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Lee Miller e Joseph Cornell: La Musa e L'Argonauta1  
Eleonora Rovida
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 20 Giugno 2010, n. 566
http://www.bta.it/txt/a0/05/bta00566.html
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Joseph Cornell e la fotografia surrealista

Joseph Cornell, il “cacciatore di immagini” [2] , è da sempre accostato ai Surrealisti. La vicinanza di idee e stile tra questi artisti è evidente e ampiamente certificata da una serie di “incontri casuali” in scena alla Galleria di Julien Levy: il centro espositivo newyorkese diventa un vero e proprio tramite tra la cultura europea e americana negli anni Trenta.

In un clima artistico di reciproca influenza non è difficile trovare curiose corrispondenze tra le opere prodotte in quell’epoca. Il collage, protagonista di un dibattito estetico proprio in questi anni, sembra essere la perfetta realizzazione del periodo storico-artistico: la tecnica permette di raccogliere i ritagli trovati e di ricomporli parificando gli elementi compositivi, facendo così, allo stesso tempo, la fortuna dei singoli.

L’artista diventa un cacciatore che si appropria di un prodotto altrui rivalutandolo all’interno di una composizione nuova: è una pratica di riciclo che diventa arte.

Proprio grazie al concetto di un’arte che non si crea, ma si trova, le opere rispecchiano, tanto a livello tecnico quanto contenutistico, il costante rapporto tra gli artisti.

Cornell, per di più, soffre di ammirazione per i grandi come Ernst o Duchamp, ma anche per le dive, dalle attrici alle ballerine che incantano gli spettatori nei teatri di tutto il mondo. Non è raro trovare omaggi e richiami ad altre opere o agli artisti nei suoi collages e nelle Shadow Boxes: nella sua arte c’è il gusto per la citazione come se ogni capolavoro in miniatura fosse una celebrazione del frammento da ricomporre in una piccola meraviglia da scoprire attraverso uno schermo ingannevole.

Il potere illusionistico di vetri e specchi è un amore storico tra i Surrealisti che, affascinati dalle opere di Atget, fanno del fotografo francese un predecessore ante litteram della loro arte, modello da osservare e pubblicizzare sulle riviste del movimento.

Man Ray è il più interessato alla promozione degli scatti di questo fotografo, paradisi perduti di manichini in vetrina nella sordità di un vuoto metafisico di dechirichiana memoria. L’artista presenta l’opera del foto-documentarista ad una delle sue più valide allieve, Berenice Abbott, che si occupa dell’acquisizione di gran parte del corpus fotografico di Atget. Le istantanee, portate negli Usa, vengono esposte proprio alla Galleria di Julien Levy contribuendo a formare il gusto di generazioni di artisti.

Il taglio e il tema banale sono capisaldi del Surrealismo insieme alle sovrapposizioni create dal vetro: è il quotidiano in esposizione, un’esperienza vissuta con un occhio nuovo che respira della poetica delle piccole cose.

Le fotografie non sono altro che un prototipo per un’arte più elaborata: sono documents pour artistes, come le definisce lo stesso Atget, che si è sempre ritenuto un semplice artigiano al servizio, appunto, degli artisti.

La fotografia alla corte dei Surrealisti è molto più che una tecnica di sperimentazione: lo stesso Benjamin sottolinea come la predilezione del fotografo per il banale realizzi un’equiparazione di fronte a qualsiasi oggetto catturato dall’obiettivo riqualificando la discarica urbana in un’esposizione magica.

Il fotografo è un poeta straccivendolo alla Baudelaire.

Il  fascino del quotidiano si tinge di giallo: l’oggetto diventa un gioco di significati nascosti, una slot machine dove le soluzioni dell’enigma si sovrappongono e ingannano lo spettatore paralizzando qualsiasi possibile riscontro con la realtà. È il potere dello shock surrealista che, per rendere l’inganno ancora più vero, si avvale della fotografia: lo scatto autentica il sogno e la visione trasformando il collage in un trabocchetto reale.

La fotografia, quindi, riveste un ruolo notevole nella sperimentazione artistica del movimento mentre i fotografi vivono a stretto contatto con artisti e galleristi in un’intricata rete di corrispondenze tanto nelle opere quanto nelle relazioni interpersonali.

La quantità di immagini prodotte in questi anni accresce la fama della tecnica artistica: la fotografia diventa protagonista delle riviste, oggetto commerciale e illustrativo, immagine educativa e divertissement nonché ritaglio per il collage artistico.

Il “cacciatore di immagini” raccoglie i frammenti visivi della Manhattan dei rigattieri creando opere che assemblano oggetti e significati secondo un unico imperativo: le consonanze interiori dell’artista.

Proprio in questi anni Cornell sperimenta diverse tecniche alla ricerca di un metodo che gli permetta di raggiungere quella spazialità reale tanto cercata nel tentativo di accostarsi alla vita stessa. L’artista passa dal collage, al cinema, agli oggetti tridimensionali guidato dalla sua personalissima necessità poetica: l’immagine diventa il denominatore comune della caccia che mitiga il culto dell’antico e del vittoriano volgendosi all’attualità. Se le cartes de visite  vittoriane riempiono le sue prime collezioni, negli anni Trenta i suoi collages sono teorie dell’accumulo di fotografie attinte alle riviste come gli scatti di “George Holyniegen-Heaune, Lee Miller, and Cecile Beaton” [3] .

Questo passaggio non sembra essere di poco rilievo: dimostra come Cornell inizi a confrontarsi con gli artisti del momento creando un’apertura tra il suo mondo collezionistico, “alla ricerca del perduto e del bello”, e la realtà, partendo dai suoi incontri.

Ogni artista ha un suo modo di rapportarsi con Cornell e una sua influenza: dalla rabbia di Dalì alla delicatezza di Duchamp resta comunque un’impronta sulla creatività di Cornell, traccia indelebile dell’effetto prodotto sulla sensibilità dell’artista.

Le personalità alla galleria di Levy sono varie e molteplici, ma c’è un incontro casuale che, credo, sia degno di nota: Joseph Cornell trova sulla sua strada Lee Miller.


 

La Musa dei Surrealisti

È il 1932 quando i due artisti si incontrano: si tratta della prima personale della fotografa negli Usa, promossa da Julien Levy.

Elizabeth (Lee) Miller è già molto conosciuta all’epoca dell’incontro: è appena arrivata da Parigi dove ha trascorso tre anni a contatto con Man Ray di cui è stata allieva, modella e amante.

Lee Miller è nota al pubblico come la “Musa dei Surrealisti”: i suoi incantevoli occhi blu, i capelli corti sbarazzini e il suo corpo diafano hanno stregato gli artisti dell’epoca che gareggiano per contendersela come modella e compagna. I suoi scatti impazzano sulle riviste di mezzo mondo: è lei la musa che ispira, il modello della donna prediletta dai Surrealisti, la diva che diventa protagonista e ritrattista dell’arte.

Tutta la sua vita, come la sua arte, è una rete di rimandi: le immagini e i personaggi si specchiano nel suo obiettivo per gioco diventando, in realtà, pedine di una scacchiera costruita con le istantanee, passi di un sentiero dalle innumerevoli biforcazioni che sono le vite di Lee Miller [4] .

Cornell non può certo restare indifferente a quella che, all’epoca, è la diva per eccellenza: “She was unlike anyone he had ever known, her blue eyes sparkling as she related stories about the Surrealists” [5] . Sembra che i due artisti si incontrino spesso nello studio della fotografa in Madison Avenue and Forty-eight Street: “Miller’s unceasing patience for Cornell confounded at least one person” [6] .

Il loro è un rapporto speciale che va dall’amicizia, alla stima reciproca, alla collaborazione, nonostante si tratti di due personalità opposte: Cornell è l’eterno insicuro, timidissimo e riservato, instancabile sognatore mentre Lee Miller realizza qualsiasi capriccio viaggiando per il mondo, ottenendo successo in ogni campo e in ogni angolo del globo e intrecciando la sua vita con i grandi protagonisti dell’arte. Sembra che Lee Miller non manchi mai gli appuntamenti con la Storia: è modella negli anni del boom delle fotografie sulle riviste; è fotografa quando la fotografia è il trucco che autentica la magia surrealista; è attrice e ballerina per Cocteau proprio mentre si sviluppa il dibattito con Breton sulla paternità del movimento; è documentarista in un’epoca in cui la guerra è di attualità mondiale.

Lee Miller è un angelo da palcoscenico, statua per copione ne Le sang d’un poète di Cocteau nel 1930: nessun personaggio può essere più adatto a lei, la rivisitazione di un oracolo in toga classica che serve le carte al giocatore che le sta di fronte ricordandogli che “se non ha l’asso di cuori è un uomo perduto”.

Ed ecco l’artista tipicamente anni Trenta che mischia i ritagli per i suoi collages, come un mazzo di carte: l’ironia del gioco surrealista confonde lo spettatore che, ignaro, si trova in mezzo allo shock in cui una statua classica non è per niente tradizionale. Quella statua è l’arte stessa, azzardo e creazione, travestita di purezza androgina che nasconde l’inganno di un baro: gli specchi farebbero bene a riflettere prima di rimandarci la nostra immagine” [7] .

Lee Miller regala a Cornell una foto della sua performance surrealista, probabilmente conscia di quel grande amore dell’artista per il mago dei giochi tra classico ed enigma, De Chirico: “One day she gave him a photograph of herself in Jean Coucteau’s movie Blood of a Poet, in which she had starring role as a Greek statue, and Cornell squirrelled it away with his numberless glossies of singers and Hollywood starlets” [8] .

Si svela da subito uno dei tratti fondamentali di Lee Miller: la teatralità dell’attrice-ballerina che farà da sfondo ad ogni scatto. Le prime teste fluttuanti che popolano le istantanee surreali di questi anni sono animate da uno spirito più profondo di quella tecnica appresa da Man Ray a Parigi.

La cura per l’aspetto intimistico - emotivo del personaggio diventa tratto distintivo della sua attività di ritrattista che rende lo scatto un’opera scenica. Il modo di costruire il soggetto con la luce è più teatrale di quello di Man Ray e si avvicina allo stile sofisticato del fotografo Horst. P. Horst, lo “scultore di immagini”.

Il sentimento è reso ancora più evidente dall’introduzione del colore blu, sinonimo di triste, forse eco di quel duchampiano “tr”, c’est très important.

L’affinità contenutistica sembra entrare, proprio in questi anni, nell’arte di Cornell: “Cornell also developed more varied expressions of collage between 1932 and 1940 than previously understood. Based on the retroactively assigned to Untitled (Mary Taylor By Lee Miller), he introduces the use of color and incorporated excerpts from photographs around 1932” [9] . La tonalità blu applicata a questo ritratto realizzato da Lee Miller rispecchia l’atmosfera notturna e proviene da un libro di astronomia: “a color plate from an astronomy book provides the nocturnal blue background” [10] . Tra teste fluttuanti, staccate dal corpo, e pagine astronomiche non si può non pensare al Soap Bubble Set di Cornell nel 1936.

Con strana casualità il blu compare nel primo film realizzato dall’artista proprio nello stesso anno: Rose Hobart, infatti, viene proiettato con un filtro di vetro blu. La coincidenza tra il sentimento e l’elemento linguistico si ritrova alla metà degli anni Cinquanta quando Cornell aggiunge una specie di sottotitolo o secondo titolo al film chiamandolo tristes tropiques generando una forte allitterazione della “t”.

Il film è un taglia e cuci di scene tratte da East of Borneo, jungle drama del 1931, nelle quali compare l’attrice Rose Hobart: è la celebrazione dell’incanto della diva, reso solenne dalle scene volutamente rallentate in fase di proiezione che si alternano a fotogrammi di un documentario scientifico sulle fasi di un’eclissi. Sarà un caso, ma la protagonista del film ha una somiglianza impressionante con Lee Miller.

Il tema della bellezza rispecchia una strana coincidenza visto che negli scatti “using simple techniques of ‘straight’ photography (photographic unaltered negatives and prints that are not subjected to double exposure or montage), such as camera angle and lens framing capacity, Miller’s achieved the Surrealist idea of ‘convulsive beauty’ (André Breton’s notion that a shocking sense of beauty is inherent in the accidental or decontextualised)” [11] .

Le teste fluttuanti echeggiano di oggetti trovati: i francobolli nel mondo anglosassone sono chiamati heads proprio per la testa della regina che si vede sullo stamp. E pensare che i collezionisti di francobolli vengono elevati alla stregua degli artisti proprio nell’età contemporanea: “Nous sommes à une époque de curiosité esasperée qui fouille tout, hommes et choses; à default de la grande histoire que nous ne savons plus faire, nous ramassons les miettes de la petite avec un tel zèle que notre considération en est venue à ouvrir ses grands yeux devant un collectionneur de timbres-poste” [12] .

Gli sfondi blu, invece, sembrano rispondere al bisogno d’inganno tipicamente surrealista: è un’allusione alle immagini liquide, deformate dal potere del vetro e dello specchio. Lee Miller dimostra una passione, proprio in questi anni, per i giochi visivi: da Exploding Hand dove “(She) uses these tecniques to create an image that looks like a woman’s hand smashing through a glass door” [13] ) a Scent Bottles “which shows a row of perfume bottles perfectly doubled by their mirrored reflection, exemplifies Miller’s ability to enhance ordinary subject matter with her unique vision” [14] .

L’interesse della Miller per boccette di profumo e cosmetici in accumulo crea opere che enfatizzano l’amore per l’oggetto in esposizione proprio quando Cornell comincia a sperimentare i primi assemblages. Basti vedere Mary Chess del 1933.

L’idea di una sperimentazione comune tra i due artisti si svela in uno scatto di Lee Miller, Untitled (Joseph Cornell Object): si tratta di un contenitore in vetro a forma di proiettile che racchiude un bicchiere con la finta testa di un bambino. Sul recto ci sono le firme dei due artisti insieme ad una dedica che recita "For Julien [15] , In deepest appreciation, Joseph Cornell, Nov. 1933”.

Il costante rapporto tra il gallerista, la fotografa e il “cacciatore di immagini” sembra molto intenso in questi anni.

 

 

Ritratto di un argonauta

Nello stesso anno Lee Miller realizza un omaggio fotografico a Cornell, una serie di scatti che immortalano non solo l’artista, ma anche il suo sconfinato amore per l’oggetto.

Cornell si presenta in un inganno visivo sapientemente orchestrato dall’abilità teatrale di Lee Miller: la testa apparentemente fluttuante dell’artista sembra incastonata in un veliero.

Ė la lettura più magica della personalità dell’artista, la mente di un argonauta solitario che impreziosisce il suo vascello- giocattolo di significati enigmatici.

La fotografa probabilmente vuole sottolineare come l’artista discenda da una famiglia di navigatori olandesi: anche nelle opere di Cornell compaiono spesso vascelli, rose dei venti e metafore legate al mare.

L’omaggio si compone anche di sei parti di un tipewritten essay scritto da Julien Levy, Art and Artillery, che evidenzia ulteriormente il costante rapporto tra i tre: “Each of the six prints is captioned by Levy with excerpts drawn from his essay. The portrait of Cornell, ...spun the wind like hair for the sails of his boat, followed by images of Cornell's work and another portrait, ...continents preserved in jars and phials; ...fragments of stuff into glass balls, ...for the recreation of Life, ....a book was really full of a number of things, ...magic dust...” [16] .

L’opera ha un titolo straniante che echeggia di significati enigmatici: twelve needles indica le lancette dell’orologio, ma anche gli aghi. Il numero dodici potrebbe essere la somma degli scatti e delle parti dell’estratto. To needle significa cucire: sembra proprio che in quest’opera le parole siano cucite alle immagini, come nella più perfetta tradizione surrealista.

Il termine ricorda anche i collages di Cornell dove strane silhouettes passano attraverso macchine da cucire.

Il collage, in fondo, è un taglia e cuci di frammenti visivi tanto quanto il Found Footage, di cui Cornell è l’inventore.

L’idea degli oggetti danzanti (dancing) risponde all’atmosfera delle opere di Cornell, magici palcoscenici dove si incontrano per incanto gli oggetti più disparati. Non si dimentichi, inoltre, che Lee Miller è una ballerina: è lei l’angelo dell’opera.

L’interpretazione di una combinazione tra immagini e parole trova conferma nel testo dell’estratto: “Were not only letters are combined into words, but words into objects, and objects sometimes into minute continents which could be preserved in jars and phials and arrayed upon shelves like pharmacopoeia” [17] .

Credo che nelle parole di Levy si possano trovare alcuni elementi per capire quale sia la chiave di lettura delle opere di Cornell. Quando Levy scrive “Verdâtre, rougeâtre, noirâtre, Cléopâtre: - there is just one more syllable needed in this alchemy of words for the recreation of Life” [18] sembra voler suggerire che l’artista ama gli accostamenti tra le parole che, grazie alla magia del suono, creano un’alchimia.

Forse l’arte di Cornell è soprattutto questo: un enigmatico gioco di parole.

In inglese spell indica tanto il modo di scrivere una parola (compitare) quanto “l’incantesimo”.

Vista la passione dell’artista per Houdini e le caratteristiche stesse delle sue opere non è strano pensare che Cornell cerchi di creare piccoli capolavori illusionistici in miniatura. Nell’estratto Levy lo chiama magician, proprio come la giornalista Nancy Willard, in un’intervista all’assistente di Cornell (Harry Roseman), lo definirà sorcerer [19] .

Il fascino dei suoi accostamenti, filtrati dal sentimento nostalgico della memoria, apre il sipario di un mondo fantastico: i ritagli e gli oggetti sono più che frammenti, vista la componente personale che li assembla.

Il singolo viene rivalutato magicamente: non è solo un pezzo del puzzle, è una vera e propria fonte mnemonica. In francese la fonte è “source”: più che sorcerer, forse Cornell è un sourcier proprio come veniva definito il poeta surrealista Paul Eluard. Il mondo è il serbatoio di quelle fonti trovate.

Ė curioso che Lee Miller stessa si sia definita come un “puzzle imbevuto d’acqua, tanti pezzi sparsi che non si accordano né per forma né per motivi”. E così sono le opere surrealiste: capolavori di accumulo, dove i pezzi, che si assemblano danzando, sono guidati dalla magia: l’opera finale parifica tutti gli elementi, inizialmente sparsi, ibridi e caotici. Ma forse la soluzione all’enigma era già nell’anima di Nietzsche: “bisogna avere in sé il caos per partorire una stella che danzi”.

Stranamente la stella/star indica anche “la diva”.

 

 

La memoria di Elizabeth

Negli anni Quaranta Cornell assembla un collage-omaggio per Lee Miller: “later on, he would incorporate her photograph into a collage, Portrait of Lee Miller (1948-49)” [20] .

L’opera è composta da un ritratto fotografico della Miller sdoppiata in due figure disposte di profilo: una in abiti femminili e l’altra in abiti maschili. Le due sagome sono abbigliate in stile vittoriano, secondo il noto gusto di Cornell, e riassemblate in un tondo che ricorda la ritrattistica dell’epoca ottocentesca.

L’immagine sdoppiata potrebbe essere legata alla macchina di Lee Miller: la fotografa utilizza una Rolleiflex a dodici pose (Twelve) munita di due lenti accostate. L’idea del doppio, naturalmente, si ricollega al potere del vetro e degli specchi tanto amati dai due artisti. La forma della Rolleiflex, inoltre, è molto curiosa: sembra realmente una scatola magica.

Il collage composto da Cornell risponde a quel gusto della citazione e dell’immagine trovata, mentre l’impostazione delle figure, il tondo e la disposizione della composizione sembrano richiamare un ritratto scattato dalla fotografa a Man Ray e Roland Penrose del 1946.

Lo sfondo giallo è un’anomalia: in genere gli omaggi alle dive erano tinti di blu. Il giallo, invece, adorna i Solar Sets, le aviarie, Medici Boy e L’Egypte de Mlle Cléo de Mérode.

Sono tutte scatole degli anni Quaranta (sempre che le datazioni di Cornell siano reali), epoca in cui i due artisti hanno intrapreso strade diverse: Cornell resta a New York per tutta la sua vita, mentre Lee Miller si trasferisce prima in Egitto (1934) e poi a Londra (1940).

Credo che il legame instaurato tra i due non sia svanito per la lontananza: la collaborazione fittissima negli anni newyorkesi non può sparire nel nulla. Lo dimostra il ritratto della fotografa realizzato da Cornell a più di dieci anni dalla partenza dell’amica.

Gli scatti di Lee Miller sono pubblicizzati sulle riviste di tutto il mondo: la fotografa raggiunge l’apice della notorietà negli anni Quaranta. Cornell, grande sourcier, avrà sicuramente seguito le avventure dell’amica: forse è la vita che avrebbe voluto vivere se non fosse stato così riservato.

Lee Miller è sempre alla ricerca di nuovi stimoli: cambiare compagno e città è diventata un’abitudine frequente in questi anni. Il soggiorno egiziano, però, non si è rivelato un’esperienza gratificante: gli amici raccontano la tristezza della fotografa nel deserto. Può avere tutto visto che è sposata con Aziz Eloui Bey, ma gli scatti di quelle meraviglie africane sono attraversati da una grande nostalgia per la New York dell’arte.

Basta guardare il suo più noto capolavoro del 1937 Portrait of Space, Near Siwa che “shows a very deep dimensional view of the desert plains through a ripped screen. This photograph of the open desert paradoxically creates a sense of claustrophobia, perhaps Miller’s own feelings about Egypt [21] .

Quello strappo ha la stessa forma del veliero nel ritratto di Cornell: è una finestra sulla distesa del deserto. Lee Miller porta lo spettatore in una situazione claustrofobica: oltre quello strappo c’è un deserto vuoto e l’artista si chiude nell’equivalente di una scatola. Il deserto è immortalato come una distesa infinita: un mondo in cui si ha paura di andare, proprio come Cornell [22] .

Sempre nel 1937 Lee Miller realizza una serie di istantanee, vere indagini sull’atmosfera metafisica delle architetture egiziane segnate dal tempo: le strutture creano linee d’ombra immobili che disegnano forme geometriche perfette sulla sabbia del deserto. I soggetti più frequenti sono i monasteri e le piramidi, imponenti dimore di vuoto e silenzio. From the Top of the Great Pyramid resta uno degli scatti più suggestivi dell’epoca.

Stranamente tre anni dopo Cornell compone Bel Echo Gruyère, “box construction with inoperative toy bellows. The bellows is the sort of mooing contraption that makes a cow noise when it’s turned upside down. This one is wrapped in foil and placed inside a circular box” [23] . La scatola contiene un finto pezzo di formaggio a forma di piramide: forse è un rimando alla foto di Lee Miller.

Resta l’enigma del formaggio: c’est un hommage au fromage. Nel 1932 Lee Miller, proprio per la sua passione per il dettaglio, realizza uno dei suoi scatti più divertenti Rats Tails.

Il topo, o meglio “ratto”, è legato ad un episodio curioso degli anni parigini: sembra che la fotografa, chiusa nella camera oscura con Man Ray per lo sviluppo dei negativi, avesse acceso improvvisamente la luce sentendo un ratto che le camminava sui piedi. Ė l’evento casuale con cui Man Ray e Lee (ri) scoprono la solarizzazione [24] .

Tra il 1936 e il 1940 Lee Miller torna spesso in Europa mitigando, con i soggiorni parigini e londinesi, la depressione sofferta nel deserto egiziano. Nel 1940 si trasferisce a Londra dove intraprende la carriera di fotogiornalista e comincia a documentare al fronte gli orrori della Seconda Guerra Mondiale che vengono raccolti in Grim Glory: Pictures of Britain under Fire.

Uno degli scatti più affascinanti è Revenge on culture, realizzato durante il blitz di Londra: “Miller photographed the image of a fallen, Venus-like statue whose broken, upper torso is obscured by debris and seemingly dismembered by a fallen power line that brutally marks the statue’s marble skin” [25] .

Lee Miller aveva regalato a Cornell proprio una sua foto mentre interpretava una statua greca ne Le sang d’un poète. Le corrispondenze si infittiscono quando si nota che Cornell ha una passione enorme per il balletto: l’artista dedica una serie di scatole alle principali rappresentanti di questa forma artistica. Gli omaggi potrebbero essere anche un ricordo dell’amica.

Lo scambio di “sguardi”, idee e visioni tra Lee Miller e Cornell è più di un’amicizia newyorkese. Il rapporto tra i due artisti, documentato nella biografia di Lee Miller, è rintracciabile nelle opere della fotografa e del “cacciatore di immagini”.

Penso che il ruolo di Lee Miller nell’arte di Cornell sia da approfondire sulla scia dell’idea che ha dato origine alla recente mostra Angeli dell'Anarchia [26] : l’esposizione, allestita alla Manchester Art Gallery, mira a rivalutare l’influenza delle artiste donne sul Surrealismo.

Tra le protagoniste c’è anche Lee Miller.

 

 
 

 

 


 

Bibliografia

D. GAZE, Concise Dictionary of Women Artists, London 2001.

Joseph Cornell, catalogo della mostra a cura di K. McShine, (Firenze 1981), Firenze 1981.

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A. NIGRO, Tra polimaterismo e polisemia: note sul collage surrealista, in “Collage/Collages. Dal Cubismo al New Dada, catalogo della mostra a cura di M.M. Lamberti e M.G. Messina, (Torino 2007-2008), Milano, 2007, pp. 280-296.

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F. NADAR, Quand j’étais photographe, Manchester, Ayer Publishing 1979².

A. PENROSE, The lives of Lee Miller, London 1985.

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C. SIMIC, J CORNELL, Dime-Store Alchemy: The Art of Joseph Cornell, (tr. it. a cura di A. Cattaneo, Il cacciatore di immagini. L’arte di Joseph Cornell) Milano 2005².

D. SOLOMON, Utopia Parkway: the life and work of Joseph Cornell, Boston 2004

N. WILLARD, The sorcerer’s apprentice: a conversation with Harry Roseman, assistant to Joseph Cornell, “Michigan Quarterly Review”, Volume XXXVIII, n. s. I, Winter 1999, pp. 37-56.

K. WARE, Dreaming in black and white: photography at the Julien Levy Gallery, Yale 2006.

 

 

 

 

NOTE

[1]               Vorrei ringraziare la prof. ssa Antonella Sbrilli per avermi seguita negli sviluppi delle mie ricerche.

[2]            C. SIMIC, J CORNELL, Dime-Store Alchemy: The Art of Joseph Cornell, (tr. it. a cura di A. Cattaneo, Il cacciatore di immagini. L’arte di Joseph Cornell) Milano 2005².

[3]               Joseph Cornell: Navigating the Imagination, catalogo della mostra a cura di L. Roscoe Hartigan, (Salem, Washington 2006 – 2007), Salem, Washington, London 2006, p. 53.

[4]               A. PENROSE, The lives of Lee Miller, London 1985.

[5]            D. SOLOMON, Utopia Parkway: the life and work of Joseph Cornell, Boston 2004, p. 71.

[6]               Ivi, p. 72.

[7]               J. Cocteau, Le sang d’un poète. 1930

[8]               D. SOLOMON 2004, p. 71-72.

[9]               Joseph Cornell: Navigating the Imagination, p. 50

[10]              Ibidem

[11]              D. GAZE, Concise Dictionary of Women Artists, London 2001, p. 484

[12]              F. NADAR, Quand j’étais photographe, Manchester, Ayer Publishing 1979², pp. 191-192

[13]              D. GAZE 2001, p. 484

[14]              Ibidem

[15]              Julien Levy

[16]              J. Levy, Art and Artillery, disponibile in Lee Miller, Joseph Cornell or Twelve Needles Dancing on the Point of an Angel, <http://www.christies.com/LotFinder/lot_details.aspx?pos=5&intObjectID=1884818&sid>

[17]              Ibidem

[18]              Ibidem

[19]              N. WILLARD, The sorcerer’s apprentice: a conversation with Harry Roseman, assistant to Joseph Cornell, “Michigan Quarterly Review”, Volume XXXVIII, n. s. I, Winter 1999, pp. 37-56.

[20]              D. SOLOMON 2004, p. 72

[21]              D. GAZE 2001, p. 484

[22]              Lo scatto non resta un incanto isolato: l’anno successivo Magritte propone un’opera molto simile al capolavoro della fotografa: Le Baiser o The Kiss è una rivisitazione dello strappo, un passaggio attraverso due dimensioni

[23]              M. Weidenbaum, Joseph Cornell’s Music Boxes,  <http://disquiet.com/2007/10/13/joseph-cornells-music-boxes/>

[24]              Ė una scoperta ottocentesca.

[25]              D. GAZE 2001, p. 484.

[26]              Manchester Art Gallery, 26/09/09-10/01/2010.

 







 

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