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Rubens e l'eredità italiana. Il caso del corpus rubensiano della Courtauld Gallery di Londra  
Giulia Martina Weston
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 12 Ottobre 2012, n. 662
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La lezione dei maestri italiani di epoca rinascimentale e barocca, come pure l’esempio della statuaria antica, costituisce un riferimento di rilevanza assoluta nell’analisi della produzione del pittore fiammingo Peter Paul Rubens (1577-1640) e nell’interpretazione critica sviluppatasi attorno ad essa. Il soggiorno di Rubens in Italia, dal maggio del 1600 all’autunno del 1608, lasciò una tale impronta nella teoria e nella prassi artistiche del pittore da suscitare un interesse immediato nei confronti di quel “putto allevato a Roma” [1] . Il tema dell’eredità italiana nell’arte di Rubens, introdotto dalla biografia secentesca di Giovan Pietro Bellori e sviluppato tra Otto e Novecento negli studi di Max Rooses, Ludwig Burchard e Bernard Berenson, fino ai più recenti contributi di Michael Jaffé e di Didier Bodart, si è articolato in una fitta trama di questioni filologiche, di matrice artistica o di natura socio-culturale. Lungi dal voler affrontare tali problematiche nel loro complesso, il presente contributo si pone l’obiettivo di segnalare all’attenzione del lettore alcune opere, appartenenti al corpus rubensiano della Courtauld Gallery, che nell’ispirazione e nella rielaborazione dei “maestri italiani” trovano il loro significato più pieno e la loro ragion d’essere all’interno della collezione.

Per quanto concerne la tecnica artistica è possibile bipartire tale gruppo in schizzi ad olio e dipinti su tavola.

I tre studi preparatori per la pala centrale e per le ali laterali del trittico destinato alla Cattedrale di Anversa furono eseguiti da Rubens tra il 1611 ed il 1613. Il programma iconografico delle tre figurazioni, la Visitazione, la Deposizione dalla Croce (fig. 1) e la Presentazione al Tempio, trova una chiave interpretativa nel riferimento a San Cristoforo, protettore della Gilda degli Archibugieri che aveva commissionato l’opera. In linea con l’etimologia del nome del Santo, le scene rimandano in vario modo al trasporto di Cristo: nella Visitazione è la figura della Vergine Maria che porta il Figlio nel proprio grembo, nella Presentazione Gesù è effigiato tra le braccia dell’anziano Simeone e nella Deposizione dalla Croce è lo strumento del martirio che sostiene il corpo senza vita del Salvatore. I riferimenti all’arte italiana, ed in particolare al Manierismo toscano di matrice michelangiolesca, sono stati più volte messi in rilievo in sede critica. Nello studio dedicato allo sviluppo iconografico della Deposizione dalla Croce nella produzione di Rubens, Białostocki sostiene che lo schizzo ad olio del Courtauld vada interpretato come una rielaborazione della “tradizione italiana, conosciuta attraverso le opere dei Manieristi Francesco Salviati, Barocci, Jacopino del Conte, Cigoli, e Daniele da Volterra, le cui differenti versioni potrebbero essere state concepite sotto l’influsso delle idee di Michelangelo ed in relazione agli esempi quattrocenteschi (Filippino, Sodoma)” [2] . Sebbene questa ipotesi appaia condivisibile, soprattutto nel caso del soggetto analogo affrescato da Daniele da Volterra nella chiesa romana di Trinità dei Monti, occorre rimarcare l’autonomia critica con la quale Rubens coniuga suggestioni eterogenee per riproporle in una composizione inedita.

A pochi anni dal ritorno in patria dalla Penisola, il pittore fiammingo rielaborava gli elementi della tradizione rinascimentale con le istanze più “moderne” conosciute a Roma. Nei pannelli a olio presi in esame, le citazioni testuali della tradizione toscana, quali la “canefora” alla sinistra della Vergine nella Visitazione o l’intelaiatura spaziale formata dalla croce e dalle due scale nella Deposizione, si alternano a sintesi decisamente originali, evidenti nello schizzo preparatorio per la tavola centrale. Prendendo le mosse da soluzioni compositive centro-italiane, Rubens ricerca l’armonia tra le parti, collegando i protagonisti della scena mediante un coordinamento serrato della gestualità e attraverso un utilizzo teatrale, più che drammatico, del chiaroscuro caravaggesco. Nonostante la varietà delle fonti italiane prese a riferimento, la scena presenta dunque un notevole equilibrio formale e, in linea con l’analisi condotta da Martin, le qualità di disciplina e di controllo del dipinto possono essere interpretate come propriamente classiche [3] .

È probabile, inoltre, che questo carattere di armonia assumesse un particolare significato nel contesto storico-religioso della città di Anversa, che era stata teatro di aspre lotte anticattoliche e di violente distruzioni iconoclaste. Nel concepire la pala d’altare destinata alla Cattedrale, Rubens deve avere avvertito l’esigenza di riaffermare il primato dell’ortodossia, rimarcando per visibilia la centralità del corpo di Cristo, nella duplice valenza di persona della Trinità e di sacramento eucaristico [4] . Nello schizzo tutte le figure disposte attorno a Cristo sono rappresentate nell’atto di protendersi o di toccare il suo corpo, che, da semplice elemento di raccordo visivo, diviene il perno logico e teologico della storia e della fede. Stagliandosi contro un cielo oscuro, i testimoni della morte di Cristo si distribuiscono simmetricamente nell’esiguo spazio della pala: in alto, i due assistenti giovane e vecchio sono collocati in cima alle due scale; l’elegante figura di Giuseppe d’Arimatea a sinistra trova un parallelo nel canuto Nicodemo; la Vergine Maria e San Giovanni condividono una posizione centrale; Maria Maddalena e Maria di Cleofa sono inginocchiate ai piedi del Redentore. Nel rappresentare la triade di personaggi femminili, Rubens non riprende quella particolare attenzione, squisitamente italiana, alla resa del sentimento di dolore. Preferendo un pathos misurato alle espressioni di lacerante sofferenza tipiche dell’Italia del Nord o alle lacrime di ascendenza fiamminga eseguite con compiaciuto virtuosismo tecnico, l’artista sintetizza le espressioni di cordoglio nella rappresentazione della Maddalena. Protesa con entrambe le braccia verso il corpo del Salvatore, la figura di Maria Maddalena riflette appieno le esigenze compositive ed espressive analizzate sinora, rendendo superfluo il tentativo di spiegarne la funzione sulla base di dati esterni all’ideazione del dipinto [5] .

Risale al terzo decennio del Seicento la serie di schizzi preparatori eseguiti da Rubens per la decorazione del soffitto della chiesa dei Gesuiti di Anversa, di cui due esemplari, raffiguranti l’Incontro di Salomone con la Regina di Saba (fig. 2) ed Ester e Assuero (fig. 3), sono esposti nella galleria del Courtauld. Il contratto con i Gesuiti, firmato dal pittore fiammingo nel 1620, menzionava esplicitamente la realizzazione di trentanove bozzetti autografi, che sarebbero serviti agli assistenti di Rubens, tra cui Van Dyck, per trasporre il modello a olio sulle tele destinate ai comparti del soffitto. In questo caso la rilevanza dei manufatti è duplice, in quanto, oltre a testimoniare la tecnica esecutiva ed il modus operandi di Rubens, essi tramandano il programma figurativo e l’impostazione stilistica delle scene, i cui originali, a causa di un incendio del 1718, sono andati irrimediabilmente perduti. Il primo di questi due aspetti offre un notevole contributo alla nostra analisi, mentre risulta opportuno ricordare che alla ricostruzione del programma iconografico, imperniato sul motivo del trionfo dell’ortodossia sull’eresia mediante l’alternanza di scene dell’Antico e del Nuovo Testamento, concorre anche una serie di disegni e di acquerelli di Jacob de Wit, egualmente confluita nella collezione del Courtauld.

Le tavolette in legno erano preparate con uno strato di gesso e rivestite da una sottile pellicola pittorica di colore neutro, sulla quale veniva steso il colore a olio. Tracce di questa stratificazione compaiono nella scena con l’Incontro di Salomone con la Regina di Saba, nella quale l’impasto di colore bruno utilizzato per la preparazione della tavola è lasciato a vista in corrispondenza dell’incarnato scuro della protagonista e delle sue ancelle [6] . La tendenza ad utilizzare tonalità brunastre per l’imprimitura della tavola, percepibile ad occhio nudo nel bozzetto, riflette appieno la ricerca tecnica che Rubens, primo tra i suoi conterranei, andava sperimentando in quegli anni. Se, a livello pratico, la funzione dell’imprimitura consisteva nel ridurre il grado di assorbenza della sottostante preparazione in gesso, sul piano estetico produceva una serie di effetti materici, cromatici e luministici, di cui Rubens imparò gradualmente a servirsi per i propri fini espressivi, manipolando gli schizzi a olio come prodotti di laboratorio. Come sottolineato da van Hout, nei dipinti a olio, e ancor di più nei bozzetti di Rubens, le striature create sullo strato di imprimitura con il pennello e l’aggiunta di pigmenti scuri alle terre con cui questa era preparata incidono sensibilmente sull’impostazione chiaroscurale delle scene, consentendo al pittore di orchestrare l’intera gamma cromatica attraverso la regolazione dei “mezzi toni” [7] .

Nell’ideazione di soluzioni cromatiche e compositive, Rubens rivela una profonda conoscenza dell’arte veneta, acquisita tramite gli illusionistici teleri di Jacopo Tintoretto, le profusioni di luce dorata di Tiziano e gli scorci grandiosi di Paolo Veronese.

Interpretata come una prefigurazione dell’adorazione dei Magi, l’episodio dell’Incontro presenta il momento in cui la regina di Saba, accompagnata da uno stuolo di ancelle e di servi, offre in dono al re Salomone vasi ricolmi dei prodotti della propria terra. La scena, inquadrata da un perimetro ottagonale, è caratterizzata da uno scorcio “da sotto in su”, che, in linea con la pittura illusionistica di matrice veneziana, contribuisce a risucchiare verso l’alto lo spettatore, proiettandolo entro il sontuoso spazio architettonico che si staglia contro un cielo azzurro striato di nubi.

I colori utilizzati, per lo più tonalità di ocra, avorio e beige, sono impastati di una luce calda e dorata, che amplifica l’impressione avvolgente creata dallo sfondo o dal baldacchino di velluto rosso e frange dorate che sovrasta l’imponente trono di Salmone, decorato con protomi leonine in oro massiccio. Prendendo le mosse dagli effetti teatrali del Manierismo veneto e veicolando con rapide pennellate un pulviscolo dorato di chiara ascendenza tizianesca, Rubens porta alle estreme conseguenze il senso di coinvolgimento dell’osservatore, aggiungendovi un gusto per la meraviglia tipico dell’estetica barocca. Un saggio di quanto affermato è offerto dalle figure in primissimo piano. Dei due soldati, quello più a sinistra, poggiato alla lancia disposta obliquamente, sembra condividere lo spazio dello spettatore, misurando la distanza che lo separa dalla tavola imbandita, sulla quale sono elencate, con virtuosistica resa dei riflessi luminosi, le suppellettili d’oro e d’argento offerte dalla sovrana. Dalla parte opposta, un bambino dalla pelle scura sostiene un pappagallo multicolore, nota cromatica accesa e autentico elemento di stupor. Procedendo verso destra, l’attenzione si rivolge al servitore che, con entrambe le braccia, trasporta un bacile dorato sulle spalle. Il movimento serpentinato del corpo, di cui sono visibili la gamba sinistra e il possente busto, culmina nella testa inclinata e rivolta verso il basso e nello sguardo indirizzato direttamente al potenziale interlocutore.

Se per l’ideazione di questa scena è possibile presupporre che Rubens, assiduo copista dei maestri veneti (come testimoniato, ad esempio, dalle copie della Diana e Callisto di Tiziano e dal Miracolo di S. Marco di Tintoretto), abbia rielaborato varie suggestioni, nel bozzetto per Ester e Assuero il rimando al tema analogo realizzato da Veronese per il soffitto della chiesa veneziana di S. Sebastiano si fa esplicito [8] . In questo caso, il movimento ascensionale è suggerito dalla diagonale che raccorda le due figure dei protagonisti, cui fa da preludio la balaustra in primo piano.

Vari fattori concorrono ad enfatizzare la contrapposizione tra Ester, inginocchiata per invocare la salvezza del popolo ebraico e il re persiano Assuero, che, seduto su un vistoso trono a baldacchino, si presenta come una figura autoritaria, gesticolando con la mano sinistra e impugnando, nella destra, uno scettro d’oro. La dialettica di luci ed ombre acuisce il contrasto, opponendo al volto in luce della donna quello in ombra, reso scuro anche dalla folta barba bruna, del re. Per quanto concerne la tavolozza utilizzata da Rubens, la dominante ocra esaltata dalla qualità dorata della luce cede il passo al bianco avorio del vestito traslucido di Ester e al rosso intenso delle vesti di Assuero.

Il ricordo del soggiorno in Italia appare determinante per l’inserimento di alcuni dettagli, come il cane in primo piano, collocato su un gradone riccamente modanato, o la colonna tortile all’estrema destra, entrambi mutuati con gusto citazionistico dalla grande pittura veneta. Di ispirazione italiana è soprattutto la struttura architettonica nella quale è ambientata la scena, coperta da una cupola culminante in un oculo che poggia su un colonnato semicircolare. Appare plausibile ipotizzare che il modello per l’apertura ad anello della cupola sia stato il Pantheon, monumento al quale Rubens si ispirò anche per la costruzione del proprio museo di pitture e antichità. In merito alla struttura e al successo di questo ambiente, un passaggio della Vita di Rubens di Bellori risulta di particolare rilievo:

"Haveva egli adunato marmi, e statue, che portò, e fece condursi di Roma con ogni sorte di antichità, medaglie, camei, intagli, gemme e metalli; e fabbricò nella sua casa in Anversa una stanza rotonda con un solo occhio in cima à similitudine della Rotonda di Roma, per la perfettione del lume uguale, et in questa collocò il suo prezioso museo, con altre diverse curiosità peregrine. Raccolse ancora molti libri, et adornò le camere parte di quadri suoi originali, e parte di copie di sua mano fatte in Venetia, et in Madrid da Tiziano, da Paolo Veronese, e da altri pittori eccellenti. Era perciò egli visitato, e da gli huomini di lettere, et eruditi, e da gli amatori della pittura; non passando forestiere alcuno in Anversa che non vedesse il suo Gabinetto, e molto più di lui, che l’animava colmo di virtù, e di fama [9] ".

Analogamente, lo spazio illusionistico di questo schizzo a olio “con un solo occhio in cima, a similitudine della Rotonda di Roma”, potrebbe essere stato prediletto dal pittore “per la perfettione del lume”, che, in questo caso, si traduce in una luce brillante, che si propaga nei caldi bagliori delle superfici dorate e nei giochi di rifrazioni sulle stoffe dalla resa serica.

Entrambi i bozzetti esaminati, oltre a fornire preziose indicazioni sulla realizzazione tecnica e sulla scelta iconografica delle scene, lasciano intravedere il modus operandi di Rubens e dei suoi allievi, ai quali il maestro, tramite gli schizzi a olio, forniva meticolose indicazioni sullo stile da adottare nella resa dei personaggi, sulle caratteristiche del contesto architettonico e sul registro cromatico e luministico.

L’interesse di Rubens per il tema della conversione di Saulo, reiterato con una certa frequenza, affonda le proprie radici negli anni di formazione trascorsi in Italia. Attraverso la rielaborazione di tale soggetto, l’artista fiammingo si confronta con una tradizione iconografica ormai consolidata, che prevedeva una scena equestre e notturna ed implicava la problematica della rappresentazione dei “moti”, dagli umani “affetti” alle più istintive reazioni degli animali. Nello schizzo a olio della galleria del Courtauld (fig. 4), databile attorno al 1610, la figura di Saulo è rappresentata nell’attimo immediatamente successivo alla caduta da cavallo, con le braccia distese, allusive alla croce di Cristo, ed il volto reclinato verso lo spettatore. Risalendo la diagonale accennata dal corpo del Santo, si giunge alla causa e alla fonte della luce soprannaturale che irrompe nell’oscurità notturna, suggerendo la visione di Saulo nel momento della chiamata. Fiancheggiato da putti che si sporgono da pesanti nuvole color antracite, Cristo è raffigurato nell’atto di distendere il braccio destro ed aprire la mano in direzione di Saulo, come per indirizzare verso di lui i raggi che spiovono obliquamente dalla luminosità indistinta che si fa più intensa al centro, squarciando la cortina di nubi. La figura di Cristo, per l’energica solennità del gesto, enfatizzato dal ridondante panneggio rosso che si impenna all’altezza della spalla destra, sembra paragonabile ad un giovane Giove, la cui divina bellezza informa di sé l’anatomia armonica delle nudità del busto. Sul piano iconografico, la posa e le fattezze di Cristo poterebbero invece rimandare alla Visione di Ezechiele di Raffaello, con la quale il bozzetto mostra notevoli affinità nella trattazione della gestualità e del dinamismo impetuoso della figura.

Per quanto concerne l’impianto compositivo della scena, Rubens effettua una sorta di tripartizione, creando un nucleo compatto in primo piano, moltiplicando il numero di personaggi e animali su un piano più arretrato a formare un semicerchio e, di nuovo, concentrando al centro del cielo le figure di Cristo e dei putti. Il pittore fiammingo impernia l’intera scena attorno al motivo del dinamismo improvviso causato dall’evento sovrannaturale della chiamata sulla via di Damasco. La dialettica tra azione divina e reazione umana, che nella caduta da cavallo del protagonista trova il picco espressivo più emblematico, si riverbera in ogni parte del dipinto. Dei servitori in primo piano, un uomo, visto di schiena, soccorre Saulo, sollevandolo da terra con immenso sforzo, come testimoniano i muscoli contratti del braccio destro e della schiena, mentre un giovane vestito di rosso cerca di riprendere il controllo sul cavallo imbizzarrito, il cui moto di terrore deve essersi trasmesso al vicino cane da caccia.

Il groviglio tra cavalli e destrieri è riproposto nel piano più arretrato, nel quale il ritmo tra reazioni ferine e umane, rese tangibili dall’impennata del cavallo bianco centrale e dai panneggi vorticosi sulla destra, si fa ancora più serrato. La problematica riguardante l’intrecciarsi di moti animali e reazioni umane rimanda alla teoria e alla prassi artistica di Leonardo da Vinci, che, oltre ad avere offerto dettagliate indicazioni su come trasporre in pittura la foga della battaglia, il sollevarsi della polvere ed il deformarsi dei volti in ragione delle espressioni più cariche tra i “moti dell’animo”, si era cimentato nell’affresco, incompiuto, della Battaglia di Anghiari per il Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze. Ai tempi del viaggio in Italia di Rubens l’affresco di Leonardo era già stato coperto dall’intervento decorativo di Giorgio Vasari, ma il pittore riuscì in ogni caso a scovare le tracce esistenti dell’invenzione leonardesca, rielaborandone, attraverso disegni e schizzi, “più lo spirito che la lettera” [10] . Nello schizzo del Courtauld la furia espressiva che domina la scena, pur declinata in maniera autonoma, sembra rimandare a quella teorizzata e sperimentata da Leonardo.

Un’altra possibile fonte di ispirazione potrebbe essere costituita dall’affresco di soggetto analogo realizzato da Michelangelo nella Cappella Paolina in Vaticano, da cui però Rubens differisce per l’utilizzo di una luce dai bagliori violenti, mutuata dalla lezione caravaggesca.

Il rapporto dialettico tra l’arte di Rubens e quella di Caravaggio traspare in misura ancora maggiore nello schizzo preparatorio con la Deposizione di Cristo. La versione caravaggesca dello stesso tema, realizzata per la cappella Vittrice nella chiesa oratoriana di Santa Maria della Vallicella attorno al 1603, era certamente nota al maestro fiammingo, che, tra il 1606 ed il 1608, realizzò la pala d’altare con la Madonna della Vallicella. All’interesse prettamente artistico per le novità luministiche e compositive introdotte dalla “rivoluzione caravaggesca” Rubens aggiunge, nel 1607, un apprezzamento critico e collezionistico per la produzione di Michelangelo Merisi, favorendo l’acquisto, per conto del duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, della Morte della Vergine, rifiutata dai Carmelitani Scalzi di S. Maria della Scala.

Mentre nella Deposizione di Ottawa (National Gallery of Canada), dipinta attorno al 1613, Rubens aveva ripreso fedelmente tanto il taglio prospettico-compositivo quanto, pur con notevoli varianti, la disposizione e i tipi dei prototipi caravaggeschi, nello schizzo del Courtauld (fig. 5) l’autonomia critica ed il desiderio di sperimentazione prevalgono sull’ambizione di instaurare un dialogo serrato con il Merisi. Sebbene l’impostazione generale della scena, imperniata attorno al corpo di Cristo ed introdotta dallo spigolo vivo del sepolcro, sia da ritenersi affine al modello caravaggesco, la tipologia, il numero e l’ubicazione delle figure nello spazio risentono di considerevoli cambiamenti. Favorito dalla duttilità tecnica dello schizzo ad olio, Rubens apporta delle modifiche sostanziali all’impostazione della scena e alla caratterizzazione delle sue componenti principali, distanziandosi tanto dal prototipo di riferimento quanto dal proprio iniziale tentativo di rapportarsi ad esso.

Come sottolineato da Muller, all’artista fiammingo dovevano essere note le critiche mosse contro la pittura caravaggesca da Agucchi e da Bellori, che del Merisi deprecavano, rispettivamente, l’aver “lasciato indietro l’Idea della bellezza” ed il colorire “tutte le sue figure ad un lume e sopra un piano senza degradarle” [11] . Sebbene, dunque, la Deposizione di Caravaggio fosse ritenuta una delle opere migliori del maestro, in linea con quanto asserito da Baglione e confermato da Bellori, Rubens avvertiva l’esigenza di prendere le distanze da un artista stimato “povero d’inventione, e di disegno, senza decoro, e senz’arte” [12] .

Per quanto concerne lo schizzo in esame, appare del tutto plausibile l’ipotesi che Rubens abbia voluto introdurre proprio quegli elementi di cui lo stile del Caravaggio era stato giudicato sprovvisto: la gradevolezza fisica dei personaggi, la modulazione dei piani chiaroscurali e la profondità spaziale suggerita in termini prospettici. Tali esigenze compositive ben si coniugano con la predilezione rubensiana per una variatio tipologica e cromatica nella resa delle figure, che, svincolate da un’espressione collettiva di dolore, sono caratterizzate singolarmente nel loro patire.

Il bozzetto del Courtauld con l’Assunzione della Vergine (fig. 6) nasce come schizzo preparatorio per la pala dell’altare maggiore della Certosa di Bruxelles (ora nelle Leichtenstein Collections) ed è databile attorno al 1635. Rispetto alla precedente Assunzione ed Incoronazione della Vergine (Hermitage, San Pietroburgo), risalente al 1611, questo schizzo rivela una semplificazione in chiave “ascetica” del tema. Dal punto di vista iconografico, Rubens si concentra sul solo episodio dell’assunzione in cielo della Vergine, superando la sintesi assunzione-incoronazione raggiunta vent’anni prima, per la quale, stando all’affascinante ricostruzione di Freedberg, il fiammingo si sarebbe ispirato alla penultima incisione di Hieronymus Wierix, contenuta nelle Adnotationes et Meditationes in Evangelia di Jerome Nadal (la cui sezione illustrata si intitola Evangelicae Historiae Imagines), pubblicate per la prima volta ad Anversa nel 1593 [13] .

Tralasciando ulteriori confronti con opere di soggetto analogo, sembra opportuno sottolineare come in questo bozzetto, testimone della produzione tarda di Rubens, il pittore ritorni, dopo essersene allontanato, ad un’impostazione profondamente “italiana” della scena. Il ricorso alla lezione dei Carracci, di Ludovico e di Annibale in special modo, sembra dettato dalla duplice esigenza di raggruppare le figure entro l’ideale triangolo centrale e di coinvolgere lo spettatore nello svolgimento, transitorio, dell’azione. Se tramite la gestualità dei personaggi si esprime ancora quella mediazione tra spazio reale e spazio dipinto che, da Alberti a Paleotti, aveva trovato ampia trattazione in sede critica, nel registro superiore dello schizzo, ove il moto ascensionale dei putti si confonde con l’andamento spiroidale delle nuvole, Rubens sembra voler citare il picco proto-barocco delle cupole parmensi del Correggio. Analogamente, la tavolozza composta da cromie tenui tendenti al bianco avorio o al rosa aranciato tradisce il ricordo di quegli impasti caldi di colore e luce che Rubens aveva visto in gran copia a Mantova e dintorni.

La presenza di una serie di pentimenti nella figura della Vergine, rilevabile con l’ausilio di una lente di ingrandimento, testimonia il carattere sperimentale della tecnica dello schizzo ad olio e consente di introdurre qualche considerazione più generale in merito alle opere analizzate sinora.

Si è già fatto riferimento alla natura stratigrafica e alla composizione fisica degli schizzi ad olio, rilevando il peculiare impiego dell’imprimitura nell’impostazione cromatica delle scene. Volendo ora adottare un approccio più teorico nei confronti di questo genere di produzione, occorre citare due rilevanti questioni emerse in sede critica, che scaturiscono da approcci metodologici differenti.

La prima, di natura linguistica e filologica, concerne la genesi e la definizione stessa del termine “schizzo”. Sulla scorta del saggio di Linda e George Bauer dedicato a tale problematica, si evince che, verso la metà del Seicento, teorici e artisti provenienti da Francia, Germania, Inghilterra e Paesi Bassi mostravano una cosciente predilezione per termini derivanti dall’italiano “schizzo”. Sebbene infatti il registro linguistico (anch’esso di matrice italiana) offrisse varie possibilità per identificare quel prodotto artistico che andava distinguendosi sia dalla pratica del disegno che dalla pittura vera e propria, quali “bozzetto”, “abbozzo”, “sbozzo” o “bozza”, la scelta ricadde sulla parola “schizzo”. In essa ben poco rimaneva della prassi meccanica di “abbozzare” un dipinto, a vantaggio di concetti più affini alle proprietà intellettuali del pittore, tra cui l’invenzione, la fantasia, la macchia e la leggerezza [14] . Nel tempo, tuttavia, si è diffusa un’estetica autonoma dello schizzo che, in linea con la poetica del “pittoresco” di Marco Boschini, ha preferito esaltare la genialità indomita della pennellata bozzettistica piuttosto che ricondurre questa prassi al più articolato processo creativo della pittura del XVII secolo.

La casistica offerta dalla collezione del Courtauld mostra con chiarezza quali siano i limiti di tale atteggiamento, dal momento che gli schizzi, lungi dall’essere opere d’arte a sé stanti, si inseriscono all’intersezione di complesse questioni stilistiche e compositive. Non diversamente dal disegno, lo schizzo lascia intravedere il modus operandi dell’artista, le priorità che lo animano nel processo di invenzione e le finalità che si prefigge in vista dell’opera finita. Si tratta, dunque, di una sorta di ragionamento pragmatico, di un’ossimorica combinazione tra qualità mentali e capacità materiali che ben si coniugano nel secondo concetto che si intende indagare, quello del “dissegno colorito”.

Il binomio è introdotto da Rubens stesso, in una lettera datata 19 marzo 1614 indirizzata all’Arciduca Alberto d’Austria. Nell’epistola il pittore fa riferimento al “dissegno colorito” eseguito due anni prima come schizzo preparatorio per il trittico destinato all’altare maggiore della cattedrale di Ghent, che il regnante aveva avuto occasione di vedere [15] . Nel raccordare i termini “disegno” e “colore”, Rubens esprimeva, in una sintesi quanto mai efficace, la propria posizione in merito al ruolo dell’artista, superando l’ormai desueta dialettica tra arti liberali e meccaniche a vantaggio di una funzione di raccordo tra il mondo delle spirito e quello della materia. Prendendo le mosse dall’accurata trattazione di Woodall, si potrebbe concludere che, se a livello storico il ruolo dell’artista-mediatore trovava la propria ragion d’essere nel rinnovato significato delle immagini sacre “prescritte” dal cardinal Paleotti, a livello filosofico il “dissegno colorito” combinava la polarità del controllo apollineo con quella del furor bacchico, secoli prima che Nietzsche potesse imporvi una ferrea linea di demarcazione [16] .

Il costante raccordo di teoria e prassi artistica nella produzione rubensiana informa di sé anche il nucleo di opere costituito dai dipinti su tavola, nei quali il rapporto con le fonti italiane sembra farsi programmaticamente più esplicito.

Il Ritratto di Baldassar Castiglione (fig. 7), desunto dal prototipo raffaellesco ed eseguito attorno al 1630, offre un saggio significativo della teoria imitativa di Rubens. Non è possibile stabilire con certezza quale sia stato il modello effettivo per il maestro fiammingo, se il ritratto di mano di Raffaello visto in casa Castiglione a Mantova o ad Amsterdam (ove il modello è attestato tra il 1631 ed il 1639) o qualche copia di buona qualità e di più facile reperibilità [17] . Inoltre, la leggendaria memoria di Rubens rende plausibile l’ipotesi che non esistano disegni preparatori risalenti al viaggio in Italia.

Sarebbe troppo arduo ripercorrere la sterminata fortuna critica del dipinto, variamente considerato un autentico manifesto dell’influsso di Raffaello e una prova di geniale originalità da parte di Rubens. Come testimoniato da centinaia di copie, schizzi e disegni [18] , l’esempio dell’Urbinate rappresentava un modello fondamentale per Rubens, che nella produzione del maestro rinascimentale non soltanto trovava quel sinolo di disegno e colore di natura quasi divina, ma anche quella versatilità nell’utilizzo di supporti differenti che egli stesso andava ricercando nella propria formazione professionale.

Sebbene non vi sia alcun dubbio sul fatto che il Baldassar Castiglione di Rubens debba reputarsi un significativo omaggio alla lezione di Raffaello (e, al tempo stesso, all’illustre autore del Cortegiano), le sostanziali discrepanze rispetto al prototipo meritano un’attenzione maggiore delle ben più ovvie tangenze. I cambiamenti introdotti dal pittore seicentesco, segnatamente l’inserimento (o meglio il “completamento”) delle mani dell’effigiato e l’impercettibile rotazione del busto che presuppone una veduta di tre quarti della figura, contribuiscono a scardinare l’equilibrio compositivo raffaellesco, introducendo la componente, squisitamente barocca, dell’hic et nunc. L’impressione di vibrante dinamismo è rafforzata da una pennellata libera e veloce, pure erede, nei virtuosismi delle vesti e della barba, della più fedele tradizione di Holbein.

Le ragioni di tali scelte affondano le radici nella profonda conoscenza, da parte di Rubens, della trattatistica sviluppatasi in Italia attorno alla teoria dell’imitazione e al ruolo della pittura nella competizione tra le arti. Tralasciando, per ora, il rapporto con le principali fonti testuali italiane e la fisionomia di Rubens teorico, appare opportuno, nel caso del ritratto di Castiglione, richiamare le tre forme di mimesis prescritte in epoca rinascimentale, ossia la translatio (un’accurata replica del modello), l’imitatio (sempre da intendersi come copia, benché meno pedissequa, dell’originale) e l’aemulatio (che consiste nell’eguagliare e superare gli esiti raggiunti dal modello di partenza). Ciascuna di queste modalità imitative trova applicazione nello sterminato corpus rubensiano e, come si è visto nel caso del bozzetti (segnatamente in quello del Seppellimento di Cristo), l’iniziale adesione al modello di riferimento non esclude in alcun modo un continuo processo di elaborazione, e per certi aspetti di interiorizzazione, del modello stesso o della prima copia realizzata.

Il Ritratto di Baldassar Castiglione sembra offrire una virtuosistica prova di imitatio [19] , se non addirittura di aemulatio, ove il superamento del modello, lungi dal potersi esprimere in termini qualitativi, consiste nell’adozione di un’estetica moderna, nell’inserimento di una fugacità barocca, che si sostanzia, in ultima analisi, dello stesso furor riscontrato nella produzione degli schizzi a olio. In linea con le conclusioni di Pilo in merito all’eredità del Rinascimento italiano, è dunque possibile ribadire che il movimento, per Rubens, “è fattore fondativo della sua arte e di ogni successivo sviluppo di essa” [20] .

La tavola ad olio con Caino e Abele (fig. 8), eseguita non oltre il 1610, tradisce l’influsso della pittura michelangiolesca e della statuaria antica meticolosamente copiata a Roma. Tema dominante è la violenta contrapposizione tra i due fratelli, rimarcata tanto dall’impetuosità dei gesti quanto da contrasti cromatici e chiaroscurali, atti ad evidenziare le nudità anatomicamente impeccabili dei corpi. Ciononostante, a livello compositivo le membra arcuate dell’uno e dell’altro si succedono senza soluzione di continuità, disegnando una linea curva che, dal basso a sinistra all’alto a destra, si estende per l’intera altezza della tavola. La lotta fratricida è sintetizzata dalla giustapposizione di due masse muscolari, quella pettorale di Abele e quella dorsale di Caino, e dalle opposte fattezze dei volti, imberbe e pallido il primo, torvo e barbuto il secondo. Entrambi hanno il braccio destro teso verso l’alto, ma mentre la futura vittima apre la mano come in un disperato tentativo di resistenza alla morsa del fratello che con la mano sinistra lo tiene fermo stritolandogli il collo, il carnefice impugna la mascella d’asino con la quale sta per infliggere il colpo mortale.

In secondo piano, dietro alla figura distesa di Abele, vi è un fuoco ardente da cui si innalza una spessa coltre di fumo, che assolve la duplice funzione di richiamare il contesto dell’uccisione (Caino e Abele erano in procinto di compiere un sacrificio a Dio) e di replicare la varietà dei toni bruni e dei bagliori improvvisi che investono le figure. Per contro, il paesaggio sullo sfondo, sviluppato nell’angolo in alto a destra, è dominato da fredde tonalità di azzurro e di verde, di probabile derivazione giorgionesca o tizianesca.

Secondo Bodart quest’opera deve essere messa in relazione con uno schizzo, perduto, registrato nella collezione Louis Jay di Francoforte nel 1925 [21] . Il dipinto non deriverebbe dunque dal disegno di soggetto analogo di Amsterdam (Gemeente Musea), sebbene in entrambi i casi la presenza della mascella d’asino favorisca la sovrapposizione iconografica tra la lotta di Caino e Abele e quella tra Sansone e il filisteo. Tuttavia, la datazione del disegno al 1608-9 testimonia come in questi anni Rubens nutra un interesse particolare nei confronti del tema, per il quale sembra rifarsi alla lotta di Ercole e Anteo, o a quella di Ercole e Caco, nota attraverso i bronzi di Pollaiolo e gli studi di Michelangelo e di Baccio Bandinelli.

Le indagini diagnostiche condotte in occasione del recente restauro [22] hanno rilevato, oltre ad una serie di pentimenti che interessano la figura di Caino, la presenza di un disegno preparatorio in corrispondenza degli alberi sullo sfondo che, poiché difficilmente riconducibile alla prassi esecutiva di Rubens, lascia supporre la collaborazione con un pittore paesaggista della sua bottega. Non stupisce, del resto, il fatto che Rubens abbia voluto concentrarsi sulla resa anatomica e dinamica delle figure, affrontando, in sede pratica, le questioni teoriche che, proprio negli stessi anni, sviluppava nel De Imitatione Statuarum. Si tratta dell’unico frammento pervenutoci dell’ampio trattato scritto dall’erudito pittore che, come riportato da Bellori, includeva “osservationi di ottica, simmetria, proportioni, anatomia, architettura, et una ricerca de’ principali affetti, ed attioni cavati da descrittioni di Poeti, con le dimostrationi de’ pittori” [23] .

Fortemente intrisa di riferimenti alla trattatistica italiana, la teoria imitativa di Rubens compendia motivi retorici, desunti dell’estetica dell’ut pictura poesis, questioni metafisiche, connesse all’attività demiurgica dell’artista, e nozioni fisiognomiche, mutuate dal De Humana Physiognomia di Giovan Battista Della Porta. L’attenzione rivolta alla statuaria antica sembra rispondere ad una duplice esigenza avvertita dal pittore: il bisogno “morale” di recuperare gli esempi virtuosi del passato, radicati in una sorta di età aurea in cui alla proporzione dei corpi corrispondeva un rigore dei costumi, ed il desiderio “pratico” di copiare modelli di anatomie perfette, prontuari di muscolature erculee e torsioni atletiche. Lungi dal divenire un esercizio acritico, l’imitazione delle statue richiede un costante sforzo da parte del pittore, primo fra tutti quello di evitare di trasporre su carta, o su altro supporto bidimensionale, una figura bloccata, quasi si trattasse di una statua colorata. Compito dell’artista è, dunque, quello di infondere un guizzo vitale nei corpi raffigurati, ricorrendo al principio del movimento come forza in grado di unificare la materia e la forma.

La tavola con Caino e Abele mostra una felice combinazione tra la componente eroica dei corpi ed il principio dinamico cui essi sono sottomessi dalla “furia del pennello”.

Altro esempio di tale dialettica è offerto dal coevo Mosè e il serpente di rame (fig. 9), parimenti eseguito ad olio su tavola. Ancora una volta, l’episodio è sintetizzato dal momento di maggiore intensità drammatica: Mosè, al centro della scena, indica il bastone su cui ha collocato il serpente di rame, che, esprimendo la misericordia del Padre, restituisce la salute ai peccatori che erano stati morsi da serpenti velenosi.

Alla base del palo di legno, prefigurazione della Croce di Cristo, i corpi aggrovigliati di un uomo, di una donna e di un bambino, stritolati dalle spire dei serpenti, testimoniano la terribilità della punizione divina, mentre sulla sinistra della scena il gruppo di figure che fissano il serpente di rame sperimentano la potenza del miracolo. Così concepita, la composizione è bipartita dal bastone centrale: a destra domina la figura solenne ed equilibrata di Mosè, seguito da due uomini; a sinistra una massa scultorea di imponenti nudi è bloccata nell’istante di sovrannaturale passaggio dalla morte alla vita.

Numerosi sono i riferimenti presi a modello da Rubens per la resa delle anatomia corporee: dagli Ignudi della Sistina, nel caso della figura con le mani alzate in preghiera, al gruppo del Laocoonte, che sembra ispirare da vicino il possente personaggio sulla destra, che irrigidisce tutti i muscoli del corpo nello sforzo titanico di liberarsi dalle molte spire che lo avvolgono. Alla luce delle teorie formulate da Rubens stesso nel De Imitatione Statuarum, verrebbe da chiedersi se questa contrapposizione fra la staticità dei corpi in primo piano ed il dinamismo delle figure sulla sinistra, che pure riflette il peculiare resoconto biblico contenuto nel Libro dei Numeri, possa essere ricondotto al contrasto tra le statue colorate che derivano da una pedissequa copia della statuaria antica e le figure cui invece deve ambire l’artista, interessate da un forte dinamismo e dal superamento, in chiave pittorica, del modello scultoreo.

Se così fosse, ci troveremmo di fronte ad un arguto metadiscorso del maestro fiammingo che, se nel caso dei “dissegni colorati” affronta questioni endogene alla pittura, in quest’opera prende posizione sul più complesso rapporto fra le arti sorelle di pittura e scultura.

Al tempo stesso, Rubens dà prova di rielaborare fonti eterogenee, dalla statuaria antica al linguaggio michelangiolesco (filtrato da Annibale Carracci [24] ), al cromatismo veneto del cielo striato di nubi, incarnando il modello dell’ape che produce il nettare da una moltitudine di fiori [25] . L’immagine del miele come frutto del lavoro di riduzione ad unum di fonti molteplici è utilizzata, tanto da Rubens nel De Imitatione Statuarum quanto dallo scrittore Samuel van Hoogstraeten nel 1678, in riferimento al risultato del processo artistico. Tuttavia, mentre nel primo caso la similitudine è indirizzata ad un modus operandi ideale, nel secondo è concretamente rivolta allo stile di Rubens, i cui esiti originali, come si è visto nelle opere prese in esame, scaturiscono dall’infaticabile, meticolosa rielaborazione di una ricca varietà di fonti italiane.

Inoltre, nel caso degli schizzi e delle tavole presi in esame sinora, un denominatore comune è rappresentato dalla medesima provenienza dei pezzi, lasciati in eredità al Courtauld Institute dal conte Antoine Seilern (1901-1978) [26] . Questi conferisce al nucleo di opere un significato ulteriore poiché consente di scoprire come esse non siano solamente frutto di un’intensa attività collezionistica, ma anche l’oggetto di studi pionieristici sulla tecnica e sullo stile di Rubens, nonché il risultato di un’attenta e costante valutazione critica.

Lo studio sistematico della produzione rubensiana iniziò nel 1937, quando Seilern intraprese gli studi dottorali presso l’Università di Vienna, dedicandosi all’influsso della pittura veneziana nell’ideazione dei soffitti dipinti da Rubens. La parallela attività collezionistica si sviluppò soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, rivolgendosi alle differenti tecniche artistiche sperimentate dal pittore fiammingo, dallo schizzo a olio, al disegno, ai dipinti su tela e su tavola.

“Tutto ciò che riguarda Rubens mi interessa” scriveva Seilern nel 1964, in riferimento ad un interesse da intendersi come appagamento estetico ed intellettuale al tempo stesso [27] . A dimostrazione del vaglio critico cui Seilern sottoponeva le proprie opere valga come esempio lo studio dedicato alla citata Deposizione di Cristo nel 1953, nel quale l’analisi formale offerta dal collezionista rivela una profonda comprensione del processo di graduale autonomia, da parte di Rubens, rispetto al prototipo caravaggesco studiato a Roma.

Alle questioni stilistiche Seilern sapeva affiancare raffinati confronti iconografici, come nel caso della figura di vecchia sulla sinistra della composizione di Mosè e il serpente di rame, per la quale lo studioso propone appropriati rimandi sia alla produzione di Elsheimer che a quella di Rubens stesso, citando l’Adorazione dei Pastori di Fermo.

Inoltre, il collezionista non mancava di investigare la tecnica, o meglio le tecniche, di Rubens, rivelando un interesse pioneristico nei confronti del modus operandi dell’artista. Risulta significativa, in tal senso, la scelta di acquisire, oltre al bozzetto ad olio con la Conversione di Saulo, due disegni di soggetto analogo attribuiti a Rubens. Resosi conto che i due disegni non erano che metà dello stesso foglio, Seilern si pose il quesito del perché la metà sinistra trovasse delle rispondenze esatte con lo schizzo a olio, mentre la destra mostrava soluzioni affini al dipinto finito. L’ipotesi che ne derivò fu che Rubens fosse partito da un disegno (di cui rimaneva la parte sinistra), avesse proseguito la sperimentazione mediante il bozzetto, e fosse tornato ancora al disegno per reimpostare la porzione di destra, strappando quella precedente. Facendo luce su questo iter, Seilern dimostrava la varietà e la complessità del processo creativo che precedeva l’esecuzione del dipinto finito, compreso l’insolito passaggio dal bozzetto al disegno. Infine, l’infaticabile raccolta di schizzi ad olio si lega indissolubilmente all’approccio metodologico adottato da Seilern, che trovava nei bozzetti una chiave di lettura efficace per ricostruire la nascita e lo sviluppo dell’inventio rubensiana e l’evoluzione stilistica che ne conseguiva [28] .

Applicando una duplice prospettiva di lettura alle opere analizzate, sarà dunque possibile ravvisare in esse prove tangibili dell’influsso e dell’originale rielaborazione delle fonti italiane da parte di Rubens e, al contempo, testimonianze vive di quegli interessi estetici e scientifici che il conte Antoine Seilern, attraverso il lascito al Courtauld Institute, ha deciso di condividere con le generazioni future.






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NOTE

[1] Così lo definiva Padre Ricci in una lettera datata 23 febbraio 1608 indirizzata al Francellucci. Per la corrispondenza tra i due cfr. Jaffé 1984, p. 109 e n. 1 p. 129.

[2] Białostocki 1964, p. 511.

[3] Martin 1972, p. 59: “a controlled balance that is in sharp contrast with the momentary situation [...] a quality of discipline and restraint that may properly be called Classical”.

[4] Cfr. Białostocki 1964, p. 514: “A Baroque unity of dynamism and action prevails in the Antwerp picture. Eight persons frame Christ’s body, each one matching the one opposite. They extend their hands, which, although in general do not touch the body, constitute an expression of the intentional sharing in the action, of communion in service of the Corpus Christi, i.e, the Eucharist: it is an image of the community of the Church”. Per una simile lettura si rimanda, inoltre, a Kauffmann 1953.

[5] Białostocki, ad esempio, riconduce l’importanza della figura della Maddalena alla data di consacrazione del trittico, il 22 luglio del 1614, giorno di Santa Maddalena (1964, p. 514).

[6] Per la rilevanza di questo bozzetto per la comprensione della prassi esecutiva di Rubens e per l’utilizzo dell’imprimitura per gli incarnati cfr. Held 1980, I, p. 45.

[7] “Rubens was one of the first to use the streaky imprimatur systematically as a neutral middle tone between highlights and shadows, above all in his oil sketches” (van Hout 1998, p. 205). Per una ricostruzione dell’evoluzione dell’imprimitura cfr. Woodall in Peter Paul Rubens. A touch of brilliance 2003, p. 13.

[8] Come sottolineato da White, che rimarca la rilevanza dei soffitti veneti sia per il soffitto della chiesa dei Gesuiti di Anversa che per quello della Banqueting House di Whitehall a Londra (1987, p. 152): “The system of steep perspective of 45 degrees from below would have been familiar to Rubens from his study of ceilings decoration by Titian, Tintoretto and Veronese in Venice. The Venetian connection is especially apparent in the scene of Esther before Ahasuerus, in which there is an obvious dependence on Veronese’s treatment of the same theme on the ceiling of S. Sebastiano, a work which was to influence Rubens even more fundamentally when he came to execute the Whitehall ceiling”.

[9] Bellori 1672, p. 245.

[10] Per questa sintesi sulla rielaborazione di Rubens della Battaglia di Anghiari cfr. White (1987, p. 11): “Having begun by copying in black chalk some record of Leonardo’s composition, Rubens’ interest grew in size and imagination, and after adding strips to all four sides of the original sheet of paper he developed his thoughts with the brush dipped in grey ink. The final result captures the spirit rather than the letter of Leonardo’s original”.

[11] Per un’indagine sulla ricezione delle teorie estetiche rinascimentali e barocche da parte di Rubens si veda Muller 1982 (ed in particolare p. 242-243 per il riferimento allo schizzo della Deposizione del Courtauld).

[12] Bellori 1672, p. 205.

[13] La dipendenza dell’invenzione di Rubens dall’incisione di Wierix è rivelata tanto dalla soluzione compositiva quanto dal tema stesso della raffigurazione: “Hieronymus Wierix’s engraving (after Bernardo Passeri), provides not only the source of Rubens’s composition, but also the key to the precise theme it represents. […] there can be no doubt of Rubens’s indebtedness to it” (Freedberg 1978, p. 433).

[14] Per questa osservazione cfr. Bauer 1999, p. 526.

[15] “Ben si deve ricordar secondo l’estrema bontà della sua memoria el archiduca d’haver veduto duoi anni fà un dissegno colorito fatto di mia mano per servicio della tavola colle porte dal altar maggior del duomo di Gandt” (Rooses-Reulens 1898, I, p. 43). Per una discussione sul “dissegno colorito” si veda Martin 1968 e Woodall in Peter Paul Rubens. A touch of brilliance 2003.

[16] “The artist’s claim to produce dissegni coloriti suggests that, historically, there was not a stark, Nietzschean choice between a frenzied, Bacchic and a rational, Apollonian Rubens” (Woodall in Peter Paul Rubens. A touch of brilliance 2003, p. 18).

[17] Appare condivisibile la prudente posizione di Norris (1955, p. 398): “we do not know enough of Rubens’ different journeys to the Netherlands to say with certainty that he did not see it there, or long before in Italy”.

[18] Per un’accurata casistica si rimanda a Wood 2010.

[19] Tale viene giudicata da Muller (1982, p. 239) per via dell’aggiunta delle mani dell’effigiato: “Rubens’s freer copies and adaptations may be placed under the heading imitatio within the larger process of artistic imitation”. Sul rapporto tra Rubens e le tre forme di imitazione rinascimentali si rimanda inoltre al saggio di Meganck in Rubens. A genius at work 2007.

[20] Cfr. Pilo in Pietro Paolo Rubens 1990, p. 21.

[21] Bodart 1990, p. 168. Per il perduto schizzo di Rubens cfr. Held 1980, I, p. 427, n. 308.

[22] L’intervento di restauro, che rientra nel Bank of America Art Conservation Project del 2010, è durato circa undici mesi ed è stato curato da Kate Stonor e Clare Richardson (Department of Conservation and Technology of The Courtauld Institute of Art), già restauratrici del Mosè e il serpente di rame.

[23] Bellori 1672, p. 247.

[24] Come suggerito da Jaffé, che scrive: “Portando nuovamente l’essenza di Michelangelo all’esperimento della vita, Rubens ne revisionò e ne arricchì la propria comprensione. Egli si avvaleva, in questa tecnica corroborante, dell’esempio di Annibale Carracci. Non sarebbe stato lento nel riconoscere negli ignudi in carne e ossa di Annibale, ordinati graziosamente a loro agio lungo la modanatura di Galleria Farnese e, anche più chiaramente, negli studi in gesso per le pose decorative di questi giovani, la lezione vitale su come un pittore moderno dovesse essere ispirato da Michelangelo senza esserne sopraffatto” (1984, p. 24).

[25] La fortuna della similitudine trae origine in Seneca (Ad Lucilium Epistolae Morales, lxxxiv).

[26] La Princes Gate Collection assemblata da Seilern comprendeva 127 dipinti e 354 disegni.

[27] “Everything connected with Rubens interests me”, lettera di Seilern a S. B. Mayer datata 16 maggio 1964 (custodita nell’archivio del Courtauld Institute of Art e segnalata da Vegelin van Claerbergen in Peter Paul Rubens. A touch of brilliance 2003, p. 23).

[28] Sul rapporto tra approccio metodologico e collezionistico in Seilern cfr. Vegelin van Claerbergen in Peter Paul Rubens. A touch of brilliance 2003, p. 28: “Shaped fundamentally by his Viennese background, Seilern was less interested in the traditionally formulated appeal of the sketches that in the opportunity they afforded of understanding Rubens’ methods and the evolution of his pictorial ideas as evidence of the logic of his style”.









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La Deposizione dalla Croce

Fig. 1
PETER PAUL RUBENS, La Deposizione dalla Croce, 1611-13
olio su tavola, The Courtauld Gallery

L'incontro di Salomone con la Regina di Saba

Fig. 2
PETER PAUL RUBENS, L'incontro di Salomone con la Regina di Saba, 1620
olio su tavola, The Courtauld Gallery

Ester e Assuero

Fig. 3
PETER PAUL RUBENS, Ester e Assuero, 1620
olio su tavola, The Courtauld Gallery

La Conversione di Saulo

Fig. 4
PETER PAUL RUBENS, La Conversione di Saulo, 1610-12
olio su tavola, The Courtauld Gallery

La Deposizione

Fig. 5
PETER PAUL RUBENS, La Deposizione, 1615-16
olio su tavola, The Courtauld Gallery

L'Assunzione della Vergine

Fig. 6
PETER PAUL RUBENS, L'Assunzione della Vergine, 1635
olio su tavola, The Courtauld Gallery

Il Ritratto di Baldassar Castiglione

Fig. 7
PETER PAUL RUBENS, Il Ritratto di Baldassar Castiglione, 1630
olio su tavola, The Courtauld Gallery

Caino e Abele

Fig. 8
PETER PAUL RUBENS, Caino e Abele, 1608-09
olio su tavola, The Courtauld Gallery

Mosè e il serpente di rame

Fig. 09
PETER PAUL RUBENS, Mosè e il serpente di rame, 1610-12
olio su tavola, The Courtauld Gallery

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