ma anche il perché dell’esclusione del Futurismo non è così difficile da capire se si pensa che il movimento suddetto si lega prepotentemente all’attivismo fascista e all’intervento dell’uomo in guerra. Il perché dell’Astrattismo invece è piuttosto una conseguenza automatica alla volontà di selezionare delle opere mirate a ricostruire una reputazione italiana ormai troppo confusa e dar voce ad una moltitudine di espressioni artistiche che hanno lavorato dietro intenti comuni ma che ancora non avevano trovato un portavoce in grado di uniformarle. La prima fase di quella che sarà una lunga linea culturale della Galleria è infatti incentrata a fare ordine sulla situazione artistica italiana, partendo da un Ottocento piuttosto “mondano” ed impressionista, per approdare al riscatto della forma come veicolo narrativo e diventare elaborazione intellettuale, condotta attraverso la rivalutazione delle componenti base di un quadro. Dalle inconsistenti spazialità di De Pisis, alla materia di Marini, dalle “demolizioni” di Mafai alle incisioni di Morandi, Bucarelli presenta al pubblico un nuovo spazio museale, artisticamente aggiornato e storicamente inquadrato.

Palma Bucarelli si guadagna così a buon merito l’attenzione di Venturi, il quale si affianca subito alle iniziative della Galleria. Reduce dal modello americano, infatti, lo spazio museale diventa ben presto per lui il luogo nel quale concretizzare gli insegnamenti impartiti in ambito accademico e l’attività didattica della GNAM è il primo progetto della loro collaborazione che lo dimostra. Per attività didattica si intende il susseguirsi di alcune mostre che enucleano un tema centrale, come Pittura francese d’oggi12 del ‘46, ad esempio, che ha lo scopo di assemblare una serie di opere che a causa della guerra non si ha più avuto la possibilità di vedere. E visto il fatto che la loro trasportabilità è ancora un pensiero troppo audace per un’Europa appena uscita dalla guerra, si punta sulle riproduzioni degli originali e si creano iniziative collaterali attorno, come conferenze e proiezioni per guidare lo spettatore e fargli comprendere quale fosse lo sviluppo dell’arte del suo tempo. La mostra appena citata per esempio crea un excursus della pittura francese d’avanguardia da Matisse al Surrealismo. A questo si aggiunge un riassetto delle esposizioni della collezione, che nel frattempo è stata reinserita nelle sale della Galleria sul modello americano: distanze specifiche tra un pezzo e l’altro, collocazione dell’opera all’altezza dello spettatore, colori tenui delle pareti, targhe e pannelli esplicativi, sale organizzate per movimenti. Nonostante questo possa sembrare scontato per noi, a quel tempo non lo è affatto e il lavoro improntato dalla direttrice con l’ausilio del critico è quanto di più innovativo ci sia sul territorio nazionale in quel momento.

La seconda metà degli anni Quaranta procede così, in una direzione di riassetto e svecchiamento ideologico del Paese. Lionello Venturi si impegna dal canto suo a difendere l’arte contemporanea dalla cattedra e all’interno della GNAM, indicendo conferenze che puntano a riscoprire le origini del contemporaneo e ad analizzare i principali movimenti che hanno condotto all’astrazione della forma, oltre che ad appoggiare acquisti internazionali per completare le lacune che possiede la permanente.

Il lavoro di Venturi culmina nel ’48 con un’importante pubblicazione intitolata Pittura contemporanea, nella quale prepara il territorio al lavoro critico ed artistico che dagli anni Cinquanta sarebbe stato condotto in Galleria da un’altra prestigiosa collaborazione, quella che vede la Bucarelli affiancata questa volta a Giulio Carlo Argan (fig. 3), che la accompagnerà nella difesa dell’Astrattismo prima e dell’Informale poi, lungo quasi un ventennio di professione. L’intuizione di Venturi è infatti geniale e di sicuro influenza Argan, suo ex allievo, nonché compagno di corso all’università di Palma Bucarelli, nelle poderose riflessioni legate all’architettura.


Fig. 3

Fig. 3 - Palma Bucarelli e Giulio Carlo Argan all'interno della GNAM nei primi anni Sessanta


Alla data di pubblicazione del libro di Venturi l’arte ha già compiuto il suo corso e l’esito del Modernismo prima e del Postmodernismo dopo, è stato ed è quello dell’astrazione. Venturi vuole quindi dimostrare che il pregiudizio nei confronti dell’arte contemporanea, specie pittorica, fa riferimento all’impossibilità da parte dello spettatore di comprendere che cosa si rappresenti e della volontà ostentata di cercare una corrispondenza con il reale che, laddove viene a mancare, declassa immediatamente la credibilità dell’opera. Per tale ragione egli fa dell’architettura il mezzo attraverso cui legittimare l’arte contemporanea, perché l’architettura è stata da sempre considerata come arte, nonostante non facesse ricorso a delle forme mimetiche, perché in fondo era l’espressione della razionalità dell’uomo e poi perché aveva uno scopo fondamentalmente sociale. Ma la cosa su cui ancora non si era riflettuto è che, esattamente al pari della pittura, rifiutava il mimetismo. Non solo: il rifiuto della rappresentazione del reale non invalidava, dice Venturi, l’autorialità di un’opera architettonica, perché la carica formale di ognuna risiedeva nello stile proprio di ogni artista.

Questo confronto tra pittura ed architettura astutamente enuclea tre punti: il primo che tutte le arti hanno il diritto di essere considerate libere in nome dell’espressione dell’artista; il secondo che il rifiuto del carattere mimetico non può essere l’unico parametro di valutazione per giudicare un’opera pittorica; il terzo che lo stile di un’opera d’arte si rende inconfondibile al di là dei mezzi formali che l’artista seleziona per esprimersi. Questo dibattito condurrà poi Lionello Venturi a farsi promotore dell’astratto-concreto italiano e del Gruppo degli Otto13 e a considerare l’astrazione tanto concreta e tanto socialmente utile quanto l’architettura, come si vedrà in seguito.

Gli anni Cinquanta vedono una svolta nella Galleria, è tempo di cambiamento radicale e la Bucarelli consegna gli spazi espositivi nelle mani dell’astrazione, un cambiamento che viene simbolicamente segnato dalla donazione di Peggy Guggenheim di Watery Paths, un’opera di Jackson Pollock alla GNAM. Credere che l’Astrattismo sia solo un capriccio di artisti che non sanno più trovare una strada per esprimersi sarebbe un grosso errore di valutazione.

L’astrazione affonda le radici già dal primo decennio del secolo scorso, trovando soprattutto in Picasso una spinta propulsiva e guidando le successive avanguardie verso un’indipendenza sempre più consapevole del segno pittorico, quando per segno pittorico si intende un’elaborazione geometrica del quadro. In questo senso il Cubismo analitico porta a Mondrian e al Neoplasticismo, ossia all’ortogonalità delle linee intersecanti direttamente sulla superficie della tela in un’assoluta compressione spaziale, mentre il Cubismo sintetico porta al Formalismo russo, a Malevič, alla bidimensionalità, al monocromo e al grado zero dell’opera. Nell’altro senso invece, quello non geometrico, Kandinsky costituisce il contraltare di Picasso, arrivando all’astrazione tramite la spiritualità di forme libere, automatiche. E così via, uno dopo l’altro, i movimenti del primo cinquantennio del Novecento si mostrano una sfida continua, se pur interrotta da inversioni e ripensamenti, verso una elementarizzazione del segno sempre più audace, sempre più provocatoria, volta a testare il limite minimo verso cui l’arte si possa spingere, sino all’approdo dell’astrazione in America, che aprirà poi il capitolo del Postmodernismo.

Sarebbe un errore anche supporre che le ricerche d’avanguardia siano mero estetismo, arte per l’arte. Al contrario, un motivo programmatico comune alle varie correnti è la giustificazione del fatto artistico come fatto che ha origine nel reale. Come scrive Argan infatti, in un articolo intitolato L’arte astratta, pubblicato nel 1951, “da un punto di vista fenomenologico l’opera d’arte, che non è più rappresentazione di oggetti, è essa stessa l’oggetto: se la rappresentazione è sempre catartica, cioè un atto conclusivo che può continuare a esistere soltanto nella storia, l’oggetto è qualcosa che nasce o si pone, e dal momento del suo nascere o porsi comincia ad esistere come realtà”14. L’opera dunque non si occupa più di rappresentare la realtà ma assurge all’obiettivo di essere realtà. Questo conduce progressivamente ad una sovrapposizione tra arte e vita che tende a dissolvere i confini tra le due e a confonderle in un reciproco scambio.

Le origini dell’Astrattismo italiano della generazione più giovane devono essere ricercate nella generale ubriacatura neocubista del primo dopoguerra ma anche nel contatto con le coeve sperimentazioni francesi. Il prodotto italiano dell’astrazione è tuttavia qualcosa di inedito a cui Venturi, Bucarelli ed Argan si interessano fin da subito. L’astratto-concreto diventa cioè un nuovo modo di approcciare alla realtà, il giusto compromesso che è enucleato dal Venturi anche in riferimento all’architettura: quello ovvero di creare un’arte che fosse astrazione della realtà ma al contempo concretezza, perché pronta ad esprimere lo spirito dell’autore e perché, soprattutto, non smentisce la natura come dato fenomenologico di partenza per l’elaborazione del quadro, un dato che nonostante sia soggetto ad una progressiva formalizzazione, non perde completamente la sua riconoscibilità, innescando nell’opera un’ambivalenza tra forma e contenuto, realtà oggettiva e realtà soggettiva in continua relazione.

In questo senso l’astratto-concreto si spinge ben oltre il formalismo per indagare livelli di percezione se vogliamo più tradizionali, ponendosi però in netto contrasto con l’idea greenbergiana dell’arte, tipicamente americana, e tutta concentrata su una percezione puramente ottica dell’opera, che si presenta essere il prodotto introspettivo dell’artista. L’affermazione di un movimento così esclusivamente italiano, lontano dagli esperimenti coevi dell’arte internazionale, consente al Paese un grosso rilancio, soprattutto dopo che il Modernismo ha spostato il suo centro in America, pregiudicando in un certo senso la credibilità di altre forme d’arte del vecchio continente.

A questo proposito emblematica è la fondazione nel ‘48 del MAC (Movimento Astratto Concreto)15 che costituisce in questi anni un punto di raccordo per tutte le città della nazione che hanno visto riattivarsi profondi interessi per l’Astrattismo. I fondatori del MAC, estremamente diversi gli uni dagli altri, non a caso condividono profondi interessi per la cultura del progetto, ossia per l’architettura e per il design. Questo per far capire come non è per niente casuale che mentre Venturi rivendica la validità dell’arte contemporanea, ponendola a confronto con l’architettura, gli artisti sviluppino interessi su tali propositi, intendendo la pennellata come un’architettura ideale e facendo dell’astrazione un processo di concretizzazione del reale e non solo di segno pittorico.

Per consacrare questo indirizzo la Galleria nazionale d’arte moderna inaugura nel 1951 Arte astratta e concreta in Italia, una mostra che include l’universo dell’Astrattismo italiano, tutto riunito a Roma. Espongono ben settanta artisti tra cui: Accardi, Burri, Consagra, Corpora, Dorfles, Mastroianni, Prampolini, Rotella, Soldati, Turcato, Vedova. La mostra è accompagnata da una conferenza intitolata Rapporti tra arti figurative ed architettura, alla quale partecipa Argan, che sta facendo sue le ricerche iniziate dal maestro.

Il catalogo che viene preparato in occasione della mostra somiglia più ad un manifesto di denuncia della Galleria, che inaugura una stagione su cui l’Italia si ferma a ragionare per più di un decennio e che diventa una vera e propria dittatura dell’arte.

Il punto fondamentale su cui ci si interroga a lungo è infatti proprio questo: se l’arte occidentale si fonda sulla riconoscibilità del soggetto, e dunque su un’iconografia dell’opera, e l’Astrattismo tende da un certo punto in poi a cancellarla, è davvero possibile per l’arte italiana dar vita ad un movimento che sia al contempo iconografia e distruzione della forma? È davvero coerente con il percorso del Novecento un movimento che lavori sulla forma a partire dalla realtà, mantenendola e smentendola allo stesso tempo? Si, risponde Argan, perché il fine ultimo dei movimenti concretisti è quello di manifestare nell’immagine la coscienza dell’artista immerso nella realtà ed il Gruppo degli Otto lo dimostra appieno, includendo alcuni degli artisti sopra menzionati. Essi infatti riescono finalmente a determinare un nuovo modo di espressione fin’ora creduto impossibile, avvicinando il mondo dell’astrazione e quello del Realismo in un’unica rappresentazione ed evitando così che l’Astrattismo si potesse trasformare in un rinnovato manierismo.

Gli anni che vanno dal 1953 al 1958 sono i più decisivi per la Galleria e anche i più complicati. Le opposizioni provengono dagli intellettuali e dalla politica, soprattutto quella politica di sinistra che continua a vedere nel Realismo Socialista un modello da seguire per rafforzare lo scopo “educativo” dell’arte. Non si dimentichi però che anche gli astrattisti presentati da Bucarelli sono simpatizzanti quando non dichiaratamente comunisti e combattono per far capire che l’assenza di un’immagine perfettamente comprensibile nelle loro opere, non andava a svilire né la loro convinzione politica, né l’utilità sociale delle stesse; motivo per il quale Argan rintraccia l’origine dell’astratto-concreto nel Bauhaus16.

Le mostre organizzate in Galleria sono comunque di enorme prestigio e rafforzano l’indirizzo esclusivamente astrattista della Bucarelli senza alcuna esitazione, a partire dalla retrospettiva su Pablo Picasso (il cui catalogo sarà curato da Venturi) e che per la prima volta viene riunito in Italia. A questo si aggiunga la collaborazione con l’Art Club17, l’apertura a nazioni inedite come l’arte israeliana, jugoslava, ungherese, gli artisti di Lisbona. Sino ad arrivare ad un’altra gloriosa retrospettiva su Piet Mondrian (fig. 4),

Fig. 4

Fig. 4 - Palma Bucarelli e Alvar Aalto duante l'inaugurazione della mostra di Piet Mondrian nel '56


tanto risonante quanto quella di Picasso, soprattutto perché allestita dall’architetto Carlo Scarpa e ciò non fa che incrementare il confronto tra pittura ed architettura, (già così presente nell’opera pittorica del maestro) confronto che in quegli anni è promosso dalle mostre dedicate all’urbanistica, come quella svizzera, brasiliana, su Le Corbusier (fig. 5) e che si alternano alle mostre d’arte astratta. Ciò dimostra come la Bucarelli sia profondamente influenzata dal dibattito critico che si scatena dalla fine degli anni Quaranta e prosegue per tutti i Cinquanta e di come il rapporto tra la soprintendente, Lionello Venturi e Giulio Carlo Argan sia direttamente consequenziale. Tanto è vero che quest’ultimo tiene di li a poco una conferenza dal titolo
L’architettura moderna e le arti non figurative, in cui ribadisce come sociale il fine ultimo della pittura astratta, alla pari dell’architettura.


Fig. 5

Fig. 5 - Giulio Carlo Argan, Palma Bucarelli e Lionello Venturi durante l'inaugurazione della mostra su le Corbusier nel 1959


Il biennio 1957-’5818 è quello più scottante. La stagione viene infatti inaugurata da un ciclo di conferenze intitolato Correnti d’arte astratta, propedeutico al susseguirsi di mostre che consentono alla Galleria di raggiungere il massimo livello qualitativo: dai Capolavori del Museo Guggenheim di New York a Jackson Pollock, da Kandinskij ad Hans Richter, Roma ospita le più grandi iniziative d’arte contemporanea, continuando a coadiuvare attorno a sé critiche sfrenate, inchieste parlamentari e appelli disperati al Ministero della pubblica istruzione contro la direttrice e i suoi critici. Ma tanto più cresce il dissenso nei loro confronti, quanto più questi si isolano all’interno di un dialogo unilateralmente astratto, che appare a molti come una vera e propria dittatura (primo tra tutti a Renato Guttuso, che non si è allineato all’Astrattismo); in definitiva: o si era astrattisti o non si era artisti.

Il 1959 si prepara a lasciare il passo ad un altro decennio complicato per la Galleria e per il panorama artistico in generale, decennio nel quale l’eredità di Venturi viene traslata nel suo allievo Argan, che affianca la Bucarelli in un binomio ormai inseparabile. Già da diversi anni infatti i movimenti artistici si sono sovrapposti senza più seguire una linea di intenti comuni, in Europa come in America. La volontà di riunire le differenti ricerche del dopoguerra, trova in Francia un critico, Michel Tapié, pronto a teorizzare sotto il termine di Informale quella grande quantità di espressioni artistiche nel mondo, legate alle problematiche filosofiche della fenomenologia, derivanti ovvero dall’impossibilità di tracciare una linea di demarcazione specifica tra soggetto ed oggetto. È proprio questo a dar vita ai mille volti dell’Astrattismo e alle mille scelte individuali degli artisti: dalla linea, alla materia, dal colore, al gesto, dalla riabilitazione della figura alla macchia, alle perforazioni della tela, autori diversi vengono inclusi sotto la definizione di Informale, che funge da grande ombrello per una serie di espressioni di fatto non rubricabili e che non hanno nulla di unitario, se non il rifiuto della forma canonica. Non a caso nella mostra di Tapié del ’52 Signifiants de l’informel vengono messi a confronto artisti delle più disparate formazioni e provenienze come Capogrossi, De Kooning, Dubuffet, Fautrier, Hartung, Michaux, Pollock, Wols ed altri.

Se questo da vita in Italia all’Arte nucleare, allo Spazialismo, all’Ultimo naturalismo, consentendo alla Galleria di Bucarelli di proseguire in conformità con le scelte precedenti, d’altra parte tende ad escludere anche ogni forma d’astrazione geometrica, inaugurando un decennio ancora una volta in linea con gli sviluppi contemporanei. Se la fine degli anni Quaranta ridisegna le linee guida dell’arte italiana attraverso le ricerche di un nuovo figurativismo e gli anni Cinquanta vedono il confronto tra pittura astratta, architettura e movimenti concretisti, gli anni Sessanta si concentrano sull’Informale, individuando così tre grandi fasi evoluti nella linea culturale della GNAM.

Nel 1959 Argan scrive un saggio dal titolo Materia, tecnica e storia dell’informale, nel quale individua lo scopo vitale di tutti quegli artisti che si sono potuti definire informali. Lo scopo non è quello di aprire una nuova fase creativa del Novecento “ma di mantenersi in bilico su un limite così estremo da lasciar dubitare che vi sia ancora, al di là, una possibilità di arte”19.

Per tale ragione Argan definisce questo preciso punto storico come la “non morte dell’arte”20, perché deriva da una società utopica, fondata sulla super prassi, sul progresso tecnologico e sull’industria, sempre più bisognosa di violente scariche emotive a patto che la loro durata fosse limitata alla fruizione dell’opera, in cui atto creativo dell’artista ed atto percettivo dello spettatore coincidano in un tutt’uno e permettano di democratizzare, come teorizzato dal Croce, l’intuizione artistica. Con questo Argan vuole rimarcare il fine sociale dell’arte a paragone con l’architettura, quando per sociale si intende la possibilità dell’arte di dimostrare che la realtà dell’artista e quella del fruitore è la medesima e coincidono proprio in virtù del fatto che ogni manifestazione contemporanea vive in simbiosi con lo spettatore ed è da esso dipendente. D’altronde non si potrebbe mai immaginare un’opera di Pollock o una di Mondrian senza la nostra presenza, esattamente come non lo si potrebbe fare per un edificio di Aalto o di Wright.

La realtà di cui parla Argan è in fondo quella del capitalismo, dalla quale l’Informale, come l’individuo, vuole fuggire, tentando di fissare sulla tela non un risultato specifico, quanto più la testimonianza di un’esistenza, indipendentemente dal suo modo di esprimerla. Impedire infatti la replicabilità industriale dell’atto artistico è la risposta per la ricongiunzione tra lo spirito e la materia. Fare dell’opera cioè non più un bel quadro ma un momento, un momento di transizione progettuale a cui ognuno sia in grado di togliere o aggiungere qualcosa, a patto che questo qualcosa non smentisca mai la sincerità della sua natura.

È forse questo il motivo per cui Bucarelli non acquista opere della Pop Art americana, forse perché, dietro l’influenza delle parole di Argan, si vede in essa l’oggettivazione di un progresso tecnologico in continua avanzata.

Si conclude così un percorso di ricerca durato più di un ventennio, con la dimostrazione, sia in campo teorico-critico, sia in campo museale, che la validità dell’esperienza estetica risiede tutta nel sociale. Si chiude nel 1961, con la morte di Lionello Venturi, una parabola iniziata con quel 10 Dicembre 1945, quando la stretta collaborazione del critico con la Bucarelli consente la riapertura della Galleria e che culmina con gli anni Sessanta e l’intervento, a partire da dieci anni prima, di Giulio Carlo Argan, per continuare sino al 1975, anno di pensionamento della soprintendente.
La lotta per l’arte contemporanea ha trovato tre valorosi portavoce per più di vent’anni.







NOTE

1 BUCARELLI 1951, pp. 3-10.

2 ARGAN 1961, pp. 2-15.

3 CROCE 1902, pp. 16-20.

4 WÖLFFLIN 1994, p. 26.

5 SCIOLLA 1995, pp. 149-153.

6 FORTI 2010, pp. 151-170.

7 DEWEY 1977, p. 14.

8 (Roma, 1871 – Fiesole, 1946) Scrittore, critico d’arte, giornalista e aforista. È tra i firmatari del Manifesto intellettuale fascista del 1925.

9 VENTURI 1945, p. 158.

10 CANTATORE 1997, p. 13.

11 BUCARELLI 1944, p. 32.

12 MARGOZZI 2009, p. 42.

13 VENTURI 1952.

14 ARGAN 1955, p. 102.

15 ZAMBIANCHI 2014, p. 105.

16 ARGAN 1965.

17 Associazione artistica nazionale ed internazionale nata a Roma nel 1945, include artisti di tutto il mondo che si impegnano nelle ricerche dell’astrazione in pittura.

18 UA2 GNAM 1957.

19 BAROCCHI 1992, p. 197.

20 ARGAN 1977, p. 201








BIBLIOGRAFIA

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Studi e Note, Roma, Bocca, 1955.

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CANTATORE 1997
Lorenzo Cantatore,
1944: cronaca di sei mesi, Roma, Edizioni De Luca, 1997.

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Benedetto Croce,
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DEWEY 1977
Jhon Dewey,
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Micol Forti,
Le forme dell’Astrattismo: Meyer Schapiro, Alfred Barr Jr, e il dibattito negli USA alla fine degli anni Trenta, Mimesis, 2010.

MARGOZZI 2009
Maria Stella Margozzi,
Palma Bucarelli - Il museo come avanguardia, Milano, Electa, 2009.

SCIOLLA 1995
Gianni Carlo Sciolla,
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VENTURI 1945
Lionello Venturi,
Il museo-scuola, in “La nuova Europa”, Roma, 29 Luglio 1945 in Lionello Venturi, Saggi di critica, Roma, Bocca, 1956.

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Lionello Venturi,
Otto pittori italiani – Afro, Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso, Turcato, Vedova, Roma, De Luca editore, 1952.

ZAMBIANCHI 2014
Claudio Zambianchi,
Arte contemporanea: dall’Espressionismo Astratto alla Pop Art, Roma, Carocci Editore, 2014.


WÖLFFLIN 1994
Heinrich Wölfflin,
Concetti fondamentali della storia dell’arte, Milano, TEA, 1994.





ARCHIVIO BIO-ICONOGRAFICO GNAM
UA2, cartella 51F,
Polemiche GNAM – Polemiche sull’Astrattismo (’57-’58)









 

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