PREFAZIONE
di Maurizio Calvesi
Sono trascorsi non pochi anni
da quando affidai all?allora laureando Stefano Colonna una tesi sulla Galleria
dei Carracci in Palazzo Farnese, tesi che seguii con grande interesse per la
mole dei materiali consultati dallo studioso e per l?intelligenza e novità
delle sue conclusioni. Nel tempo che da allora è trascorso, Stefano Colonna ha ulteriormente
arricchito il suo panorama d?indagine, lo ha ristrutturato, e si accinge ora a
pubblicare il prezioso lavoro con viva soddisfazione mia e, penso, di quanti
hanno a cuore la sempre più approfondita conoscenza di quel fatidico periodo
della storia dell?arte che congiunge l?ultimo decennio del XVI secolo al primo
del XVII. Nell?arte di quegli anni, tra i punti discussi e non chiariti nella
loro interpretazione, il saliente ciclo di affreschi carracceschi è uno dei più
importanti.
Ad una «auspicabile pubblicazione» della magistrale ricerca di Stefano Colonna accennavo già nel
1999, in quella storia artistica dei Giubilei che si intitola Arte a Roma (Rizzoli, p. 131) e
nell?occasione citavo dalla tesi del Colonna i versi di Onorio Longhi da lui ritrovati,
dai quali si evince con chiarezza l?identificazione di Arianna con Margherita
Aldobrandini, che nel 1600 andò sposa a Ranuccio Farnese; che questo sia il
tema principale dell?affresco centrale della Galleria, è stato, di conseguenza,
pienamente riconosciuto dalla critica successiva. Silvia Ginzburg, come scrive
ora Stefano Colonna astenendosi dal menzionarsi, «considera fondamentale la
contiguità cronologica e concettuale del matrimonio di Ranuccio Farnese e
Margherita Aldobrandini con la Galleria tutta».
Già Charles Dempsey, a dire il vero, e fin dal 1968, aveva
avanzato l?ipotesi che la Galleria dovesse essere intesa come un grande
epitalamio per le nozze Farnese-Aldobrandini, ma senza incontrare un seguito
nella letteratura successiva, non avendo potuto dimostrare l?esattezza della
propria intuizione. (Secondo il Briganti si trattava di una supposizione
insostenibile, considerando che le trattative per le nozze furono intraprese
quando il programma era già definito e
gli affreschi in gran parte già realizzati. L?assenza di stemmi parve poi alla
Marzik una prova contraria).
Quanto al resto, Colonna
è in disaccordo con Dempsey, il quale ritiene che la volta e le pareti
rispondano a due distinti e contraddittori programmi, con sacre allegorie nelle
seconde, scene licenziose e maliziose nella prima, a celebrazione paganeggiante
dell?amor profano, senza traccia di quell?Amore sacro di cui parla il Bellori.
Ancora qui il Briganti giudica impressionisticamente, e dopo aver respinto
l?ipotesi giusta del Dempsey, abbraccia con entusiasmo quella che (come il
Colonna accerta, dando spessore di dimostrazione al dissenso da me più volte
manifestato) è invece errata; intorno
ad essa imbastisce le trame di un fantasioso miniromanzo, con colpi e cambi di
scena degni di punti esclamativi : «É
molto probabile che lo spirito classico di carattere pienamente cinquecentesco
che aleggia nella volta, e i soggetti lascivi
che illustravano gli amori degli dèi fossero nati dalla volontà da parte
del cardinal Odoardo [?] di affermare la propria indipendenza dal rigorismo
moralistico del pontefice. Dal
desiderio persino di fare un dispetto al bigottismo di Clemente VIII [?]. Si
conclusero poi con le nozze le faticose trattative per il matrimonio di
Margherita con Ranuccio e sebbene i
rapporti fra le due famiglie non diventassero per questo veramente amichevoli,
lo spirito di indipendenza laica del cardinale si era attutito e quando
sopravvennero in lui altri interessi e altre mire, addirittura quello spirito
si capovolse in rigorismo e certamente la decorazione erotico-satirica non
corrispose più agli umori di Odoardo e Carracci fu costretto, nella seconda
parte dei lavori, a cambiare registro».
Momento cruciale della discussione è il significato degli «Amori
[?] da cui dipende tutto il concetto ed allegoria dell?opera», secondo il
Bellori: «Volle figurarare il pittore con vari emblemi la guerra e la pace tra
?l celeste e ?l vulgare Amore instituiti da Platone». Negli spicchi della volta
compaiono infatti Eros e Anteros che dopo aver lottato per una palma, per una
fiaccola e una corona, infine fanno pace e si stringono la mano.
Dempsey rifiuta l?interpretazione di Anteros come Amor virtutis (che troviamo anche
nell?Alciati) e opta per la lettura alternativa (presente nel Cartari) dei due putti come immagine dell? «amore
reciproco», basandosi sia sulle incisioni pornografiche di Agostino Carracci,
sia sul carattere sensuale dei dipinti della Galleria e sul sospetto di sottintesi
ironici e maliziosi.
Stefano Colonna torna invece al Bellori. L?indagine da lui
svolta si propone di studiare, nella prospettiva del circolo farnesiano, i rapporti di cultura e di amicizia che
formavano «la grande scuola ideale dell?umanesimo del secondo Cinquecento
europeo». Viene chiamato in causa un materiale molto vasto, di testi
manoscritti e a stampa, quasi sempre ignorati dagli studiosi precedenti. Il
Colonna non si limita ad approfondire la figura di Fulvio Orsini segretario
particolare e bibliotecario di Ranuccio Farnese, raccoglitore di oggetti e
libri antichi, che certamente collaborò con la sua complessa erudizione (come
già si supponeva) all?impresa della Galleria Farnese; la sua figura è
testimonianza della «stessa centralità culturale della corte farnesiana nella
Roma e nell?Europa del Cinquecento». Ma esamina una serie di testi, a
cominciare dall?Hercules prodicius di
Stephen Wynkens Pigge (in relazione anche al Camerino farnesiano); il Pigge,
appartenente al circolo umanistico dei Farnese, considerava i miti pagani come
prefigurazioni di valori e avvenimenti della religione cristiana. É poi
descritta la figura del medico e letterato ungherese Janos Zsamboky, autore di
un volume di Emblemata, in contatto
con Fulvio Orsini; nel 1569 lo Zsamboky pubblica in Anversa le Dionisiache di Nonno di Panopoli, in cui
si affacciano spunti che trovano riscontro nella Galleria: tra cui l?assunto
fondamentale che l?amore perfetto è quello di Arianna per il dio Bacco, figlio
di Giove, amore di grado superiore a quello per Teseo, comune mortale.
Un capitolo è dedicato ad Achille Bocchi, altri all?Accademia
degli Innominati di Parma e all?Accademia dei Gelati di Bologna (nel cui ambito
Melchiorre Zoppi pubblicò lo Psafone,
trattato d?amore). Un altro ancora al rapporto di Agostino Carracci con i
musici, dal Merulo al Monteverdi nonché al celebre melodramma L?Arianna, scritto per le nozze di
Francesco Gonzaga con Margherita di Savoia (1608): qui all?amore per Teseo
subentra l?amore per Bacco, di grado (come
torniamo a constatare) più elevato perché indirizzato a un dio. E ancora
le pagine dedicate a Tommaso Aldobrandini; a Pomponio Torelli, neoplatonico
controriformato, che torna sull?amore divino di Bacco e Arianna (e cita il
rapimento mistico di Ganimede); a Otto van Veen, pittore di corte del Duca
Alessandro Farnese in Fiandra, i cui Divini
Amoris Emblemata consentono
(ovviamente in concorso con altri elementi e considerazioni) la corretta
interpretazione delle figure di Eros e Anteros.
Non ho citato che alcuni punti dell?esauriente disamina. L?
ampiezza del giro di orizzonte consente di entrare nel vivo della concezione neo-platonica che è sottesa
alla volta e di acquisire certezze
interpretative. Queste sono confortate del resto dal fondamentale ritrovamento
di quattro rari epitalami relativi alle nozze Farnese-Aldobrandini del 1600, di
Filippo Belcredi, Vincenzo Villani, Gasparo Murtola e Onorio Longhi: scoperta
vistosa quest?ultima, vorremmo aggiungere, anche per altre implicazioni
relative alla raffinata cultura del grande amico del Caravaggio.
L?identificazione di Arianna con Margherita Aldobrandini, la
nipote del pontefice che si univa in nozze all? ?eroico? Ranuccio, vi è
chiaramente rivelata e stabilisce un altro, fondamentale punto fermo per intendere
il messaggio della Galleria.
Stefano Colonna cerca infine conferme della chiave di lettura
anche in opere posteriori, ma chiaramente affini nel tema dell?Amor sacro e
profano, come gli affreschi di Palazzo Peretti
del Perrier e del Grimaldi (1635-40 circa: sono peraltro documentabili i
rapporti tra il cardinale Alessandro Peretti, i Farnese e Fulvio Orsini). Una
mole imponente di testi e, in gran parte
inediti, di documenti è infine trascritta in appendice, consentendo di
approfondire con una lettura più ampia le indicazioni date nel saggio e anche
di attingere notizie fra le più varie relative all?ambiente farnesiano.
Nei capitoli finali il Colonna, considerando la vistosa
importanza politica degli affreschi, e la presenza di Odoardo accanto a
Ranuccio, propone una catena di accennanti significati nella scena centrale
della volta: questa si riferisce certamente alle nozze, ma non esclude altre
coordinate allusioni.
Passaggi «concettosi e
sillogistici» portano a vedere come «questo stesso tema d?Amore possa
alimentare di una fiamma universale i riferimenti alla politica, alla storia,
al mito, alle nozze, alle persone [?].
Ranuccio nella Galleria è insieme figlio di Alessandro Farnese, condottiero
vincitore delle Fiandre, Gonfaloniere di santa Romana Chiesa e rinnovatore
delle imprese di Bacco, che riesce a portare la religione in India, e, ancora,
marito fedele di Margherita-Arianna, che, in un delicato gioco di voluta
indeterminazione, è sia immagine della Chiesa sposata da
Bacco-Alessandro-Ranuccio vincitore dei pagani- protestanti, sia la nipote del
Papa regnante Clemente VIII Aldobrandini».
Questa potenziale estensione di significati può essere oggetto
di discussione ma presenta un alto grado di probabilità.
Da condividere è infine il ruolo che il Colonna attribuisce ad
Agostino (cui assegna peraltro due incisioni nei frontespizi degli epitalami
del Belcredi e del Longhi) per l?elaborazione concettuale di un complesso che
risulta all?avanguardia nell?incontro tra arti figurative e teatralità
melodrammatica, discendente dalle premesse dell?Accademia degli Incamminati:
egli «dovette essere precursore di questa poetica espressa in un delicato
classicismo idealistico venato di una morbida e profonda sensualità emiliana. [
?] Ad un moderno spettatore sprovveduto non rimarrebbe altro che la
degustazione palatale, epidermica, della pur erotica e coinvolgente sensualità
emiliana; perderebbe però la più
complessa e interessante unità delle
arti del barocco nascente, il messaggio di contenuto e di forma che l?opera
vuole trasmettere».
Nella volta della Galleria Farnese il riferimento allo
sposalizio del 1600 non è dunque indiretto, come prima dell?indagine del
Colonna si sarebbe potuto pensare, ma preciso e mirato. Il Corteo nuziale di Bacco e Arianna non si limita a prendere spunto da quel matrimonio, ma lo ritrae
in forma allegorica, entro un alone di riferimenti che sembrano rimandare come
un?eco le gesta dei Farnese e il loro intrinseco rapporto con la Chiesa.
Pensare che i Carracci, tra una simile cornice di significati, intendessero
esaltare con il loro pennello esuberante il trionfo dell?amore lascivo, e non
piuttosto quello slancio vitale che nutre lo stesso Amore anche nella sua
ascesa verso il divino, risulterebbe paradossale.
Maurizio Calvesi
INTRODUZIONE
Riconsiderare il problema della
Galleria dei Carracci è senza dubbio
impresa ardua, sia per la quantità di interpretazioni iconologiche raramente
concordi che si devono valutare, sia per l'oggettiva scarsità di documenti causata dall' incendio dell'Archivio di
Stato di Napoli ().
Nel tentativo di abbandonare ogni
giudizio a priori e nella ferma
volontà di evitare di sovrapporre qualsiasi
schema interpretativo moderno, ho usato due tattiche opposte e
complementari: da una parte, con un'angolazione molto ampia, ho compiuto una
perlustrazione a largo raggio nell'ambito della committenza farnesiana da Papa
Paolo III, ma con retrocessioni a partire dagli inizi del XVI secolo, con
l'analisi del contributo culturale di Achille Bocchi, e avanzamenti fino agli
anni del Bellori con i dipinti di François Perrier per Palazzo Peretti-Almagià
in Roma; dall'altra invece ho puntato direttamente al cuore del problema
concentrando tutta l'attenzione agli anni in cui venne dipinta la volta della
Galleria (1597-1600) e ancora maggiormente all'anno 1600, in particolare al
matrimonio di Ranuccio Farnese e Margherita Aldobrandini. Ho comunque evitato di ricorrere a certa pratica
iconologica che crede di poter determinare senza errore il significato di
un'immagine, ricostruendo con l'aiuto
di una poderosa erudizione l'albero genealogico di ogni elemento simbolico dell'immagine stessa fino
a sprofondare nella notte dei tempi, per poi spesso cadere nel pericolo di decontestualizzarla. Non ho voluto negare la fondamentale
importanza dell'eredità semantica del simbolo, ma nei casi dubbi ho preferito
dare maggior peso al fattore contingente, e cioè alla volontà della committenza
o all'influsso culturale di umanisti in sicuro contatto con la corte
farnesiana.
Nel corso della ricerca ho
rintracciato una discreta quantità di testi manoscritti e a stampa non
consultati dagli esperti della Galleria perchè spesso di non facile
reperimento; ho pertanto preferito trascrivere le parti essenziali di tutto
questo materiale in un Repertorio delle
fonti, che comprende i documenti di vari archivi, fra i quali, in
particolare, la Biblioteca Apostolica Vaticana, l?Archivio di Stato e la
Biblioteca Palatina di Parma.
E ciò nella serena certezza che è
possibile avvicinarsi con occhi nuovi alla vexata
quaestio della Galleria solo in una ricerca e analisi di nuove fonti
dialetticamente finalizzata all'aggiornamento degli orizzonti critici e degli
obiettivi d'indagine.
CAP.1
Fortuna critica.
Bellori, Tietze,
Martin, Battisti-Calvesi, Dempsey, Anderson, Marzik, Briganti-Zapperi,
Robertson, Volpi, Ginzburg
Le principali fonti antiche per
lo studio dei Carracci sono Le Vite
de'pittori scultori e architetti moderni del Bellori edite a Roma nel 1672 ()
e la F di elsina Pittrice del Malvasia edita a Bologna
nel 1678 ();
ma la prima soltanto offre una trattazione monografica della Galleria completa
di un'interpretazione dei soggetti che non ha perso ancor oggi valore critico.
La preminenza che il Bellori
assegna ai Carracci nell'economia complessiva delle sue Vite non è affatto casuale, risponde anzi ad un preciso intento
programmatico, nella misura in cui egli intende porre Annibale come campione del rinato classicismo.
Riprendendo su un piano diverso e
con l'interpolazione dell'Idea di
Federico Zuccari il concetto vasariano di disegno, il Bellori specula sulla
fondamentale dicotomia di idea e natura, considerandola parallela
all'antagonismo di classicismo e
naturalismo (). Rifiuta il Manierismo perchè nella maniera vede un'idea piegata su se
stessa e staccata dalla natura, ma rifiuta anche il naturalismo perchè vi
riscontra un'insufficienza dell'artista, che imita sic et simpliciter la natura invece di formarsene un'immagine
mediata, un'idea composta.
Agli occhi del Bellori Annibale
Carracci rappresenta il punto di equilibrio ottimale tra la tendenza
naturalistica del Caravaggio e quella fantastica del Cavalier d'Arpino, il
primo infatti « copiava puramente li corpi
come appariscono agli occhi, senza elezzione, il secondo non riguardava punto
il naturale, seguitando la libertà dell'istinto » ().
La descrizione belloriana della
Galleria è condotta con questa impostazione critica che va comunque accolta
prescindendo da giudizi di merito sulla validità degli enunciati teorici per
soffermarsi piuttosto sull?attendibilità storica dei fatti raccontati.
In primo luogo è la descrizione
degli episodi mitologici del Camerino Farnese dipinto da Annibale per il
Cardinale Odoardo, la cui chiave di lettura è pacificamente univoca e consiste
nel tema di Ercole al bivio ()
chiamato a scegliere tra virtù e voluttà .
Segue la meno pacifica
dissertazione sulla Galleria, che ha suscitato molte perplessità nella critica
moderna per via del significato da attribuire alle azioni dei puttini presenti
nei quattro spicchi della volta e soprattutto alle loro identificazioni, tanto
più che il Bellori ne fa il cardine della proria esegesi: « Avanti descrivere le favole conviene che
proponiamo gli Amori [...] da cui dipende tutto il concetto ed allegoria
dell'opera. Volle figurare il pittore
con varii emblemi la guerra e la pace tra'l celeste e'l vulgare Amore
instituiti da Platone. Dipinse da un
lato l'Amor celeste che lotta con l'Amor vulgare e lo tira per li capelli:
questa è la filosofia e la santissima legge che toglie l'anima dal vizio,
elevandola in alto. Nel mezzo però di
chiarissima luce risplende sopra una corona di lauro immortale, dimostrando che
la vittoria contro gl'irragionevoli amori innalza gli uomini al cielo. Dall'altro significò l'Amor divino che
toglie la face all'Amore impuro per estinguerla; ma questi si difende e la
ripara dietro il fianco. Gli altri due
fanciulli che si abbracciano sono il supremo e'l terreno Amore, e gli affetti
che si uniscono alla ragione, nel che consiste la virtù e'l bene umano. Nel quarto angolo viene descritto Anterote
che toglie il ramo della palma ad Amore, nel modo che gli Elei collocarono le
statue del ginnasio; il quale Anterote credevasi che punisse l'Amore
ingiusto. Di più come fondamento degli
affetti moderati aggiunse quattro virtù, Giustizia, Temperanza, Fortezza e
Carità: figurine dipinte di sotto, e così con le favole alludono insieme al celeste
ed al profano Amore [...] » ().
Il passo è chiarissimo: il
Bellori afferma la dipendenza concettuale di tutta la Galleria dalle coppie di
Amori, ne descrive partitamente il significato, collega infine le quattro virtù
cristiane delle pareti alle favole della volta.
Seguono le
descrizioni delle scene maggiori, dalle quali ci limitiamo ad estrarre i
commenti più significativi.
« Il coro di Bacco e Arianna. Tornando Bacco vittorioso dall'Indie trovò
Arianna abbandonata da Teseo, e dalla beltà di essa acceso l'elesse sua sposa,
come a rimirarla ora nelle trionfali nozze la pittura c'invita » (). Quest'unica scena descrive con un titolo
generico tre momenti diversi dello stesso mito: il trionfo di Bacco che ritorna
vittorioso dall'India, le sue nozze con Arianna ed anche un « bello anacronismo,
poichè Arianna vien coronata di stelle; e nondimeno li poeti finsero che dopo
la morte di essa le sue chiome im memoria fossero da Bacco in cielo collocate »
().
La donna
seminuda che giacendo in terra, guarda verso il Sileno « è Venere vulgare e terrena,
standole a fianco l'Amore impuro, che raccolte le braccia, si appoggia sopra la
sua spalla [...]; il volgersi di costei verso Sileno denota la corrispondenza
tra l'ubbriachezza e la lascivia » ().
Il Bellori
aggiunge inoltre una notazione che più avanti constateremo essere importante: «
si sono veduti alcuni disegni di antichi marmi e baccanali di mano di Annibale
per istudio di questo suo leggiadro e copioso componimento; e si conserva
ne'nostri libri la prima invenzione con Bacco ubbriaco sostentato da fauni su'l
carro fra baccanti, che egli mutò, formandolo in maestà ed attribuendo più
convenevolmente l'ebrietà a Sileno » ().
Nel riquadro
con Paride e Mercurio il messaggero
degli dei non ha come attributo il caduceo, ma una tromba con la quale Annibale « volle significare che il pomo sarebbe
stato cagione di guerra, e non di pace; e che avrebbe fatto risuonare la fama
della dea più bella; ed in ciò egli seguitò l'essempio di Raffaelle nella
loggia di Agostino Chigi, dove Mercurio spiega il volo con la tromba in mano,
per annunziare le nozze di Amore e di Psiche » ().
La protagonista
femminile del riquadro con la scena marina, gli amorini e il tritone che suona
la conchiglia viene riconosciuta come Galatea, ma qui il Bellori cade nello
stesso errore di Lucio Faberio, che fa
confusione nella sua Oratione in morte di
Agostino Carracci ().
Per quanto
riguarda la scena con Venere e Anchise, il Bellori si limita a notare che
nell'iscrizione « GENUS UNDE LATINUM » si « allude alla Serenissima Casa Farnese,
antica fra le romane » ().
Finalmente,
nell'Allegoria delle favole, viene
formulata l'interpretazione complessiva della Galleria: « [...] l'argomento,
come abbiamo veduto, è l'amore umano regolato dal celeste; [...] l'argomento di
amore così spiegato con varie favole dimostra la potenza di esso, soggettando
li forti, li casti, li ferini petti, quali sono gli amori di Ercole, Diana,
Polifemo, in cui mostrasi il furore della gelosia contro Aci suo rivale. Gli abbracciamenti di Giove di Giunone,
dell'Aurora, di Galatea palesano la potenza sua nell'universo; le candide lane
che Diana riceve dal Dio Pane e'l pomo d'oro dato a Paride da Mercurio sono li
doni con li quali Amore signoreggia gli animi umani e le discordie cagionate
dalla bellezza; la baccanale è simbolo dell'ebrietà madre delle voglie
impure. E perchè di tutti li piaceri
irragionevoli il fine è il dolore e la pena, se altri dispreggiata la virtù a
quelli si dà in preda, finsevi però Andromeda legata allo scoglio per essere
divorata dal mostro marino; quasi l'anima allacciata dal senso divenga pasto
del vizio, qualora Perseo, cioè la ragione, e l'amor dell'onesto non la
soccorre. Bellissima è l'allegoria di
Fineo e de'compagni trasformati in sasso alla vista di Medusa intesa per
voluttà. Seguono le medaglie, Borea
che rapisce Orizia, Salmace con Ermafrodito, il Dio Pane che abbraccia Siringa,
Europa rapita dal toro, Leandro sommerso, Euridice di nuovo rapita all'inferno:
sono li vizii e li danni dell'amor profano; a cui sovrasta Apolline che
scortica Marsia, inteso per la luce della sapienza che toglie all'anima la
ferina spoglia. Tali sono le favole
ne'quadri e nelle medaglie; ma vi restano alcune altre figurine piccole divise
fra gli stucchi de'nicchi e delle fenestre, con la medesima moralità: Calisto
nel bagno scoperta gravida da Diana, è la castità corrotta, senza manto che la
ricopra; la medesima trasformata in orsa è la deformità dell'errore; Icaro il
precipizio de'temerari. Ma l'aiuto e'l
premio dell'amor divino e della virtù rappresentasi in Arione salvato dal
delfino ed in Prometeo liberato da Ercole; Prometeo stesso salva la statua
umana e si consiglia con Pallade, che gli addita il cielo per animarla;
l'armonia della sapienza vien denotata dalla lira di Mercurio donata ad Apolline. Chiude infine la moralità dell'opera Ercole
che uccide il drago custode de'pomi esperidi, e Giove che gli assiste dal
cielo, significando i pomi d'oro l'inestimabil frutto dell'eroiche fatiche, al
quale concorre il divino aiuto » ().
Tutta la lettura
belloriana dei miti classici della Galleria è dunque condotta in chiave
allegorica, sulla falsariga del neoplatonismo rinascimentale e con piena
osservanza dello spirito della Controriforma.
Alle passioni
disordinate è contrapposto un ordine soprannaturale, alla bellezza la sapienza,
al vizio la ragione: le antiche favole sono exempla
morali.
La prima
monografia scientifica moderna sulla Galleria risale al Tietze (),
il quale elide proprio la sostanza del discorso belloriano, rifacendosi ad un
approccio estetizzante di matrice purovisibilista; impressionato, come poi il
Dempsey, dalla carica vitale infusa alle immagini dalla sensualità tutta
emiliana della pittura di Annibale Carracci, trova difficoltà a riconoscervi
contenuti moralistico-allegorici e si limita a riconoscere nelle tre scene con Aurora e Cefalo, Bacco e Arianna e la pesudo-Galatea
la glorificazione dell'amore in cielo, in terra, in mare.
Il più valido
contributo del Tietze agli studi farnesiani sta nell'aver pubblicato un
documento dell'Archivio di Stato di Napoli oggi distrutto ()
e particolarmente significativo per la cronologia romana dei Carracci. Si tratta di un'epistola del Cardinale
Odoardo Farnese spedita da Roma al fratello Ranuccio il 21 febbraio 1595, con la quale egli manifesta per la prima
volta l'intenzione di far dipingere affreschi commemorativi delle gesta
militari del padre, il noto Duca Alessandro, braccio forte di Filippo II di
Spagna, vincitore delle Fiandre (). L'epistola conferma un passo del Bellori,
dove si accennava brevemente all'idea del Cardinale, ma in un contesto
temporale diverso, e cioè successivo alla fine dei lavori per la Galleria ().
Nell'epistola
si menziona anche l'ubicazione prevista per tali affreschi, che dovevano essere
dipinti in una non meglio specificata «
sala grande » ().
Nel 1965 vede
la luce la monografia del Martin, che per la ricchezza di spunti critici e la
completezza e organicità della trattazione si può senz'altro definire il
caposaldo degli studi sulla Galleria
dei Carracci ().
Grazie alla
scoperta di due lettere del Card. Odoardo Farnese nel ms. Vat. Lat. 9064
pubblicate in un articolo del 1956, il Martin può fornire indicazioni preziose
sulla fase preparatoria dei soggetti del Camerino. Nella prima il giovane cardinale scrive da Parma nell'Agosto del
1595 a Fulvio Orsini in Roma per ringraziarlo dell'impresa che l'umanista aveva
ideato per lui (), nella
seconda, stesso luogo e mese, esprime le proprie preferenze sulla decorazione
in stucco della camera ().
Risulta così
inequivocabilmente il ruolo di Fulvio Orsini nella stesura del programma
iconografico del Camerino Farnese.
La scelta della
figura di Ercole assume un significato pregnante: l'Orsini non si limita ad una
generica citazione del tema di Ercole al bivio, ma ritaglia il mito su misura
del committente, ()
presentando Odoardo, nuovo Ercole, come degno erede del padre, il duca
Alessandro. Se il padre aveva
primeggiato nelle imprese militari, il figlio doveva ripeterne le gesta
vincendo mostri e giganti ().
Nell'interpretare
l'affresco del Camerino che raffigura Ercole
che sostiene la sfera celeste, il Martin, dopo aver citato la scena di
analogo soggetto dipinta da Agostino Carracci in Palazzo Sampieri a Bologna (),
propone il raffronto con una impresa realizzata da Achille Bocchi nel 1555 e
pubblicata nei suoi Symbolicarum
Quaestionum libri quinque (),
notando che nell'incisione Ercole rappresenta la vita attiva ed Atlante che lo
accompagna quella contemplativa, mentre nel Camerino manca Atlante ed è Ercole
che raffigura la vita contemplativa ().
Il Martin
ricorda, sottolineando la sostanza neoplatonica degli affreschi, che Marsilio
Ficino paragonava la scelta di Ercole al bivio con quella di Paride, notando
che mentre il secondo è chiamato a scegliere tra vita contemplativa, attiva e
sensuale, il primo ha solo due possibilità, la vita sensuale e quella attiva
raffigurate rispettivamente da Venere e Giunone ().
Lo stesso tema
appare in un'altra forma nell'Hypnerotomachia
Poliphili di Francesco Colonna ()
quando Polifilo si trova di fronte alle tre porte sovrastate dalle
iscrizioni « GLORIA DEI, MATER AMORIS,
GLORIA MUNDI » che corrispondono alla vita attiva, contemplativa e sensuale.
Per quanto
riguarda l'ipotesi di un' eventuale partecipazione di Annibale all'ideazione
del programma iconografico del Camerino, il Martin è assolutamente contrario e
cita l'esempio di Palazzo Farnese di Caprarola, dove il progetto stilato da
Annibal Caro con la collaborazione di Fulvio Orsini, è tanto dettagliato da
risultare vincolante per l'artista ().
Il Martin è anzi convinto che Fulvio Orsini, pur non avendo vissuto tanto a
lungo da poter vedere compiuti gli affreschi delle pareti della Galleria, abbia
comunque avuto modo di sceglierne e discuterne anticipatamente i soggetti in
relazione alle pitture della volta, tesi questa che verrà rifiutata dal Dempsey
nel riconoscere la presenza di due programmi distinti per la volta e le pareti
().
Il Martin
concorda inoltre con il Bellori nell'interpretare Anteros come Amor virtutis,
sulla scorta dell'Alciati e non nella versione antica di Amore reciproco ()
ed estende il significato morale anche all'affresco centrale della volta della
Galleria: Arianna è deificata dall'amor
divinus di Bacco al quale si contrappone l'amor humanus della Venere giacente e l'amor ferinus del satiro ();
nelle nozze di Bacco e Arianna sarebbe poi adombrato il matrimonio del duca
Alessandro Farnese con la principessa Maria del Portogallo celebrato nell'anno
1565 ().
La pseudo
Galatea è la raffigurazione del mito di Glauco
e Scilla, parallelo a quello di Aurora
e Cefalo nel mostrare i danni dell'amore non corrisposto ().
In una breve
tavola rotonda del 1966 organizzata in concomitanza con l'uscita della
monografia del Martin venivano discusse e in parte rifiutate alcune conclusioni
dello studioso; il Battisti, riconoscendo negli affreschi della Galleria uno
spirito molto vicino a quello dei madrigali amorosi, diffusissimi proprio
allora, accoglieva l'ipotesi che la sala
fosse utilizzata per riunioni musicali
e la estendeva nel ritenere possibile che ospitasse un'accademia
letteraria. Ipotesi questa sostanzialmente esatta dal momento che, come vedremo
meglio in seguito, essa esisteva di fatto nell'ambito della corte farnesiana ed
intorno alla figura di Fulvio Orsini ().
Il Calvesi, in concomitanza con il Dempsey, riscontra un atteggiamento
fondamentalmente ironico, sintomatico della caduta degli ideali del
Rinascimento, una sorta di « rovesciamento satirico dello schema platonico
dell'eros » (), ma soprattutto
un collegamento tra le tematiche di Amore della Galleria e gli iuvenilia del Caravaggio.
Il Dempsey
esprime la sua posizione in due saggi apparsi in ?Art Bulletin? del 1968 e
nella voluminosa monografia del 1981 su palazzo Farnese pubblicata dall'École
Française di Roma ().
Prima di
esaminare l'ultimo saggio del Dempsey, che non si discosta dal primo ma ne
sviluppa alcune intuizioni, giova prendere visione di due contributi del
Calvesi del 1971 e del 1974 nel quale lo studioso riformula la propria
interpretazione della Galleria fornendo nuovi elementi di giudizio ().
La discussione
sugli affreschi dei Carracci è in entrambi i casi decentrata rispetto al tema
principale che consiste nella rilettura iconologica del Caravaggio. Il Calvesi
supera l'immagine tardo romantica del Merisi come pittore scapestrato e
"maledetto" per far riaffiorare i contenuti cristologici del Bacco
degli Uffizi o del cosiddetto Bacchino malato e, in parallelo
riconsidera l'opera di Agostino ed Annibale a Roma.
L'idea chiave
del Calvesi permette di considerare come un'aporia la deduzione logica che
risulta dal collegamento delle incisioni di Agostino Carracci intitolate Omnia vincit amor e Ogni cosa vince l'oro ().
Si pensa infatti che se è vero che Amore vince ogni cosa, è vero anche che lo
stesso Amore soggiace alla potenza del danaro, quindi è il danaro che vince
ogni cosa e non l'amore. In realtà il sillogismo è incompleto, perchè l'oro
vince l'Amore profano, e solo quello profano e poi questo è a sua volta vinto
dall'Amore sacro, cioè dall'Amore di Dio. La presentazione di scene di amore
profano quindi, lungi dall'ispirarne l'imitazione, provvede piuttosto a un
monito severo, perfettamente comprensibile solo nell'ambito della ricerca della
salvazione: « se [...] la morte trionfa sulle cose umane, cosa trionfa sulla
morte, sul peccato, sull'effimero e cioè sulla vanitas ? L'amore in Cristo, che garantisce la vita eterna » ().
Nella Galleria
« Amore vince sugli dei, ma su tutto trionfa l'espressione più alta di amore,
l'Amore divino, Bacco come Cristo [...] ai piedi di Bacco, vinto e calpestato
da una candida capra, è Lucifero in vesti satiresche [...] Arianna sposa di
Bacco, cioè di Cristo, sarebbe di conseguenza una figura allegorica della
Chiesa trionfante [...] in un riquadro delle celebri porte lignee di Santa
Sabina, che sono incorniciate da intrecci vitinei e da uve, la Chiesa
trionfante è raffigurata nell'atto di essere incoronata, tra bagliori astrali;
nell'affresco di Annibale, un amorino-angelo scende dall'alto a posare sul capo
di Arianna una corona gemmata di stelle (con riferimento alla costellazione in
cui Arianna sarà tramutata, cioè, se si vuole, all'Assunzione in cielo della
Vergine con cui la Chiesa si può [...] identificare » ().
Nel saggio del
1974, il Calvesi sottolinea il rapporto tra Federico Borromeo e Fulvio Orsini
quale nesso tra la cerchia dei committenti del Caravaggio e del Carracci ()
e in particolare per l'esegesi della Galleria suggerisce un approfondimento del
ruolo di Fulgenzio nella cultura dell'Orsini quale moralizzatore dei miti
pagani; e a proposito di Arianna abbandonata esorta a tenere presente il
Monteverdi, giacchè egli riutilizzò la stessa aria del Lamento di Arianna per
un Lamento della Madonna sul Cristo morto ().
I saggi del Dempsey,
che precedono e seguono quelli del Calvesi, vanno invece in una direzione
almeno parzialmente opposta: egli accetta l'interpretazione belloriana dal
Camerino, ma non della volta della Galleria.
Se l'impresa
del Cardinal Odoardo Farnese ΘΕОΘΗΝ
ΑΧΑΝΟΜΑΙ e cioè: « mi innalzo verso Dio », è derivata dal Vangelo di
Matteo (), ed è presente sia nel Camerino, che nelle
pareti della Galleria, ciò non dimostra che anche la volta contenga veramente
un riferimento all'Amore sacro; il Dempsey anzi sostiene che quella del Bellori
è un'interpretazione post facto, una
moralizzazione tesa cioè a conciliare le favole licenziose degli dei sulla
volta con le allegorie sacre delle pareti, o addirittura un falso ideologico
completamente consapevole, e perciò postula l'esistenza di due differenti
programmi iconografici, l'uno profano per la volta, l'altro sacro per le pareti
().
La confutazione
che il Dempsey fa della tesi belloriana si spinge fino al punto nodale
dell'identificazione di Anteros. Per dimostrare che negli affreschi della
Galleria è assunta l'interpretazione antica di Anteros come amore reciproco,
viene posta a confronto un'incisione di Agostino Carracci che riproduce un
dipinto della serie generalmente nota con il titolo de Gli amori de' Carracci. Queste pitture, a detta del Dempsey «
franchement pornographiques » e ben degne delle Lascivie di Agostino, non lasciano alcun dubbio sul significato
esatto di Anteros ().
La Galleria è
inoltre pervasa da uno spirito satirico, da una sottile ironia velata di
malizia. Nella citazione del virgiliano
GENUS UNDE LATINUM della scena di Venere e Anchise, il Dempsey vede persino un
intento sarcastico, come se l'atmosfera degli affreschi favorisse il contrasto
con l'aulicità di Virgilio, come se Amore avesse umiliato sua madre nel farle
amare un mortale, come se le gesta eroiche d'Enea avessero inizio non
dall'incendio di Troia, ma per i capricci d'Amore ().
Un aspetto sul quale il Dempsey insiste particolarmente è l'approccio estetico,
la comprensione della carica vitale presente nella forma delle immagini, la quale già di per sè veicola un contenuto
e, in ultima analisi suggerisce che tutta la Galleria deve essere intesa come
un grande epitalamio per le nozze, non di Alessandro Farnese e Maria di Braganza,
come sosteneva il Martin, ma, più verosimilmente, per quelle di Ranuccio
Farnese e Margherita Aldobrandini celebrate a Roma nell'anno in cui fu
terminata la volta ().
Un tassello
importante per la ricostruzione del significato della Galleria è fornito dagli
affreschi noti, ma generalmente poco considerati dagli studiosi della Galleria,
che Agostino Carracci dipinse nel Palazzo del Giardino a Parma su commissione
di Ranuccio Farnese duca di Parma e Piacenza e fratello del card. Odoardo. Dopo il commento del Bellori ()
unico studio iconologico è quello di Jaynie Anderson del 1970 (),
dove viene accuratamente riformulata l'interpretazione dei miti affrescati fino
a rivelarne i significati epitalamici.
Viene
illustrato il mito di Peleo e Teti nelle sue fasi salienti: per primo il
passaggio degli Argonauti tra Scilla e Cariddi con la guida di Teti, poi la
difficoltà ch'ella pone a ricambiare il desiderio di lui trasformandosi in
forme mostruose e infine il matrimonio dei due con le sembianze di Marte e Venere.
Il primo e l'ultimo episodio racchiudono due impliciti riferimenti agli sposi:
a Ranuccio si allude con la rappresentazione delle Argonautiche, dal momento
che il padre di Ranuccio Farnese, il duca Alessandro, era stato insignito della
massima onorificenza del Toson d'oro; a Margherita invece con la perla che una
delle Nereidi mostra all'altra tanto evidentemente in primo piano. Per l'improvvisa morte di Agostino ()
manca una delle quattro scene previste, la Anderson ritiene che molto
probabilmente rappresentasse Teti trasportata da un tritone verso la camera
nuziale, vale a dire lo stesso soggetto dipinto da Agostino a Roma prima di
partire per Parma ().
Gli stucchi dei quattro cantoni che raffigurano gli amori di Giove con Semele,
Leda, Danae ed Europa simboleggiano i quattro elementi; nel centro della volta,
a chiusura e a commento di tutto il ciclo, vi sono tre amori uno dei quali
arrota la freccia, un altro tende l'arco e un altro ancora spegne una fiaccola
nell'acqua.
Si potrebbe
definire il 1986 come "l'anno della Galleria Farnese" per la quantità
di contributi dedicati a questo tema, con la monografia di Iris Marzik
eclusivamente rivolta all'esegesi iconologica della Galleria (),
il Convegno dell'École Française di Roma ()
e il volume di Chastel, Briganti e Zapperi (),
ma anche "l'anno della confusione" per la generale mancanza di una
prospettiva unitaria pur nella ricchezza e validità delle singole ricerche.
Il contrasto
principale grava sull'accettazione o meno dell'idea del Dempsey circa la
presenza di due distinti programmi per la volta e le pareti ()
e riscontra posizioni di assoluta adesione nel volume di
Briganti-Chastel-Zapperi e pieno distacco in quello della Marzik ().
Il contrasto naturalmente, come si è potuto già constatare, non è semplicemente
formalistico, dal momento che la divisione del programma comporta la
"laicizzazione" della volta e l'identificazione di Anteros
"classico".
Un punto comune
sta invece nel rifiutare l'altra ipotesi del Dempsey per l'interpretazione
"epitalamica" della Galleria. Il Briganti la considera
cronologicamente impossibile visto che le trattative per le nozze furono
iniziate quando il programma era già definito e gli affreschi già in gran parte
realizzati (), la Marzik
invece perchè non riscontra nessuno stemma Aldobrandini, presenza a parer suo
indispensabile ().
Per quanto
riguarda invece le novità, si distingue la realizzazione della "carta
delle giornate" ()
che mancava nella monografia del Martin e la scoperta di altre date nella
volta, il 1598 e il 1599, oltre a quella già conosciuta del 16 maggio 1600,
grazie ad un ponteggio mobile realizzato per l'occasione. Il Briganti
interpreta il 1598 come data probabile d'inizio dell'opera , contro quella
consolidata del 1597; il 1599 come prima interruzione dei lavori della volta,
che nell'inverno doveva ormai essere quasi completamente ultimata, per poter
dar mano alla realizzazione degli affreschi per la Sala grande con le imprese
militari di Alessandro Farnese; ed infine il 16 maggio 1600 come la ripresa dei
lavori della Galleria che si protrassero fino al maggio dell'anno successivo
con l'inaugurazione della volta ().
La Marzik
formula la tesi che la Galleria sia stata concepita come un vasto programma di
autocelebrazione politico-dinastica nel segno della fede cattolica e nella
centralità della figura del duca Alessandro.
Accetta una versione modificata della "sacralità" belloriana
nella misura in cui vaglia le allegorie mitologiche e farnesiane alla luce del
neoplatonismo rinascimentale di Marsilio Ficino, Leone Ebreo o Cristoforo
Landino come anche sulla base di testi quali Della ragion di Stato del Botero o il De re publica di Cicerone. Non a caso ella dispone la discussione
del materiale in un lettura a ritroso che sale dalle pareti verso la volta e
non viceversa, per cui la scena centrale con Bacco e Arianna viene analizzata
per ultima ed è seguita solo dall'analisi dei medaglioni e della collezione di
statue antiche. Inoltre la discussione
dell'assunto iniziale non procede con una propria autonomia concettuale
interpellando quando necessario i singoli miti con i relativi contesti
simbolici, ma è la topografia degli elementi affrescati ad imporre una
divisione in classi di carattere esterno rispetto al soggetto della scena
rappresentata; segue poi, all'interno di tale classificazione, una lettura
sistematica di ogni singola raffigurazione con apparati descrittivi, critici e
storici molto precisi ().
Il massimo
grado di entropia critica è raggiunto infine da un articolo di Clare Robertson
(),
dove l'assunto è che iconograficamente la Galleria appartiene completamente
alla tradizione cinquecentesca del comporre cicli di affreschi, che questa tradizione ci offre molti esempi
di discontinuità compositiva in fase progettuale e realizzativa e che è perciò
preferibile abbandonare la nozione di unità tematica della Galleria Farnese,
per considerarla piuttosto un'elaborata sequenza di poesie che mostrano affetti in relazione a forme espressive
particolarmente raffinate (). Di fronte alla molteciplità delle
interpretazioni iconologiche della Galleria e in mancanza di documenti vi è
solo la possibilità di ricostruzioni induttive. Più che un discorso di metodo sembra un manifesto dello
scetticismo storico artistico, dal momento che in ultima analisi Clare
Robertson non solo non formula alcuna nuova interpretazione della Galleria, ma
si astiene dal pronunciare un proprio giudizio organico sul significato degli
affreschi.
Caterina Volpi
individua in Antonio Querenghi e in Achille Bocchi i due letterati più vicini
alla cerchia culturale farnesiana per l?ideazione delle iconografie del
Camerino e della Galleria Farnese.
Silvia Ginzburg
nella sua indagine su Annibale Carracci a Roma propone una
posticipazione del termine post quem dell?esecuzione del Camerino dal
1595 al 1599 per motivazioni sia stilistiche, sia documentarie perchè considera
pertinente al Camerino non tanto la lettera di Odoardo Farnese del 1595, già
ritenuta dalla critica come il caposaldo della datazione (),
quanto piuttosto la lettera di Giovanni
Battista Bonconti spedita il 2 agosto 1599 da Roma dove viene descritta
la forsennata attività lavorativa di Annibale di quel periodo e si parla anche
di ?camere? ().
La Ginzburg propone di datare l?Ercole al bivio sempre al 1599. Ella
vede inoltre una significativa partecipazione di Innocenzo Tacconi al Camerino
insieme ad Agostino Carracci, riprendendo in quest?ultima idea un?intuizione di
Roberto Longhi.
Per la Galleria
la Ginzburg non vede alcuna scissione tra significati delle pareti e della
volta; riconduce a La montagna circea degli accademici Gelati di Bologna
e all?Amor Pudico del Cicognini l?ispirazione del programma
iconografico; considera fondamentale la contiguità cronologica e concettuale
del matrimonio di Ranuccio Farnese e Margherita Aldobrandini con la Galleria
tutta, la cui volta considera terminata in perfetta sincronia con le nozze
nell?anno 1600 .
CAP. 2
Fulvio Orsini collezionista d'antichità presso i Farnese
Un personaggio chiave per
l'analisi della cultura farnesiana è senza dubbio Fulvio Orsini (). Appartenente alla nota famiglia romana, ma
figlio naturale, fu aiutato giovanissimo da Gentile Delfini, Canonico di San
Giovanni in Laterano, che prese sotto la sua protezione anche la madre. Fulvio divenne a sua volta Canonico di San
Giovanni in Laterano ()
e fu avviato dal Delfini agli studi delle lettere antiche, fino a quando
Ranuccio Farnese Cardinale di Sant'Angelo lo prese con sè come segretario
particolare e bibliotecario (). L'Orsini rimase tutta la vita, senza
interruzioni, al servizio dei Farnese; alla morte di Ranuccio, nel 1565, servì
il Cardinale Alessandro, e alla morte di questo, nel 1589, il Principe Ranuccio
e il Cardinale Odoardo, figli di Alessandro Farnese duca di Parma.
Presso i Farnese Fulvio Orsini
svolge un'intensa attività filologica studiando le famiglie romane e
pubblicando numerose edizioni di glosse a testi latini, ma la sua vocazione è
innanzitutto quella del collezionista; egli ama conquistare le migliori opere
d'arte direttamente sul mercato riconoscendole dai falsi che non mancavano nel
Cinquecento inoltrato, quando la passione per l'antico era già da molti anni
uscita dal pionerismo dei primordi del Rinascimento. Con uno sguardo all'inventario della collezione d'antichità, che
possediamo grazie ad una provvidenziale trascrizione dell'amico Giovanni
Vincenzo Pinelli, si apprezza la varietà e qualità degli oggetti posseduti
dall'Orsini: tavole in marmo e bronzo con iscrizioni latine; teste e
bassorilievi in marmo con vari ritratti tra cui quelli di Esiodo, Omero,
Platone e Sofocle; medaglie e monete d'oro, argento e bronzo greche e latine.
Particolarmente interessante e
preziosa la collezione di glittica, con cammei e ogni sorta di pietra dura:
corniola, agata, diaspro, acquamarina, granata, ametista, topazio, giacinto,
prasio, crisopazio, sardonica, balascio, smeraldo, zaffiro e crisolito, dove
erano incise le rappresentazioni di gran parte dell'Olimpo e della storia
antica. Non si può non ricordare ad
esempio la « corniola ovata grande di
color non bello, con Hercole a sedere, et alcuni animali, con lettere greche,
che dicono la fatica esser cagione d'honesto riposo [...] » ()
che ritroviamo citata con tutta l'iscrizione da Annibale Carracci negli
affreschi del Camerino Farnese ().
E Fulvio Orsini è poi anche
attento scopritore di codici antichi, che acquista, raccoglie, confronta e
studia con capacità filologiche non comuni.
La sua erudizione non è semplicemente libresca, ma aperta ad ogni oggetto
antico che possa rivelare frammenti di storia non conosciuti.
Questa inclinazione, oltre che da
un?indiscutibile virtù innata, deriva dalla stessa centralità culturale della
corte farnesiana nella Roma e nell'Europa del Cinquecento, in cui confluivano
studiosi con una preparazione di altissimo livello e richieste continue di
scambi di oggetti antichi e di informazioni archeologiche o filologiche.
In un'epistola del 1589 spedita a
Ranuccio Farnese principe di Parma (),
l'Orsini ci rivela il respiro della politica culturale farnesiana, egli
infatti, nel riconfernare tutta la propria fedeltà e devozione al suo signore
dopo la morte del Cardinale Alessandro, ricorda di essere stato « alli servitii
di questo Ill.mo
et Ecc.mo
Sig.re,
et particularmente alla cura del Studio della Casa sua, sì come ho sempre
havuto in vita delli dui Card.li di fel[ice] mem[oria]. Alla qual cura io non mancarò di
fede et diligenza debita, così per rispetto delle cose che vi sono rare et
pretiose, come per causa delli studiosi, de'quali ha da essere scuola publica
questo Studio, secondo la mente del Sig.r Card.le Farnese » ().
La piena consapevolezza del ruolo
e dell'utilità pubblica della raccolta che si andava formando e soprattutto la
spontanea disponibilità alla fruizione del bene acquistato, portano a considerare la collezione farnesiana alla
stregua di un museo ante litteram
nella migliore delle accezioni, il segno tangibile di una comunione di cultura.
Le antichità del cardinale
Alessandro erano ricercatissime, basti pensare che nel 1571 Alfonso II d'Este
duca di Ferrara, nell'allestire la propria biblioteca su disegno di Pirro
Ligorio, l'arricchiva di teste antiche di filosofi e letterati fatte venire
apposta da Roma e chiedeva a Fulvio Orsini di cedergliene alcune delle sue per
completare la serie e l'umanista rifiutava ();
il duca di Baviera Alberto III il magnanimo aveva avanzato una richiesta simile
l'anno precedente sperando di ottenere qualche antichità « ad Studium [...]
exornandum » ().
Uno studio di Clifford Brown
ricostruisce le complesse trattative relative all'acquisto di un?importante
collezione di medaglie e di gemme incise di Antonio, Enea e Mario Gabrieli
sulla base di riscontri incrociati tra i dati ricavati dalla lettura del volume
sulle Statue antiche dell'Aldrovandi,
le epistole del card. Alessandro Farnese e Fulvio Orsini, e l'inventario di
quest'ultimo (). Ne risulta che l'Orsini aveva trattato la
questione intorno al 1580, superando non poche difficoltà di carattere
burocratico e riuscendo finalmente, in una data non ancora precisata, ad
acquisire un minimo di centoquarantanove medaglie, oltre alle pietre incise,
che divennero parti integranti della collezione farnesiana.
Rientrava nei compiti dell'Orsini
rintracciare sul mercato ogni oggetto e libro antico di pregio, stimarlo e dare
un consiglio sulla convenienza dell'acquisto, onde ampliare la raccolta e la
biblioteca. Così egli si trovava a
dover rispondere in qualità di bibliotecario al principe di Urbino che gli
chiedeva disegni di imbarcazioni
antiche (), e in
qualità di collezionista al mercante di gioie fiammingo che vendeva un cammeo
di Alessandro ed Olimpiade per cinquecento scudi ().
L'Orsini si era costituito
inoltre una biblioteca personale, che lasciò prima di morire alla Biblioteca
Vaticana e forma tuttora una parte importante della stessa; mentre la
biblioteca Farnesiana è confluita, dopo alcune traversie, in quella Nazionale
di Napoli ().
È bene comunque ricordare che,
presso i Farnese, l'Orsini non svolgeva solo le funzioni di bibliotecario e
conservatore delle collezioni di antichità, ma aveva anche le tipiche mansioni
di Segretario particolare al quale venivano affidate missioni delicate come
quelle pertinenti la gestione delle imprese artistiche. In un'epistola spedita da Roma il 3 marzo
1573, l'Orsini fornisce al cardinale Alessandro il progetto per la Cosmografia
di Caprarola () preparato
da un suo amico colto e versato nell'antichità romana che a tal scopo si
serviva di un Igino antichissimo manoscritto e miniato: testimonianza questa
che il cardinale non si accontentava di facili approssimazioni, ma richiedeva
uno studio adeguato per i soggetti degli affreschi di ogni singola sala del
palazzo e che il progetto doveva in
ogni caso passare sotto la sua personale supervisione; l'Orsini controllava l'andamento dei lavori
fungendo da intermediario (). Nell'ottobre dello stesso anno, infatti,
egli scrive al cardinale Alessandro in Caprarola una lettera di accompagnamento
per il pittore che, scelto dallo stesso cardinale, si andava a presentare al
palazzo per affrescarlo ().
A Roma l'Orsini dovette seguire i
lavori per la realizzazione di uno studiolo in legno con medaglie e cammei ()
e il monumento funebre del cardinale Ranuccio (),
entrambi su disegno di Giacomo della Porta; l?Orsini ebbe poi tra le mani,
disegnato dal Vignola, il progetto della facciata della Chiesa del Gesù (),
per il quale arrivò persino a scegliere la forma delle lettere dell?iscrizione
della facciata tra i diversi modelli antichi disponibili ().
Un'ulteriore testimonianza dello
stretto contatto di Fulvio Orsini con gli artisti contemporanei si trova nel
suo inventario dei dipinti, ricco di quadri e disegni di Leonardo da Vinci,
Giovanni Bellini (),
Giorgione, Tiziano, Raffaello, Michelangelo, Sebastiano Luciani, Baldassarre
Peruzzi, Giulio Romano, Giulio Clovio, Baccio Bandinelli, Daniele da Volterra,
Rosso Fiorentino, Girolamo Siciolante da Sermoneta, Salviati, Jacopino del
Conte, Marcello Venusti, Federico Zuccari, Sofonisba Anguissola, Lavinia
Fontana, ed anche el Greco, nominato come « un Grego scolare di Titano » (). La raccolta ha una natura composita perchè
ad un nucleo di dipinti sacri si affianca una lunga Galleria di ritratti di
personaggi celebri, cardinali e amici dell'Orsini ed una minoranza di scene
mitologiche. Tra queste ultime si può
ricordare, per esempio, un « Mercurio che
apparisce ad Enea » di Daniele da Volterra (),
una « Venere et Cupido » di
Michelangelo (), un «
disegno del carro di Faetonte » del
medesimo (), « un
disegno d'Enea che porta Anchise » di
Raffaello (), e un «
disegno senza cornice col ratto di
Ganimede » di Daniele da Volterra copiato da Michelangelo ().
Il Nolhac correttamente ipotizza
che l'Orsini abbia ricevuto buona parte dei dipinti in dono dagli artisti
stessi nei periodi in cui lavorarono per i Farnese (). Di uno almeno si conosce l'esatta
provenienza: l'ovato di rame, col ritratto del Sigonio, era stato dipinto da
Lavinia Fontana su richiesta dell'Orsini ().
Unica assenza di rilievo è
quella carraccesca, che non comporta però alcuna limitazione alla tesi che
l'Orsini abbia collaborato all'impresa della Galleria Farnese. Per le ragioni sopra accennate, infatti,
tale assenza potrebbe essere spiegata dalla circostanza che l'Orsini morì prima
della fine dei lavori della Galleria, nel maggio del 1600.
CAP. 3
Fulvio
Orsini nella tradizione umanistica di Roma
Pur nella mancanza di uno studio
approfondito sulla biografia, la personalità e la cultura di Fulvio Orsini,
nessuno studioso ha messo in dubbio il valore del suo contributo all'Umanesimo
romano del Cinquecento.
L'unica biografia moderna dopo
quella fin troppo sintetica del Castiglione
che risale al 1657 (),
è di Pierre de Nolhac, scritta a completamento del suo fondamentale studio
sulla Biblioteca dell'Orsini. Dalle numerose
e ben documentate informazioni del de Nolhac è possibile tentare di ricostruire
quella complessa rete di frequentazioni dotte dei Farnese che si alimentava nei
cenacoli umanistici dei Palazzi Farnese di Roma e Caprarola, ma soprattutto di
cogliere a grandi linee il legame che unisce l'Orsini ai grandi esponenti
dell'Umanesimo romano delle due precedenti generazioni, da Pomponio Leto ad
Angelo Colocci.
La più significativa testimonianza di questa continuità culturale
è in una lettera che Fulvio Orsini scrive nel 1572 all'amico Giovanni Vincenzo
Pinelli per riferirgli l'esito di una ricerca di opere di autori greci alla
Biblioteca Vaticana . Aveva ritrovato
un libro « [...] di 500 anni in perg[amena] Questo libro fu del Colotio et io
me ne ricordo, che essendo giovinetto andava da quel galantuomo, et ben spesso
li trovava con questo libro in mano, perchè egli ne faceva all'hora tradurre
l'Atheneo De Machinis bellicis che è nel medesimo libro, da Messer Guglielmo,
che oggi è il cardinale Sirleto » ().
L'Orsini senza dubbio quindi frequentava e stimava il Colocci e dopo la morte, avvenuta nel 1549, ne ereditava il
magistero così come il Colocci aveva a sua volta accolto il retaggio di
Pomponio Leto. Quella parte della
biblioteca del Colocci che si potè salvare dalla distruzione durante il sacco
di Roma del 1527, passò a Fulvio Orsini
e quindi alla Biblioteca Vaticana ().
Da Giovanni Gioviano Pontano,
attraverso il Bembo, riceveva il celeberrimo "Virgilio" che è ancor
oggi uno dei più preziosi manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana.
Tra gli uomini di cultura
italiani e contemporanei in contatto con l'Orsini si possono notare personalità
come Antonio Possevino (),
l'indomito gesuita scrittore, diplomatico e missionario impegnato nella lotta
contro i protestanti, nonchè autore della Bibliotheca
selecta; Gabriele Faerno di Cremona (),
studioso di letteratura latina alla
Biblioteca Vaticana e chiosatore delle Filippiche di Cicerone e delle Commedie
di Terenzio; Latino Latini di Viterbo (),
autore di glosse a Tertulliano, dal 1565 familiare del card. Ranuccio Farnese e
dal 1573 preposto all'esegesi del diritto canonico contenuto nel Decretum di Graziano, compito
delicatissimo e di grande responsabilità che lo impegnò tredici anni; ed anche
il medico Girolamo Mercuriale forlivese (),
beneficiato dal card. Ranuccio Farnese.
Tra gli amici più cari in Italia
vanno ricordati lo storico modenese Carlo Sigonio (),
conosciuto a Bologna nel 1565, esperto di filologia greca e latina; Pier
Vettori fiorentino (),
autore di numerose edizioni di autori latini e greci quali Sallustio, Terenzio,
Cicerone, Euripide, Aristotele e Platone; lo storico veronese Onofrio Panvinio
(),
revisore della Biblioteca Vaticana al servizio dei cardinale Cervini, futuro
Papa Marcello II, e del card. Alessandro Farnese, editore dei Commentari ai
Fasti.
Va inoltre sottolineato il
rapporto culturale con Annibal Caro che era stato segretario dei Farnese per
due generazioni, avendo servito il duca Ranuccio Farnese (),
poi suo figlio il duca Ottavio e infine il colto card. Alessandro Farnese, la
cui larghezza di vedute abbiamo già vista nelle epistole scambiate con Fulvio
Orsini.
Le principali informazioni sulle
amicizie e le frequentazioni umanistiche dell'Orsini sono contenute nei suoi
epistolari manoscritti, oggi legati in tre volumi miscellanei che contengono
anche epistole di Aldo Manuzio Sr., Colocci, Pontano, Bombasio, Carteromaco e
di grandi umanisti del XV° secolo e
sono conservati nel fondo Vaticano Latino della Biblioteca Apostolica Vaticana
con le segnature 4103, 4104, 4105.
Sarebbe di somma utilità ed interesse la pubblicazione integrale e con
apparati critici completi di questi tre volumi compositi che per la loro stessa
natura già mostrano il segno evidente di una continuità di cultura nella Roma
del Rinascimento ().
Da una rilettura di tali
epistolari sulla base di informazioni raccolte dal De Nolhac, emerge inoltre
con chiarezza la dimensione "europea" dell'umanesimo di Fulvio
Orsini. Si era infatti creata una triangolazione
Roma-Madrid-Anversa via Orsini-Granvelle-Plantin finalizzata alla realizzazione
di una notevole impresa editoriale.
Il famoso tipografo di Anversa
Christopher Plantin ()
era infatti suddito di Filippo II re di Spagna e dei Paesi Bassi per il quale
aveva stampato un?importante Bibbia poliglotta in latino, greco, caldeo ed
ebraico, mentre il Granvelle, diplomatico al servizio del re, forte della
propria influenza politica, fungeva da intermediario tra il Plantin e l'Orsini
favorendo la pubblicazione dei volumi di quest'ultimo.
Antoine Perrenot cardinale di
Granvelle (), goduta
la piena fiducia di Carlo V che lo aveva incaricato di parlare a proprio nome
all'apertura del Concilio di Trento, era divenuto ministro di Filippo II di
Spagna e membro del Consiglio di Stato dei Paesi Bassi dimostrando di essere
strenuo fautore dell'ortodossia cattolica nella lotta contro il
protestantesimo. Gli eventi politici
del 1563 avevano poi costretto il Granvelle a ritirarsi a Besançon nel 1564 per
una pausa di studi umanistici insieme a Giusto Lipsio suo segretario, e a
trasferirsi a Roma l'anno successivo (). In questa occasione dovette conoscere
Fulvio Orsini, facilitato dai stretti legami che univano allora i Farnese alla
Spagna.
Capovolgendo l'alleanza
filofrancese perseguita da suo padre Ottavio, Alessandro Farnese aveva infatti
stabilito la propria residenza a Madrid e sposato Maria di Braganza principessa del Portogallo nel
1565, proprio l'anno in cui il Granvelle si recava a Roma. Inoltre la madre di Alessandro Farnese era
Margherita d'Austria figlia di Carlo V.
Il Granvelle era quindi legato a
doppio filo con Fulvio Orsini per il comune interesse per i libri e le
antichità romane e per la gestione della politica spagnola in Italia con i
Farnese e anche per avere una certa familiarità con gli artisti, come
dimostrano le lettere che gli spedirono
Tiziano e il Primaticcio ().
L'epistola spedita dal Granvelle
all'Orsini in Roma il 20 agosto del 1566 ben testimonia la natura delle
relazioni intercorse tra i due umanisti: « Molto mag.co Sig.re come fratello
M. Tadeo pintor ()
mi porta una di V.S. la quale diede alli miei, et subito che venne alle mie
mani feci cercar il p.to pintor desiderosiss.mo di conoscerlo, vederlo, et parlar
con lui; et rispose alli mei che andava a certi negocij suoi, et che poi mi
vedrebbe, et così espettando questa sua venuta ho indugiato di rispondere a
quelle sue lettere, et certificarli che aveva ricevuto le sue fatiche sopra la
Georgica; ma essendomi venuta la seconda sua di 16 di questo, ancora che al
portatore dissi haver ricevuto la prefata sua opera, non ho voluto diferir piu
di scrivergli, et certificarli, che non solo l'ho ricevuta; ma che passano 15
giorni che la mandai in Fiandra ();
ma io credo che espetteranno innanci che
risolversi alla stampa il restante che è l'Eneade la quale intendo che
se copia con diligenza, et venuto che sarà farò il dovere per haver risoluta
risposta dal stampatore, et restine V.S. con animo quieto perchè io ne ho la
cura che conviene. La ringratio
infinitam.te
dell'avviso che mi da della vendita che si fa della pittura del giuditio, che
era nella guardarobba della buona m.a del bon car.l di S.to
Angelo (), io mi
ricordo d'haverla veduta bene quando con la bona guida di V. S. fui condotto a
veder la libraria, et la guardarobba; ma per esser tavola, et grande mi deterre
di attendere alla compra per la incommodità del porto, et invero non voria
ancora che uscisse tal cosa della casa come l'ho detto a padre Honofrio (). Al Piggio ()
mandai quella inscritt.ne che V.S. mi diede ricavata da quel fragmento di marmore
sopra di che mi risponde quanto V.S. vedrà dall'alligato cap.lo ricavato
dalla sua l.ra
[...] » ()
Il primo frutto dell'amicizia
dell'Orsini con il Granvelle è l'edizione plantiniana di Virgilio stampata nel
1567.
CAP. 4
Stephen Wynkens Pigge e l'Hercules prodicius
Tra i volumi stampati dal Plantin
ad Anversa uno in particolare richiama l'attenzione di chi è interessato agli
affreschi della Galleria Farnese: l'Hercules
prodicius di Stephen Wynkens Pigge (). Viene spontanea l'associazione di idee con
il dipinto centrale del Camerino Farnese, che tratta appunto il tema di Ercole
al bivio così come venne illustrato da Prodico di Ceo. Il Martin notò l'esistenza del testo, ma
non intraprese indagini approfondite a riguardo (). Una ricerca sulla biografia del Pigge
rivela la sua appartenenza al circolo umanistico farnesiano e fornisce utili
indicazioni sulle vie che portarono Annibale e Agostino Carracci alla conoscenza
di alcune particolari iconografie "antiquarie".
Il nome di famiglia del Nostro è
in realtà Wynkens, il cognome Pigge gli deriva dallo zio materno, il famoso
teologo Albert (). Albert Pigge aveva combattuto il
protestantesimo, confutando le dottrine calviniste con il De libero hominis arbitrio et gratia divina (),
ed era stato al servizio di Adriano VI, Clemente VII e Paolo III Farnese.
Stephen Wynkens Pigge, nativo di
Kampen, città olandese, studiò all'Università di Lovanio approfondendo la conoscenza
della letteratura latina; a ventisette anni, nel 1547, era in Italia al seguito
del card. Marcello Cervini, allora prefetto della Biblioteca Vaticana (). Durante il soggiorno romano disegnò con
attenzione i monumenti antichi, trascrivendo tutte le iscrizioni di cui veniva
a conoscenza, senza dimenticare le medaglie, le monete e ogni altro oggetto di
valore storico. Dopo sette anni di
lavoro venne alla luce una silloge epigrafica manoscritta, dal titolo Inscriptionum Antiquarum Farrago, collecta atque
illustrata per Stephanum Pighium: opus inchoatum absolutumque anno 1554 iussu
auspiciisque Marcelli Cervini. Il
Cervini divenne Papa Marcello II nel 1555, ma la morte lo chiamò a sè dopo soli
ventidue giorni di pontificato.
Privo di protettore, il Pigge
passò nello stesso anno al servizio del Granvelle, allora vescovo d'Arras, in
qualità di Segretario per le lettere latine e bibliotecario, con gli stessi
incarichi dunque che Fulvio Orsini aveva presso il card. Ranuccio Farnese. Il Granvelle apprezzava la silloge
epigrafico-antiquaria del Pigge, ne sollecitava l'aggiornamento e introduceva
l'umanista alla tipografia plantiniana.
Nel 1566 il Pigge curò l'edizione
dei Dicta factaque memorabilia di
Valerio Massimo, collazionando più manoscritti con cura tale da meritare
l'elogio di Giusto Lipsio ()
e nel 1568 pubblicava col Plantin un volume intitolato Themis dea, seu de lege divina. Il significato di un'erma marmorea acquistata dal card.
Rodolfo Pio da Carpi veniva illustrato in Roma nella vigna del cardinale stesso con un dotto dialogo tra
Antoine Morillon, l'ambasciatore imperiale Don Diego Hurtaldo de Mendoza ed
Antonio Agustin. Alla Themis Dea era aggiunta la Mythologia vel anni partes, dissertazione su un
bassorilievo ritrovato prima del 1559 nelle vicinanze di Arras dedicata al
card. Granvelle, che a quella data era vescovo della città ().
Il generale precipitare degli
eventi nei Paesi Bassi seguito alla rivolta anticattolica dei cosiddetti Gueux del 1566 con la sanguinosa
repressione del duca d'Alba, ma soprattutto, come si già è visto, il ritiro
forzato del Granvelle prima a Besançon e poi a Roma, costrinsero il Pigge a
cercare un nuovo protettore.
Grazie all'intermediazione di
Andrea Masi, noto orientalista, il Pigge trovò protezione presso il duca
Guglielmo di Cleves con il compito primario di curare l'educazione del giovane
figlio Federico - Carlo.
Il principe Carlo e il Pigge
furono così mandati nell'ottobre del 1571 a Vienna, presso l'imperatore
Massimiliano II d'Asburgo, come prima tappa di un viaggio più lungo. Alla corte viennese il Pigge incontrò, tra
gli altri umanisti, anche Giusto Lipsio che non era riuscito a trovare una
sistemazione a Roma con il card. Granvelle ()
e Janos Zsamboky, umanista ungherese bibliotecario dell'imperatore.
Dopo un lungo soggiorno viennese
il Pigge accompagnò il principe Carlo di Cleves in un viaggio d'istruzione in
Italia ma, disgraziatamente, il giovanetto si ammalò e morì durante l'ultima
tappa del viaggio, il 9 febbraio 1575 (). L'Hercules
prodicius, edizione plantiniana del 1587, è esattamente il resoconto di
tale viaggio ().
Per la sua particolarissima
natura, l'Hercules Prodicius si adatta perfettamente all'occasione degli
affreschi del Camerino Farnese. Vi è
una profonda affinità tra il ruolo del Pigge e quello dell'Orsini: entrambi
umanisti preposti all'educazione di un giovane principe (),
svolgono il loro compito usando l'archeologia al servizio della pedagogia, in
un vitale intreccio che vede coniugarsi la conoscenza, lo studio e la
comprensione storica delle antichità romane.
Non trattano una astratta citazione della figura di Ercole che, grazie
alla propria forza, è simbolo di fortitudo
cristiana in tutto il Rinascimento, ma assumono la chiara consapevolezza della
necessità di un approfondimento storico e filologico effettuato sui testi, e in
un continuo riscontro con la realtà dei reperti esistenti, con le rovine del
mondo antico. Chiave di lettura dell'Hercules Prodicius e del Camerino
Farnese è la scelta morale primaria che l'umanista compie all'inizio del
proprio cammino e quindi la scelta fondamentale nell'educazione di un giovane
principe.
È evidente soprattutto l'intima
affinità esistente tra l'impresa che Fulvio Orsini ideò per il cardinale
Odoardo Farnese, « mi innalzo verso Dio », e la tradizione riferita dal Pigge
di un Ercole rapito al cielo nell'immortalità, un Ercole che ben lungi dallo
scendere agli Inferi, si vede « ad caelum post labores atque aerumnas e carcere
corporis evehere », un tema neoplatonico quindi, per via della spiccata
attenzione posta sulla limitatezza della corporeità (),
ma anche e soprattutto un tema cristiano, nella misura in cui la premiazione di
Ercole corrisponde alla ricompensa che aspetta l'uomo giusto dopo la morte.
Così infatti soggiunge il Pigge:
« Non secus mihi visum est, inclytae Princeps, in hoc volumine catagraphen
quandam optimi Principis adolescentis cum suis virtutum signis adumbrare tanquam in tabula picta. Quae licet expolita sit leviter,
repraesentabit tamen egregium Herculem Christianum non flammis e pyra sublatum
sed ardore Virtutis divinae graviter militantem, ac demum post pulchra rerum
experimenta, soluto corpore piissimae matris Ecclesiae Romanae ab amplexibus
subvectum ad aethera. Nemini etenim
pio, ni fallor, displicebit. Socratis
Platonici sapiens illa sententia cum Prodico nostro pulchrae consentientis,
apertas homini vitam ingresso duas actionum esse vias, virtutis scilicet et
vitij. Duplices item esse excursus
animorum e corpore, vel ad praemium, vel ad poenam. Itaque voluptatis discipulos animos vitiorum contagione
seductos, atque devium a concilio deorum iter, & ab aeterna foelicitate
seclusum ingressos delabi semper ad poenam, ac difficulter admodum remeare
gradum, superasque evadere ad auras posse, ut & poëtarum princeps Maro
cecinit.
Alios vero, qui Virtutem ducem
sequuti in corporibus humanis deorum vitam imitati sunt: confecto in terris
gloriose curriculo, facile ad illas aethereas sedes, a quibus profecti erant,
reverti, praemiumque nancisci.
Huic aureae sententiae
astipulatur inter alios etiam M. Tullius, sit licet mysteriorum nostrae
religionis ignarus. Huic etenim, uti
in Rabiriana testatur, bonorum virorum
mentes divinae, atquae aeternae videntur, & ex hominum vita ad
deorum religionem, sanctimoniamque recta demigrare » ().
L'idea che anche nella lettura
che Cicerone fa del tema dell'Ercole al bivio si possa riscontrare una
simbologia cristiana, è perfettamente in linea con la cultura di Odoardo
Farnese, il cui motto, come si è visto, tolto dal Vangelo di Matteo, è inserito
in un contesto antiquario che dà per acquisita la nozione che non vi è una
contraddizione assoluta tra la religione pagana e quella cristiana se si
considerano i miti della prima come prefigurazioni della verità della seconda.
La vicinanza tra l'Hercules prodicius e il Camerino Farnese
non è solo concettuale, ma presta occasione a considerazioni
iconografiche. Quando infatti il Pigge
descrive la tappa ravennate del viaggio in Italia, si sofferma su un confronto
tra una statua di Ercole "astrologo" trovata nella città ed un'altra
che aveva avuto occasione di vedere a Roma.
L' Ercole "astrologo"
era rappresentato con la clava abbandonata a terra, in atto di appoggiarsi sul
ginocchio sinistro e sostenere sul capo, come Atlante, un orologio solare. L'Ercole romano era invece
"stellifero", cioè portava sul capo una grande sfera celeste, con le
raffigurazioni dello zodiaco: « Nec dissimilem vidisse me memini Herculis
statuam Romae in vinea Stephani Bubalij repertam; qui non horographicum
sciotericon, sive vas horoscopum cervice, sed caeli spheram ingentem zodiaci,
atque fixarum stellarum imaginibus pulcherrimae sculptis exornatam gestabat » ().
In un affresco del Camerino
Farnese è presente la versione di Ercole "stellifero", molto
probabilmente ricavata dalla stessa statua descritta dal Pigge, che si
conservava proprio in Roma; inoltre gli attributi di almeno uno dei due
astrologi raffigurati ai lati dell'Ercole stellifero nella scena del Camerino
poterono essere ricavati dal frontespizio di un'edizione di Tolomeo curata da
Gerhard Kremer, geografo ben noto come Mercator, il quale si trovava ad essere
cosmografo dello stesso protettore del Pigge, il duca Guglielmo di Cleves,
padre del principe Carlo protagonista dell'Hercules
Prodicius.
Soli otto anni separano la
pubblicazione dell'Hercules prodicius
dall'inizio dei lavori per il Camerino Farnese, ma per via degli stretti
contatti, sia personali sia indiretti,
tra il Pigge e l'Orsini, non si deve pensare che l'umanista romano venne a
conoscenza del volume solo nell'anno di pubblicazione, tanto più che il
principe di Cleves era morto in Italia.
La lettura dell'Hercules
Prodicius ci suggerisce l'idea che i riferimenti neoplatonici o
archeologici del Camerino Farnese non siano divulgazioni elaborate di seconda
mano da Annibale Carracci, ma materiali di prima mano, spesso inediti e noti
solo agli umanisti più informati. Il
Martin aveva ben capito che l'autore del programma del Camerino poteva essere
solo Fulvio Orsini, conosceva anche l'esistenza dell'Hercules Prodicius, ma non aveva approfondito lo studio dei legami
di cultura e d'amicizia che formavano quella grande scuola ideale
dell'umanesimo del secondo Cinquecento europeo. In questo modo veniva a mancare alla critica la conoscenza
dell'origine di quel substrato culturale che sarà poi presente nella volta e
nelle pareti della Galleria.
CAP. 5
Janos Zsamboky e le Dionisiache di Nonno di
Panopoli
Altri dati non meno interessanti
emergono dallo studio della biografia del medico e letterato ungherese Janos Zsamboky, umanista che abbiamo già
intravisto con il Pigge a Vienna in qualità di Bibliotecario dell'Imperatore
Massimiliano II ().
Anch'egli era in contatto con
Fulvio Orsini, cui lo legava il comune interesse per lo studio filologico dei
testi degli scrittori latini e greci che aveva raccolto in una biblioteca ricca
di almeno duemilaseicento libri a stampa e di più di seicento codici
manoscritti.
Lo Zsamboky aveva acquisito una
solida preparazione nelle Università tedesche. A Wittenberg aveva ascoltato le letture di greco del Melantone;
ad Ingolstadt aveva seguito le lezioni dell'insigne Peter Bienewitz, noto come
Apianus, astronomo, matematico e filologo,
editore del primo nucleo del Corpus inscriptionum latinarum et graecarum,
nonchè di una carta geografica dell'Ungheria ();
a Strasburgo aveva studiato letteratura latina presso Giovanni Sturm.
Con uno dei figli dell'Apianus
visitò Parigi nel 1551 conoscendo Jean Dorat, futuro precettore dei figli di
Enrico II di Francia e poeta regio, ed approfondendo lo studio della lingua
greca grazie anche all'influsso che su di lui ebbe il magistero di Adrien de
Turnèbe, il vate della letteratura greca in Francia che aveva pubblicato la
prima edizione francese dell'Iliade e l'edizione completa di Eschilo, Sofocle,
Aristotele e altri sommi scrittori.
Sulla spinta di questo fortissimo impulso culturale parigino, lo
Zsamboky iniziò a collezionare manoscritti, soprattutto greci, e a tradurli.
Tornato a Vienna nel 1553, lo
Zsamboky divenne precettore di Giorgio Bona e Nicola Istvánffy, due giovani
parenti dell'Arcivescovo di Esztergom Nicola Oláh (). Il primo già da un anno studiava a Padova,
mentre il secondo si apprestava a raggiungerlo insieme al maestro.
A Padova lo Zsamboky seguì le
lezioni di Francesco Robortello, maestro anche di Francesco Patrizi, tenne contatti con Paolo Manuzio, il cui
figliolo studiava nella stessa Università, e si dedicò alla ricerca di codici
manoscritti fino a quando la morte improvvisa ed inaspettata di Giorgio Bona lo
spinse a tornare a Parigi ().
Rientrato nuovamente in Italia
nel 1562, lo Zsamboky visitò Genova,
Milano, Venezia, Bologna, Firenze, Roma e Napoli.
A Roma non si lasciò sfuggire
l'occasione di acquistare manoscritti antichi, tra cui un esemplare della Batracomiomachia e un Commentario sulle
Omelie di Gregorio Nazianzieno comprato da Fulvio Orsini.
Non si hanno molte notizie intorno al suo soggiorno
romano, ma si può con sicurezza affermare che lo Zsamboky frequentava Fulvio
Orsini e i più noti umanisti archeologi suoi amici. Erano anni di intensa attività culturale: fervevano i lavori del
palazzo Farnese di Caprarola e si iniziavano le riunioni dell'Accademia delle "Notti
Vaticane" sotto la guida di Carlo Borromeo ().
Evidentemente a Roma lo Zsamboky
era entrato a pieno titolo nella cerchia dell'Orsini. Non appena lasciata l'Italia si era infatti recato nelle Fiandre
ed era riuscito a stampare il suo volume di Emblemata
ad Anversa presso il Plantin ().
Lo Zsamboky si ricordò
dell'Orsini con stima e gratitudine dedicandogli un emblema che rappresenta i
due umanisti in uno studiolo intenti ad esaminare antichi volumi.
Tornato definitivamente a Vienna,
lo Zsamboky rimase in contatto epistolare con l'Orsini, Paolo Manuzio, il
cardinale Sirleto, Pier Vettori e Girolamo Mercuriale ()
e potè incontrare personalmente Onofrio Panvinio che si era presentato alla
corte dell'imperatore con una raccomandazione del cardinale Farnese ().
Dopo cinque anni di soggiorno viennese,
nel 1569, lo Zsamboky fa pubblicare dal Plantin in Anversa l'editio princeps delle Dionisiache di Nonno di Panopoli ()
esemplata su un manoscritto che aveva acquistato in Italia. Il testo viene stampato interamente in
greco con le glosse del Falkenburg, mentre l'edizione con il testo latino a
fronte esce solo nel 1605 ().
È evidente l'interesse del volume
per gli studi sulla Galleria Farnese se si considera che la pittura centrale
della volta rappresenta il trionfo di Bacco e Arianna.
Il poema, databile al quinto
secolo, comprende 48 canti uniti da una complessa architettura generale, ma
congestionati dalle interminabili digressioni che distolgono l'attenzione dalla
trama centrale. La vasta cultura ellenistica
dell'autore tende a spaziare su tutta la mitologia offrendo un panorama
complesso dell'Olimpo. I rapidissimi
commenti contenuti nelle glosse ai lati del testo latino delle Dionisiache si
collocano bene nel contesto dei miti della Galleria Farnese in cui viene
significata la tematica di amore vincitore.
Anche i più forti soccombono alla
potenza d'Amore, nè si salva il re dell'Olimpo di fronte a Semele: «
Languidissimo vero telo / Parvus Amor combussit iaculatorem fulminis / Neque
(congeries pluviae), & non flammanti latori / Fulmen profuit / Victu est
vero & ipsa imbellis Veneris pauco igne tanta Flamma » e così commenta la
glossa a fianco: « Amor summum Iovem domat » (),
e ancora: « Coelestis & parvus amor cum irsutos pilos habente scuto / Cum
aegide cestus pugnavit, ab amorem generante v. pharetra / Fulmineae graviter
sonans subiugatus et sonitus Echus », con la glossa: « Exiguus amor etiam
validissimos domat » (). È lo stesso tema della Galleria Farnese,
simbolicamente espresso nella scena in cui Amore atterra Pan, che riappare
nell'analoga incisione di Agostino Carracci con il suo virgiliano commento : «
Omnia vincit Amor ».
Un episodio delle Dionisiache è
molto simile a quello di Polifemo e Galatea della Galleria Farnese, dove è
rappresentato il non corrisposto amore di un essere orrido per una splendida
ninfa: « [...] aethera tangebat Morrheus / Spe vana sublatus. In corde enim /
Puellam arbitratur habere telum aequale amorum, / Vanus vir, quod puellam
temperantem quaereret oblectare, / Nigris membris & non recordaretur formae.
/ Et ipsi arridens dolo ioculari puella », il commento è quanto mai esplicito:
« Morrheus a Cupidine vulneratus. Calchomedem amat. Amor fortes mollit. Calchomedia amorem simulat. Deformis
formosam amans ». « Miserum est amorem
non esse reciprocum ».
È il tema della reciprocità
d'amore, espresso nella Galleria Farnese dalla lotta di Eros ed Anteros.
L'amore fiacca i forti nel mito
di Ercole ed Onfale, nelle Dionisiache « Morrheus amore effoeminatus », oppure:
« Amor effoeminat etiam fortissimos. Tmolus Caucasus ».
Un passo centrale delle
Dionysiache è l'episodio in cui viene raccontata la fase finale del mito di
Arianna. Ella si dispera per essere
stata abbandonata sull'isola di Nasso dall'amato Teseo: « Perdidi & patrem,
& sponsum, heu mihi ob amores / Non video Minoem & non Thesea cerno, /
Gnossum meum reliqui, tuas v. non video Athenas, / Patre privata sum &
patria: Ah valde misera / Munus sponsale mei amoris aqua pulchra, ad quem
fugiam ? / Qui Deus rapiet me, & in Marathonem feret, / Veneri & Theseo
iudicio circumventam Ariadnen ? / Quis me acceptam fere perfluctus. Utinam
& ipsa / Vestrae filum aliud videam, ducem viae / Tale habere volo &
ego filum, ut effugiam / Aegei maris fluctum, / & in Marathonem transeam /
Ut amplectar te iuramentum fallentem coniugem / Accipe me tuorum thalamorum
cubicularium si voles » (). Nel relativo commento viene sottolineata
la singolarità della natura d'amore, nella lotta tra affetti e ragione,
intelletto e sentimento ().
Ma, splendente di luce divina ode
i suoi pianti Bacco, la consola e le offre il proprio amore: « [...] Talia illa conquerente delectabatur
Bacchus audiens, / Cecropiam vero cognovit & nomen Tesei cognovit / Et
classem ex Creta dolosam, prope puellam vero / Divinam imaginem habens
resplendebat, virginem vero / Meliorem in amorem alium flagellavit incitatore
cesto » ()
Bacco, rivolgendosi ad Arianna, si paragona a Teseo disprezzandolo ():
« Non Iovis omnibus imperanti persimilis fuit Minos / Tuus genitor, non Cnossus
similis est coelo / Nec frustra classis haec meum ingressa est Naxum / Sed amor
te servavit melioribus nuptiis / Felix, quod relinquens deteriorem aulam /
Lectum desiderabilis intuebere Bacchi / Quod magis voluisti decus superius;
utrumque n. / Coelum domum habes, socer v. tibi est est Saturnius / Non tibi
Cassiopeia poterit aequiparari. / Filiae suae ob ornatum coelestem. Aetherios
enim / Laqueos Andromedae etiam in stellis praebiut Persaeus / Sed tibi
stellatum faciam coronam, ut audias / Coniux fulgens coronam amantis Bacchi ()
».
Nelle Dionisiache, dunque, amore
perfetto è quello di Bacco per Arianna, di grado superiore a quello di Teseo,
il quale è un comune mortale, figlio sì di un re, ma non del re
dell'Olimpo. L'amore di Ercole ed Onfale
o di Polifemo per Galatea è di natura diversa da quello di Bacco ed Arianna.
Su questa fondamentale
distinzione ritorneremo diffusamente in seguito, intanto va messo in rilievo
l'altro probabile contributo dello Zsamboky all'iconografia carraccesca della
Galleria Farnese.
Nel primo di una serie di quattro
dipinti noti come gli "Amori de'Carracci" del Kunsthistorisches
Museum di Vienna, di attribuzione incerta tra Agostino Carracci o Paolo
Fiammingo, ma più probabilmente del secondo, e datazione tra il 1589 e il 1595,
compare un singolare elemento iconografico, la cui origine è stata chiarita dal
Kurz (). Si tratta di un putto alato che regge in
mano un pupazzo di stoffa montato su un bastoncino e fa le viste di mostrarlo
ad una coppia di amanti in primo piano.
Questo apparente divertissement
è in realtà una dotta citazione archeologica tolta dalla raccolta epigrafica
dell'Apianus. Nelle Inscriptiones sacrosanctae vetustatis compare infatti una xilografia illustrante
un sigillo antico in pietra dura che decorava una croce d'oro del monastero di
Hradisch nei pressi di Olmütz (). Sulla sinistra dell'incisione è raffigurata
una fanciullina alata con una ghirlanda sul capo in atto di suonare l'arpa,
sulla destra il puttino con il pupazzo.
Le iscrizioni identificano i personaggi come Venus e Cupido, mentre il
pupazzo è chiamato iocus. Il sigillo era stato scoperto nel 1504 da
Conrad Celtis, celebre umanista tedesco che aveva frequentato l'Accademia di
Pomponio Leto in Roma nel 1486 (). Le prime due pitture, inoltre, furono
incise da Agostino Carracci, le altre dal Sadeler ().
Fulvio Orsini aveva sicuramente
conosciuto Filippo Apianus figlio di Peter, l'autore delle Inscriptiones, dietro presentazione del comune amico Zsamboky che
gli scriveva, in un'epistola del 7 aprile 1564, « da operam videat bibliothecam
vestram, videat antiquitates e [...] si qui libri aut manu factae
demonstrationes mathematicae sunt, ostendas » ().
Non è possibile avanzare altre
ipotesi, soprattutto in mancanza di qualsiasi documentazione intorno alla
committenza e la provenienza dei dipinti viennesi, è certo comunque che l'inventio iconografica non può essere
attribuita al solo pittore, ma presuppone la collaborazione di un umanista
almeno per ciò che riguarda il reperimento del testo.
CAP. 6
Achille Bocchi.
« Omnia cui cedunt, divino cedat amori »
Nella Felsina Pittrice il Malvasia afferma che Agostino Carracci iniziò
la propria attività incisoria realizzando un bucranio ()
per la ristampa dei Symbolicarum
quaestionum ... libri quinque, emblemi del letterato e filosofo bolognese
Achille Bocchi ().
Gli studiosi della Galleria dei
Carracci hanno generalmente trascurato tale volume di emblemi a vantaggio dei
più noti testi dell'Alciati e del Cartari, citati soprattutto per la
spiegazione del significato di Anteros.
Il Martin accenna sì all'emblema con Ercole e Atlante del libro del
Bocchi, ma evidenziando soprattutto la distanza che lo separa dagli affreschi
del Camerino ();
la Marzik cita alcuni luoghi delle Symbolicae
Quaestiones come una delle possibili fonti neoplatoniche rinascimentali
della Galleria senza però soffermarsi sulla personalità dell'autore ().
Come giustamente nota il Calvesi
nel suo volume su Le Realtà del
Caravaggio, la presenza della tematica di amore virtuoso e divino nelle Symbolicae Quaestiones del Bocchi
dimostra « che nell'impresa carraccesca ricorrono quei significati morali già
segnalati dal Bellori e negati con disinvoltura da buona parte della critica
moderna » ().
L'incisione più importante è
senza dubbio quella che rappresenta Pan
atterrato da Amore, con il motto: « OMNIA CUI CEDUNT, DIVINO CEDAT AMORI »
():
Pan, al quale sottostà ogni cosa, deve a sua volta sottostare all'amore divino.
« PAN VICTUS A CUPIDINE IN LUCTA
CADIT. Te quoque Pan ovium custos
dignissime, Amori / Luctando quondam succubuisse ferunt. / Nec tibi profuerunt ridenti cornua fronte, /
Barbaque Phoebea lampade splendidior / Non illa astriferum referens tua Nebrys
olympum, / Non calamis septem fistula disparibus. / Non dextra gestasse pedum,
quo cuncta gubernas, / Nempe tuum est mundi totius imperium. / Ergo si tantum
numen tu cedis Amori, / Ecquis erit nostrum cedere quem pigeat ? / Victore a
summo vinci victoria summa est, / Testis naturae es maximus ipse parens ».
È esattamente il significato
della scena di analogo soggetto della Galleria Farnese e dell'incisione di
Agostino Carracci che reca il motto Omnia
vincit Amor (). Il confronto con il simbolo del Bocchi
dimostra il vero significato dell'immagine di Agostino, la cui iscrizione non
deriva, come si è pensato, direttamente dai versi di Virgilio « omnia vincit
amor et nos cedamus amori », nei quali manca ogni riferimento a Pan, ma dalla
lettura neoplatonica che ne fa il Bocchi.
Il Bodmer aveva collegato l'incisione di Agostino alle sue Lascivie, fraintendendone così il
significato ().
L'intenzione simbolica del libro
del Bocchi è chiaramente espressa dal letterato sardo Gavino Sambiguccio ().
Il Sambiguccio era entrato a far
parte dell'Accademia filosofica che il
Bocchi aveva fondato nel proprio palazzo bolognese con gli auspici e la
protezione di Papa Paolo III e del cardinale Alessandro Farnese (). L'Accademia, oggi generalmente conosciuta
come "Bocchiana", veniva chiamata Hermathenaica in relazione
all'impresa personale del fondatore nella quale compaiono le figure di Ermete,
Atena e Cupido con le briglie in mano ed il motto: « SIC MONSTRA DOMANTUR ».
Il motto è riferito a Cupido: «
Horum autem in medio divinum depinxit Amorem, qui adamantino freno monstrum
frenat, cuius quidem rei admiratione ductus poeta, cum tam parvum puerum,
qualis Amor est, tantum Monstrum tam exiguo freno regere ac ducere videat,
divinum hunc affatur Amorem, quaeritque unde nam in puero tam parvo tantae
insint vires. Cui Amor respondens
apertissime monstrat causas, quibus mediantibus similiter & nos possimus
monstra domare, tandemque nobis veram felicitatem ac beatitudinem comparare,
quem admodum fusius suo loco declarabimus: atque ista, ut breviter dicam, in
praesenti Symbolo Poetae nostri intentio fuit » ().
Il tema del contrasto tra la
forza spirituale d'amore e la sua debolezza fisica, che appare anche nelle
Dionisiache di Nonno di Panopoli e nella Galleria dei Carracci, fornisce lo
spunto per una riflessione morale, un invito a ripetere le gesta d'amore nel tentativo
di vincere le passioni corporee.
Nel simbolo del Bocchi Amore
divino è figura di Dio stesso: « hoc ipsum bonum nihil aliud esse quam Deum
Optimum Maximum [...] hoc summum bonum nihil esse aliud quam Amorem » e il fine
consiste nello spiegare come raggiungere l'unione mistica con Dio una volta
liberati dai vizi e dal peccato: « humanus hic intellectus tali coniunctus
atque unitus amori vitiis omnibus atque peccatis exuatur, & quomodo nos
perfectissimi efficiamur, ipsique Deo
Optimo Maximo, qui omnium rerum est perfectio summuque bonum, coniugamur » ().
Il Sambiguccio è durissimo nel
giudizio delle filosofie materialistiche, soprattutto nei confronti di quella
epicurea, che non riconosce l'esistenza dell'anima: « Fuerunt autem variae
Philosophorum de Anima sententiae. Pythagoras [...] Post istius autem opinionem
effrenus & impudentissimus omnium Epicurus, primitus, postposita &
neglecta omni rationis consideratione, Animam nostram mortalitati &
corruptioni obnoxiam afferere non est veritas: unde nec bonorum praemia, nec
malorum supplicia ulla, post mortem expectanda autumans, animum suum ad impuras
illecebras corporis, lasciviam, cupiditates pravas, voluptates inhonestas, ac
sensuum sordidas delectationes adiecit: a quo equidem futilissimo errore inanique
opinione quam alienus sapientissimus Socrates, divinusque Plato esset, alter
nobis voluntaria morte declaravit, alter innocentissima sua vita,
sanctissimisque moribus ac innumerabilis, quibus insignis erat, virtutibus, tot
ac tam firmis rationibus & aucthoritatibus, quibus passim eius sunt referta
volumina, clarissime ostendit: quae omnia quid quaeso aliud volunt, quam ut
nobis hanc animae nostrae immortalitatem ob oculos & in conspectum ponant ?
» ()
La speculazione del Bocchi non
doveva avere solamente un carattere filosofico, ma attingeva senz'altro ad una
dimensione contemplativa se il Sambiguccio afferma che nell'atto di conoscere
Dio si realizza un'intima fusione tra colui che conosce, colui che è conosciuto
e l'atto stesso di conoscere: « summum bonum nihil esse aliuq. quam divinum Dei
Amorem, qui cum talis sit, ut & ipsum Deum amatorem, & eundem quoque id
quod amatur constituat, nullum utique, sicuti in reliquis omnibus, discrimen
aut differentiam inducet [...] Nam quemadmodum in Deo, is qui cognoscit, id quo
cognoscitur, atque ipsa cognitio, unum & idem sunt: ita & in eo,
Amator, id quod amatur, & ipse amor, unam & eandem rem, unam &
eandem naturam; & eandem essentiam efficiunt » (). La conoscenza mistica di Dio è quindi già
in sè atto di amore.
L'amore della bellezza
esteriore, cioè l'amore carnale il cui
fine è nel piacere che deriva dall'unione sessuale dei corpi, tende per sua
natura ad estinguersi rapidamente dopo l'appagamento del desiderio e a provocare
una crisi di rigetto, dopo la quale è comunque possibile che questo tipo di
amore, definito "delectabilis", si trasformi in amore divino ().
La contrapposizione tra amore
carnale e divino non viene perciò attenuata: l'esperienza dell'amore
"delectabilis" lungi dal soddisfare l'uomo, lo avverte della propria
intrinseca caducità spingendolo alla conoscenza di Dio.
Onesto è l'amore filiale, o
coniugale, ma divino è solo quell'amore che sussiste nel puro intelletto senza
connessione alcuna con la materia: « divinus appellatur, quod ipse solus in
intellectu consistens, ab omni disiunctus ac segregatus est materia, quod que
in illo solo homines divinae Dei pulchritudinis divinaeque Dei sapientiae fiunt
participes » ().
Dopo aver citato la teoria
neoplatonica delle due Veneri (),
il Sambiguccio afferma la qualità cristiana dell'amore divino, il quale ha
spinto i primi cristiani a sacrificare se stessi divenendo martiri ()
e conclude citando il motto virgiliano: « Amor omnia vincit: nam si amoris
studium & ardor in rebus perficiendis desit, frustranueus profecto finis
erit, at si e contra studium diligentiam cum sanctissimo hoc amore adhibeamus:
adsitque nostra progressio, id est firma perseverantia, necessario
perfectissimus tunc noster aderit finis, hoc est, summa Dei amoris erga nos,
& nostri erga Deum, perfectissima coniunctio » ().
Nell'interpretazione del
Sambiguccio il virgiliano "Amor omnia vincit" ha quindi carattere
evidentemente sacrale.
Rimane ora da comprendere
l'origine storica di questa speculazione neoplatonica, chiarendo quali ambienti
culturali il Bocchi abbia frequentato.
Molti indizi si ricavano dalla
lettura delle Symbolicae Quaestiones. In primo luogo va ribadita l'importanza dei
Farnese testimoniata dall'alto numero di simboli dedicati a componenti della
nobile famiglia: « PRUDENS AC FORTIS RATIO, MEDITATIO, ET USUS EDOCET
OMNIPOTENS OMNIA DURA PATI » a Papa Paolo III (),
« VIRTUS VESTIBULUM EST HONORIS ALMA » al cardinale Ranuccio (),
ben quattro simboli al cardinale Alessandro: « PICTURA GRAVIUM OSTENDUNTUR
PONDERA RERUM » (),
« FIDES AC BONITATE AC SPES EST, DECUS INDE SEMPITERNUM » ()
e « NE LINQUE AEDIFICANS DOMUM IMPOLITAM » ()
e «QUALEM VIRUM PRAESTARE PRINCIPEM DECET » ()
ed anche al duca Ottavio: «VIRTUTIS UMBRA GLORIA » ().
Altri due simboli rivelano le più
remote ascendenze filosofiche del Bocchi che conosceva l'opera di Charles de
Bovelles, insieme a Lefevres d'Etaples e a Symphorien Champier uno dei massimi
esponenti del neoplatonismo parigino degli inizi del Cinquecento, e di
Francesco Colonna autore dell'Hypnerotomachia
Poliphili.
Si può confrontare la xilografia
del Liber de nichilo del Bovelles che
rappresenta « Deus de nichilo creans
universa », con quella di analogo soggetto delle Symbolicae Quaestiones del Bocchi (). Si nota un'evidente connessione
iconografica, poichè in entrambe le immagini Dio crea il mondo insufflando il
suo spirito vitale per mezzo di una lunga canna a forma di tromba, ma vi è
soprattutto una parentela concettuale in linea evolutiva. Il Bovelles nella xilografia del suo libro
mostra la terra con l'uomo, gli animali ed il cielo stellato mentre viene
creata da Dio che, per così dire, la sottrae al disco nero che la circonda e
rappresenta il nulla. Il Bocchi,
d'altra parte, è interessato a dimostrare l'esistenza dell'anima risalendo
dalla sostanza delle cose create allo spirito del loro Creatore. Nell'incisione
delle Symbolicae Quaestiones viene
rappresentato non il mondo intero, ma solo il globo terrestre completo delle
raffigurazioni dei quattro elementi.
Dalla lettura dei versi annessi emerge chiara l'insuffucienza della pura
materia, che è in realtà guidata da una spirito celeste e divino. Il motto ideato dal Bocchi per questo
emblema, ENTELEXIA PSUXH, significa il passaggio della potenza in atto, dello
spirito di Dio in materia, così come avvenne nella creazione del mondo.
Al figlio Pirro il Bocchi dedica
il simbolo in cui vengono citati i geroglifici dell'Hypnerotomachia Poliphili
().
Il Bocchi doveva avere un legame
con la cultura romana dei primi anni del Cinquecento più stretto di quanto non
si è finora pensato, come dimostra il fatto che, durante il suo primo soggiorno
a Roma in qualità di segretario di Alberto Pio da Carpi, egli si era scelto il
soprannome accademico Phileros, parola composta greca vicina al "Poliphilo"
di Francesco Colonna o al "Philogyne" di Andrea Baiardi parmense, ma
presente anche in marmi antichi scavati a Roma ().
Infine va ricordato che le
pretese devianze eterodosse e nicodemitiche del Bocchi maturo non derivano da
una sostanziale e volontaria comunità di vedute, quanto piuttosto da una
similarità formale ed esterna con alcuni motivi del pensiero ereticale,
talvolta riscontrabile nella presentazione dei ragionamenti più marcatamente
mistico contemplativi del Bocchi (). Sembra difficile che l'imprimatur della Curia e
dell'Inquisizione bolognese per la seconda edizione delle Symbolicae Quaestiones venisse concesso a cuor leggero, soprattutto
considerando che l'autore era già morto da dodici anni. Inoltre la ristampa era a cura della Società
Tipografica bolognese della quale faceva parte Camillo Paleotti, fratello del
rigoroso cardinale Gabriele (). Anche il Plantin, editore di Filippo II era
stato accusato di segrete connivenze con eretici, ma a ben vedere tali ipotesi
sembrano difficilmente dimostrabili ().
Il Bocchi si colloca quindi
perfettamente nella tradizione umanistica romana, continuando nel tempo a
coltivare il circolo culturale farnesiano, fino ad inserire Annibal Caro nel
dialogo tra Gabriele Cesani e Claudio Tolomei del suo Ptolemaeus manoscritto della Vaticana.
Va infine sottolineato non solo
che Andrea Alciati era ben noto al Bocchi, lo dimostra il simbolo 80 delle Symbolicae Quaestiones, ma che il Bocchi
era ben lontano dall'attribuire ad Anteros il valore di amore profano (). « CAECUS QUI PULCHRI NON CERNIT LUMINA
SOLIS » e « AD ANDREAM ALCIATUM AMICORUM OPT. / LUCE CARET, PULCHRI QUI CAUSSAM
NESCIT AMORIS » ()
e che il cardinale Federico Borromeo, cugino di San Carlo ed amico di Fulvio
Orsini, creò nei primi del Seicento un'Accademia Ermatenaica per gli studenti
di teologia in Milano, ispirandosi chiaramente all'Accademia Bocchiana ().
CAP. 7
Le Accademie: punto d?incontro di storia,
arte e letteratura
Gli Innominati di Parma.
L?Accademia degli Innominati di Parma
nacque intorno al 1574 ed ebbe prestigiosi associati. L?impresa dell?Accademia consisteva in una pianta d?alloro alla
quale era appeso uno scudo bianco ed il motto virgiliano « FAMAM EXTENDERE
FACTIS » oppure, secondo il Ferri: « FORTUNA INSCRIBET » .
Il più illustre socio fu senza
dubbio Torquato Tasso che, invitato ad iscriversi dal duca Ranuccio Farnese,
rispose con questo sonetto: « Innominata ma famosa schiera / Di scelti ingegni,
che i gran nomi illustri / Con gloria tal, che per girar di lustri / non
diverrà men bella, o meno altera: // Siccome col passar di primavera / Caggiono
a terra i candidi ligustri, / Così col
grido van de? molti illustri / Ogni pregio volgar avvien che pera. // E quelli
solo non caduchi onori / Sono, che in dotte carte altrui conserva, / Ove
Ranuccio avrà perpetua vita, // Per opra tua, che i suoi celesti fiori / Vi
sacri insieme, e par ch?ella si serva, / Che ciascun l?altra è men da lui
gradita » .
Battista Guarini è, insieme al
Tasso, lo scrittore più importante; e non mancano altri nomi molto
interessanti, come Bernardino Baldi, Pomponio Torelli, Tarquinia Molza e Muzio
Manfredi. Tra i pittori troviamo Federico Zuccari, mentre non è affatto escluso
che anche gli artisti Simone Moschino e Agostino Carracci facessero parte
degli?Innominati, o che comunque frequentassero a vario titolo le sessioni
accademiche. Quasi certamente Agostino dovette seguire le riunioni
dell?Accademia o i singoli letterati che ne facevano parte, dal momento che i
suoi soggetti dalla fine degli anni Novanta in poi sono evidentemente ispirati
alle idee di Pomponio Torelli accademico innominato.
Le iscrizioni all?Accademia di
principi e di alti dignitari di corte avevano una natura latamente ?politica?,
come nel caso del promotore-fruitore duca Ranuccio Farnese. Ma spesso i potenti
si dilettavano ad ascoltare i letterati con autentico mecenatismo, tanto che
l?interesse intellettuale arrivava a superare le motivazioni della corte e del
potere.
Le notizie relative alle
Accademie del Seicento sono certamente poche e di seconda mano e soltanto uno
studio sistematico delle fonti potrà dare risposte definitive. Di certo si può solo affermare l?interesse
del duca Ranuccio nei confronti degli
studi accademici, testimoniato dai carteggi farnesiani. Inoltre è possibile
effettuare alcuni sondaggi significativi, cercando di cogliere le alleanze
politiche e culturali tra i soci. Grazie alle ricerche effettuate sulle
cinquecentine superstiti e sulle fonti d?archivio, è possibile raggiungere una
migliore conoscenza dell?Accademia degli Innominati e dei suoi frequentatori.
Una delle attività più comuni
consisteva nell?esercizio dell?adulazione, nella composizione di sperticati
elogi, nell?apologetica di corte, che raramente produceva capolavori poetici,
ma che è oggi materia di grande interesse per ricostruire le clientele
culturali che univano gli uomini di cultura ai potenti, ai mecenati , agli
artisti.
Altra tipica occupazione
accademica consisteva nell?esercizio dell?erudizione filologica. Fortuniano Sanvitale,
per esempio, traduceva in volgare la Consolazione di M. Tullio Cicerone nel
1593 per le stamperie di Erasmo Viotti editore
parmense.
Gli scrittori raggiungevano il
prestigio più grande quando sottoponevano all?Accademia le loro opere per
l?approvazione dell?assemblea prima ancora di far gemere i torchi. Così fece il
Gaurini per presentare un?opera di primaria importanza come il Pastor Fido prima di darlo alle stampe.
Così fece anche il Visdomini con il Parto
della Vergine, presentato « al chiaro inclito coro Innominato acciò ?Egli
ti purghi, e ti pulisca e terga, / Ei ti mostri, o t?asconda, o abbassi od erga
? » .
Tra i pittori il cav. Federico
Zuccari, nel 1608, lesse un Discorso
sopra la grandezza e facoltà del disegno interno ed esterno pratico, che
sostenne con venti conclusioni ed una disputa finale. E non è inutile ricordare
che lo Zuccari nel 1592 aveva rifondato a Roma con nuovi regolamenti
l?Accademia di San Luca e che quindi questa compresenza realizzi un fecondo
scambio culturale. Il letterato Pomponio Torelli illustrò l?Etica e la Poetica di Aristotele e la tragedia di fronte agli Innominati, come
vedremo più avanti.
Ancora oggi molti critici, di
qualunque estrazione e nazionalità, si chiedono dove possano essere finiti i
programmi iconografici dei grandi cicli di affreschi, i bozzetti e le prime
idee delle opere d?arte, i manoscritti di tante splendide cinquecentine, dove e
come possano aver avuto luogo i parti dei capolavori del Rinascimento e del
Barocco. Quando le Biblioteche e gli Archivi non restituiscono nulla dopo tanti
anni di lavoro e ricerche degli studiosi, l?assenza non è colpa di incendi o di
saccheggi, nè di presunta sciatteria degli archivisti o degli artisti stessi.
La fase più delicata della produzione culturale avveniva proprio presso
l?Accademia e rileggendo la documentazione tramandataci, possiamo raffigurarci
l?iter seguito a partire dalla prima
bozza dell?opera. Infatti il letterato cerca sì conferma (Guarini, Visdomini)
per il labor limae finale, ma trae
anche ispirazione dalle opere degli altri autori, la fantasia immaginativa dei
quali si trova abbondante nei miti e nelle allegorie costruite sulla scia della
moda del momento. È la nascita dell?effimero barocco, con gli apparati di corte
e le grandi rappresentazioni allegorico-mitologiche di massa, che a Parma trova
una prima realizzazione con i festeggiamenti del matrimonio di Ranuccio Farnese
e Margherita Aldobrandini e successivamente con la fondazione del noto Teatro
parmense.
Il meccanismo di base consiste
nella promozione di cultura presso il potente o per il potente, una volta
innescata la scintilla inziale, l?Accademia produce anche opere slegate dalla
primitiva istanza del potere. È un circolo virtuoso di concentrazione degli
interessi. Ma, a differenza delle accademie del Quattrocento, distinte per
filone di interesse e prevalentemente filosofico-letterarie, tra il Cinque e il
Seicento si vengono affermando per la prima volta Accademie di natura affatto
diversa, in cui non a caso trova larga affermazione l?uso dell?impresa e
dell?emblema. Arte e letteratura, parola e immagine vengono a coincidere. Di lì a poco dilaga la moda dei manuali
d?emblemi, che costituiscono il mezzo principale per la diffusione
dell?iconologia nelle arti figurative.
Procedendo a ritroso, il critico
non trova così facilmente le spiegazioni complesse che sono necessarie per
capire la genesi di un?opera d?arte con tutte le innumerevoli variabili della
committenza. Ecco che allora, l?analisi della produzione culturale
dell?Accademia può risultare utilissima sia per un approccio diretto alle opere
prodotte nella ricerca di un qualsiasi ulteriore legame; sia anche nell?esame
indiretto delle frequentazioni culturali dell?Accademia stessa. Se, infatti,
artisti, letterati, poeti, tragediografi, musicisti e anche uomini politici,
ecclesiasti, alti dignitari di corte convivono nel microcosmo dell?Accademia,
perchè non pensare ad una forma di creazione distribuita dell?opera d?arte
? Alcune testimonianze sono esplicite
ed inequivocabili, altre meno accessibili, ma comunque chiarissime ed
eloquenti.
Abbiamo condotto le ricerche
d?archivio tenendo conto di questa premessa. Abbiamo seguito le tracce degli
Accademici nelle Biblioteche e negli Archivi ancora oggi esistenti, selezionato
i titoli più importanti e individuato almeno tre ?innominati? importanti ai
fini delle nostre ricerche. Tutti e tre
hanno scritto opere i cui soggetti sono stati ripresi da Agostino
Carracci. Pomponio Torelli è il più
importante con la sua complessa teoria degli affetti e la tragedia Galatea spiega chiaramente il
significato della Galleria Farnese e una parte della poetica di Agostino
stesso; Fortuniano Sanvitale, con i suoi Avvenimenti
Amorosi d?Arianna dedicati a Margherita Aldobrandini, moglie di Ranuccio
Farnese, svela l?allegoria della scena centrale della Galleria Farnese; Bernardino Baldi testimonia del rapporto con
Ottavio Rinuccini (e quindi con Claudio Monteverdi) per l?Arianna della Galleria Farnese
CAP. 8
Agostino
Carracci e l?Accademia de I Gelati di Bologna
Fu il Malvasia ad attribuire ad
Agostino le incisioni del volume di Rime
degli Academici Gelati di Bologna ,
e vide giusto.
Agostino aveva lavorato per
l?amico letterato Melchiorre Zoppi, fondatore dell?Accademia dei Gelati, che
ricambiò il favore iscrivendo Agostino
all?Accademia.
Agostino aveva inoltre dipinto
un ritratto per la moglie di Melchiorre, che aveva riscosso tanto successo
presso di lui, da meritargli la dedica di un sonetto di ringraziamento in cui
venivano lodate le capacità pittoriche di Agostino come emulo e non solo
imitatore della natura.
« Emulo anchor de la Natura sei /
Non solo imitator, Carracci, ch?ella / Suo difetto apre in consumando quella, / Che vivente assai piacque agli occhi
miei. / Tu per virtù dell?arte avvivi in lei / L?aria, il color, lo spirto, e
la favella, / E se viva non è, come a vedella / Altro senso, che vista io non
vorrei. / Ma come può giammai privo sembiante / Di lingua articolar voce non
sua ? / Tacito anco il suo stil ti grida in lode. / Non sai , ch?occhi per
lingua sua usa l?Amante, / E de gl?occhi il parlar per gl?occhi s?ode, / Che
dice amami, io son l?Olimpia tua » .
Molto interessante, e non
casuale, e non semplicemente retorica, l?affermazione dello Zoppi: Agostino non
imita, ma emula la Natura. In questa distinzione sta il senso delle future Vite del Bellori. Il Caravaggio imita,
il Carracci emula. Ovviamente la critica è di parte, proprio com?era di parte
il Vasari quando parlava del Michelangelo, con tutta la carica filotoscana che
conosciamo. Ma va detto che alla base del pensiero belloriano ricorre un
concetto importante. La natura non è buona in sè, non esiste uno ?ius
naturale?, la verità dell?Arte è data da un giusto equilibrio di classicismo e
idea esemplato su un modello etico di riferimento, che nel caso di Agostino,
vedremo essere l?etica aristotelica, conciliata con il neoplatonismo
filosofico-esoterico-spiritualista ed esemplata sulla dogmatica della
Controriforma imperante.
Le nostre ricerche sono state
condotte sulla scorta di queste indicazioni delle fonti più antiche, per
reperire documentazione atta a confermare o smentire questo rapporto tra
Agostino e i Gelati.
Ricercando allora nella
trattatistica dell?Accademia, in particolare dello Zoppi, abbiamo identificato
un testo molto significativo, che è stato senza dubbio fondamentale per lo
sviluppo delle tematiche d?amore e in generale del pensiero di Agostino
Carracci.
Si tratta dello Psafone di
Melchiorre Zoppi, trattato d?amore, concepito all?interno dell?Accademia de I
Gelati e pubblicato a Bologna nel 1590.
In questo testo molto
interessante ricorrono tematiche poi usate da Agostino per la realizzazione di
alcune incisioni e anche riecheggiate nella Galleria Farnese.
Leggiamo quindi insieme alcuni
brani significativi del testo per dimostrare questo rapporto culturale.
Nel Proemio viene presentato
l?argomento dell?opera, un soggetto mitologico molto particolare: « In quella
parte del mondo, ove il terreno dall'industriose Hesperidi coltivato produceva
Pomi pretiosissimi d'oro; un'Affricano, per nome detto PSAFONE, aspirò già
tant'oltre col desiderio della gloria; che sdegnando honore di terreno
principato, pensò com'usurparsi il nome, & l'honore de gli immortali, &
com'essere stimato Dio; & Dio grande, allevando a questo effetto buon
numero d'augelli atti all'articolar le voci in sembianza di parole humane,
& quelli ammaestrati al tornar questa menzogna GRAN DIO PSAFONE, alla
nativa libertà rimettendo, acciochè per la loro imitatione moltri altri ne
avvezzasse al celebrar l'ambita deità del maestro: indusse gl'Affricani
ingannati dalla nuova conformità delle voci, che ogni d'intorno nell'orecchie
rissuonavano loro, alla credenza, e al sacrificio
imperciochè Psafone, che secondo la derivation del nome, significa squallido,
& macilente, rappresenta Amore, che tal color produce ne seguaci suoi, così
disse il precettor dell'arte. Il pallor è il color'atto a l'amante » .
Entrato nel vivo della
narrazione, comincia a parlare della coppia di amorini, Eros ed Anteros, che,
com?è noto, hanno crato tanti problemi interpretativi agli esegeti della
Galleria Farnese: « Ma quai sono gli Amoretti ? e perchè accoppiati ? A dire il
vero, chi vuol giocondi, e permanenti gli amori, fa di mestiero a non lasciarli
ciascheduno per se vacillare solitario perchè Amore è fanciullo, ama scherzare
con gli eguali, tanto poco di trattenimento, che trovi, si rallegra, n'arreca
diletto, ma scompagnato e troppo di sua natura sottoposto alla frenesia.
bisogna dunque accoppiar gli Amori a due a due. Questo venne a significare
l'antica favola d'Erote, e d'Anterote. Quando Erote, cioè Amore scompagnato si
trovava, stavasi tutto ritratto, assidrato, e non cresceva: ma in compagnia del
suo Anterote, cioè del reciproco Amore, s'aumentava e tutto baldanzoso gioiva. Questo istesso volse una volta accennare
anco il filosofo, il quale negò esser perciò ne gl'innamorati l'amare, non vi
essendo il riamare » .
Questa interpretazione è molto
semplice, non fornisce indicazioni utili per dirimere la vexata questio della Galleria, ma nondimeno dimostra la
dimestichezza che il Nostro dovette avere con le discussioni
filosofico-letterarie e con le tematiche d?amore. Queste discussioni avvenivano
sicuramente in Accademia, luogo naturale di compresenza di letterati ed
artisti.
Lo Psafone contiene poi almeno
altri due riferimenti interessanti per lo studio di Agostino: la discussione,
tutta d?artista, e quasi sicuramente ispirata da Agostino, sulle modalità di
rappresentazione dell?amante di sesso maschile: « Agli huomini convien forma
negletta e Theseo invaghì di sè Arianna, & Ippolito Fedra, nisiun di loro
lascivamente increspando i capelli. Dico io per questo che l'inamorato debba
darsi alla sprezzatura ? no[n] certo: anzi fino a un termine io lodo la non
affettata pulitezza. Ammoniva
Martiale colui, che non si stesse ad acconciare troppo i capelli; ma che non si
scapigliasse ancora; non portasse la cotica splendida, nè manco sordida »
un?attenzione, questa, tutta ?pittorica?
e, soprattutto, ancora una volta, più o meno direttamente risalente alla
discussione sulla ?Poetica? di Aristotele.
Dopo aver dimostrato la necessità
di una severa sobrietà per la rappresentazione della figura virile, lo Zoppi
contrappunta subito, dimostrando l?assoluta necessità di concedere alla figura
femminile abbondanza di grazia e ricchezza.
Altro tema interessante
consiste nella derisione che procura l?azione amorosa non andata a buon segno,
tema che ricorre nell?apparentemente irriverente Galleria Farnese: « [...] Quel marmo, o argento circondato d'oro;
che se ad alcuno paresse, che il Poeta lo figurasse con qualche ornamento di
più ch'eccedesse il decoro virile, consideri ch'egli lo fa adornare per mano
d'una donna, di Venere stessa sua madre.
Ovunque poi non ha il primato la Beltà. Ogni bontà propria a ciascuna
cosa è amabile in quella. Voglio perciò, che l'uomo faccia ationi virili, e
questo è presentare il Pomo, che per esser grato bisogna, che sia aureo, come
quell'altro ancora dell'Affettione, ch'è a dire preciosissimo, perchè nulla
debbe un amante stimare di prezzo, eguale alla gratia dell'amata, e l'amata
giudicare gratia più pretiosa di quella dell'amante; che dà in tributo l'anima
istessa; sian d'oro i Pomi, perchè Amore è dell'oro amatore, così leggesi.
L'oro è co'l qual si concilia
Amore e chi trattò copiosamente quell'arte ebbe a dire di non venir mastro a i
ricchi, a i quali per haver l'arte nella borsa non è di bisogno di
tant'arte. Sono d'oro perchè aurea,
pretiosa singolare dev'esser l'Affettione, e non ordinaria, ma tale che è Cupido
non si tema di presentarnela, e la donna non ischifi d'aggradirla. Così questo
delle attioni, che dal lato dell'Amante tratta l'Amabilità sarà aureo, e
operationi auree, auree maniere e isquisite quanto si conviene alla conditione
di colui, che ama. che già non intend'io di fare nè così avaro l'amore nella
donna, nè così prodigo nell'huomo; ne meno la beltà della donna determinare a
tanta viltà; che per molto che s'attribuisca all'oro & ai presenti, io
pensi però dover l'innamorato impoverire, e nisiuno poter essere capace di
amore, se non chi è ricco. Troppo
sarebbe sciaurato un privo di facultà, se insieme dovesse essere escluso
affatto da i giardini amorosi. Quel che disse Ovidio
Se verrai dalle Muse accompagnato,
E nulla arrechi Homero, andraiti fuora,
s'ha da intendere di tale, e
quale, perchè sono tre i principi dell'amare. la Utilità, il Diletto, & il
Bene; per bene ama quella donna, che da onorata cagion si muove ad amar persona
meritevole, non per altro, che perchè la giudica segno dell'amor suo, e questo
è i prestantissimo principio, degno d'un animo nobile; Per diletto ama quella,
che non prende ad amar per meriti dell'huomo; ma perchè spera da lui lode,
amorose soddisfattioni, meglio che un'altro; questo è manco perfetto, ma si
compatisce ancora con l'animo gentile; Ma l'amare per utilità, il vendere a
prezzo l'amore, voler meglio a chi sborsa più: è atto puttanesco, indegno di
donna, che sia riputata ne anco civile.
Io non biasmo l'accettar doni, e cortesie, biasmo il dare a prigione
l'amore. Se uno poi sarà tanto tanto
mendico, com'era Homero, che non haveva facoltà di sostentarsi, non che se
inamorato si fosse, da presentare alla sua donna, fuor che carte inchiostrate,
costui non prenda ad innamorarsi.
Dicesi ogni cosa in amore
dover'esser'aurea, secondo la significatione già esplicata, di tutte l'opere in
suo genere ben fatte. chi è ricco si
prevaglia delle sue facoltadi in amando, chi è robusto della sua gagliardia,
chi è ingegnoso delle sue inventioni, chi è parlatore della sua eloquenza, chi
è garbato si serva ancor di sè medesimo in questa parte, per farsi amabile,
& in qualunque attione s'adopri quanto si puote il meglio questo farà dare
oro. Se essendo ricco ti dai allo spendere con certa tenacità, misurando le
spese fatte per l'amata, con una disdicevole parsimonia, e la vuoi con alcuni
vantaggetti sminuzzare, non da i pomi d'oro fu proverbio antico, le borse de
gli amanti esser legate con una foglia di pero, nè da i pomi aurei, se
armeggiando non ti porti di maniera, che ne riporti presso a poco il vanto; ne
meno se prendi a celebrar l'amata con modi triviali. Insomma in quella cosa, ove non hai natural dispositione, non ti
affaticare, come intorno a principale impresa; perchè le attioni amorose non
hanno mezzo, o si comprano gratia, o derisione, questo forse gli antichi
significarono ne'dardi di Amore aurei, e piombati, o sono aurei, cioè pretiosi,
e questi sono atti all'innamorare, o sono di piombo, cioè ottusi, e vili, i
quali fanno contrario effetto. Fa dunque opere meritevoli di gratia, fra le
quali studiati, che una vi sia almeno, che stimar si possa aurea; e l'altre poi
se o d'argento saranno, o di qualche men pretioso metallo, non verranno
disprezzate, nè beffeggiate, purchè non riescano affatto goffe. Così istrutto
dall'Amabilità, potrai comparire arditamente nel cospetto della donna,
richiedendone quella mercede, che si debbe a chi ama, e si conviene a' tuoi
merti. Altramente ridicoli sono alcuni, che fanno instanza con mille
impertinenze, che sia corrisposto in amore il tutto, e se ne sono così ben
meritevoli, questi hanno da dire.
Non prego m'ami; sol che m'amarai
lasci: cioè che accetti il mio Cupidine che se'n viene messaggiero; sin tanto,
che dall'Amabilità, io sai talmente perfettionato, ch'io ti possa poi richiedere,
che mi riami »
Ora dalla lettura di questi passi
è chiaro che lo Zoppi non aveva certamente alcuna capacità
filosofico-speculativa. Il suo trattato è infatti ben lontano dalla complessità
delle dissertazioni del Torelli. Nondimeno va riconosciuto allo Zoppi e
all?Accademia de I Gelati il merito di aver formato il pittore, cioè Agostino,
alla discussione delle tematiche d?Amore, vale a dire il tema centrale della
produzione pittorica di Annibale ed Agostino: la Galleria Farnese.
Agostino rivela già dai
primissimi anni bolognesi, un?attitudine speculativa di fondo, una capacità di
partecipare ai più avanzati esperimenti di fusione di parola ed immagine nella
nascente scienza dell?emblematica.
Tutte le discussioni del trattato
d?Amore dello Zoppi vanno inquadrate in questo tentativo di creare un nesso
significativo tra le immagini e i concetti da esse veicolati, una sorta di
trattatistica laica sulle immagini parallela a quella sacra del Paleotti,
costruita tutta in chiave mitologica e di fantasia.
In questo senso la partecipazione
di Agostino all?impresa dei Gelati non dovette limitarsi alla sola
rappresentazione dell?impresa (il gioco di parole è voluto), quanto piuttosto
alla comune elaborazione di un nuovo linguaggio figurativo, che di lì a qualche
anno darà luogo alla nascita all?enciclopedismo-divulgativo dell?Iconologia del Ripa.
I trattati e le discussioni
accademiche fino all?ultimo decennio del Cinquecento sono ancora sperimentali
ed innovativi: Alciati, Bocchi, Ligorio, Vaenius, un poco meno il Cartari. Dalla costola dell?Iconologia del Ripa, nasceranno una serie interminabile di trattati
puramente enciclopedici e strumentali all?uso delle arti fgurative, manuali da
cui attingere per realizzare le opere d?arte.
Ecco allora che diventa molto
importante assegnare un giusto ruolo agli scrittori in contatto con Agostino,
per poter poi cogliere senza errori la portata innovativa della sua poetica.
CAP. 9
Agostino Carracci e i musicisti
Merulo, Bassani, Monteverdi
Il Bellori aveva chiaramente espresso
l?interesse genuino di Agostino Carracci per la musica con queste parole: « si
rivolse alla rettorica, alla poesia, alla musica e ad ogn?altra facoltà
liberale, nelle quali tutte apparve il suo raro intelletto
[...] Concitato dalle muse formava canzoni e versi che modulava dolcemente su?l
liuto, su la viola e su la cetera, e veniva rapito nel canto [...] Sollevò la
mente alle scienze matematiche ed alla filosofia; dalla geometria raccolse i
fondamenti della pittura, dall?aritmetica la teoria della musica [...] » .
Le incertezze sull?attribuzione
del ritratto di Claudio Merulo, le difficoltà nell?identificazione del presunto
ritratto di Claudio Bassani, altro musicista di fama, hanno di fatto ritardato
l?assimilazione di questo rapporto culturale.
Oggi, grazie a nuove ricerche,
possiamo finalmente dare per certa la notizia belloriana degl?interessi
musicali di Agostino. Il pittore conobbe Claudio Merulo ed anzi lavorò anche
per una sua opera, incidendovi un blasone del cardinale Odoardo. Si tratta delle
Toccate d?intavolatura d?organo.
Sfuggito alla critica
carraccesca anche per la sua difficile reperibilità, codesto rarissimo libretto
è conservato nella Biblioteca del Conservatorio G. B. Martini di Bologna. Si
tratta, come mi suggerisce il Prof. Oscar Mischiati, di un formato ?in piedi?,
caratteristico delle pubblicazioni auliche con dedicatario pagante. In questo
caso l?opera è davvero pregevole, sia per l?importanza del committente e
dell?autore, sia anche per l?alta qualità della stampa, dovuta alla esperta
mano di Simone Verovio, che era insieme scrittore, incisore ed editore. Si sa
del Verovio che s?era stabilito a Roma nell?Anno Santo 1575 e vi aveva
pubblicato dal 1586 al 1608 antologie di brevi composizioni a tre e quattro
voci di soggetto spirituale ricreativo. Faceva incidere spesso da Martyn van
Buyten i frontespizi delle sue edizioni pregevoli ed eleganti. Personalmente
incideva invece testo e musica delle sue opere, edizioni tutte nitidissime. Fu
il primo ad incidere musica su lastre di rame e si può ritenere l?inventore del
metodo calcografico.
Le Toccate del Merulo sono
certamente un?edizione pregiata. L?incisione che si vede al centro occupa il
posto che generalmente è riservato al soggetto pagante, quindi o all?alto
dignitario di corte o ecclesiastico del caso, o all?editore con le rispettive
insegne araldiche o marche tipografiche.
In questo caso, essendo Claudio
Merulo organista del Duca Ranuccio e pagante il fratello Odoardo, troviamo lo
stemma del cardinale, con le insegne cardinalizie e gli araldici gigli
farnesiani.
Lo stile, la composizione e la
qualità del tratto, nonchè le coincidenze storiche possono far assegnare ad
Agostino questa piccola ma significativa incisione su rame.
Sono arrivato a queste
conclusioni seguendo una traccia sicura: un foglio con vari disegni preparatori
di mano di Agostino conservato a Besançon
che la De Grazia data alla fine degli anni Ottanta o agli inizi del decennio
successivo e che presenta, tra gli altri, lo studio preparatorio per un
frontespizio di un libro a stampa con alcune annotazioni a penna, che la De
Grazia trascrive male, interpretando la scritta come ?Recerchaldi?. Si legge
invece ?Recerchari? a destra, meno leggibili: ? di italiani [...] ca[n]cioni
italiane / Recerchari / moteti .
La parola ?Recerchari?, non certo
di uso comune, poteva essere nota soltanto a chi già aveva una diretta
conoscenza del mondo musicale e doveva quindi conoscere i libretti dei
musicisti. Cercando nella bibliografia del Merulo, ho trovato anche libretti che
hanno la parola ?Ricercari? nel frontespizio, ma senza alcuna incisione di
Agostino (). Nelle Toccate
invece appare l?incisione di Agostino. Le spiegazioni possono essere due: o è
andata distrutta un?eventuale, ma assolutamente non documentata, altra versione
dei ?Ricercari? con il frontespizio di Agostino, oppure il disegno in questione
si riferisce ad un?opera mai realizzata. In ogni caso il disegno di Besançon
dimostra l?interesse di Agostino per la musica e l?incisione delle Toccate del Merulo conferma il tutto.
A questo punto bisogna
sottolineare che Agostino rappresentò il Bassani nel cosiddetto ritratto di Suonatore di liuto.
Il ritratto, conservato oggi a
Capodimonte ,
apparteneva alle collezioni farnesiane di Parma e fu dipinto nel 1585-6 o, più
probabilmente, nel 1594 al ritorno del Bassani dalle Fiandre .
Era originariamente esposto nella sesta Camera dei Ritratti del Palazzo del
Giardino, palazzo dove Agostino aveva realizzato la sua ultima opera poi
rimasta inconclusa.
Una volta assicurata la
veridicità dell?affermazione del Bellori, con i rapporti di Agostino con
Claudio Merulo e del Bassani, acquistano un valore particolare molti altri
fatti importanti, altrimenti non apprezzabili. Il tema principale della
Galleria Farnese, alla quale Agostino Carracci aveva sicuramente lavorato e
alla cui ideazione aveva contribuito, è ripreso, a distanza brevissima, da
Ottavio Rinuccini nella sua Arianna,
poi splendidamente musicata da Claudio Monteverdi. Il tema è certamente
fondamentale perchè L?Arianna,
l'ultimo celebre melodramma della trilogia di Ottavio Rinuccini
musicato dal cremonese Claudio Monteverdi
fu scritto per le nozze di Francesco Gonzaga con Margherita di Savoia celebrate
a Mantova nel 1608 . Il cartello d'introduzione del torneo esprime
chiaramente il valore generale dell'opera, tesa a fornire uno strumento di
contemplazione: « AMORE. Poichè la mente de'mortali mal consigliati, poco si
rivolge alla memoria delle cose superne, Io verso loro pietoso, vado di tempo
in tempo offerendo alla lor vista atti incomparabili della mia sovrana
possanza, onde nelle terrene miserie sieno d'infinita dolcezza racconsolati
[...] ».
La rappresentazione del
melodramma era l'evento più atteso di tutto il festeggiamento: « Intervennero a
quella rappresentazione i Prencipi, le Prencipesse, gli Ambasciatori, le Dame,
che furono invitate, e quella maggior quantità di Gentilhuomini forastieri,
ch'il Teatro potè capire, il quale ancorchè sia capace di sei mila, e più
persone, e che il Duca havesse proibita l'entrata in esso a i proprij Cavalieri
della sua Casa, nonchè agli altri Gentilhuomini della Città, non potè perciò
capire tutti que' forastieri, che procuravano d'entrarvi, i quali concorrevano
alla porta in tanta quantità, che non bastò la destrezza del Capitan Camillo
Strozzi Luogotenente della guardia degli Arcieri del Duca, nè l'autorità del
Sig. Carlo Rossi Generale dell'Armi, per acquetar tanto tumulto, ch'ancor fu
necessario, che vi andasse più volte, per farli star indietro, il Duca istesso»
.
Il nucleo lirico del melodramma è
nel famosissimo Lamento d'Arianna che
esprime tutto lo straziante dolore di lei per essere stata abbandonata
dall'amato Teseo.
Il nucleo drammatico è poi nella
contrapposizione tra il Lamento d'Arianna e l'arrivo di Bacco.
Affascinato dalla bellezza di
Arianna, il dio la sceglie come sposa.
All'amore per Teseo subentra quindi l'amore per Bacco: « Providenza
d'Amor, gentil'aita, / Spegner per nova fiamm'antico ardore, / E piagando sanar
mortal ferita [...] » . In questo passo si trova un'ulteriore
conferma della ragione della mancanza di Amore Leteo nella Galleria dei
Carracci perchè, rappresentando egli la fine delle passioni amorose, mal si
adatterebbe ad un contesto epitalamico; mentre, d'altra parte, la presenza
della lotta dei putti per la fiaccola può ben riferirsi proprio all'affresco
centrale della Galleria con il trionfo di Bacco ed Arianna denotando appunto il
contrasto tra i due amori, quello terrestre per Teseo e quello divino per
Bacco. Questa iconografia supera
quella canonica riportata dal Cartari proponendo uno schema mentale più
sofisticato, da leggersi non isolatamente ma in riferimento al contesto
generale del programma iconografico in cui il vecchio amore si spegne quando si
accende il nuovo. Ed il passaggio dall'amore per Teseo a quello per Bacco
corrisponde simbolicamente alla purificazione dell'amore stesso, perchè
all'amore per un mortale si sostituisce l'amore per un dio. Così Bacco si rivolge ad Arianna: « Sgombra
ogni duol, che la bell'alma accora / Non fu degno di te terreno amante, / Servo
di tua beltà t'ama e t'adora, / Figlio immortal de l'immortal tonante » ; così Arianna al pubblico: « Gioite al gioir
mio, / Al gioir mio, ch'ogni pensier avanza, / Talche di maggior ben non è
speranza. / Sovr'ogn'uman desio / Beato è il cor ch'a per conforto un Dio »; e
così infine, ancora più chiaramente, Bacco ad Arianna nella chiusa: « Ne
l'eterno sereno / Meco raccolta, entro gl'eterei scanni / Lieta vedrai colmo
d'ambrosia il seno. / Sotto l'immortal piè correre gl'anni / Ivi tra sommi Dei
de l'alto coro, / Le più lucide stelle / Faran del tuo bel crin
ghirland'alloro: / Gloriosa mercè, d'alma, che sprezza / Per celeste desio
mortal bellezza ».
Il Bellori metteva giustamente in
luce che la scena con Bacco ed Arianna raffigura il momento immediatamente
successivo a quello della fuga di Teseo: « Il
coro di Bacco e Arianna. Tornando
Bacco vittorioso dall'Indie trovò Arianna abbandonata da Teseo, e dalla beltà
di essa acceso l'elesse sua sposa, come a rimirarla ora nelle trionfali nozze
la pittura c'invita » . Da questo passo risulta chiaramente per
quale ragione il Bellori intitolò la scena centrale della Galleria dei Carracci
Il coro di Bacco e Arianna: egli
voleva significare la complessità dell'episodio che comprende insieme il
momento del trionfo religioso-militare e quello delle nozze.
Appurato che esiste una relazione
precisa tra l'iconografia del coro di Bacco ed Arianna ed il testo del
Rinuccini, bisogna ora individuare le priorità, chi cioè avesse per primo avuto
l?idea e chi si fosse invece ispirato.
La Dafne, primo melodramma della trilogia del Rinuccini, fu
rappresentata per la prima volta nel 1594.
Nel 1604, in occasione di una nuova recita della medesima fatta per
festeggiare la venuta in Firenze del duca di Parma Ranuccio Farnese, furono
apportate delle modifiche al testo in onore dell'ospite. La seguente quartina fu sostituita dalle
due successive: « Ah, riconosco io ben l'alta Regina / Gloria e splendor de'
Lotaringi Regi, / Il cui nome immortal, gli alteri fregi / Celebra il mondo,
e'l nobil Arno inchina »; « Oh ben del
guardo allo / splendor guerriero / Che
vibra di valor scintille accese, / Ben conosch'io dell'Immortal Farnese /
L'inclito germe d'ogni pregio altiero »;
« O di gran genitor non minor figlio, / (Nè sa lingua mentir che Apollo
scioglie) / Ei su la Mosa alzò sanguigne spoglie, / Tu l'Oronte, tu il Nil
farai vermiglio » . Certamente quindi il duca conosceva l?opera.
Alla rappresentazione dell'Euridice, secondo melodramma della
trilogia del Rinuccini, scritto per le reali nozze di Enrico IV di Francia con
Maria de Medici del 1600, era presente un Legato di Ranuccio Farnese . Nell'epistola dedicatoria del Rinuccini
premessa all'edizione a stampa dell'Euridice
del 1600 e indirizzata a Maria de Medici, si legge che l'ultima versione
dell'opera era stata « non solo dalla nobiltà di tutta questa patria favorita,
ma dalla Serenissima Gran Duchessa, e gl'illustrissimi Cardinali Dal Monte,
& Montalto udita, e commendata »
e sono documentati i rapporti d'amicizia che legavano i cardinali Odoardo
Farnese, Pietro Aldobrandini e Del Monte .
Claudio Monteverdi, l'autore
della musica per l'Arianna del
Rinuccini, aveva anche lavorato con Claudio Achillini, il letterato bolognese
autore dei versi in morte di Agostino Carracci collocati al posto dell'affresco
che il pittore avrebbe realizzato nel Palazzo del Giardino a Parma se non fosse
improvvisamente morto nel 1602 . L'Achillini è anche l'autore del testo
della Lettera amorosa del Monteverdi
stampata nel 1619 a Venezia
e di Teti e Flora e Mercurio e Marte,
poemi teatrali per le nozze di Odoardo Farnese e Margherita de Medici del 1628 .
Che l'Arianna del Rinuccini non
fosse incompatibile con la realtà del cattolicesimo e quindi con lo spirito
della Controriforma, lo dimostra il fatto che Monteverdi potè riutilizzare la
stessa musica del Lamento di Arianna
per il Pianto della Madonna sopra il
Lamento d'Arianna .
Inoltre nell'epitalamio di
Giovanni Battista Caletti per le nozze di Odoardo Farnese e Margherita de
Medici del 1628, ricorre esattamente la frase del Bocchi relativa all'emblema
di Amore e Pan: « [...] ogni cosa cede a Amor divino » .
Alla luce di questi confronti
sembra quanto mai esatta la supposizione di Irving Lavin che vedeva uno stretto
legame tra il melodramma Cefalo e Procri
del Chiabrera e l'affresco di analogo soggetto della Galleria dei Carracci,
evidenziando la puntuale corrispondenza tra il testo letterario e la
rappresentazione iconografica . Come l'Euridice
del Rinuccini e l'Epithalamio del
Murtola, anche il melodramma del Chiabrera venne scritto per le reali nozze di
Enrico IV di Francia e Maria de Medici celebrate a Firenze nel 1600.
CAP. 10
Pomponio
Torelli Conte di Montechiarugolo
Tragedia e
teoria degli affetti
L'analisi
del contributo delle tematiche neoplatoniche dell'Accademia Hermathena di
Achille Bocchi all'ideazione del programma iconografico della Galleria Farnese
è già sufficiente a far cadere l'ipotesi di quanti vi riconoscono la semplice
esaltazione dell'amore profano. Ma
per comprendere a pieno la portata culturale dell'umanesimo farnesiano è
necessario ampliare l'orizzonte degli studi oltre gli anni del Bocchi, precoci
rispetto a quelli della Galleria, ed anche oltre la figura del cardinale
Odoardo committente degli affreschi, rivolgendo invece l'attenzione verso suo
fratello il duca Ranuccio e la cultura parmense della fine del Cinquecento.
La personalità di Pomponio
Torelli Conte di Montechiarugolo è speculare rispetto a quella di Fulvio
Orsini: come quest?ultimo è pedagogo del cardinale Odoardo, così il Torelli è
precettore del duca Ranuccio e mentre l'umanista romano con la sua preparazione
filologico archeologica spiega la perfetta aderenza di Annibale ed Agostino Carracci
alla cultura dell'antichità classica, d'altra parte l'umanista emiliano ci
introduce alla dimensione della riflessione filosofica, che è quasi
completamente assente nell'opera dell'Orsini ().
Pomponio Torelli deve essere
considerato a buon diritto come il principale esponente del neoplatonismo alla
corte farnesiana e per il tenore dei suoi scritti, e soprattutto per essere
discendente di Giovanni Pico della Mirandola (). La madre del Torelli, Beatrice, era
infatti figlia di Gianfrancesco Pico della Mirandola, il cui padre era Galeotto
I Pico, fratello del ben noto Giovanni ().
Pomponio Torelli dopo avere
servito Ottavio Farnese, secondo duca di Parma, come ambasciatore presso
Filippo II di Spagna, passò al servizio di Alessandro Farnese prendendosi cura
dell'educazione di suo figlio Ranuccio ().
Pomponio Torelli è un innovatore
della tragedia cinquecentesca. Nobile, uomo politico, ambasciatore, letterato e
pedagogo, la sua figura appare come una diretta emanazione dell?intellettuale
rinascimentale ed è forse paragonabile per complessità e varietà di interessi a
quella di un Pontano. Uomo di Lettere e politico insieme, il Torelli interpreta
il suo ruolo di tragediografo senza velleità teoriche ed astratte. I suoi
scritti hanno una funzione ben precisa e pratica, indicano cioè al ?principe?
la via da seguire per un retto, giusto e saggio governo. La stessa tragedia ha una funzione
politico-didattica ben precisa perchè è al servizio dell?idea di ?Regnum?.
Il Torelli inaugura però una
sua propria e nuova figura, barocca e controriformistica, di
letterato-politico, con toni, accenti e contenuti molto vicini a quelli
espressi nella poetica e nella cultura figurativa di Agostino Carracci. La
comprensione del pensiero di Pomponio Torelli è quindi fondamentale per la
comprensione dell?immaginario e della poetica figurativa del Nostro e quindi
della Galleria. Affermando ciò non si
vuole affatto limitare l?autonomia della sfera estetica, nè rendere l?artista
succube del letterato, o viceversa. La lettura della poetica di Agostino
Carracci che qui si propone viene argomentata su base artistica, storica e
letteraria, ma con la delimitazione delle reciproche sfere di competenza.
L?analisi dei documenti dimostra
un?adesione a concetti e valori comuni, espressi dal Torelli in chiave
letteraria e in chiave figurativa da Agostino ed Annibale. La lettura dei testi
del Torelli non sostituisce affatto la lettura storica, estetica e critica dei
Carracci, piuttosto ne è per molti versi la conferma esplicita. Come dire che
lo storico dell?arte, oltre a formarsi un?intuizione ?visiva? pura di fronte
alle immagini raffigurate da Agostino e da Annibale, trae ulteriori conferme
dai testi letterari di Pomponio. La conferma finale viene poi dalla
constatazione degli eventi storici documentati, che registrano gli interessi e
le committenze comuni, quasi certamente anche la conoscenza personale tra
letterato e pittore: Pomponio Torelli è pedagogo del duca Ranuccio Farnese ed
Agostino Carracci è il suo pittore di corte a Parma, anche se molto
probabilmente il Torelli dovette conoscere Annibale prima della fine dei lavori
della volta, come suggerisce il passaporto per Roma concesso nel dicembre del
1599 ().
Vediamo allora quali e quanti
elementi salienti utili alla nostra analisi ricorrono nella cultura del
Torelli. Prendo a riferimento, oltre la nostra lettura personale dei
manoscritti del Torelli, i due testi critici fondamentali del Croce e
dell?Ariani.
Marco Ariani ha colto la
complessità del pensiero torelliano, animato da un contrasto dialettico di
opposte matrici culturali aristoteliche e platonizzanti: « Per l?aristotelico
Torelli la ragione, sempre positiva, è tutto; ma in lui agisce una fortissima
istanza platonica che gli stimola un?esigenza di verticalità ordinata e finalisticamente
proiettata: la ragione deve quindi conciliarsi con il furor dei sentimenti, sentiti come naturale dono divino » . Su questa linea il Torelli evidentemente
riprende la tendenza concettuale di Giovanni Pico della Mirandola, comune anche
a Gianfrancesco Pico (avo di Pomponio) e a Marsilio Ficino, che consisteva nel
proporre la concordia della filosofia di Platone con quella di Aristotele, come
pure della teologia con la filosofia.
Il Torelli supera la crisi del
Manierismo e si inserisce nella nascente poetica classicista e barocca con
un?ideologia di ispirazione marcatamente controriformista.
La Ragion di Stato, tema
fondamentale della tragediografia rinascimentale, che proponeva il dilemma
ragione-non ragione, una sorta di prefigurazione del contrasto morale tra
essere-dover essere, in Torelli non ha più una sua giustificazione autonoma, ma
si deve confrontare con la morale cattolica.
Viene superata, dunque, la
concezione primitiva del Giraldi e del Tasso in una molto più rasserenante e
meno manichea conciliazione degli opposti che spiega razionalmente la nuova
ideologia controriformista cercando di renderla compatibile con le forti
istanze di gran parte della cultura umanistica, sostanzialmente laica e
talvolta anche paganeggiante.
Un tentativo interessante ed
inedito, che non può non destare l?interesse dello studioso, il quale è tenuto
a ritrovare le giustificazioni dello sviluppo ed adeguamento delle poetiche
artistiche nell?evoluzione della filosofia e del pensiero nel corso della storia.
E il salto generazionale è cospicuo. Basti pensare alla distanza che separa il de hominis dignitate di Pico dal
Torelli. La grandezza dell?uomo, dice
Pico, è nella sua libertà. Può innalzarsi al di sopra delle schiere angeliche,
come diventare l?ultima delle bestie, a seconda che eserciti o meno la volontà,
la ragione e l?intelletto, seguendo la propria natura ferina o quella angelica
( « in inferiora, quae sunt bruta
degenerare », oppure « in superiora
quae sunt divina, ex tui animi sententia regenerari » ).
Il Torelli segue ugualmente
questo bipolarismo, ma con un?attenzione precipua ad individuare un ordine aprioristico e finalistico del mondo, in
cui l?uomo, sforzandosi di coltivare il suo spirito, la sua coscienza e le sue
virtù, può al massimo evitare l?errore, ma difficilmente riesce ad innalzarsi a
demiurgo di se stesso e dell?universo.
Gli affetti barocchi sostituiscono la ratio rinascimentale, le motivazioni profonde prendono il posto
dell?umanistica realizzazione di sè. Non che il Torelli alimenti spiriti
irrazionali o anti-razionali, anzi, egli è sempre ben attento a giustificare le
sue affermazioni con gli strumenti della logica formale e con un grande
rispetto della razionalità dell?uomo. È che diventa finalmente predominante, ed
è segno dei tempi che cambiano, la moderazione, la conoscenza ed il controllo
di sè. L?attenzione ai prolemi dell?uomo è meno cosmica, scende dall?empireo
delle pure idee alla reale e terrena constatazione dei fatti, dei moventi
dell?agire umano hic et nunc. E,
ancora una volta, questo non significa un?abdicazione della ragione, ma la
ricerca di altri più contingenti riferimenti e spiegazioni della prassi
politica del fare storia.
La muta pöesis non è solo un?etichetta belloriana, è esattamente la
nuova formula che si andava sperimentando allora in un?unità inscindibile di
arte e letteratura. Nel giro di breve tempo la formula diverrà addirittura un
vessillo, la nuova bandiera degli uomini di lettere, un?imprescindibile unità
delle arti nella finalistica determinazione di tutte all?idea dogmatica
controriformista.
Ovviamente questo criterio di
giudizio non è applicabile all?intero numero degli artisti e a tutti i
letterati coevi, ma vale solo quando ricorrono certi termini di paragone. Nel
caso specifico del Nostro basta pensare che, non a caso, il Bellori arriva a
sanzionare e collaudare definitivamente i concetti base della muta pöesis nelle sue Vite, attraverso Angeloni e i Carracci
stessi, e ancora prima attraverso lo Zuccari accademico Innominato. La muta pöesis è, in questo senso, un nuovo
equilibrio tra idea e natura
A ben vedere la dialettica
aristotelismo-platonismo presuppone un confronto-scontro radicale tra l?idea platonica e il vero, la realtà artistotelica, che si identifica
via via con lo Stato, la Ragione, la Storia.
Il Tasso risolveva la tragedia in
disperazione, mancato riscatto, mentre in Torelli l?elemento drammatico è al
servizio di un?attesa purificazione finale. Il pensiero Torelliano ha una forte
componente teleologica, finalistica, intesa a ricomporre le crisi ad unità, una
soluzione positiva che non sempre è aprioristica e dogmatica, ma certamente ha
forti connotati ideologici, soprattutto nella fase didattica, che, per quanto
ci interessa, si esplica fondamentalmente nelle lezioni dell?Accademia degli
Innominati di Parma e nell?espletamento della funzione di pedagogo del duca
Ranuccio Farnese.
Il Torelli è molto attento
all?analisi concreta dei problemi politici dell?Italia di allora, e in questo
segue una linea inaugurata dal Machiavelli e che percorre tutto il Rinascimento
alla ricerca delle migliori formule di governo.
La contemplazione dell?esempio
classico, greco e romano, viene esemplata sul mito della perfezione etica del
classicismo. L?idea dell?uomo che si viene formando dal Quattrocento in poi,
vede ampliarsi ed enfatizzarsi il mito dell?uomo inteso come personaggio fuori
del mondo, proiezione olimpica della perfezione della classicità, al di fuori
del tempo e dello spazio, micro e macrocosmo divino, quando il sacro è a sua
volta fusione di elementi cattolici con culti più o meno pagani ed eterodossi.
Tutta la tradizione classicista
del Rinascimento, dal Valla ad Erasmo, dal Pico a Ficino, insiste sulla
creazione di un olimpo ?laico? costruito sull?esempio dei classici, ma con i
volti degli umanisti, dei committenti, dei sacerdoti della cultura
rinascimentale. L?uomo del Torelli ha
invece una sua concretezza esistenziale di fondo, che storicamente è ben legata
allo spirito della Controriforma, come fa giustamente notare l?Ariani. E se si
guarda con attenzione alla politica delle immagini, si ha subito conferma di
questo indirizzo di fondo.
Le parole d?ordine della
Controriforma, e qui sono stati versati fiumi d?inchiostro, sono ?chiarezza?,
?storicità?, ?veridicità?. Senza scomodare il Paleotti, basterà ricordare come
il movimento d?idee parta dalla ripulsa del vocabolario iconografico del
Manierismo di stretta osservanza. Dove il Manierismo trova, infatti, la sua
piena e più originale espressione, cioè nel gioco sottile dell?ambiguità e della
complicazione, proprio in quel punto si abbatte la veemenza degli apologisti
cattolici, che, rifacendosi alla semplice, elementare ed univoca chiarezza
dell?iconografia sacra intesa come Biblia
Pauperum, invocano la storia sacra, cercano tra le fonti, inaugurano una
nuova stagione del classicismo archeologico. Sono di lì a venire il Possevino,
il Bellarmino, il Baronio, i fondatori degli Annales Ecclesiastici, i Padri Gesuiti assidui alimentatori
dell?emblematica sacra.
E ciò mentre la passione archeologica
di un Athanasius Kircher tendeva a rimanere un fatto isolato, un ricordo da Wunderkammer, da tradizione umanistica,
esoterica, egittologica. Vengono alla ribalta invece nuove figure di
?archeologo cristiano?, di indagatore delle fonti figurative e storiche dei martyrologia paleocristiani.
Un esempio per tutti: la Santa Cecilia del Maderno, splendida
statua, scolpita a seguito della non casuale scoperta del corpo della santa
paleocristiana. Si andava allora in cerca delle testimonianze, dei corpi dei martiri,
per dare credito oggettivo, filologico, alla christiana traditio. Ancora più efficacemente, il gusto stesso, la
piacevolezza, avrebbero ceduto il passo alle esigenze della storia, della
verità cruda e drammatica del martirio negli affreschi di Santo Stefano Rotondo
in Roma, dove la verosimiglianza arriva alla nuda rappresentazione della morte
violenta dei martiri con l?occhio freddo del medico legale,
dell?anatomo-patologo.
Questi eccessi dell?iconografia
sacra, fortunatamente solo sperimentali e senza discendenza, derivano da una
precisa volontà del committente, e ancora prima, dall?interpretazione letterale
ed enfatica di un indirizzo del nuovo pensiero della Controriforma. Insegnare,
ammaestrare i fedeli e, soprattutto, eliminare ogni possibile ambiguità. Gli stessi committenti di Annibale Carracci,
i Farnese, si interrogano sull?opportunità di inserire inscriptiones di medievale memoria per rendere univocamente
interpretabili i soggetti rappresentati, come mostra un?interessante lettera
del Cardinal Odoardo Farnese a Fulvio Orsini .
Ma vediamo finalmente Torelli
all?opera come pedagogo del duca Ranuccio Farnese.
Un'epistola spedita dal Torelli
al duca Alessandro nel 1584 ci fornisce un vivo ritratto del giovane principe:
« Ricevei qui in Parma la lettera di Vostra Altezza Serenissima dei 5 d'Aprile,
ove mi commanda ch'io l'avvisi del progresso che fa il signor Prencipe Ranuccio
nelle virtù. [...] il signor Prencipe è tanto bene inclinato ad
ogni maniera di vertù, che a raro Prencipe si convenghi, che più non si pò
desiderare, et in ciò è, oltr'all'educatione che sino a qui è stata bonissima,
dalla natura molto bene aiutato, essendo Sua Eccellenza di natura benigno, et
alla giustizia molto affettionato, patiente nell'ascoltare ancora chi amorevolmente
lo riprendesse, et pronto all'esseguire ciò che le pare che le sia detto per
ben suo; dà molto volentieri udienza, et dà soddisfatione nel rispondere; si
mostra liberale in quel poco che ha; non ritiene la collera, et par molto
compassionevole, et che ogni cosa mal fatta sommamente le dispiaccia; è
bonissimo Christiano nè ha bisogno d'essere invitato ad officio alcuno che
tocchi alla Religione [...] è in tal termino della lingua latina, che con poco
di fatica di sei mesi intenderà ogn'autore bono per se stesso in quella lingua.
Però non sarà che bene che l'Altezza vostra amorevolmente glielo commandi,
perchè ho visto quanto l'habbi infiammato allo studio la lettera di Vostra
Altezza che l'altr'hieri le mostrai, essendo stato a Piacenza per licentiarmi
per Roma. Già commencia a vedere
qualche scienza in volgare, et se l'è talmente facilitata la logica, che non
uscirà l'estate che per se stesso saprà formare ogni sillogismo. Con questo fondamento si porrà alle
matematiche, et morali, leggendole pur tutte volgari; et poi con l'historie se
le accoppiaranno i governi antichi delle cità, che le giovarà assai alla
pratica dei negotij; lasciando l'hora sua alla lingua latina, nella quale vede
Cesare, che intende molto bene, et Tito Livio e Salustio che lo vanno
essercitando, et vi s'aggiongeranno gl'Uficij di Cicerone per dilettarlo con la
varietà, poi che tutti questi libri servono alla prima intentione con
l'historia et con le virtù [...] » ().
Nel Trattato del debito del Cavalliero, dove debito sta per dovere, officium, il Torelli fornisce il
decalogo del perfetto cavaliere e parla anche dell'amore che gli compete: «
[...] non del ferino amore, che pieno d'intemperanza a varii vitii l'huomo
trasporta; ma dell'humano, o di quello, che dagli antichi fu chiamato divino,
da'nostri honesto si chiama, qui di trattar mi protesto [...] l'amor vero, come
da virtù d'animo, et di corpo proviene, così è di gioia ripieno. Il qual amore è, tanto proprio del
Cavalliero, ch'amore per Cavalleria vien detto; con questo nome ogn'interesse
di lascivia esclude; ma solo gentile conversatione; motti arguti; vagheggiar
honesto; alti pensieri et animose operationi abbraccia [...] » ().
Particolarmente interessante il Trattato delle passioni dell'Animo dove
viene discussa la teoria degli affetti nell'ambito della questione etica ed il
neoplatonismo del Torelli acquista un certo respiro nel tentativo di dimostrare
una sostanziale convergenza del pensiero di Platone ed Aristotele riguardo a
questo tema (): « Il
Con: Gio. Fran.co della Mirandola mio Avo materno pone il fondamento di questa
soluzione nel Libro dell'Imagine al Cap. XIX dicendo che il Piacere, et Dolore
secondo li Plat.ci sono affetti semplici de quali si compongono tutti gli
altri. Il che non è lontano così dalla
dottrina Perip.ca, poichè Arist. nei Magni Morali disse le perturbationi sono
Dolore e Piacere, o non senza dolore, et piacere » (). Più avanti emerge comunque la perspicuità
del pensiero platonico: « [...] Le passioni vengono dall'anima, o come vogliono
i platonici immersa nel corpo, o come gli Perip.ci congiunta con esso: onde il
suo primo agente sarà l'anima, poichè questa stessa dà forza al corpo di
patire, che senz'essa insensibile si rimarrebbe [...] » ().
Scopo ultimo dell'esercizio delle
virtù sta nel moderare le passioni umane indirizzandole ad un fine: « nè in
altro s'affaticano le virtù, se ad Arist. crediamo, che in moderar le passioni
dell'Animo [...] quella mediocrità aristot.ca non consiste nel mezzo della
cosa, ma della ragione. La passione
dunque qualunque essa si sia secondo alla Virtù che è l'istessa ragione, riceve
il termino [...] » ().
La dottrina delle passioni si
innesta a sua volta nel discorso sul problema pedagogico dell'arte fornendoci
una preziosa chiave di lettura: « [...] per l'assenso sono le passioni
necessarie all'Oratore, e nella Retorica si considerano come atte a scacciar
l'una l'altra per servirsene a purgar gli animi ». Il Petrarca usa la forza catartica della poesia nel proprio
sonetto che termina con il verso « che quanto piace al mondo è breve sogno »,
così commentato dal Torelli: « ove col pentimento proprio induce gli altri allo
sprezzo delle cose mondane, ch'è quel vero termino di purgatione ch'intende
ogni Poesia; et questo per essere la Poesia ministra della civile facoltà » (). Il vero fine della poesia è morale: « Et
che credete che vogliano dire i Poeti con tante querele? Altro certo se non spaventar delle
lascivie, et dal soverchio delle passioni con l'imitatione d'esse passioni » ().
Giustamente il Vernazza nel
commentare tali passi del Torelli afferma di riconoscervi una perfetta
coincidenza tra la sfera etica ed estetica (). Si potrebbe dire che il Torelli è la figura
tipica del neoplatonico controriformato, tutto attento a conciliare i dettami
neoplatonici con la dottrina cattolica.
Nelle Rime il Torelli sviluppa il tema della contrapposizione di materia
e spirito, per cui il corpo è « terren carcer chiuso » dell'anima e solo
l'amore ha il potere di purificarlo con una fiamma che: « [...] ogni voglia a
la ragion rubella / de la vil parte mia imperfetta; e stolta / fredda, e pigra
al ben far, nel fango involta / strugge, e'l mio viver tutto rinnovella. / Di
me si pasce, e ogni peso terreno / in se stesso trasforma, et a se tira / tutti
i pensier, che co'l suo caldo affina: / onde non più si torce; o più s'inchina
/ l'anima; ma si gode, e seco aspira / salire al suo natio dolce sereno » ().
Questa tematica ritorna
puntualmente negli affreschi della Galleria dei Carracci, in particolare nel
contrasto tra la bruta materialità dell'amore di Polifemo per Galatea e l'amore
divino di Bacco ed Arianna, oppure, ancora più neoplatonicamente, con il
rapimento di Ganimede che adombra l'ascesi dell'anima verso Dio.
Un anonimo commentatore
contemporaneo della Merope del
Torelli ci fornisce una preziosa serie di possibili spiegazioni allegoriche del
mito di Aci e Galatea che vanno considerate con attenzione per via della
precisa rispondenza con il contesto degli affreschi romani dei Carracci così
come ci viene presentato dal Bellori.
Tali chiose sono manoscritte, si leggono nel codice 62 nella Biblioteca
Palatina di Parma e sono state parzialmente trascritte dal Vernazza nella sua
monografia sul Torelli : « Galatea ninfa da Polifemo amata, et di Aci giovane
leggiadro amante, fu dal Ciclope trovata col giovane a ragionare, che vinto da
rabbia di gelosia per uccidere ambidoi percosse con uno scoglio il monte, che
gli avvenne il misero Aci, che di quel colpo fu oppresso. Forse che l'Autore vuole significare l'unione
della speranza col desiderio, che tanto piacere porta all'amante, che dal tempo
percossa, et disunitosi l'uno dall'altro con usura si compra con altretanti
guai ? Po' ancora inferire l'amor
lascivo col pentimento che ne segue.
Po' inferire la bellezza del corpo col colpo della vecchiezza. Po'notare la complacenza della propria
leggiadria in giovane più bella che accorta percossa dalla mutatione degli
anni. Po' consigliare a non fidarsi ne
in grandezze nè in contenti; nè in cosa che stia in arbitrio d'altri il
privarsene tosto » ().
Numerosi passi della produzione
letteraria del Torelli confermano l'esattezza dell'interpretazione morale del
mito. Il commento del Coro nella
chiusa della stessa Merope esprime la
caducità delle umane cose, il danaro, la bellezza e il potere, forze oppressive
che soffocano l'anima; nel Tancredi
il Coro mette in guardia contro gli eccessi d'Amore esortando a rifuggire i
piaceri fugaci per lasciare libera l'anima di purificarsi ed ottenere « sopra di sè corona e palma »,
quella palma, diremmo noi, che i cupidi della Galleria Farnese si contendono
negli spicchi della volta e quella corona che ottengono in premio di virtù.
Corona che ritorna anche nella scena principale della Galleria, una corona di
stelle sul capo di Arianna, sposa di Bacco.
Non mancano testimonianze che
provano come il Torelli fosse in contatto anche con il cardinale Odoardo
Farnese committente degli affreschi romani e fratello del duca Ranuccio.
Il tipografo Erasmo Viotti nello
stampare la Merope del Torelli nel
1598 dedica l'opera al cardinale Odoardo; altre dediche allo stesso sono del
Torelli, come quelle di due suoi Carmina,
« Ad Ranutium Farnesium Parm. Principem » e « Ad Illustrissimum &
Eccellentissimum Odoardum Farnesium » ()
e soprattutto della Galatea del 1603,
interessante perchè ripropone la teoria degli affetti discussa nel Trattato delle Passioni dell'Animo. La tragedia contenuta nella « favola » di
Polifemo e Galatea mostra i danni causati dalle intemperanze degli « affetti »
liberando lo spettatore « da i lacci del piacer falso » ().
Abbiamo così riscontrato la
presenza del mito di Polifemo e Galatea in due diverse fasi temporali,
precedenti e successive gli anni di realizzazione degli affreschi della volta
della Galleria dei Carracci: la corrispondenza cronologica difficilmente può
ritenersi casuale. Nel prologo della Galatea la Tragedia indica la via difficile ed aspra della virtù
come unico mezzo per approdare al sommo bene. Tale simbologia riprende quella
dell'Ercole al bivio del Camerino
Farnese: « [...] Ma vaga di sgravar l'alme dal peso, / Che le fa gir per forza
a terra chine, / Per certa via, benchè sassosa, & erta, / Di sospiri, di
lagrime, e di guai / Da Pietà generati, e da spavento, / Per quel sol ben, che
più nel mondo huom brama, / La mena a riveder l'aer sereno » ().
Sempre nel prologo della Galatea il Torelli sottolinea la potenza
d'amore al quale nulla resiste: « l'amor di una Greca in grembo a Pluto /
Molt'alme chiuse già d'invitti Heroi; / Europa, & Asia sottosopra volse »;
non dimentica di spiegare la falsità degli dei protagonisti della vicenda
narrata e ripropone ancora una volta l'intento pedagogico della propria opera:
« Siano Aci, e Galatea, siano i lor pregi, / Ch'inghiottì quasi pretiose merci
/ Tra gli instabili flutti il mar'avaro. / Volgar essempio a l'amoroso choro. /
Ch'adontar de', chi con suo danno impara, / Se le miserie altrui scaltrir lo
ponno » ().
Non va inoltre dimenticata
l'attiva partecipazione del Torelli all'Accademia degli Innominati (). Il Maylender ci dice che Ranuccio Farnese
vi era stato iscritto fin da bambino con il nome di « Immutabile », che vi
assunse la carica di Principe nel 1586 mantenendola fino al 1604 e che gli
succedette poi il Torelli.
I soci più celebri furono
Giambattista Guarini, soprannominato il «Pellegrino», e soprattutto Torquato
Tasso che scrisse un sonetto in lode dell'Accademia ();
aderirono anche la colta signora Tarquinia Molza (),
nipote del poeta e scrittore Francesco Molza, che era stato al servizio del cardinale
Alessandro Farnese ();
Il Pittore Federico Zuccari che alla seduta della propria ammissione aveva
letto una dissertazione Sopra la
grandezza e facoltà del disegno interno ed esterno pratico; Bernardino
Baldi letterato abate di Guastalla, beneficiato dai Farnese, presente a Roma
nel 1596 nella corte del card. Cinzio Passeri Aldobrandini (),
nonchè autore di un epitalamio manoscritto per le nozze di Ranuccio Farnese e
Margherita Aldobrandini ();
Muzio Manfredi, scrittore legato ai Farnese.
La partecipazione del Torelli
alla vita dell'Accademia rivestiva una particolare importanza se egli aveva
accettato di sottoporre la Galatea al
giudizio degli accademici e l'aveva pubblicata con il loro consenso (),
come d'altronde aveva fatto anche
Guarini col Pastor Fido. Il Torelli infine aveva spiegato tutta l'Etica e la Poetica di Aristotele e l'artificio della tragedia in una serie di
conferenze accademiche ().
CAP. 11
Eros e Anteros
Il problema principale per la
comprensione del significato degli affreschi della Galleria dei Carracci è
stato universalmente riconosciuto nell'identificazione di Anteros. Negli spicchi della volta egli appare in
coppia con Eros in atto di contendergli una palma, lottano poi entrambi per una
fiaccola, lottano ancora sotto una corona ed infine riappacificati, si
stringono la mano.
Come si è visto il Bellori
riconosceva nella figura di Anteros la punizione dell'« amore ingiusto »
attribuendo di conseguenza un?intenzione morale alla rappresentazione dei miti
della Galleria dei Carracci. In sede
critica fu per primo il Panofsky a disquisire sulla corretta accezione
dell'Anteros classico, così come è descritto da Pausania nel Ginnasio di
Elide. Il Panofsky spiega come il
significato di Anteros non sia tanto quello di opposizione ad Eros, un «
Gegenliebe » appunto, quanto piuttosto di una competizione nella reciprocità
d'amore (). Originariamente la lotta di Eros ed Anteros
indicava quindi la reciprocità d'amore, nel Rinascimento l'accezione antica
viene recepita dal Cartari, mentre l'Alciati intende Anteros neoplatonicamente
come « amor virtutis », vale a dire « amore vero, santissimo, razionale o
divino » avversario dell' « amore volgare o sensuale » ().
Il Merril fornisce in un dotto
saggio del 1944 una nuova serie di citazioni letterarie che permettono di
chiarire ulteriormente la natura del problema ().
Mario Equicola nel Libro di natura d'Amore del 1525 così si
esprime: « [...] appo alcuni scrittori trovo narrato che li antiqui antherote
nominavano Dio diverso da amore: l'opinione de'quali reputo totalmente falsa,
& lo suo significato essere mutuo equale, & reciproco amore, dicemo che
ben anti contra denoti, denota ancor equale, come Antideo, dice Homero
Poliphemo [...] » ().
Il ferrarese Celio Calcagnini nella
dissertazione intitolata Anteros sive de
mutuo amore del 1544 vuole dimostrare che Anteros è la divinità che
presiede al mutuo amore e non è affatto in eterno conflitto con Eros. Egli avverte che non bisogna confondere
Anteros con Amor Lethaeus, come fece Servio nel commento all'Eneide, è semmai
possibile vedere Anteros come vendicatore dell'amore non corrisposto (). Non diversamente si esprime Lilio Gregorio
Giraldi nel De Deis Gentium del 1560,
mentre Agostino Nifo nel De Amore del
1529 afferma in pieno il concetto della reciprocità d'amore, scartando
l'ipotesi vendicativo-distruttiva: « sunt igitur Eros, & Anteros, amatio
& redamatio cupidinea: ex his enim perfectus amor constat, qui semper
crescit in dies: qui enim amari sperat, longo tempore amabit [...] ()
».
Almeno i libri di Agostino Nifo e
dell'Alciati erano ben conosciuti da Fulvio Orsini, dal momento che la
Biblioteca di Palazzo Farnese li possedeva entrambi (),
inoltre Francesco Alciati parente di Andrea era a Roma uno dei maggiori esponenti
dell'Accademia delle Notti Vaticane promossa da San Carlo Borromeo che era
stato suo scolaro a Pavia ().
Ma il punto nodale della
questione per quanto riguarda la Galleria dei Carracci sta nella valutazione
del saggio del Dempsey, dove vengono accostati i cosiddetti Amori
de'Carracci agli affreschi romani.
I quattro dipinti che abbiamo già
in parte analizzato in relazione a Fulvio Orsini e allo Zsamboky furono dipinti
molto probabilmente da Paolo Fiammingo; Agostino Carracci incise i primi due,
gli altri il Sadeler.
Il Dempsey nota la presenza di
Eros ed Anteros in connessione con una scena apertamente erotica ch'egli
giudica persino pornografica e conclude che l'Anteros della Galleria Farnese
non può essere l'Amor virutis dell'Alciati o del Bellori.
Va detto subito che la coppia di
Eros ed Anteros che si contendono le palma non è posta nella scena erotica, ma
in quella precedente e che comunque il significato ultimo delle quattro tele
non può in nessun modo essere paragonato, come ha fatto Dempsey, alle Lascivie dello stesso Agostino Carracci
per il semplice motivo che l'ultimo quadro rappresenta il castigo d'amore.
Un acuto studio di Thomas
Puttfarken () chiarisce
che il significato simbolico di questi dipinti è stato sempre frainteso e
propone un'interpretazione alternativa a quella ormai canonica di Otto Kurz ().
I dipinti rappresentano le
quattro età della storia: la prima è quindi l'Età dell'oro che si caratterizza per la presenza dei danzatori, di
Eros ed Anteros e, aggiungiamo noi, di un amore edenico, asessuato, come
conferma la presenza dello iocus che
nella pietra incisa del Celtis figura accanto a Venere e Cupido; la seconda è
l'Età dell'argento, dove si manifesta
la sessualità e compaiono le stagioni, come si deduce dalla primitiva capanna di
paglia e legno dello sfondo; la terza è l'Età
del bronzo in cui compare Amore Leteo simbolo della fine delle passioni
amorose; la quarta è l'Età del ferro
che chiude il ciclo manifestando la sua completa decadenza: Amore castiga gli
amanti con la frusta e li costringe a trainare la biga sulla quale egli si è
posto tiranno, uomini e donne si suicidano gettandosi dall'alto di una rupe ().
L'interpretazione è ampiamente
confortata oltre che dall'evidenza, anche dalle iscrizioni presenti nelle
incisioni di Agostino e Sadeler (),
nè valga dire che le scritte servono di copertura moralistica a scene che poi
in sostanza, nonostante le iscrizioni, sono e rimangono erotiche, perchè il
riscontro tra le scritte e il tema delle quattro età è incrociato e non ammette
errori ().
Con buona pace dei bigotti queste
pitture dimostrano come sia possibile citare immagini anche scabrose
all'interno di un discorso morale senza per questo alterarlo e mancare
all'effetto finale.
È in chiave figurativa lo stesso
percorso mentale che il Torelli compie quando afferma che mostrare i danni
delle passioni incontrollate induce l'uomo a prevenirle.
Anche Guido Reni trattò lo stesso
soggetto nel suo Amore sacro che brucia le frecce di amore profano, legato e
bendato e nella Lotta di putti,
dipinto interessante in cui si affrontano tre coppie di amorini con e senza
ali, a terra le frecce e in alto un calice di cristallo e tralci e grappoli
d'uva che potrebbero essere riferiti ad un culto bacchico sacrale ().
Una testimonianza fondamentale
per la corretta comprensione del significato di Anteros nella Galleria dei
Carracci è contenuta nei Divini amoris
Emblemata, libro di Otto van Veen pittore di corte del duca Alessandro
Farnese in Fiandra ().
La spiegazione allegorica della
contesa della palma è contenuta nell'emblema intitolato « PIA AMORIS LUCTA / Cum Dei Amore, amans anima de palma certavit » dove « Amor
divinus » e « Anima » sono assimilati ad Eros e Anteros con il conforto di San
Paolo: « Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi: in reliquo
reposita est mihi corona iustitiae; non solum autem mihi, sed iis qui diligunt
adventum eius » (). La corona di giustizia è sul capo di Eros
ed Anteros nella scena precedente della Galleria dei Carracci. Il Veen cita anche S. Agostino: « Iacob
luctatus praevaluit, tenuit, & quem videbatur vicisse, rogat ut benedicatur
ab eo. In angeli persona Dominus erat luctatus, facit se teneri amore, non
infirmitate; regnum enim coelorum vim patitur, & violenti rapiunt illud » (). La lotta è quindi lotta d'amore tra l'uomo e Dio stesso che si manifesta
per mezzo dell'angelo: « Quand deux s'ayment, chacun d'eux butte / Sur l'autre
estre victorieux, / Et la fin de ceste dispute / Est a qui aymera le mieux: /
Debatons en la mesme sorte / Et gaignons ainsi paradis; / Comme Iacob d'une
main forte / A surmonté l'ange jadis » ().
Un affresco dipinto da Bartolomeo
Cesi in Palazzo Magnani a Bologna intorno al 1592 rappresenta esattamente la
xilografia del Cartari relativa ad Eros ed Anteros, ma con una iscrizione molto
più vicina all'interpretazione di Alciati: « HOC VIRTUTIS OPUS ». Se la stessa iconografia del Cartari può
essere interpretata come simbolo di amore di virtù, cadono ovviamente tutte le
distinzioni causidiche del Dempsey, che tendeva ad assegnare all'amore
reciproco del Cartari il valore di amore profano. Stupisce che Clare Robertson commentando l'affresco del Cesi in
un articolo monografico sulla Galleria Farnese non abbia menzionato l'iscrizione
risolutiva, peraltro chiaramente leggibile nella foto pubblicata ().
Il soggetto della Lotta di putti acquisterà poi una sua
autonomia nel corso del XVII secolo, perdendo il legame originario con la forma
classica di Eros ed Anteros. Privi di
palma sono infatti gli amorini del pittore senese Deifebo Burbarini, lottano
anch'essi e finiscono con il pacificarsi mostrando in bella evidenza i simboli
delle virtù cardinali ().
CAP. 12
Tommaso
Aldobrandini ed Enrico Farnese
Tutti le fonti finora esaminate
convergono nel confermare la sostanziale esattezza dell'interpretazione
belloriana.
Achille Bocchi e Pomponio Torelli
rappresentano, con i rispettivi agganci al pensiero di Charles de Bovelles e
Giovanni e Francesco Pico della Mirandola, le due generazioni del neoplatonismo
farnesiano dove trova largo spazio il tema di amore sacro. In parallelo anche nell'opera dei pittori
dei Farnese, Agostino Carracci in Italia ed Otto van Veen in Fiandra, Anteros è
simbolo di amore di virtù.
Manca però ancora un elemento
fondamentale, non si spiega cioè la congruenza del soggetto della Galleria dei
Carracci in relazione alla personalità del committente, il cardinale Odoardo
Farnese. Sembra quindi utile esaminare
la proposta del Dempsey che vi riconosce una sorta di grande epitalamio.
L'occasione ci viene fornita in
primo luogo da Enrico Farnese di Liegi, Professore all'Università di Pavia, che
nel 1600 pubblica un libro in cui, tra gli altri argomenti, si tratta del
matrimonio di Ranuccio Farnese e Margherita Aldobrandini. Ranuccio duca di Parma e Piacenza, com'è
ormai ben noto, è fratello del cardinale Odoardo, Margherita è nipote di Papa
Clemente VIII.
Il libro in questione è
intitolato De perfecto Principe ad
Clementem VIII apophtegmata Card. P. Aldobrandini in quibus ars imperandi tenetur inclusa ab Henrico Farnesio Eburone (). Enrico Farnese si era infatti assunto
l'incarico di pubblicare gli scritti del cardinale Pietro Aldobrandini insieme
ai propri.
Un rapporto di collaborazione
culturale tra i Farnese e gli Aldobrandini sussisteva già da molti anni,
soprattutto grazie alla passione filologica per i testi antichi che accomunava
Fulvio Orsini e Tommaso Aldobrandini (). Tommaso era un brillante grecista ed aveva
anche una buona pratica negli studi filosofici, scrisse un trattato In Aristotelis Politicam notae ()
e tradusse in latino un'orazione di Demostene che venne pubblicata postuma a
Roma proprio dal nipote card. Pietro Aldobrandini tre anni prima dell'inizio
dei lavori della Galleria dei Carracci ().
Si conserva ancora manoscritto
alla Biblioteca Vaticana il resoconto di una dibattito sul tema Per quale ragione non si sia fatta guerra
tra i gentili, e perchè si faccia tra i cristiani al quale parteciparono
Fabio Benvoglienti, Gianfrancesco Lottini, Uberto Foglietta, Fabio Albergati,
Lucio Maggio e Tommaso Aldobrandini ().
La disputa era stata promossa nel
1567 dal card. Marcello Marcantonio di Mula bibliotecario di Santa Romana
Chiesa e aveva visto scontrarsi il Benvoglienti e l'Aldobrandini su posizioni
diametralmente opposte. L'Aldobrandini
mosse all'avversario quattordici obiezioni con le quali veniva riaffermata la
piena legittimità delle guerre di religione, seguendo una linea di rigorosa
osservanza controriformistica.
Contemporaneamente alle dispute
politico teologiche, Tommaso Aldobrandini proseguiva la propria attività di
traduttore e in questa veste venne interpellato da Fulvio Orsini per sciogliere
delle riserve su un frase greca di controversa interpretazione concernente la
reciprocità d'amore. Considerata la
grande importanza dell'iconografia di Anteros nell'ambito degli affreschi della
Galleria, è bene tenere conto di questa frase anche se non si può dimostrare
con certezza un legame diretto con l'iconografia di Anteros. Ecco la traduzione dell'Aldobrandini: « [...]
è cosa bella essere amato amando, o
vero, et questo mi piacerebbe più, è cosa
bella a essere amato in compagnia di chi ha amato [...] » ().
È certo comunque che la memoria
della persona di Tommaso Aldobrandini doveva essere ben presente alla data d'inizio
e soprattutto a quella di chiusura della volta della Galleria, se il nipote
Pietro ne pubblicava un'opera post mortem
e soprattutto se si tiene conto che Tommaso era fratello del Papa Clemente
VIII, la cui nipote Margherita, figlia di Giovanni Francesco e di Olimpia
Aldobrandini, sarebbe diventata moglie del duca Ranuccio Farnese.
Tornando ad Enrico Farnese
prendiamo subito in esame il passo del De
Perfecto Principe relativo al matrimonio di Ranuccio Farnese e Margherita
Aldobrandini, che al di là della formule panegiristiche del caso, ci offre
un'importante indicazione iconologica.
Il matrimonio di Ranuccio e
Margherita costituisce secondo l'autore il segno vivente di un vincolo di
pace alla maniera del ratto delle
Sabine il quale dimostra come il matrimonio non solo spegne la fiamma
dell'odio, ma accende quella dell'amore reciproco e della benevolenza: « ex quo
intellegimus odij flammam non solum restingui matrimonio: sed etiam accendi mutui amoris ardore, &
benevolentiae » (). Il tema della reciprocità d'Amore già
espresso nell'immagine di Eros ed Anteros in lotta per la palma negli affreschi
della Galleria trova ora una sua precisa collocazione all'interno di un
contesto matrimoniale dove viene sottolineata tutta la positività di un amore
corrisposto. Apparentemente mancante
lo spegnimento della fiaccola, che nel
Cartari indica la fine delle passioni impure ed è presente anche nell'affresco
di Bartolomeo Cesi in Palazzo Magnani a Bologna. In realtà com'è poi ovvio alla luce del contesto matrimoniale,
non può sussistere alcun simbolo che denoti la fine dell'amore, deve anzi
presentarsi il caso inverso. Enrico
Farnese prosegue infatti paragonando il mito della Salamadra che rinasce dalle
proprie ceneri e il fuoco non ha potere su di lei, a Ranuccio Farnese il cui
stesso ardore giovanile, nel fuoco dell'età, spegne ogni fiamma impura
dominando gli appetiti sensuali con la ragione, e con la prudenza ogni impeto
incontrollato, fino a concludere che reca maggior gloria astenersi dalla
voluttà piuttosto che soddisfarla ().
Negli anni immediatamente
precedenti gli affreschi di Annibale Carracci nel Camerino veniva stampato un
altro volume politico di Enrico Farnese, il De
Simulacro Reipublicae sive de imaginibus politicae et oeconomicae, che
contiene un paragrafo interamente dedicato ad illustrare l'impresa dei tre
gigli farnesiani come immagine della concordia e della pace con specifico
riferimento al duca Ranuccio e al cardinale Odoardo suo fratello ().
Enrico Farnese vede nella disposizione stessa dei gigli farnesiani
l'immagine della concordia poichè il più alto sovrasta i due inferiori e questi
a loro volta i tre più bassi in un chiaro ordine gerarchico; spiega poi il loro
significato con una litote, affermando cioè che la discordia può essere
triplice come i gigli, « aut animi, cum ratione, aut sensuum, cum virtute: aut
hominis, cum hoste » mentre viceversa tre sono le virtù che riconciliano: «
prima prudentiae vi reconciliatur: altera temperantiae auxilio: fortitudinis
termia » ().
Enrico Farnese augura al
cardinale Odoardo di poter essere speranza pubblica realizzando con la propria
vita l'iscrizione « spes publica » che si legge in un'antica medaglia romana
vicino all'immagine del giglio ().
Secondo Enrico Farnese il giglio
è il fiore di Giunone e come tale denota la forza del governo; viene da pensare
all'Ercole al bivio di Annibale
Carracci nel Camerino Farnese, dove l'eroe deve scegliere tra virtù e voluttà
e, simbolicamente, tra la vita attiva rappresentata da Giunone e quella sensuale
rappresentata da Venere come nel passo già citato di Marsilio Ficino ().
L'ordine dei gigli corrisponde
per Enrico Farnese alla concordia tra la legge divina, la naturale e la
positiva e si realizza con le tre virtù dell'astinenza, della sobrietà e della
castità: senza la pienezza della virtù il giglio marcisce e puzza ().
Il colore celeste del giglio
farnesiano è infine un simbolo divino e l'oro del pistillo indica la sapienza (). Il capitolo si chiude con un elogio del
cardinale Odoardo ed un ancora più pertinente riferimento all'Ercole al bivio: i gigli crescono dritti
al cielo senza storture proprio come la famiglia farnesiana che progredisce
sulla retta via della giustizia verso la gloria divina.
Diversamente dall'interpretazione
prevalentemente politica del giglio araldico farnesiano formulata nel De simulacro Reipublicae, l'impresa
ideata da Fulvio Orsini per il cardinale Odoardo ha un carattere filosofico
religioso. Entrambe comunque attribuiscono alle virtù il ruolo guida
nell'immaginario dei Farnese, fornendo un'ulteriore conferma della validità
dell'interpretazione del Bellori da un punto di vista generale. Mancando qualsiasi motivo per considerare
corrispondente a verità l'affermazione del Dempsey relativa alla presenza di
due programmi distinti e di opposto significato per la volta e le pareti della
Galleria e considerando che l'impresa dei gigli è presente sia nel camerino,
sia nelle pareti della medesima, risulta ben difficile, se non impossibile,
affermare che il significato della volta sia inerente alla tematica di amore
profano sic et simpliciter. Secondo la tesi del Dempsey la volta
sarebbe una sorta di "incidente di percorso", una parentesi erotica
fra due momenti di perfetta "sacralità" controriformistica. L'esegesi belloriana ha invece un respiro
più ampio nel quale l'affermazione dell'amore sacro su quello profano non è mai
apodittica o dogmatica, ma si costruisce in un percorso dialettico. Vedendo disgiunti i soggetti della volta e
delle pareti si perde completamente di vista anche la stessa poetica della
Galleria che verrebbe ridotta ad una semplice giustapposizione di motivi senza
alcuna coerenza concettuale complessiva.
Non si tiene inoltre conto che, se è vero che Fulvio Orsini morì prima
dell'inizio dei lavori per le pareti, è anche vero che il committente cardinale
Odoardo era ben vivo alla fine dei lavori stessi e oltre.
Infine, riesaminando il corpus dei disegni preparatori della
Galleria Farnese, risulta che tra i soggetti previsti nella fase d'ideazione
del programma della volta ve n'era uno di significato morale che non venne mai
affrescato. Si tratta del putto che
affronta un leone coprendosi il viso con una maschera e fingendo di essere più
forte del vero (). Tale iconografia non è un'invenzione
carraccesca, è presente in più di un'occasione nell'arte rinascimentale a
cominciare dal libro di emblemi di Guillaume de La Perriere Le Theatre des bons engins ()
e vuole significare il contrasto tra l'uomo forte e impavido e quello codardo e
bugiardo che ricorre a meschini sotterfugi pur di impressionare
l'avversario. Anche Pirro Ligorio ebbe
modo di commentare un'iconografia che ha legami di parentela con quella
carraccesca illustrando il significato di una statuetta bronzea antica: « Nella
immagine di questa fortuna è da notare molte cose. Primeramente di quel
fanciullo, che tiene in braccio, il quale credo sia Pluto, come dice
Pausania. Egli ha una maschera in
mano, perchè le ricchezze ha la maschera d'oro et è zoppa come dice Luciano, et
la Fortuna è quella che dispensa la ricchezza, onde ella ha lo iddio in grembo;
et lo domina [...] » (). La connessione maschera - ricchezza -
fortuna è già indicativa del contrasto con la verità - sapienza secondo la ben
nota tematica rinascimentale.
La presenza dell'iconografia del
putto con maschera negli studi preparatori della volta della Galleria dei
Carracci conferma dunque che i soggetti affrescati non erano scelti secondo
criteri semplicemente estetizzanti e non dovevano esaltare solo l'amore
profano, ma che rispondevano ad una precisa volontà morale del committente, il
cardinale Odoardo Farnese.
CAP. 13
Le nozze di Ranuccio Farnese e Margherita
Aldobrandini
Il Dempsey vedeva una gaia,
spensierata e pagana bellezza nei miti antichi così come venivano dipinti da
Annibale ed Agostino Carracci nella volta della Galleria Farnese e collegava
tale visione con l'idea che Anteros significasse reciprocità d'amore non sacro,
fino a considerare tutta la decorazione pittorica come un grande epitalamio. Quest'ultima ipotesi è senza dubbio esatta
non solo per la conferma indiretta che ci viene dal De Perfecto Principe di Enrico Farnese, ma soprattutto per una
serie di riscontri incrociati con altri epitalami coevi. Non sembra invece possibile accettare la
prima, quella cioè che riguarda la presunta "profanità" degli
affreschi della volta, soprattutto considerando che non vi è contraddizione tra
le due versioni di Anteros considerate dalla critica apparentemente
opposte. Infatti è ovvio che esista un
amore reciproco di carattere sacro proprio nel sacramento del matrimonio
cristiano. Anche a prescindere dal
matrimonio, è poi sufficiente ricordare come l'interpretazione di Otto van Veen
riguardi la celeste reciprocità d'amore nel dialogo tra l'anima e Dio.
Per affrontare con chiarezza il
problema è necessario in primo luogo chiarire che non c'è ragione di pensare,
come ha fatto il Martin, al matrimonio di Alessandro Farnese con Maria del
Portogallo del lontano 1565, se le nozze di Ranuccio Farnese e Margherita
Aldobrandini venivano celebrate il 7 maggio 1600 a Roma in Vaticano quando era
appena terminata la volta della Galleria.
La data precisa delle nozze è
riportata da Nicola Angelo Caferri nel proprio annuario intitolato Synthema Vetustatis (). Luis de Salazar y Castro nell'Indice de las glorias de la casa Farnese
fornisce notizie sugli ultimi accordi pre matrimoniali con la pubblicazione
delle due epistole che il duca Ranuccio Farnese e il Pontefice Clemente VIII
Aldobrandini spedirono a Filippo II di Spagna per avvertirlo dell'avvenuta
conclusione delle trattative ().
Il 2 dicembre del 1599 Clemente
VIII scrive a Filippo II di aver concluso un matrimonio tra il duca di Parma e
la maggiore delle proprie nipoti da celebrarsi in marzo quando ella avrà
raggiunto l'età per sposarsi e aggiunge che il cardinale Farnese ha avuto
particolarmente a cuore questo accordo.
Soprattutto quest'ultima notazione ha valore ai fini degli studi sulla
Galleria dei Carracci, perchè se il committente degli affreschi era interessato
al matrimonio del fratello a quella data doveva esserlo stato anche in
precedenza, visto che di un matrimonio per Ranuccio si parlava già da parecchi
anni. Cade dunque l'obiezione di
Briganti circa l'infondatezza della interpretazione epitalamica della Galleria dei
Carracci.
La conferma risolutiva viene da
una preziosa indicazione di Olga Pinto la quale, continuando il lavoro già
intrapreso dal padre che spogliava con certosina pazienza interi cataloghi di
varie biblioteche, è riuscita a raccogliere una poderosa bibliografia di
scritti per nozze che contiene la citazione di quattro rari epitalami relativi
alle nozze Farnese - Aldobrandini del 1600 (). Dimenticati dai critici della Galleria dei
Carracci, questi volumetti, insieme ad altri non citati dalla Pinto, permettono
di rispondere ad alcune domande che erano finora rimaste in sospeso. Tre furono stampati a Roma nel 1600 e
l'ultimo a Piacenza nel 1601 (). Furono scritti da Filiberto Belcredi
Referendario delle due Segnature, Onorio Longhi e Gasparo Murtola entrambi noti
in ambiente caravaggesco, e Vincenzo Villani.
L'epitalamio del Belcredi
interessa soprattutto per la presenza nel frontespizio di una piccola ma
raffinata incisione che rappresenta le insegne araldiche degli sposi. Il putto reggistemma di destra ha la stessa
espressione assorta e i capelli arruffati dell'amorino che appare nell'Omnia vincit Amor di Agostino Carracci,
incisione datata 1599. Il taglio della
composizione, la scioltezza del ductus
grafico a linee incrociate ed avvolgenti, il gioco chiaroscurale realistico ed
equilibrato ed il plastico trattamento del panneggio sullo sfondo rendono
pacifica l'attribuzione ad Agostino Carracci.
Anche l'epitalamio di Onorio
Longhi reca una bel blasone inciso.
L'invenzione maggiore è nel putto reggicorona quando con ricercato
virtuosismo Agostino riesce a creare una complessa intelaiatura di corpi solidi
dove proiezioni di luci ottengono ombre sceniche con effetti di spessore e
profondità. La mano sinistra del
putto, affusolata e tipicamente emiliana, ricorda quella del putto reggifestone
nel frontespizio della Vita di Cosimo de
Medici di Aldo Mannucci stampata a Bologna nel 1586 ().
Agostino Carracci non era nuovo a
simili imprese. Ricorda il Bellori
quanto egli fosse attento a seguire la vita di corte intrattenendosi con
letterati, accademici e uomini dell'alta società provocando anche i rimproveri
del fratello che gli ricordava le loro umili origini. Agostino si era impegnato con passione nell'editoria realizzando
ad esempio parte del repertorio d'illustrazioni per l'edizione genovese del
1590 della Gerusalemme Liberata del
Tasso (), o per il
libretto di Rime de gli Academici Gelati
di Bologna dove incise le imprese degli accademici su richiesta di Melchiorre
Zoppi ().
Esiste poi una lunga serie di
incisioni di blasoni ed insegne araldiche realizzati da Agostino Carracci per
Papa Innocenzo XI ();
uno stemma di un duca di Mantova ();
del cardinale Facchinetti ();
di un cardinale della Famiglia Sampieri ();
del cardinale Cinzio Passeri Aldobrandini (),
che era il protettore del Tasso a Roma; del cardinale Alessandro Peretti (),
caro amico di Fulvio Orsini su cui torneremo più avanti; e ancora una serie di
stemmi dei Papi e cardinali bolognesi ();
del cardinale Giovanni Battista Castagna ();
del cardinale Filippo Sega ();
del cardinale Lorenzo Bianchetti ();
del cardinale Bartolomeo Cesi ()
e la lista non è completa.
Nell'incisione per il
frontespizio dell'epitalamio di Onorio Longhi, Agostino Carracci riprese la
tipologia del putto che regge il cappello cardinalizio nello stemma del
cardinale Facchinetti. I due putti a
gambe levate in cima allo scudo assolvono il loro compito con molta
disinvoltura e naturalezza.
Queste due piccole incisioni
"inedite" testimoniano la presenza di Agostino Carracci a Roma almeno
fino al maggio del 1600. Subito dopo
il Pittore dovette raggiungere Parma per dare mano agli affreschi del Palazzo
del Giardino ().
Vediamo ora il testo degli
epitalami. Il più lungo, ma anche il
più cerimonioso e senza riferimenti consistenti alla Galleria dei Carracci, è
quello del Belcredi. Interessa
soprattutto ricordare ch'egli era socio delle Accademie degli Affidati e degli
Intenti di Pavia.
Alla prima, fondata nel
1562, appartenevano anche San Carlo
Borromeo; il giurista Francesco Alciati, parente di Andrea; Ottavio Farnese
duca di Parma e Piacenza, nonno di Ranuccio e di Odoardo; e dal 1598 i
cardinali Cinzio Passeri Aldobrandini ed Odoardo Farnese; Bernardino Baldi,
letterato urbinate abate di Guastalla che scrisse un epitalamio manoscritto per
le nozze di Ranuccio e Margherita.
Alla seconda, fondata nel 1593,
erano iscritti Melchiorre Alciati; Enrico Farnese; il card. Federico Borromeo,
cugino di San Carlo ed amico di Fulvio Orsini; i cardinali Odoardo Farnese e
Cinzio Passeri Aldobrandini. Una
compresenza certamente non casuale di personaggi giù incontrati durante la
discussione critica delle tematiche della Galleria dei Carracci.
Il testo del Murtola è più
interessante. Egli doveva avere una
buona pratica nel genere epitalamico se scrisse anche per le nozze di Filippo
Colonna con Lucrezia Tomacelli del 1597 (),
e nel 1600 per Enrico III di Francia e Maria de Medici (). Il Murtola paragona la bella e giovane
Margherita all'Iride seguendo una tradizione farnesiana ben consolidata
nell'impresa DIKHS KRINON (giglio di giustizia) di Paolo III presente
nell'impresa pittorica di Castel Sant'Angelo, dove il giglio farnesiano è
sormontato da un arcobaleno. Già il Ruscelli
notava come: « [...] era poi quell'Impresa molto bella per la vaga illusione,
che l'Arco Celeste ha nel nome col Giglio azurro. Perciochè così tal Arco, come
il Giglio si dicono Iris in Latino, & in Greco, & tai gigli sono arme
della casa Farnese. Onde veniva l'Impresa ad esser di maravigliosa vaghezza,
& perfettione, & tenuta per una delle belle, che fino a quei tempi
fosser vedute » ().
Ecco l'incipit dell'Iride : « O
tu, che al lampeggiar di chiare Stelle / Dopo maligne, & horride tempeste /
Iride scopri a noi luce tranquilla. / Spiega, deh spiega ohmai l'Arco celeste,
/ L'Arco, che fiamme mostra ardenti, e belle, / E di gemme, e di porpore
sfavilla [...] » (). L'Iride è Margherita in tutta la sua
splendente bellezza, mentre Ranuccio viene invitato a deporre le armi ed ogni
pensiero militare per acconsentire all'invito di Imeneno ed Amore: « [...]
Cangia pensiero homai, le guerre lascia, / Lascia gli usberghi, e l'ire aspre,
e dolenti, / Che prò viver fra l'armi, accenda il core / Più fortunato ardore
[...] » ().
L'allegoria si estende fino al
Sole, che viene ad identificarsi con Ranuccio stesso: « [...] Mira homai il tuo
bel Sole Iride, mira, / In esso l'occhio, in esso il cor s'appaghe, / Questi i
colori tuoi col suo bel giglio / Rende più belli ogn'hor [...] » ().
La contrapposizione tra sfera
militare ed amorosa è nuovamente sottolineata: « Hora amator si mostre, &
hor guerriero » con riferimento alle
imprese militari del padre Alessandro in Fiandra, alle quali aveva partecipato;
« [...] Mira come dipinto / Di chiara luce homai le guerre aborre, / E tempre
fra le tue natie bellezze / Le già passate asprezze [...] » ().
I versi più importanti sono
quelli dove Iride - Margherita / viene paragonata ad Arianna: « O lui felice, o
te fortunata / Iride bella, che a un sì vivo Sole / Fiammeggi opposta, e sei di
lui l'imago / Bene avien, che da te l'honor s'invole / A le Stelle del Cielo, a
l'indorata / Chioma di Berenice, e ben più vago / Cerchio, e di cinger pago /
Il tuo bel crine a te, che ad Arianna, / Che se d'oro appar quello, e in Ciel
di mille / Stelle avien, che sfaville / Di zafiri, l'hai tu, ne già s'inganna /
S'altre Stelle vi mira poichè ancora / Con le tue stelle il tuo bel Sol
l'indora [...] » (). Il parallelo è interessante perchè contiene
un riferimento all'affresco centrale della Galleria dei Carracci che
rappresenta il trionfo di Bacco e Arianna ed in particolare alla corona di
stelle di Arianna. Il Murtola guardava
con attenzione alle opere d'arte, soprattutto ai dipinti del Caravaggio che
illustrò in alcune rime del 1603, sembra quindi normale ch'egli ne conoscesse e
ne sapesse interpretare i significati relativi.
Anche Onorio Longhi, amico del
Caravaggio, diede il proprio contributo letterario alle nozze, toccando lo
stesso tasto di Arianna riferendosi prima a Ranuccio e poi a Margherita: «
[...] Quella corona, che di gemme e d'oro / Splendeati accesa quasi in ciel
sereno / Regal diadema a tuoi capelli intorno, / Hor di stelle risplende (alto
thesoro) / Il Gran Giove terreno / Così cangiolla, e fe'il tuo crin più adorno
/ Tal già vide Arianna, e ancor fiammeggia / Del crudo Theseo a scorno / La sua
corona a la celeste Reggia, / E così vide le sue chiome belle / Risplender
Berenice in ciel di stelle » ().
Se la celeste Reggia è Palazzo
Farnese, il Longhi si riferisce proprio all'affresco di Annibale. Inoltre paragona Ranuccio ad Ercole
dimostrando così ancora una volta la continuità simbolica tra i soggetti del
Camerino e quelli della volta della Galleria.
Ricorre anche l'immagine delle « Provincie incatenate » presenti nei
disegni preparatori della volta proprio sotto l'immagine di Ercole vistosamente
munito di clava ():
« Quando sembrasti qual tra Mostri Alcide [...] da la tua spada escono tuoni, /
Onde par, che si spezze, / Non sol l'orgoglio a l'Hidre, e a i Gerioni, / Ma
dal Gange, dal Nilo, e da l'Eufrate / Conduchin le provincie incatenate » ()
chiaramente riferiti ai dipinti per la cosiddetta "Sala grande" di
Palazzo Farnese che dovevano illustrare i fasti del duca Alessandro Farnese ().
CAP.14
François Perrier e l?entourage del Bellori
Compresi i valori fondanti del
programma della Galleria, resta da verificare l'attendibilità storica e il
processo di formazione dell'interpretazione del Bellori.
Com'è noto, alla morte di
Agostino ed Annibale, i pittori della bolognese Accademia degli Incamminati
diffusero lo stile e il linguaggio della scuola carraccesca. Domenichino, Reni, Guercino, Albani,
Lanfranco, in dialettica con il naturalismo luministico caravaggesco, creavano
un polo classicista che avrebbe trovato in Poussin la sua massima espressione
estera.
Tra gli allievi del Lanfranco a
Roma, il Bellori cita il borgognone François Perrier che aiutò il maestro
nell'impresa della cupola di Sant'Andrea della Valle ()
e si dedicò allo studio delle antichità.
Il Perrier soggiornò nell'Urbe in due diversi periodi: dal 1625 al 1629
e dal 1635 al 1645 (). Durante il primo soggiorno romano incise
un'acquaforte di traduzione dall'Ultima
Comunione di San Girolamo di Agostino Carracci che testimonia in prima
istanza la sua adesione alla lezione dei maestri della scuola. Realizzò il frontespizio del libro Segmenta nobilium signorum et statuarum
del 1638.
L'opera più interessante
appartiene al secondo soggiorno romano ed è il ciclo di affreschi di Palazzo
Peretti dipinto in collaborazione con Giovanni Francesco Grimaldi intorno al
1635 - 1640 con storie mitologiche e il tema di amore sacro e amore profano (). L'affresco centrale, che lo Schleier
attribuisce dubitativamente al Grimaldi, rappresenta due scenette spiritose:
nella prima un amorino profano dorme pacificamente presso un albero attorniato
da sette puttini pronti a giocargli un brutto tiro. Approfittando del suo sonno lo privano dell'arco, delle freccie
e della torcia finchè il malcapitato amorino si sveglia nella seconda scena
legato e bendato. Un altro amorino
indica il cielo con un dito; a terra giace l'arco spezzato a significare la
sconfitta di amore profano.
Da un certo punto di vista si può
dire che la presenza costante della mitologia e il modello delle partiture
della volta di Palazzo Perrier, con il classico uso di citazioni di sculture
antiche, sono vicine agli affreschi della Galleria dei Carracci anche se in
tono notevolmente minore. In Palazzo
Perrier viene sviluppato il tema paesaggistico che non è invece ancora
affermato in Palazzo Farnese. Tenendo
conto del quarantennio trascorso si può tranquillamente riconoscere la
continuità culturale esistente tra i due cicli di affreschi.
Esiste anche un libro di copie
dai disegni di Annibale Carracci per la Galleria Farnese della bottega del
Perrier, il cui frontespizio deriva dalla Storia
dei Cesari di Francesco Angeloni attraverso la mediazione di uno studio del
Perrier stesso (). Francesco Angeloni possedeva i disegni
preparatori per la Galleria dei Carracci, era protonotaro apostolico e
segretario del cardinale Ippolito Aldobrandini, nonchè secondo padre del
Bellori. Scrittore di una certa
capacità e collezionista d'arte, l'Angeloni costituisce l'anello di
congiunzione tra il Bellori e la Galleria Farnese ().
È comunque possibile accertare la
consistenza di un rapporto ancora più stretto di quello stilistico tra la
Galleria dei Carracci e gli affreschi di Palazzo Peretti. Procedendo a ritroso nel tempo si
acquisiscono notizie utili alla comprensione del significato degli affreschi
Perrier.
Il Palazzo Peretti apparteneva
alla Reverenda Camera Apostolica ed era abitato da alti prelati con il titolo
di San Lorenzo in Lucina. Il cardinale
Alessandro Peretti e suo fratello Michele principe di Venafro vi risiedevano
dal 1620; alla morte del cardinale nel 1623, Michele, chiesta ed ottenuta la
necessaria autorizzazione, aveva acquistato il Palazzo che era così divenuto
proprietà privata ().
Nel 1614 si erano celebrate le
nozze di Michele con Anna Maria Cesi e i festeggiamenti si erano tenuti nel
Palazzo della Cancelleria con l'ospitalità del fratello dello sposo. Per l'occasione l'accademico umorista di
Roma Giacomo Cicognini aveva scritto un epitalamio intitolato L'amor pudico, il cui interesse si trova
tutto nella presenza di Eros ed Anteros e nella spiegazione della relativa
simbologia suggerita da Romolo Paradiso nella lettera in cui descrive le feste
nuziali ().
L'Amor pudico si inizia con un duetto tra Venere e suo figlio Amore
sullo sfondo delle rovine di Roma antica.
Sceso sulla terra, Amore racconta alla madre per quale ragione ha
lasciato il Cielo: « Venere. Qual terrena vaghezza / ha valor di rapirti a
gl'alti giri ? () Amore. Questo pudico strale, / Che due
bell'alme punse, / E quel Nume immortale, / Che per nodo fatale / Sommo valor a
gran beltà congiunse, / Mi richiama dal Ciel, perch'io rimiri / Viva fe, puro
ardor, casti desiri ». (). Amore si riferisce al matrimonio di Michele
Peretti ed Anna Maria Cesi e finisce poi con il riconoscere alcuni errori
passati: « [...] Et io, ch'il crederia ?
qua giù discesi; / Contr'a me rivolgendo il giusto sdegno, / Perchè
d'impure fiamme un tempo accesi / I maggiori Dei del sempiterno Regno » ().
Amore ricorda alla madre le
azioni di un tempo nel contrasto con quelle recenti presentandosi come
vincitore di se stesso e meritevole in quanto tale di una doppia palma: « Se di
strali beati il fianco cinsi / Hoggi n'andrò di doppia palma altero: Gran
vincitor, che me medesimo vinsi » ()
interessante il parallelismo con la Galleria dei Carracci, soprattutto perchè
la battuta successiva è significativamente pronunciata da Anteros: «Anter. O
glorioso Nume, / O mirabile Arciero, Ceda al nuovo desio vecchio costume: /
Virtude è spesso il variar pensiero.
Amore. se tu mi porgi aita, / Indissolubilmente a te mi lego. Anter. Non mai più da te lungi i vanni
spiego; / Ch'io nacqui sol per eternar tua vita.» ().
Questo scambio di battute si
inserisce perfettamente nell'interpretazione della Galleria dei Carracci quale
è stata finora prospettata e coincide con l'Arianna
del Rinuccini, soprattutto se si tiene conto che il « variar pensiero » può
essere paragonato al passaggio dall'amore terrestre di Arianna per Teseo a
quello divino per Bacco. Inoltre la
reciprocità di Anteros non è affatto profana o carnale: « Amore. O del seno fecondo / De la mia bella Madre
/ Anterote immortal, parto secondo, / Di legitimo ardore, / Di reciproco amor
vero sostegno, / Ecco la mano, ecco la fede in pegno. / Questi pennuti strali /
Getterò disarmati, e rotti a terra: / Poichè furon cagion di tanti mali». Va notata la contrapposizione tra il
vecchio e il nuovo amore, lascivo l'uno, pudico l'altro in relazione agli
effetti del mutamento occorso. Anteros
afferma esplicitamente: «Donne leggiadre e Cavalieri amanti: / non è pudico
ardor cagion di pianti» (). L'evento centrale della rappresentazione è
ovviamente il matrimonio Peretti - Cesi, intorno al quale recitano come parti
d'appoggio i personaggi mitologici.
Amore si rivolge alla città di
Roma ricordandole la propria decisione: « O di famosi Heroi madre famosa; / Hor
ch'accendo ne'cor pudico zelo, / In Te men vivo, e sdegno il patrio Cielo » e
Roma risponde: « O de gli eterni Dei sommo Monarca; / Se tu per far in me dolce
soggiorno / Sdegni di far ritorno a l'alto impero; / Se tu cangiasti Amor
l'antica voglia: / Et io cangiando il manto antico, e nero, / Scopro fregiata
d'or la nuova spoglia » e « si cangia la prospettiva della ruinata nella nuova Roma
» (). La purificazione di Amore restaura
l'antica città in tutto il suo splendore cancellando il teatro delle
rovine. Amore è ora simbolo di virtù
contrapposto alla rovina segno di morte.
Il coro commenta: « [...] La virtù che sempre è stabile / Ne i gran
petti ogn'hor si germina; / Nè per morte ancor si termina » (). La prima parte dello spettacolo termina
con manifestazioni di gioia, balli e canti per festeggiare l'amore pudico degli
sposi.
Nell'ora seconda Venere, Marte,
Sole, Luna, Mercurio e Giove si riuniscono a colloquio per tentare di
convincere Amore a tornare in cielo, usando anche la forza se necessario; la
Fama però avverte gli dei che Amore è finalmente cambiato, non è più cieco: «
Amor io vidi a real Donna in grembo / Di pura fede, e d'honestade amico, / Due
grand'alme ferir d'un stral pudico, / E versar di sue gratie un ricco nembo. /
Indi mirai tra balli, e tra diletti / Virtù celeste accolta in humano velo, / E
formar vive stelle in terra un Cielo, / Et udij risonar CESI, e PERETTI. /
Saggi Heroi, belle Dive, honesti ardori / Facean corona a l'immortal Cupido, /
E suona intorno de'mortali il grido, / Ch'ei sol per nobil foco accende i cori.
/ E sdegnando le fiamme, ond'egli accese / Di biasmevole amor petti immortali,
/ Pudico Dio spezzò lascivi strali, / Come ministri a vergognose imprese » ().
Nell'ora terza Mercurio scende in
terra perchè « ritorni Amore pudico, / Deposto il suo rigor, al seggio antico
». Il coro si lamenta perchè « Senz'Amore il Sol non splende, Nè la terra
il seno infiora: / Langue in Ciel la bella Aurora: / Nè Diana in Terra scende
». E' la sposa che impedisce ad Amore
di tornare in cielo: « Bella, saggia, e pudica, / Cui fan corona tanti Semidei,
/ Fa ch'io sdegni tornar tra gl'altri Dei ».
Ma niente e nessuno può convincere Amore, neanche lo sdegno, che si
ritrae alla vista delle frecce d'Amore.
Come la venuta di Amore aveva
sortito l'effetto di far rinascere Roma a nuova vita, così ora scende sulla
terra nuovamente l'età dell'oro ().
Precise ed inequivocabili
conferme dell'esatto significato dell'Amor
pudico del Cicognini sono fornite nella già citata relazione di Romolo
Paradiso ().
In primo luogo viene descritto
l'allestimento del Teatro: « Ma nella parte di mezzo del cornicione appariva un
gran scudo, circondato da molti svolazzi, e mostrava in campo azzurro la face
d'Himeneo, attorcigliata diruta.
Sopr'essa in un gran cartello si leggeva Tenderò sempre al Cielo, ond'io discesi. Io mi credo, che si dinotasse con tal impresa la qualità dell'amore,
che ha uniti insieme questi duo Sposi in matrimonio » ().
Amore è presentato nella sua
nuova veste: « Havea cerchiata la zazzeretta con una benda piena tra molti
ricami di gran quantità di diamanti: e si crede esser quella, che solea portar
innanzi agli occhi, i quali erano svelati; quasi per non perder la vista, hor
ch'è divenuto pudico, quel conoscimento di verità, ch'in altro tempo presso di
lui era sconosciuta » ().
Anteros è disegnato come fedele
fratello di amore divino: « In questo videsi appressargilisi ()
ANTEROTE. Fanciulletto in tutto eguale, e simile ad Amore nella statura, e nel
volto, sì come era nella nudità, e nell'ali.
A prima giunta il persuade a compiacersi dell'opinion cangiata. Amore accortosi di lui, l'abbracciò, e
fecegli puerili accoglienze, ma piene di tenerezza fraterna. Promisegli poi, pur che egli da lui non
discompagni, di ben esseguire quello che havea ben risoluto nell'animo. E scegliendo nella faretra quelle saette,
dalle quali erano uscite così ree operationi, le rompe, e con disprezzo le
gitta in terra » ().
L'annotazione di maggior rilievo
riguarda l'età dell'oro che si rinnova con le nozze di Michele Peretti e Anna
Maria Cesi: « incontro al Sole, Amor vede scendere, sovr'un'altra nuvola, ma
non sì grande, L'ETA' DELL'ORO, e tale che parea di concorrer seco e
pareggiarlo di bellezza [...] Disse il Sole: esser venuto a lodar con le Muse
la Sig. Sposa. E l'Età dell'Oro,
coronata dalle foglie dell'albero di lei: a rinovar se medesima in Terra, onde
si era partita » ().
Ecco allora la conferma
dell'esattezza dell'interpretazione di Thomes Puttfarken relativa ai cosiddetti
Amori de'Carracci (). Con la propria trasformazione infatti Amor
pudico, in pieno accordo con Anteros, rinnova l'età dell'oro in occasione delle
nozze. Così anche nella Galleria dei
Carracci, dove all'accordo di Eros ed Anteros e alle nozze - trionfo di Bacco
ed Arianna si arriva dopo le lotte iniziali per la palma e la fiaccola.
Tornando ancora indietro nel
tempo è infine necessario sottolineare che il cardinale Alessandro Peretti era
un caro amico di Fulvio Orsini come dimostra il suo legato testamentario, con
il quale egli dona al Peretti, « cuius multa extant in me merita », due grandi
medaglie di bronzo ed una miniatura di Giulio Clovio (). Il cardinale Peretti succedeva inoltre al
cardinale Alessandro Farnese nella carica di Cancelliere Pontificio.
Se il tema epitalamico dell'Amor pudico del Cicognini è interpretato
in chiave mitologico moralistica e rappresentato nel Palazzo della Cancelleria,
e sono altresì documentabili i rapporti tra il cardinale Alessandro Peretti e i
Farnese e particolarmente Fulvio Orsini, risulta evidente che le accuse di
paganesimo e di erotismo rivolte da una parte della critica moderna agli
affreschi della Galleria dei Carracci e alle stesse intenzioni dei loro
committenti sono completamente infondate; e non tanto perchè vi sia assente la
mitologia d'Amore anche profano, quanto piuttosto perchè la lettura che di
questa mitologia viene data è antistorica.
Nella Galleria non vi è infatti apologia del mito, ma un suo utilizzo
nell'ambito della poetica controriformistica, un mito come favola che viene
posto per essere contraddetto (). Formalmente diversa, e anche meno efficace
da un punto di vista drammatico è per esempio la Rappresentazione di anima e corpo di Emilio de'Cavalieri, uno dei
prototipi del melodramma italiano rappresentato a Roma nel 1600 (). Il tema moralistico è presente fino dal
primo verso ad evidenziare un'intenzione dogmatica. La ripetizione sistematica dello stesso concetto, che cioè la
nostra vita mortale è « un campo angusto di dure pietre, [...] una valle oscura
di pianto, [...] una bolla d'acqua, [...] una casa vecchia che minaccia ruina,
[...] un sacco forato » e così via, crea un fastidioso effetto di ridondanza,
una risonanza formale e concettuale.
La Rappresentazione di anima e
corpo di Emilio de'Cavalieri è rimasta famosa per l'introduzione della
formula del recitar cantando, ma di
fronte all'Arianna del Rinuccini è
monocorde, manca di un'invenzione drammatica.
Ed è proprio quest'invenzione a rendere particolarmente interessanti gli
affreschi della Galleria dei Carracci.
CAP. 15
I "generi" della Galleria
Epitalamio,
melodramma, tragedia, concettismo ed emblematica
Tra gli affreschi della Galleria
Farnese e quelli di Agostino Carracci nel Palazzo del Giardino di Parma si
colloca un altro interessante episodio.
Lasciata Roma per Parma, Ranuccio
Farnese e Margherita Aldobrandini passarono per Macerata nel luglio del 1600
dove furono accolti con grandi festeggiamenti, archi di trionfo, magnifiche
strutture effimere con dotte iscrizioni latine e volgari. Autori della parte erudita delle
manifestazioni furono gli accademici Catenati e soprattutto uno di loro,
Alessandro Cenzi, che scrisse una relazione dettagliata di tutti i
festeggiamenti dedicata al duca Ranuccio e intitolata Relazione di quanto è stato fatto in Macerata nel felicissimo passaggio
della Serenissima Madama Margherita Duchessa di Parma ().
Vennero preparati tre archi
trionfali ispirati alla città di Macerata, alle nozze di Ranuccio e Margherita
e ai fasti farnesiani. Una « livrea
numerosa di Giovanetti Nobili », tragedie e commedie allietavano il soggiorno
degli sposi.
Nella torre maggiore della città
era stata posta l'insegna araldica del duca Ranuccio Farnese con l'iscrizione «
SUPERVM VARIANDA FIGURIS Volendosi
inferire, che si come li Serenissimi Principi Farnesi havevano fin qui
contratto affinità con li Potentati
sopradetti, che sono i maggiori d'Europa, & del Mondo; così si augurava,
che ella () dovesse
con un Sommo Pontefice far parentado, il quale a tutti superiore, &
veramente Ottimo, & Massimo, spiegasse per Arme le Stelle, che sono figure
bellissime delle superne sphere: come è felicemente avenuto, però ivi si
scrisse. Superum varianda figuris
imitato da Catullo nelle nozze di Peleo, & di Teti, dicendo. Haec
vestis priscis hominum variata figuris » ().
Questa lettura allegorica delle
stelle araldiche Aldobrandini viene confermata dall'iscrizione del secondo arco
trionfale: « [...] alludendo a l'Arme de l'uno e de l'altra, che sono le
Stelle, & i Fiori, si disse. TALIS PER FLORES QVALIS PER SYDERA FVLGET.
Del Pontano nel secondo del Eridano a Pomona, mentre parlando in altro proposito
dell'Aurora, disse. Talis per flores, qualis per sydera fulget /
Lucifer, Eois dum micat ortus aquis» (). Le corona di stelle dell'Arianna della
Galleria dei Carracci, «un bello anacronismo» secondo Bellori, sarebbe dunque
al tempo stesso riferibile al mito e alla sposa. Anche nel Palazzo del Giardino i riferimenti a Ranuccio e a
Margherita si inseriscono armoniosamente all'interno del contesto iconografico
con i simboli della perla e del vello d'oro, come giustamente osserva il
Dempsey recensendo la monografia della Marzik (). Va notato che il cardinale Odoardo affrontò
esplicitamente con Fulvio Orsini il problema delle iscrizioni nella decorazione
a fresco del Camerino Farnese; si era infatti riservato di metterle o meno per
rendere chiaro il significato delle scene rappresentate (). In stretto ambito carraccesco abbiamo
l'esempio contrario di Bartolomeo Cesi che aveva aggiunto la scritta « HOC
VIRTUTIS OPUS » all'affresco con Eros ed Anteros in Palazzo Magnani a Bologna. La scelta di affrescare scene mute rivela
un'alta valutazione del mezzo espressivo iconico, al quale si riconosce una
specificità, un proprio eloquente e distinto linguaggio. La verbalità non deve interferire, se non
episodicamente, nella struttura narrativa delle immagini.
Tornando agli apparati di
Macerata, è interessante notare che nell'ultimo quadro del primo arco trionfale
viene menzionata Iride come allegoria di Margherita Aldobrandini, proprio come
nell'epitalamio del Murtola: « [...] Et perchè nell'ultimo, che rimaneva non si
potevano tutte le gratie, & li beneficij rappresentare, che quel Santissimo
Pontefice (), & la
Sereniss. sua Famiglia alla nostra Città fatto havevano, quindi fu in esso
dipinta la medesima Città in figura di Donna medesimamente co'l viso rivolto in
alto a un Arco celeste, o Iride che vogliamo dire: impresa già di quella
Santissima Mem. & con il Lembo della veste raccoglieva Gigli, & altri
fiori, ch'indi larghissimamente sopra lei piovevano; con un motto levato da
Virgilio nel 6. MANIBUS DEDIT LILIA PLENIS » ().
Nel secondo arco trionfale,
quello delle nozze, compaiono tutti i riferimenti d'uso all'evento, vale a dire
Imeneo (), Giunone
Iugale () e Diana
Lucina (), oltre ad
Apollo le tre Grazie e, naturalmente, Amore.
Il terzo arco celebra i fasti
farnesiani da Pietro il Vecchio in poi, riservando ai nomi più recenti
l'impresa personale: «de' quali non potendosi (se non con bassezza, e per
mancamento d'inventione) le proprie effigie rappresentare; & il ponere
avanti altrui semplicemente l'Arme loro, parendone cosa semplice, e troppo
commune; fu pensato, & il pensiero posto ad effetto, che ne' luoghi
sopradetti l'Imprese, che già questi Illustrissimi, & Serenissimi Signori
portorno, si figurassero » (). Figurano appunto le imprese del cardinale
Alessandro (), del
cardinale Ranuccio ()
e del duca Ottavio (),
« ma non havendo noi una Impresa del Magno Alessandro Padre di V.A. per
dipingerla nel Quadro grande, che stava sopra il Cornicione alla Piazza
rivolto; nè parendone a proposito il Cavallino che va a prender l'ale, col
motto. Huius Aura. Scolpita nelle
medaglie di lui Giovanetto di tredici anni, nè meno l'Ovo colle due stelle, poi
che nel tempo medesimo li furono mandate da Madama d'Austria sua Madre
Serenissima alla Corte di Spagna. Onde in gran diligenza cominciossi a cercarne
qualch'una di quelle, che in età più matura havesse S. A. fatte. Et finalmente
ne furono ritrovate molte: fabricate non dal ingegno di Poeta alcuno, ma dalla
mano di S.A. istessa, colla spada, non colla penna, nè studiando libri: ma
ordinando esserciti, e fra le schiere armate combattendo [...] » ().
Da quanto letto si ricava che le
imprese rivestivano un ruolo più significativo delle insegne araldiche; anche
se la constatazione è quasi ovvia, sembra utile sottolinearla ugualmente dal
momento che le pareti della Galleria dei Carracci sono concepite come una lunga
rassegna di blasoni ed imprese della famiglia disposti in un crescendo
simbolico che colloca al primo e più basso posto gli scudi araldici e
all'ultimo le immagini figurate della volta, con il coro di Bacco ed Arianna
che raffigura le nozze di Ranuccio e Margherita. La stessa precisa ripartizione dei soggetti degli archi
dell'apparato di Macerata è molto simile a quella della Galleria dei Carracci,
le nozze e i fasti sono infatti distinti.
L'esempio eloquente di Macerata
suggerisce di tenere bene in conto il suggerimento critico della Marzik, che
afferma il valore politico degli affreschi dei Carracci. Come pensare ad una Galleria di tale
importanza concepita esclusivamente per raffigurare le nozze di una coppia che,
tra l'altro, vive in Parma ? E come
conciliare gli interessi dei due fratelli, il duca Ranuccio ed il cardinale
Odoardo ? E ancora, come spiegare il
fatto che la volontà di celebrare le vittorie e la personalità del duca
Alessandro Farnese non sembrerebbe trovare riscontro negli affreschi dei
Carracci ?
La risposta a queste domande è
relativamente semplice quando si rifletta sull'unità complessiva della Galleria
stessa, che riesce a comprendere tutte le istanze poste dalla committenza. Non tutta la Galleria e nemmeno tutta la
volta va intesa semplicemente come un epitalamio, perchè la stessa scena
centrale della volta con il Coro di Bacco
ed Arianna ha il doppio valore di nozze e trionfo militare.
Dalle Dionisiache di Nonno di Panopoli, che erano ben note a Fulvio
Orsini tramite il suo amico ungherese Janos Zsamboky, si evince il valore
simbolico di Bacco. Il mitologico
conquistatore dell'India e diffusore del proprio culto venne subito posto a
confronto con Alessandro Magno. A sua
volta Alessandro Farnese aveva giuoco a considerarsi successore dell'antico
Alessandro-Bacco come nuovo diffusore della religione cattolica nelle Fiandre e
braccio forte di Filippo II e della Chiesa.
Il passo a Ranuccio Farnese è brevissimo e presente in più fonti. Ranuccio Farnese poteva quindi ben vedersi
simbolicamente raffigurato nel Bacco della Galleria dei Carracci insieme ad
Arianna sua sposa, cioè Margherita, senza per questo motivo rinunciare alla pur
sempre possibile identificazione di Arianna con la Chiesa, dal momento che
Margherita era la nipote di Papa Clemente VIII. Il ventaglio delle possibilità interpretative è ampio, ma non
aperto e i punti fermi sono nella natura stessa del sillogismo aristotelico,
dove si possono mutare le premesse, ma non le conclusioni. Nell'affresco centrale della Galleria dei
Carracci fu ideato uno dei più complessi e raffinati sillogismi barocchi di
tipo "BARBARA". Per
transitività infatti, se Ranuccio Farnese è paragonato a suo Padre Alessandro,
se il padre è a sua volta riferito ad Alessandro Magno e se esiste, come anche
la Yates ha riconosciuto, uno stretto legame simbolico tra Bacco ed Alessandro
Magno, allora è anche possibile paragonare Ranuccio Farnese a Bacco ().
E al cardinale Odoardo è
riservata una parte non certo minore.
Anche dal confronto con gli apparati trionfali di Macerata è infatti
possibile constatare come nella Galleria dei Carracci il riferimento
epitalamico non è affatto evidente ed esclusivo, perchè mancano quegli elementi
che lo rendono tale, come ad esempio Imeneo.
L'amore che viene celebrato è di natura particolare e sembra avere un
valore pedagogico. Rileggendo in una
progressione significativa i miti rappresentati, si può notare che alla scena
tragica dall'esito mortale dell'amore di Polifemo per Galatea segue la serie
degli amori che "indeboliscono" la virtù, Ercole ed Onfale, oppure
che invitano gli dei a più o meno convenienti rapporti con i mortali;
seguono ancora scene di amore non corrisposto, Cefalo ed Aurora, e a tutte
queste scene si alternano altre in cui è chiarissima la valenza neoplatonica,
Diana ed Endimione, Giove e Ganimede, Apollo e Giacinto, o di esaltazione della
stirpe latino-farnesiana, Venere ed Anchise, fino alla scena madre con il coro
di Bacco ed Arianna.
Sul valore neoplatonico della
Galleria si può ancora aggiungere il riscontro con due imprese dell'Accademia
degli Affidati, alla quale il cardinale Odoardo si era iscritto durante il
primo anno della realizzazione degli affreschi della volta. Luca Contile riferisce che l'impresa di
Carlo Angelo Ghiringhelli accademico affidato è la Vergine con il liocorno con
il motto « SIC VIRTUTIS AMOR » (),
testimonianza quanto mai esplicita della natura dell'amore del liocorno
farnesiano, che si pone così come l'esatto contrario del mito di Leda col
cigno. Pegaso è un emblema farnesiano
notissimo, presente in cima alla strada della virtù nell'Ercole al bivio del Camerino Farnese e persino come marca
tipografica dei Viotti, stampatori di Parma.
L'altra impresa riferita dal Contile è quella che rappresenta Diana ed
Endimione con il motto « ILLUMINATIO MEA ENDIMIONE » di Filippo Binaschi, che,
cieco, vuole « inferire, che la privazione del lume del corpo è l'habito del
Lume dell'anima sua tutta rivolta alle meditazioni » ().
Il valore mistico del mito di
Giove e Ganimede si legge nell'opera di Achille Bocchi e trova riscontro
nell'affresco di Giulio Mazzoni in Palazzo Spada a Roma ()
e non mancano anche i riferimenti biblici, dice infatti Dio a Mosè nell'Esodo: « [...] ho sollevato voi su ali
di aquile e vi ho fatti venire fino a me [...] » ().
Inoltre il duca Alessandro era
considerato il paladino del cattolicesimo, come dimostrano le magnifiche
onoranze funebri che gli vennero tributate in Roma e come anche l'incisione del
suo pittore di corte in Fiandra, il già ricordato Otto van Veen, che lo
raffigura come Ercole, con lo scudo munito di Gorgone nella sinistra e la clava
nella destra sorretta dalla fede che a sua volta regge una croce in mano e ai
piedi i nemici della Chiesa ormai debellati ed uccisi.
Sulla volontà della committenza
difficimente possono sussistere dubbi, non sembra possibile che il tema di
amore profano possa sussistere isolatamente, nell'atmosfera di boudoir prospettata dal Dempsey, mentre
è molto più probabile che, attraverso i riferimenti concettosi e sillogistici e
soprattutto con un largo uso della teoria degli affetti e delle passioni
dell'animo nel senso neoplatonico controriformistico del Torelli, questo stesso
tema d'amore possa alimentare di una fiamma universale i riferimenti alla
politica, alla storia, al mito, alle nozze, alle persone viventi del duca
Ranuccio e del cardinale Odoardo.
L'amore per la Chiesa muove il duca Alessandro all'impresa delle
Fiandre, di nuovo l'amore per la Chiesa e il legittimo amore reciproco del duca
Ranuccio e Margherita muovono il figlio a continuare le gesta del padre, ancora
l'amore per la Chiesa muove il cardinale Odoardo a perfezionarsi e purificarsi sulla
ripida strada della virtù e nella conoscenza dei pericoli d'amore profano.
Non sussiste infine l'ipotesi
dello Zapperi che in sostanza vedrebbe
da una parte il Pontefice Clemente VIII come un "braghettone", che
passa il proprio tempo a coprire le nudità delle statue in Chiesa e a cacciare
le donne di malaffare dall'Urbe, e dall'altra parte i Farnese tutti intenti a
far dipingere la Galleria Farnese per dispetto al Papa (). Oltre agli specifici riferimenti presentati
in questa sede (),
si veda ora la monografia di Stefania Macioce, che chiarisce la vera
personalità del Pontefice in rapporto alle arti al di là dei pregiudizi della
critica contemporanea ().
Per comprendere il valore del
nudo nella Galleria Farnese, peraltro molto limitato, basta leggere l'epistola
di Antonio Agustin, Arcivescovo spagnolo molto amico di Fulvio Orsini: « Io
dubito che bisogni sotterrare tutte le statue ignude, perchè non venga fuori
qualche riformatione di esse. et certo parevano male quelli termini maschij
della vigna di Cesis et di Carpi et quel hermafrodito col satyretto nella
cappella, et altre pitture in casa d'un altro senatore patrone del famoso
Mario. et la vigna di papa Giulio terzo con tante Veneri et altre lascivie che
se bene alli studiosi giovano, et alli artefici, li oltramontani si
scandalizano bestialmente, et fama malum virum acquirit eundo. Così va perdendo provincie la nostra urbs
alma Regina provinciarum Moribus
antiquis res stat Romana, virisq. disse Ennio, oraculo che dura tuttavia. Santagostino de civitate dei a 56 carte e
meza della stampa vecchia vecchia assai » (). Nella frase « se bene alli studiosi giovano
» c'è tutto il valore dell'umanesimo romano del Rinascimento, dove la
classicità è modello per le arti e la cultura. Fraintendere l'umanesimo farnesiano equivale ad annullare il
valore fondante del classicismo dei Carracci fino al Poussin, a considerarlo
lettera morta. Ma i fatti dimostrano
il contrario: la Galleria dei Carracci è un'opera d'avanguardia concettuale,
che s'inserisce armoniosamente e tempestivamente nel cuore stesso del pensiero
e dell'arte contemporanea, con i suoi riferimenti contenutistici e formali al
genere epitalamico e soprattutto al nascente melodramma.
Il valore ultimo della Galleria
dei Carracci sta nell'equilibrata complessità del rapporto di contenuto e
forma; nell'alchimistica distribuzione dei generi, dal concettismo
all'emblematica, dall'epitalamio al melodramma inclusa la tragedia; nella
costruzione diretta ad un fine morale, quello propugnato dalla Controriforma,
senza però dogmaticità e senza il tradimento di un retaggio umanistico
secolare.
CAP. 16
Agostino Carracci e l?eclettismo
La Poetica ideal-classicista
Agostino frequentava letterati e
musicisti, esperto del nascente melodramma, era l?unico dei Carracci che
potesse proiettare i lavori della Galleria verso l?indirizzo epitalamico che le
era stato dato per volontà dei committenti.
Non a caso proprio Agostino
verrà chiamato dal duca Ranuccio a Parma per dipingere gli affreschi del
Palazzo del Giardino con chiari riferimenti epitalamici già bene individuati e
mai contestati dalla critica. Ranuccio viene infatti raffigurato come altro
Giasone, accompagnato dalla sposa-perla-Margherita.
Agostino aveva una mentalità
capace di assorbire con maggiore ricettività e creatività le istanze del duca
Ranuccio. Quindi proprio lui doveva avere avuto magna pars nella
missione di unire in una sola opera diversi generi: il celebrativo
dell?encomiastica farnesiana del duca Alessandro, l?epitalamico madrigalesco
delle nozze del duca Ranuccio, il religioso-apologetico del duca Alessandro
vittorioso sull?eresia delle Fiandre, del figlio Ranuccio Gonfaloniere di Santa
Romana Chiesa e del cardinale Odoardo. Soltanto un artista veramente aggiornato
come Agostino poteva essere al passo con i tempi.
Il lavoro d?équipe
iniziato ai tempi di Palazzo Magnani, aveva una giustificazione profonda nello
spirito e nella poetica stessa dei Carracci. La creazione dell?Accademia
degl?Incamminati cercava di applicare alle arti visive le sperimentazioni
contemporanee delle accademie letterarie e filosofiche.
I pensieri del Bocchi avevano già
in Bonasone e Fontana artefici pronti
ad esprimere le idee del maestro, ma l?esperimento di Agostino va oltre: la sua
non è un?applicazione pura e semplice dell?idea teorica del letterato. Egli
riesce a recepire le esigenze dei tempi, le istanze della Controriforma, la traditio speculativa umanistica, fermamente neoplatonica, l?innovazione
strutturale dell?Ars poetica perorata
dall?aristotelismo imperante del Torelli, la geniale ed assolutamente inedita
richiesta del nascente melodramma, che ecletticamente,
univa le arti figurative al teatro e questo alla musica ed entrambi alla
retorica, alla scienza della finzione.
Pensiamo che l?eclettismo di
Agostino vada quindi riletto in questa chiave nuova, sperimentale e tutt?altro che passatista o poco
originale.
Anzi, in un?ottica di vero
avanzamento della cultura.
È su queste basi che la lezione
caravaggesca non esclude affatto dalle innovazioni del secolo nascente
l?approccio ideal-classicista dei Carracci.
Agostino quindi come geniale
interprete, ma anche come portavoce dei Carracci, che rimangono uniti in
un?Accademia ideale e reale, che resiste alla lontananza causata dalla diaspora
romana. Non per niente la scuola, la
squadra di lavoro ?di Ludovico? non ha alcuna difficoltà ad ambientarsi con
Annibale a Roma: Albani, Domenichino e anche Reni, Guercino, Lanfranco.
Ad Agostino è demandato il ruolo
non solo e non tanto, come si potrebbe anche credere, delle ?pubbliche
relazioni?, quanto piuttosto di legante, questa volta sì, eclettico, ma in
senso lato, delle più moderne esperienze della cultura contemporanea e del
Barocco nascente.
Agostino riesce, grazie ai
contatti e agli studi intrapresi, a creare le condizioni per una nuova poetica.
É a lui che dobbiamo l?invenzione
della formula ideal-classicista, del Bellori per intenderci, che dominerà il
secolo insieme alla scuola caravaggesca del realismo-naturalistico.
Ed è anche chiaro che il mito
eclettico della cultura non poteva, per definizione, riferirsi ad un
Caravaggio. Se il fine dell?artista non è la mimesi, ma l?emulazione, secondo
lo Zoppi, il Torelli ed il Bellori; se all?artista è dato il difficile compito
di enucleare un exemplum di riferimento
che vada a filtrare il naturale per la creazione di opere perfette,
iperuraniche, è chiaro che l?artista deve cercare di formarsi un riferimento
altro dalla realtà pura e semplice.
Non bastava evidentemente la
semplice rilettura in chiave filologica dell?antico operata da un grande
conoscitore come Fulvio Orsini. L?erudizione mitologica era necessaria in un
periodo di grande evoluzione degli studi archeologico-umanistici, ma la presa
sull?animo, la passionalità, il coinvolgimento, lo stupore della nascente
poetica barocca non poteva certamente derivare dal vecchio Fulvio Orsini, che
muore esattamente, ed è veramente un segno del destino, contestualmente al
compimento della volta della Galleria, nel maggio del 1600.
Fulvio Orsini, vero genio del
collezionismo antiquario del Rinascimento, consegna ad Agostino ed Annibale la
propria erudizione con la relativa credibilità storica della narrazione della
Galleria. Manca però ancora la capacità speculativa di intendere, elaborare e
rendere estetico un sillogismo. Entra in gioco allora il Torelli, che con le
sue innegabili capacità filosofiche riesce a suggerire un contesto di
riferimento motivazionale, riesce a legare la poetica delle passioni alla
fredda archeologia di Fulvio Orsini.
Le istanze moralistiche della
Controriforma assegnano un preciso fine didattico alle immagini. Non quindi
soltanto un?autocelebrazione dinastica, non solo un?esercitazione
archeologico-mitologica, non solo una divertita esplosione di sensualità sulla
volta della Galleria.
Tutti questi elementi uniti dalla
dialettica di un sillogismo a sorpresa: Ranuccio nella Galleria è insieme
figlio di Alessandro Farnese, condottiero vincitore delle Fiandre, Gonfaloniere
di santa Romana Chiesa e rinnovatore delle imprese di Bacco, che riesce a portare
la religione in India, e, ancora, marito fedele di Margherita - Arianna, che,
in un delicato gioco di voluta indeterminazione, è sia immagine della Chiesa
sposata da Bacco-Alessandro-Ranuccio vincitore dei pagani-protestanti, sia la
nipote del Papa regnante Clemente VIII Aldobrandini.
La ricchezza della documentazione
fin qui discussa, porta alla certezza dell?interpretazione epitalamica della
Galleria, ma soprattutto alla constatazione che Agostino dovette essere
precursore di questa poetica espressa in un delicato classicismo idealistico
venato di una morbida e profonda sensualità emiliana.
Senza l?apparato concettuale
derivante dalla frequentazione delle Accademie, nè Agostino avrebbe elaborato
con Annibale tale poetica, nè lo spettatore potrebbe, oggi, comprendere appieno
il significato ultimo dell?opera.
Una lettura che non si
improvvisa, come non si improvvisa la preparazione di un così complesso
programma iconografico e di una così sofisticata poetica.
Ad un moderno spettatore
sprovveduto non rimarrebbe altro che la degustazione palatale, epidermica,
della pur erotica e coinvolgente sensualità emiliana; perderebbe però la più
complessa ed interessante unità delle arti del barocco nascente, il messaggio
di contenuto e di forma che l?opera vuole trasmettere.
E ciò non vale solo per la
Galleria, ma anche per altre opere.
I cosiddetti Amori de?Carracci, incisi da Agostino e dal Sadeler, senza la
necessaria comprensione del soggetto indicata dal Kurz e dal Puttfarken,
verrebbero lette in un?ottica stravolgente e priva di significato.
Esistono infatti diversi tipi
di realismo e di erotismo. Esiste l?erotismo ?da collezionista?, intimo e
realmente sensuale e spesso lascivo; esiste invece l?erotismo ?didattico?, da
alcuni ritenuto ipocrita, ma non sta a noi dare giudizi di merito in questa
sede, vale a dire una forma di erotismo di tipo ?catechistico?, che consiste
nel mostrare i danni derivanti dall?esercizio incontrollato dalle passioni per
evitare di cadervi.
E soltanto l?applicazione di
sovrastrutture moderne e superficiali può far scambiare come storico un
siffatto pre-giudizio, che dà per scontata una malizia inesistente. Non che non esistessero opere veramente
profane, direi licenziose, anche nella produzione di Agostino, ma queste sono
facilmente individuabili, entrano in una produzione destinata a privati, che
nulla ha in comune con la grande rappresentazione degli affreschi di corte.
Il fine moralistico di alcune
opere carraccesche non va inoltre inteso come di massa, come pubblico, alla
Paleotti, per intenderci. Non si tratta di educazione delle masse, ma del
Principe, ancora cioè nella tradizione dello studiolo rinascimentale, luogo
privato di contemplazione.
Ovviamente la lettura dello Psafone
dello Zoppi e dell?Etica di Aristotele del Torelli non dà elementi utili
a comprendere la Comunione di San Girolamo di Agostino, ma si inserisce
nel più ampio quadro della formazione della poetica ideal-classicista.
In questa chiave di lettura
rimarranno sempre degli episodi apparentemente spurî, ma in realtà ben
comprensibili. Gli esperimenti realistici dei Carracci, quali il mangiafagioli
di Annibale, ma anche certi studî e disegni e ritratti di Agostino, che si
rifanno ai Mangiatori di Ricotta dei Campi segneranno una strada per un
realismo diverso da quello caravaggesco, tutto meditato e quasi elegiaco. Il
ruolo di Agostino nella fase di messa a punto della poetica ideal-classicista,
può consistere dunque nella proposta di una via ?torelliana? e quindi
aristotelico-controriformata della mediazione degli affetti, cioè quella reductio ad unum, che negli anni dei
Palazzi Magnani e Sampieri ancora non si era affermata e che continua ad
esistere anche fuori della Galleria, a Parma, nel Palazzo del Giardino, e nella scuola, con Domenichino ed Albani.
REPERTORIO DELLE FONTI MANOSCRITTE
[RFM doc. 13; SCH001, COL008]
SCHEMA DEI MANOSCRITTI CONSULTATI DURANTE LA MISSIONE A
PARMA PER STUDIARE LA GALLERIA DEI CARRACCI IN PALAZZO FARNESE A ROMA (RIC.5)
ARCHIVIO DI
STATO
01 04.06.1992 (01) CFE: Roma 1592-1594, n°410.
02 idem id.: Roma 1595-1596, n°411.
03 id. id.: Roma 1597-1598, n°412.
04 05.06.1992 (02) id.: Roma 1599, n°413.
05 id. id.: Roma 1600, n°414.
06 id. id.: Roma 1601-1602, n°415.
07 06.06.1992 (03) CFI:
gen.-mar. 1594, n°184.
08 id. id.:
apr.-giu. 1594. n°185.
09 08.06.1992 (04) id.:
lug.-ago. 1594, n°186.
10 id. id.:
set.-ott. 1594, n°187.
11 id. id.:
nov.-dic. 1594, n°188.
12 09.06.1992 (05) CASA E
CORTE FARNESIANE, S.II, b.21.
13 10.06.1992 (06) id.: S.II, b.22.
14 id. id.: S.II,
b.24.
15 id. id.: S.II, b.25.
16 id. CFI:
gen.-mar. 1595, n°189.
17 id. id.:
apr.-mag. 1595, n°190.
18 11.06.1992 (07) id.:
giu.-ago. 1595, n°191.
19 id. id.:
set.-ott. 1595, n°192.
20 id. id.:
nov.-dic. 1595, n°193.
21 id. RACCOLTA MSS., n°86.
22 id. id., n°83.
23 id. id., n°128.
24 12.06.1992 (08) CFI:
mar.-apr. 1591, n°171.
25 id. id.:
gen.-mar. 1596, n°194.
26 id. id.:
apr.-giu. 1596, n°195.
27 id. id.: lug.-ago. 1596, n°196.
28 id. id.:
set.-ott. 1597, n°197.
29 id. CFE: Bologna 1578-1600, n°194.
30 13.06.1992 (09) CFI:
nov.-dic. 1596, n°198.
31 id. id.: carteggio Riva 1596-1610,
n°198.
32 id. id.:
gen.-mar. 1597, n°200.
33 15.06.1992 (10) id.:
apr.-giu. 1597, n°201.
34 16.06.1992 (11) id.:
lug.-set. 1597, n°202.
35 id. Famiglie/MASI/Lettere di
Cosimo Masi.
36 id. Famiglie/MASI/Varie.
37 id. CFI:
ott.-nov.1597, n°203.
38 id. id.:
dic. 1597, n°204.
39 id. id.:
gen.-mar. 1598, n°205.
40 id. id.:
apr.-giu. 1598, n°206.
41 id. id.: lug.-ago. 1598, n°207.
42 17.06.1992 (12) id.:
set.-ott. 1598, n°208.
43 id. Archivio TORELLI, b.18
(Epist.Pomponio).
44 id. CFI: nov.-dic. 1598, n°209.
45 id. id.: gen.-apr. 1598, n°210.
46 18.06.1992 (13) id.:
mag.-lug. 1599, n°211.
47 id. Archivio TORELLI, b.20.
48 id. id,
b.21.
49 id. CFI:
ago.-set. 1599, n°212.
50 id. id.:
ott.-nov. 1599, n°213 + Riva.
51 id. id.:
dic. 1599, n°214.
52 id. id.:
gen. 1599, n°215.
53 25.06.1992 (14) id.:
feb.-mar. 1599, n°216.
54 id. MASTRI
FARNESIANI, vol.11, anni 1591-92.
55 id. CFE: Macerata 1570-1800, n°166.
56 id. TESORERIA E COMPUTISTERIA
FARNESIANA b.9,
fasc.307.
57 26.06.1992 (15) CFI:
apr.-mag. 1600, n°217.
58 27.06.1992 (16) id.:
giu.-lug. 1600, n°218.
59 id. id.:
ago.-set. 1600, n°219.
Abbreviazioni:
CFE: Carteggio farnesiano estero.
CFI: Carteggio farnesiano interno.
Sono stato
aiutato e consigliato da
* PIER LUIGI FELICIATI
dell'Archivio di Stato: composizione e struttura archivi.
* GABRIELE NORI dell'Archivio
di Stato: Pomponio Torelli.
* ALDO SPINA laureato alla
Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano con il Prof. Dezzi Bardeschi
ed il Prof. Bruno Adorni come correlatore.
* Prof. BRUNO ADORNI della
Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano.
* Dott.ssa CATIA ZAMBRELLI
storica dell'Arte, della Biblioteca Palatina: Umanesimo a Parma nel
Rinascimento, bibliografia e fonti; i fondi mss. della Palatina; etc.
* Dott.ssa NICOLETTA AGAZZI
della Biblioteca Palatina.
* Dott.ssa LUISA SPOTTI della
Biblioteca Palatina.
BIBLIOTECA
PALATINA
01 02.06.1992 (01) MS.PARM.348 Poesie di AA.VV. e Torelli
02 id. MS.PARM.3716 Album disegni,ritratto Masi
03 03.06.1992 (02) MS.PARM.1562 BERNARDI, Fucina di Pindo
04 id. MS.PARM.306 Poesie in morte Al.Farn.duca
05 id. MS.PARM.1198 In obitu Card.Alexandri
06 15.06.1992 (03) MS.PARM.62 P.TORELLI, Gli scherzi con glosse
filosofiche
07 id. MS.PARM.637 EIUSD., Varia con indice libri del Torelli
08 20.06.1992 (04) MS.PARM.1428 ANGELETTI, Vita di P.Picedi
09 id. MS.PARM.592 Lettere diplomatiche Roma- Venezia 1591-1592.
10 23.06.1992 (06) FONDO
ORTALLI 15
11 id. id. 17
12 id. id. 18
13 id. id. 19
14 id. id. 49
15 id. id. 50
16 id. CARTEGGIO
ALESSANDRO FARNESE, cassetta 105
[RFM doc. 50, EPI055, AGU003]
GIOVANNI BATTISTA AGUCCHI, [Epistola
a Ranuccio I Farnese duca di Parma e Piacenza con la quale rinnova la propria
fedeltà],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno: novembre - dicembre
1596, cassetta 198.
Ser.mo mio Sig.re et p[at]ron col.mo
Ritrovandomi qua incaminato per Roma, ne permettendomi gli ordini,
ch'io tengo di là di potermi fermare ad aspettare il ritorno di V.A. Ser.ma
bench'io mi trovassi obligato di baciarle humilm.te le mani di presenza et
significarle più apieno la divotione e gli oblighi infiniti, che Mons.re mio
fr[at]ello et io e la casa nostra teniamo con l'A.V. e'l desiderio grand.mo che
abbiamo di servirla, ho nondimeno preso ardire confidato nella sua molta
benignità, et spinto come da necessità di supplire a parte di questo debito col
mezzo della p[rese]nte con farle humilissima riverenza, et raccomandare alla
protettione di V.A. e le persone e le cose nostre, non havendo noi maggiore
interesse, che di continuare nel luogo e possesso di servitù ottenutoci
appresso la Ser.ma sua persona dal Car.le nostro Zio di buo: mem:a ser.re ()
di tanti oblighi et divotione all'A.V. quanto ella med.ma sa: Io la supplico
però ad essere servita d'aggradire questo picciol segno dell'affetto mio, che è
il med.mo con quello di mio fr[at]ello, et di restare persuasa, che non
riceveremo mai piu segnalati favori che quando ella si degnasse d'honorare de
suoi comandamenti, et riverentem.te me le inchino.
Di Parma li 14 di Dicembre 1596.
Di V.A. Ser.ma Humiliss.o et Divotiss.o Ser.re
Gio[vanni] Batt[ist]a Agocchia
Al Ser.mo mio Sig.re et p[at]rone col.mo
Il Sig. duca di Parma
[RFM doc. 6, EPI014, AGU002]
ANTONIO AGUSTIN, [ Epistola a Fulvio Orsini sull'utilità delle
statue antiche a soggetto erotico per gli studi antiquariali ], Città del
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 4105, fol. 245 v.
[fol.245 v.:] Al Granvelano senatore ()
(come dice il Salvago, dil quale non credo che si trovi altro che il naso in
questo Pontificato) basiate la mano in nome mio: et domandateli se sa cosa
alcuna del mio Giovan Metello.
Bisogna che il vostro patron ad ogni modo agiuti M. Pirro ()
per poter mandar fuori tanto belle fatiche delle antiquità purchè lasci da
canto la sua Faustina, se qualcuna habbia, che ora mai è tempo.
Io dubito che bisogni sotterrare tutte le statue ignude, perchè non
venga fuori qualche riformatione di esse. et certo parevano male quelli termini
maschij della vigna di Cesis et di Carpi et quel hermafrodito col satyretto
nella cappella, et altre pitture in casa d'un altro senatore patrone del famoso
Mario. et la vigna di papa Giulio terzo con tante Veneri et altre lascivie che se
bene alli studiosi giovano, et alli artefici, li oltramontani si scandalizano
bestialmente, et fama malum virum acquirit eundo. Così va perdendo provincie la nostra urbs alma Regina
provinciarum Moribus antiquis res stat
Romana, virisq. disse Ennio, oraculo che dura tuttavia. Santagostino de civitate dei a 56 carte e
meza della stampa vecchia vecchia assai.
Haec hactenus. La mano al
patron, la bocca alli amici.
Vale a XII di Novembre del LXVI
di V.S. sing.ma
A.A. Ilerd. ()
[fol.246 v.:] Al molto mag.co e Rev.do signor
mio
M. Fulvio Ursino a Roma
[RFM doc.49, EPI054,ALB008]
ALBERTO ALBERGATI, [ Epistola a
Ranuccio I Farnese duca di Parma e Piacenza con la risposta positiva alla
richiesta del duca di avere il dottor Gallesi in Parma per leggere Logica e
Morale ad Odoardo Farnese ], Parma, Archivio
di Stato, Carteggio farnesiano estero: Bologna 1578-1600, n.194.
Ser.mo Sig.or p[at]ron mio Col.mo
Inteso dalla l[ette]ra di 16 il desiderio dell'Alt.a V. Ser.ma,
confirmatomi anco dalli ss.ri Camillo Paleotti, et Fabio Albergati ho preso
sigurtà di dar licenza al Dottore Galesi di venire per tutto il mese di Maggio
prossimo a leggere la logica e le Morali all'Ecc.mo s. Don Duarte
suo fr[ate]llo, con speranza di conseguirla poi anch'io da q[ue]sto senato in
occ.ne di buon'numero, non potendo credere et perciò no[n] prometto cosa certa,
che per l'osservanza di detto senato verso l'Alt.a v[ostr]a S. Don Duarte, et
della loro ser.ma Casa per li tanti oblighi che le conservano, siano mai per
mancare, send'io mass. per farme molta instanza: onde la supp.co a favorirmi
d'altri suoi commandam.ti.
Et le bacio riverentem.te le mani
Di Bol.a [: Bologna] li xxi Aprile MDXC
Di V.A. Ser.ma Humiliss. et
divotiss. ser.re
Alb.to Alb.gati [: Alberto Albergati]
[RFM doc. 48, EPI053, FAR006]
FABIO ALBERGATI, [ Epistola a
Ranuccio I Farnese duca di Parma e Piacenza di accompagnamento per il Dottor
Galesio di Bologna che viene in Parma come maestro di Odoardo Farnese ], Parma, Archivio di
Stato, Carteggio farnesiano estero: Bologna 1578-1600, cassetta 194.
Ser.mo Sig.re
Il Dottore Galesio alla ricevuta delle l[ette]re di V.A. otten[ne
sub[it]o licenza, come ben conveniva, di potere servire all'A.V., et all'Ecc.mo
Don Duarte (). Et così egli sarà l'appresentatore di
questa, et spero, ch'el suo servitio mostrarà che V.A. havrà fatta ottima
elettione della persona sua. Et con
questa occ:e poi ricordando co[n] ogni humilta all'A.V., che riceverò sempre
per gratia singolariss.a di poterla servire p[er] quanto s'estendono le mie
debili forze, et rimettendomi a quello, che sop[r]a cio potrà di più dire il
sudetto bascio riverente la mano di V.A. et prego N.S.re Dio, che conservi
co[n] piena felicità la sua sereniss.a persona.
Di Bologna alli 23 di Aprile 1590
Di V.A. ser.ma
Humiliss.o et divotiss.o
S.re
Fabio Albergati
Al Sereniss:o sig.re il S.or Principe di Parma, etc.
[RFM doc. 105,
EPI074, ALD001]
Card. CINZIO
ALDOBRANDINI PASSERI, [Epistola a
Ranuccio I Farnese duca di Parma con la risposta positiva alla di lui richiesta
di intercedere presso il Nunzio di Venezia perchè Sforza Oddi possa leggere
nello studio di Parma],
Roma, Archivio Doria Pamphili, Fondo Aldobrandini, busta 6, carta 193.
[carta
193 r.:]
Ser.mo
S.r mio oss.mo
Al
S.r Duca di Parma
Scrivo
al Dottore Sforza Oddi così efficacemente, quanto ricerca l'obbligo, ch'io
tengo, di servire in ogni cosa V.A. et riveverà qui aggiunta la lettera insieme
con un'altra egualm.te efficace, p. il Nunzio di Venetia, che è pure conforme
al mem.le che l'A.V. mi ha inviato, p. impetrare licenza al med.mo Oddi da quei
SS.ri di venire a leggere costì. Ma
conoscendo io la natura della persona, che s'appiglia volentieri a nove
rissolutioni, credo che se pure V.A. sarà sicura d'haverlo, no[n] sarà però
sicura di ritenerlo longo tempo, e vorrei ingannarmi p.servitio di V.A. alla
quale bacio con ogni affetto le mani.
Della
stradella li 19 d'ottobre 1600.
Di
V.A. ser.ma
Ho
scritto efficacem.te al sud. Sforza in nome mio particolare ma in nome di N.
S.re non havendo qua ordine di ciò supplico V.A. a scusarmi se no[n] posso
pigliarmi questa sicurtà ma egli invia [?] scrivergli busta.
[carta
193v.:] [Il foglio è cancellato con segni di penna obliqui ma rimane
perfettamente leggibile. A lato è
scritto:] questa non serve.
Al
Nuntio di Venetia.
Molto
ill.re e molto Rev.do S.re come fr.llo.
Il
S.r Duca di Parma mi fa grand.ma istanza, perchè io vogli fare uffitio con
cotesti SS.ri per impetrare libera licenza al d. Sforza Oddi di venire a
leggere nello studio di Parma, et sapendo V.S. il desiderio, et l'obligo, che
tengo di servire S.A. la prego a fare questo uffitio a nome mio così efficacem.te,
che se ne possi ottenere l'effetto, che S.A. desidera, et quando pure no[n]
volessero darli la licenza libera, si contentino almeno di concedergliela p.
due anni,, che oltre che me ne riputerò particularm.te favorito la ne havrò
loro molto obligo et V.S. procuri che S.A. resti servita et a lei mi offero et
raccomando.
Della
stradella li 19 d'ottobre 1600.
Come
fr.llo aff.mo
Mons.r
Offredi Nuntio di Venetia.
[RFM doc. 3, EPI011, ALD004]
TOMMASO ALDOBRANDINI, [ Epistola a Fulvio Orsini sulla traduzione
di un testo greco di controversa interpretazione ], Città del Vaticano,
Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 4104, fol. 252 r.:
[...] Quanto all'ult.°
par che il senso sia assai chiaro in universale; cio è che è cosa
bella essere amato amando o vero, et questo mi piacerebbe più, è cosa
bella a essere amato in compagnia di chi ha amato, in modo che il
participio, il quale vorrei che fussi il participio del primo aoristo [fol.252
v.:] medio[SC1], si
referisse a Lucifero, al quale si parla et così l'ordine della struttura fussi
questo è però quello che m'è
venuto in mente mentre rispondo alla lettera di V.S. così quasi all'improvviso.
Nondimeno ci penserò un poco meglio et ne ragionerò con qualcuno che
ne sappia più di me, et ne avviserò V.S. alla quale con tutto il core mi
raccomando.
Di Roma alli XXVIIII di Ago.1567
Di V.S. Serv.re Tommaso Aldobrandini.
[L'epistola è indirizzata a Caprarola]
[RFM doc. 70, THO002,
ALD004]
TOMMASO ALDOBRANDINI, Francisco
Davanzato in obitu Raynutii Farnesii Card.lis S.ti Angeli,
1566. Roma, Biblioteca Casanatense, Ms. 2407.
[carta 84v.:]
Venit igitur mihi in mentem illius extremae coenae, quam ille dedit
discipulis suis; extat enim ea de re evangelium, neq[e] vestrum quisquam est,
qui illud ignoret, itaq[e] verta ipsa praetermictam, nec enim me libere laquit
sinit morbus; sed ut dicere institueram animos vestros ad earum rerum memoriam
revocabo; quas ille in ea coena discipulorum suorum memoriam revocabo; quas
ille in ea coena discipulorum suorum memoriam tradidit. Illud etiam occurrit, quod Marcellus
secundus Pontifex Maximus in quadam epistolam posuit, in qua nos in vita sumus,
in bivio esse commemoravit, ut et recte et male agere possimus. Quamobrem vos hortor ut bene christianeq.
vivatis, in eaq. re omnem cautionem, et prudentiam adhibeatis, cum enim in
nobis sive in Principum aulis, sive alio quovis modo vivendum sit , multa
ubiq[ue] [carta 85r.:] vobis imminebunt pericula, Date igitur operam actiones
vestrae ut eiusmodi sint, ut vim eo progressi eritis, quo me progressus esse
videtis, salutis vestrae firmam spem habere possitis.
Facite vobis periculum ex me, qui cum tot tantisq[ue] a Deo beneficiis
affectus dignitatibus ornatus facultatibus locupletatus abundarem et beatus
essem repente mori, atque hac omnia relinquere cogor. Illud tamen vobis, mihi credite, pro certo affirmare possum, me
nisi quod de animae salutae sollicitus sim, caetero quin mortem, quam mihi
impendere sentio. nihil factum fuisse, quamquam enim nullo me meo merito, sed
Dei misericordiam salvum me fore spero.
Tamen donec vita superest numquam a periculo tuti sumus, equidem spero
me quod salutarem hunc animae cibum in hanc diem distulerim, a vobis pusilli
animis culpam neq[ue] diffiteor et facile agnosco quamquam id ex eo natam esse
videri potest [carta 85v.:] quod mihi numquam mortis periculum aperte
denunciatum est, sed ego neminem accuso, scio enim unum quemq [...]
[RFM doc. 94, AVV026,-]
[Avviso di Roma del 5 maggio 1599], Città del Vaticano,
Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1067.
[carta 284r.:] [...]
Ho inteso discorrere da uno affettionato della Casa Farnese, che co[n]
la tornata delle galere di Spagna si potrebbe havere qualche nuova della sposa
che havrà da essere del Duca di Parma accen[n]ando co[n] questo modo di dire
che tal volta potrebbe venire con dette galere la sposa, et tornano su in quel
che si disse già, che sia un fig.la del Re morto, ma sarebbe andata molto
secreta se questo fusse, ma potrebbe essere più presto che co[n] l'arrivo di
d.e galere il Duca potesse haverne qualche rissolut.ne sebene dall'altra banda
in casa del Card.l di [carta 284v.:] questo nome han[n]o aviso sicuro, che
l'Amb.re del Duca loro no[n] era stato anco spedito, et erano stati spediti
tutti gli altri.
[RFM doc. 97,
AVV029,-]
[Avviso di Roma del 2 agosto 1599], Città del
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb.Lat.1067.
[carta 499v.:]
[...]
Non li scrissi
la settimana passata, del maritaggio del Duca di Parma co[n] la P°genita del
S.or Gio.Franc.o Aldob.ni perchè non pareva che il mondo lo potesse credere p.
le molte sproportioni et di età et di altro, tuttavia [carta 499r.:] essendo
per la gente la voce tanto ava[n]ti, che no[n] si può tacere senza esser
notato, però si scrive et in eff., tutta Roma lo dice, et comincia a credere sì
bene no[n] se ne può dar pace, la dote dicono di 300m. scudi, di q.ali N.S.re
ne fa donativo di 200m., et del resto provede 50m. scudi il Card. Aldob.ni et 50m. il Pad[re].
Tutta Roma come
ho detto di sopra è piena di questo maritaggio, et in eff. Il Card.le farnese
sono tre o quattro matt.e che co[n]tinuam.te è andato a palazzo, et ultim.te
l'altra matt.a vogliono andasse a fare soscrivere il chirografo et che il Duca
di Pama voglia esser in Roma ad 8.bre p. questo se bene se ne andrà p.a alla
S.ma Casa di Loreto a piedi p. il voto fatto nella sua infermità, il che fa
che facci tutt.a creder q.sto maritaggio ma dall'altra banda il mondo no[n] par
che lo possa [carta 499v.:] credere co[n] dire, che no[n] ci è parità alc.a
di tempo perchè il duca c'homai di 34 anni, et la zitella di 12 appena, et
che farnesiani dove che sono molto amati in Roma casceriano quasi in odio di
questa città, et che potrebbe più tosto pigliar la nipote del Gra[n]Duca ma il
fatto sta se il Gran Duca hora gli la vorrebbe dare, che ha le speranze più
alte co[n] il Re di Francia, et che in som[m]a Farnese no[n] è vecchio
cardinale che possa aspirare al Pontificato, et che no[n] è hora in principio
di Pontificato ma per ragione presso al fine se bene gli Aldob.ni se lo tengono
p. sicuro anco nove altri anni per almeno, et q.ste sono le ragioni che il
mondo dice dall'altra banda che farnesiani no[n] lo dovevan ar q.sto parentado
ricordando inoltre essere stato [carta 500r.:] nel Principio del Pont.to
maltrattati, et che il Sig. Gio. Franc.o è stato lor fattore dello stato di
Castro, et che mai potè impetrar titolo di Agente, ma q.ste sono parole, et i
fatti sono fatti, perchè si ha per conchiuso, et tutto hoggi ho tenuto q.sto,
ma verso il tardi no[n] ho trovato q.lla certezza che ci era già, et no[n] ne
potrebbe ne anco esser niente.
Gli Spag.li ho
bon rincontro, che no[n] ne san[n]o nie[n]te ne credo la fingano, et però mi fa
credere che non ne sia altro, tutt.a vogliono, che questo Re habbi lasciato al
Duca la briglia su le spalle et facci a suo modo.
[...] [carta
502r.:]
Si era
dimenticato di scrivere un'altra ragione, che dice il mondo, mediante la q.ale
il Duca di Parma no[n] deve far il parentado, et è che il S.r Gio. Fran.o ha da
4 altre fig.le et che le altre bisognaria darle a merca[n]ti, ma si pensa
dall'altra banda vive[n]do il vecchio, che ci sono i fig.li delli duchi di
Mantua et Modena, ma no[n] vengono forasi [sic] così facilm.te q.te cose.
[RFM doc. 99, AVV031,-]
[Avviso di Roma del 30 ottobre
1599],
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1067.
[carta 651r.:] [...]
Il Duca di Parma arrivò allo stato la sera che si scrisse, et dicono
sia venuto da Parma a Loreto a piedi in sette giorni, co[n] tre p.sone solam.te
et co[n] un sacco da campagnia, che secondo alcuni qua dicono essersi messo
a troppo rischio, [carta 651v.:] Voglione bene, che hiersera incognito et
secretam.te fusse dal Papa, il quale no[n] è maraviglia, che diede hiersera
publica audienza, et stava molto allegram.te come quel che aspettava et si dice
anco, che di già a d.o Duca siano stati pagati a conto della dote li 200m.
scudi accennati co[n] le passate.
[RFM doc. 100, AVV032,-]
[Avviso di Roma del 3 novembre
1599],
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb.Lat.1067.
[carta 661r.:]
Se bene quelli di Palazzo, et quelli anco di casa Farnese lo negano,
tutt.a è publica voce per Roma, che il Duca di Parma fusse venerdì sera pass.o
a baciar il piede al Papa, et che il giorno seguente fosse anco andato a
visitar il S.or Gio. Franc.o et le don[n]e di casa, sendosi poi partito al
ritorno a Caprarola, et di là se ne torna verso Parma, donde poi partirà cum
modis et formis al principio dell'altro mese per essere qua all'aprir della
porta dell'anno santo.
Il S.or Gio. Franc. Aldobrandino dicono se ne sia passato a Caprarola
per abboccarsi et visitarsi con D.o Duca se bene sarà andato di campagnia, ma
in questo modo potran[n]o tener più facilm.te occultata la venuta di d.o Duca
in Roma.
[RFM doc. 102,
AVV034,-]
[Avviso di Roma del 20 novembre 1599], Città del
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1067.
[carta 715v.:]
[...]
Questi
farnesiani hanno avviso, chel Duca di Parma sarebbe qui al princ.o di Decembre,
et per comparire con magg.r decoro, condurrebbe la sua stalla de Cavalli di
molto prezzo, dovendo S.A. trovarsi p.nte alla cerimonia d.lla
porta s.ta, p.chè nell'aprirla debba p.ntare a S.S.tà il
Martello come Confalloniero di S.ta Chiesa.
[RFM doc.90, AVV022,-]
[Avviso di Roma del 16 febbraio
1600],
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb.Lat.1068.
[carta 109r.:]
Il Duca di Parma, tornato in d.a Città di Parma come si è scritto
essendo a capo di Monte luogo del Ducato di Castro fece venir cavalli dando da
intendere volere essere a Caprarola, et poi si mise in viaggio p. Parma non
menando seco che il S.r Mario Farnese, et due altri de suoi gentilhomini in
posta, havendo lasciato qua il resto della famiglia, sicome è restato il
Card.le suo fr.ello a Caprarola.
[RFM doc.92, AVV024,-]
[Avviso di Roma del 15 aprile
1600],
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb.Lat.1068.
[carta 227r.:]
Non diede altrim.te mercordi matt.a il Card.l Farnese da desinare al
V.Re, perchè S.E. pregò che si tardasse fin alla matt.a appresso et così fu
fatto, il che è stato causa poi, che il S.r Martio no[n] habbia fatto il suo
banchetto, nè lo farà altrim.te p.chè N.S.re si intende habbia prohibito il
pasteggiar più.
Il trattenimento poi, che si diede dopo il desinare in Casa del
sud.o Ill.mo no[n] fu di altro, che andar a vedere le
tante curiose et antiche cose del S.or Fulvio Orsino, che in
vero fu un trattenimento molto più bello, et più virtuoso delle caccie, et di
altre cose simili.
[RFM doc. 93, AVV025,-]
[Avviso di Roma del 26 aprile
1600],
in: Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1068.
[carta 253r.:]
Hiermatt.a solennità di S.Marco si fece la solita g.le processione, et
no[n] si fece altrim.te come si credeva lo sponsalitio del Duca di Parma,
che hora dicono sia prorogato a Dom.a pross.a.
Intanto S.A. hoggi se n'è passato a Grotaferrata a diporto p. questi
pochi giorni.
Lunedì S.A. co[n] il Card. Farnese suo fr.llo furono a desinar da P.ri
Iesuiti, li quali si intende habb.o all'ordine una belliss.a tragedia sp.uale
alle mani p. recitarla a d.a A. talvolta Dom.ca havendola l'altro hieri
recitata anco [carta 253v.:] fra di loro per prova.
Il sud.o Ser.mo in luogo delle sue nozze hieri andò in un festino che
fece far p.le sue nozze un nipote del P.re Mazzarino, che ha preso moglie qua,
essendovi oltre il d.o Ser.mo stati a d.o festino anco il duca di Sessa et
quasi tutti questi Primarij sig.ri della Corte.
[RFM doc.76,
AVV008,-]
[Avviso di Roma del 6 maggio 1600], Città del Vaticano, Biblioteca
Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1068.
[fol.294v.:]
Il sponsalitio
del Ser.mo di Parma è differito dimani, havendo S.A. p[rese]ntato questa
sett:na alla sua sposa un collaro di gioie, e particolar.te di diamanti, e
rubbini, stimato 200m. s.di preparandosi dall'Ill.mo Aldobrandino un
solenniss.o banchetto, et dalli padri Giesuiti una tragedia intitolata il
martirio di San Clemente Papa, nella q.le li recitanti saranno da 300 et
l'intermedij, et apparati di spesa d più di 3m s.di q.al nozze finite S.A. si
transferirà alli 20 del corrente a Parma.
[RFM doc. 72, AVV004,-]
[Avviso di Roma di mercoledì 10
maggio 1600],
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1068, cc.281r. -
290r.
[carta 281r.:]
Dom.ca matt.a N.S.re dopo aver detto messa nella Capella di Sisto fece
lo sponsalitio del duca di Parma, et della fig.la del S.or
Gio.Franc.o Aldobrandini sendoci stati presenti alla cerimonia
oltre 30 Car.li fra quali tutte le sue Creat.re di questo Papa quelle di
Gregorio xiiij et il Card. Montalto ed alcuni de suoi; finita detta cerimonia
restarono a desinar co. S. B.ne la sposa et questa hebbe il primo luogo a
tavola dopo il Papa, la madre della sposa era la 2.da sedeva nel terzo luogo la
Nonna madre del card.le Aldob.no et dopo soccedevano Il Card. Farnese et il
Duca lo sposo; et finito il desinare la sposa se ne tornò a casa del P.re et
p.che si era confessati et co[m]municati quella matt.a S.S.tà non volse
consumasse il matrim l'istessa sera [fol.281v.:] ma la seguente come han fatto.
Intendendosi che il Duca si sia portato da buon Cav.re come egli è et
che giudicando doversi partir presto non habbia voluto perder tempo di correre
delle poste, le quali se bene non fisando certo, tutt.a dicono di quattro, è
ben vero, che S.A. la sera non volse cenare, et solo seco fece un poco di
colat.ne et fu serbato tutto l'apparecchio p. la mattina seguente.
Hoggi d.o Ser.mo è andato co[n] due carozze alle quattro Chiese, et
dimatt. a si dice tutt.a che partirà verso Parma et per andar a ricever la
sposa, che le sarà condotta, come si è scritto altre volte.
[...]
[RFM doc.73, AVV005,-]
[Avviso di Roma di sabato 13
maggio 1600],
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1068.
[carta 288v.:]
Il Ser.mo di Parma ()
non è partito, et si intende habbia prorogato l'andare p.lunedi
matt.a. Il che non deve dispiacer
punto alla sposa. [...]
[ non vi sono altre notizie riguardo agli sposi ].
[RFM doc.74, AVV006,-]
[Avviso di Roma del 17 maggio
1600],
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1068.
[carta 295v.:]
Il duca di Parma havendo cominciato ad inviar la sua famiglia
lunedi matt.a egli similmente si mosse in poste [?] la matt.a segue[n]te alle 7
hore et hora si va qua mettendo all'ordine p. condurre la sposa che si disse
hora, che ce la condurrà anco il s.or Gio.Franc.o.
Il sud.o Duca la prima sera che entrò in Camera a dormir
co[n] la sposa portava un cappotto belliss.o di valuta di oltre 2m. scudi co[n]
tutto il vestito, che dicono l'hebbe il Cav.r Clemente al quale poi S.A. fece
donar mille doppie [carta 296r.:] per rihaverlo, sono mancie solite di farsi in
simili attioni, et li vestiti della sposa, che dicono valevano da 3m. scudi
dicono gli habbia havuti la sorella 2.do genita, et N.S.re donò due Cavalierati
al S.r Gian[n]ozzo Capparelli Agente et favorit.mo del s.or Gio. Franc.o che fu
il p.o a dar la nuova a S.S.tà sicome gli sposi havevano confermato il
matrimonio, et infine in simili allegrezze ci è da star bene per molti.
N.S.re Dom.a sene andò alle quattro chiese a far il suo solito
esservitio, ma dapoi che si è partito il duca di Parma in Palazzo si batte la
ritirata, il che è signo, che si sta bene, ma è male di podagra, tutt.a secondo
alcuni, si scorge che S.B.ne amava molto di core [carta 296 v.:] il Duca,
poichè n[on] p.a ()
partita S.A. che S.B.ne si è am[m]alata.
Che il male poi sia di nessun mome[n]to si scorge da questo, che il
Card.l Aldob.no si va tutt.a mettendo, et facendo mettere all'ordine quelli che
hanno da andar seco in Francia. [...]
[RFM doc. 77, AVV009,-]
[Avviso di Roma del 21 maggio
1600],
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb.Lat.1068.
[carta 324r.:]
Scrivono di Bologna che si facevano molti apparecchi p. ricever la
sposa dil D.a di Parma che vi si trattenerà 3 o 4 giorni con
pensiero in quei SS.ri di farli feste et giostre solenniss.e
[RFM doc. 75,
AVV007,-]
[Avviso di Roma del 23 maggio 1600], Città del
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat.1068.
[carta 309r.:]
[...]
Dom.a matt.a
per mano di S.B.ne fu fatto il sponsalitio del D.a di Parma con
l'Aldobrand.a in la Cap.a de Sisto alla presenza di tutte le
creature di N.S. quelle di Gregorio xiiij et delli Card.li Sforza Montalto et
S.ti 4 sendo le loro Alt.e vestite superbissimam.te di tela d'argento, et in
partc.re il D.a haveva nella sua beretta un centurino con diamanti et altre
gioie di grandiss.o valore et la sposa quel belliss.o gioiello donatoli
ultimam.te dal suo Consorte et dopo haver S.B.e fatta la cerimonia dell'anello
celebrata messa communicati li sposi et fattoli il sermone matrimoniale si
compiacque incontenerli a pranzo nella Galeria sedendo in una tavola lontana
doi palmi da quella di S.B.e p.ma il Card. Farnese poi la sposa dopo il
sposo appresso la S.ra Olimpia madre
della sposa et in ult.o la S.ra Flaminia madre del Card. Aldobrandino havendo
l'Ecc.mo S.r Gio. Franc.o con altri parenti pranzato con d.to Aldobrand.o non
tacendo che S.S.tà con molta amorevolezza spesso mandava a p.ntare qualche
gentilezza della sua mensa non solo alle sud.e Alt.e et altri ch'erano seco ma
anco alli poveri che parimente in quella matt.a mangiorno con S.B.ne [carta
309v.:] con la quale li sposi si
trattennero dopo un gran pezzo et la notte seguente dormirno insieme et
consumorno il matrimonio in Casa dell'Ecc.mo Aldobrand.o et nella pross.a
settimana credesi che il Duca partirà p. Parma dove anco appresso sia per
andarvi la sposa che saria condotta et accompagnata dalle persone scritte la
cui publica et solenne entrata in quella città è stata stabelita per il giorno
di S. Gio. Batt.a.
[RFM doc. 79, AVV011,-]
[Avviso di Roma del 27 maggio
1600], Città del Vaticano, Biblioteca
Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1068.
[carta 338 r.:] [...]
Lunedì il Card. Farnese passò a Caprarola
dove dopo che haverà recevuto la Ser.ma sposa sua Cognata monterà su le poste
per Parma per intervenire alle nozze che si devono fare in quella città
dovendoci S.A. inviare p. q.lla volta alli 2 dil seguente.
[RFM doc.71,AVV003,-]
[Avviso di Roma del 3 giugno
1600],
Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1068, foll.352 r. ? 352 v.
[fol.345 (segnato a penna in alto a destra e cancellato), fol.350
(segnato a penna accanto al precedente), fol.352 (numerazione moderna,
stampigliata con un timbro). Utilizzo
la numerazione moderna].
[fol.352r.:]
Di Roma li 3 giugno 1600.
Sabb.o la vigilia della santiss.a Trinita fu tenuto vespero un
intervento del Papa et dopo finito il nuovo .nale de zoccolanti andò con molti
Padri processionalm.te a baciar i piedi di S. S.tà la qual Dom.a dopo Cap.a
diede la S.S.ta benedi.e alla solita loggia all'infinito popolo concorsovi et
quella matt.a li ministri farnesiani diedero don.e dil loro Card.le
sontuoso banchetto alla vigna de Mad.a alli Card.li Aldobrand.i
et Deti dove intervenne la ser.a sposa di Parma con l'Ecc.mo suo Padre et Madre.
[carta 353r.:]
Questa matt.a è partita per Parma la sposa di quel Ser.o con la
committiva scritta di esser ricevuta a Caprarola dal Card.l Farnese.
[RFM doc. 80, AVV012,-]
[Avviso di Roma del 7 giugno
1600],
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1068.
[carta 340 r.:]
La Ser.ma Duchessa di Parma partì sabb.o matt.a come fu scritto,
et fra gli altri che accompagnarono S.A. che la sera arrivò a Caprarola vi fu
Il S.or Gio. Franc.o Aldobrandino il quale, si crede con tutto ciò, che non
passerà Ancona facendo la strada di Loreto, perchè si trova la S.ra sua
Consorte graveda, et così sperano et han detto di volere essere in Roma di
ritorno fra x giorni.
[RFM DOC.78, AVV010]
[Avviso di Roma dell'11 giugno
1600],
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1068.
[carta 331r.:]
La Duchessa di Parma è partita q.sta matt.a et con
S.A. vi sono andati alcuni di quelli Prelati che dovevano andar in Francia col
Car.le Aldob.ni [carta 331v.:] et fra questi li Vesc.vi di Caserta, et di
Avellino.
[RFM doc. 83,
AVV015,-]
[Avviso di Roma del 17 giugno 1600], Città del
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1068.
[carta 382r.:]
[...]
Si ha aviso
che la Ser.ma Duchessa di Parma segua il suo viaggio allegram.te alla volta di
Loreto, dove si fa conto ch'arrivasse martedì sera, et possa esser a Pesaro
ricevuta dal Ser.mo d'Urbino con reggia splendidezza et che l'Ill.mo Farnese
passato avanti a Parma, doveva arrivar a Modena dove da quel Ser.mo se gli
apparecchiano molti honori.
[RFM doc. 81, AVV013,-]
[Avviso di Roma del 21 giugno
1600], Città del Vaticano, Biblioteca
Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1068.
[carta 372r.:]
Il med.o giorno ()
passò di questa vita il Ms.ore Fulvio Orsino Antiquario notiss.o et
nobiliss.o sebene non era meno antico anco nell'età che nella scienza, dicono
haver fatto testamento, et che habbia lasciato tutto il suo studio delle cose
antiche, sì di medaglie, come di altre cose belliss.e et le più singolari et
più nobili che siano in tutto il mondo al Card. Farnese dove stava a servitio;
et vogliono vagliano meglio di xx.m scudi et nel resto delle sue facultà ha
lasciati heredi li fig.li del [carta 372v.:] sig.r Flaminio Delfini, che devono
essere suoi parenti, haveva questo personaggio un Canonicato di S. Giovanni
Laterano, di che sentita la vacanza il S.r Silvestro Aldob.no sene andò dal
Papa, et l'impetrò p. il suo maestro, et così sarà passato q.to benef.o da
un letterato ad un altro, se ben non sarà il soccessore di tanta eccellenza
et N.S.re dicono vedendo la prontezza del figliolo in raccomandar il suo m.o,
che gli lo concedesse subito.
[RFM doc. 82, AVV014,-]
[Avviso di Roma del 24 giugno
1600],
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb.Lat.1068.
[carta 377:]
Il duca di Parma dicono tratti qua di erigere un monte di 200m
scudi, che renderanno 5 per cento non vacabili, et che per pagar li frutti
ogni due mesi gli ha assegnati xm. scudi l'anno delle Intrate dello stato et
Ducato di Castro facendoglisi carta per la sorte principale Il Card. Farnese Il
Cecchi, et M.or Gio. Franc.o attesta che [?] q.sto monte sarà sicuro et per la
sorte p.nte, et p. li frutti, et dicono, che quando Ser.mo haverà questi 200m.
scudi sarà fuori in tutto e per tutto de debiti, et che non havrà da pensar
sendo all'assegnamento scritto di sopra.
[RFM doc.84, AVV016,-]
[Avviso di Roma del 1 luglio
1600], Città del
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1068.
[carta 390v.:]
Si hebb.o anco l.re di
Bologna di 24 ed aviso che di là era passata la Duchessa di Mantova che se ne
iva a Firenze a visitar la Regina di Francia sua sorella et con pensiero di
stare in tutta questa estate, et che anco vi era passato Mons. Stella,
che se ne torna a Roma dalla sua Nuntiatura di Sassuolo et che fra 3 giorni
aspettavano la Duchessa di Parma la quale di là si intendeva fosse per passare
a Torchiara luogo del Car.le Sforza p. istarvi c[on] il Duca suo
Consorte tutta questa estate haendo rissoluto a 7.bre far l'intrata solenne in
Parma.
[RFM doc. 85, AVV017,-]
[Avviso di Roma dell'8 luglio
1600],
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1068.
[carta 407v.:] [...]
Il S.or Gio. Franc.o Aldob.ni questa matt.a è tornato in Roma, et
la Duchessa di Parma s'intende sia passata p. Modena dove ha ricevuto da
quel Duca accoglienze straordinarie.
[RFM doc. 87, AVV019,-]
[Avviso di Roma dell'8 luglio
1600],
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1068.
[carta 431v.:] [...]
L'istesso giorno ()
p. l.re di Bologna delli 28 pass.o s'hebbe aviso ch'alli 26 la sposa del d.a di
Parma fece la sua entrata per quella Città su le 23 hore con grand.ma pompa in
una letica scop.ta et incontrata p.a in nome della Città dalli Senatori
Paleotto, et Manili che passorno poi alla Meldola a trovar l'Ecc.mo suo Padre
et invitarlo alle feste di quella Città p. le nozze della ser.ma sua
figl.a ma S.E. si scusò con dire che
voleva quanto p.a esser di ritorno a Roma dove s'aspetta hoggidì sendo poi d.a
sposa stata incontrata [carta 432r.:] da quell'Arciv.o et Ill.mo legato, et da
tutta quella Nobiltà con gran n.ro de SS.ri et SS.re venute da Parma, et
Piacenza alloggiate sempre a Palazzo a spese del Senato con gran splendidezza
che la sera delli 27 li fu fatto un belliss.o torneo a piedi, et a Cavallo
durato sino le 5 hore di notte con grand'honore delli Cav.ri Bolognesi. Che alli 28 s'era fatta una Comedia con
nobiliss.o apparato et alli 29 partì S.A. p.la volta di Modena verso Parma
dove pensava di far la sua entrata il giorno di S.ta Margherita.
[RFM doc. 132, NEL004, BAL006]
Bernardino BALDI, Rime varie, Napoli, Biblioteca
Nazionale, Manoscritto XII.D.38.
[fol. 6v.:]
Nele nozze del duca Ranuccio Farnese e Margherita Aldobra[n]dina.
Alto scotea la sfavilla[n]te face
L'amico di Dio che dele nozze ha cura
e giù p[er] l'aria oltra l'usato pura
Seco sce[n]deano Amor, letitia, e Pace
Cantavan le Muse, Echo loquace
Rispondea d'ogni valle, e di Natura
Rideano i pregi ogn'aspra guerra e dura
Sopia benchè sanguigno il nume Trace
Lieto al plauso commu[n] Febo mone[n]do
L'aurato plettro in questa guisa disse
Al gran RANUCCIO volto a MARGHERITA
Coppia real di novo [?] eterna unita
Godi pur che il ciel sue leggi ha fisse
Divi di te no[n] prole humana attendo.
[fol. 7r.:]
Per le medesime nozze
Stella d'Amor, che luminosa, e lieta
Raddoppij i raggi e l'occide[n]te indori
Tal che portar puo invidia a'tuoi sple[n]dori
quel ch'illustra le notti almo pianeta.
Perchè sì dolce ridi, e perchè meta
Pon l'indomito Marte a'suoi furori ?
Veggio oh veggio quel dio che casti ardori
sparge p[er] l'aria che tempeste aqueta
il sangue ALDOBRANDINO ecco il FARNESE
Giunge onde attende il mondo heroi più chiari
Di que'ch'eterna in fra suoi lumi il ciel.
Già par che maggior trombe a lor prepari
La Fama e faccia udir le gra[n]di imprese
Là v'ardon l'onde ove dive[n]gon gielo.
[RFM doc. 131, EPI090, BAL006]
Bernardino BALDI, Epigrammi
volgari,
Napoli, Biblioteca Nazionale, Manoscritto XIII.D.31.
[fol. 38r.:]
Epigrammi gravi, libro secondo.
[...]
In morte del C[onte] Pomp[oni]o Torello
Morì Torello e non sen gir sotterra
Seco Muse, et Amor di Tebro, e d'Arno ?
Vivon ne le lui opre a cui fa guerra,
co[n] la tacita falce il tempo indarno.
[fol. 46r.:]
Al S. D. Ottavio Farnese
Con gran ragione ammira il secol nostro,
in giovanetto sen valor vetusto,
et ha p[er] nuovo inusitato mostro,
veder virtute imme[n]sa in petto angusto.
Del canuto Chiron precetti udiva,
Di Peleo, il forte figlio, e de la Diva,
Ma s'il vecchio Chiron tornasse a noi
Apprenderebbe Ottavio hoggi da voi.
[fol. 52r.:]
De' Passeri delle Canarie 85.
Passerelli europei de nostri nidi,
Cercate in van presso la nostra cuna.
Gli havemmo noi là fra beati lidi,
Del'isole famose di fortuna.
Poi lasciammo cattivi il clima nostro,
Per addolcir col canto il mondo vostro.
[fol. 54r.:]
Epitafio del D. Aless[andr]o Farnese 96
Gl'illustri marmi già nel Cario scudo
il nome noto altrui fer di Mausolo.
Ma perchè la mia fama alta rimbomba
Honora angusta, e n[on] superba tomba.
[fol. 64r.:]
Al S.r Ant. Querenghi 151
Al S. Ottavio Rinuccini 112
Diemmi far meraviglie il ciel benigno
Ottavio, hor come ciò farle chiedete ?
Non è ver che la penna onde scrivete,
Ove d'oca era pria fassi di cigno ?
[fol.73v.:]
Per a morte del Conte Pomponio Torello 202
Hebbi a stillar in pianto il dì che l'empia
Pomponio estinse al biondo Apollo huom caro.
Poi mi racconsolai che nome chiaro,
E spirto amico al ciel Morte no[n] scempia
Del' affetto huom mancipio il pianto la seco,
E pur nel pianto suo l'affetto è cieco.
[fol. 90r.:]
Al Sig. C. Fortuniano Sanvitali 301
Fortunian, voi fra gl'ingegni honoro,
Onde la Parma al Po sen va superba.
Fra chiari ingegni a voi l'amato alloro,
verde corona il Re del canto serba.
E co[n] ragion, perchè co[n] dolci carmi,
Del invitto Alessa[n]dro ornate l'armi.
[Epigrammi ridicoli, libro quarto, fol. 155:]
Del vestire di Moschino 201
Il gabban di Moschin già fu del avo,
Le calze di rosato a martingalla,
E la giubba ch'allaccia in su la spalla,
Vestir di prima barba il suo bisavo.
Parmi udir che restando egli a la sede
Commette l'ira del suo futuro herede.
Io libererei Moschin se fosse amico,
Non del vestir, ma del costume antico.
[Epigrammi vari, libro quinto, fol. 172r.:]
A Torquato Tasso
[RFM doc. 19, FUC001,
BER014]
GIROLAMO BERNARDI, Fucina di Pindo per li colossi de' Serenissimi
Alessandro e Ranuccio Farnese,
Parma, Biblioteca Palatina, Ms. Parm. 1562.
De l'alto Pindo a le radici siede
Caverna nobilissima, e divina,
Che d'Omero, e Maron, sel vero ha fede,
Era già splendidissima FUCINA,
Mentre in carmi da lor si componea
Il Colosso d'Achille, e quel d'Enea
[...]
E ch'egli ()
esser dovesse il più bel Giglio
De gran Gigli FARNESI, al'or mostrollo
Ch'Aquila ria tentò col fiero artiglio
Svellere de'suoi Gigli ogni rampollo,
Et empia uno n'havea già lacerato
Quando a soccorrer quei l'elesse il fato
Ne la dolce stagion più verde, e bella,
Quando i Gigli succedono a le Rose,
Longe posava d'ogni fida ancella
Assiso al rezzo delle fronde ombrose;
Ed ecco vede da feroci artigli
Laceri e scossi da gran rostro i gigli:
Lucidamente fosca due grand'ali
Dispiegava, anzi due pennute vele,
Reina de volatili animali
L'Aquila superbissima, e crudele,
Arcato havea de grandi artigli il tronco,
E'l rostro rapacissimo d'adonco;
Vibrava fuori dal gran rostro aperto,
Acuta, e sottilissima linguetta
Che'l fretoloso vibramento incerto
Simil rendeva a triplice saetta;
E parve, si girò veloce il rostro,
Di due teste, e sei lingue esser gran Mostro
Se stata fosse di sì fiero unghione,
Di rostro tale, e di sì orrendo aspetto
Quella, che rapì il tenero garzone,
Ch'a Giove poi fu bel Coppiero eletto;
Potea col guardo sol tutto atterrirlo
E spegner forse ancor pria che rapirlo:
Se l'Aquile si degne pellegrine,
Ch'arrivar sul bicipite Parnaso
Dopo l'haver del Mondo ogni confine
Misurato dal'orto, e dal'occaso;
Fosser state d'ardir sì furibondo
Distrutto havrian, non misurato il Mondo.
Tale è sol quella, che Ministra a Giove
I più potenti fulmini tremendi
Ella sol tanto orridamente move
Rostro sì fiero, e cotai griffi orrendi,
Ella ch'orrida è tanto, e sì funesta
Sola dir si potria simile a questa:
Ma l'ardito bambin da terra sorto
L'Aquila disturbò dal fiero intento,
E i Gigli ritornò al suo bell'orto
Nel primiero terren lieto, e contento,
Ch'or più che mai per lui su'l grande stelo
Ornano il Mondo, e fanno invidia al Cielo [...]
[RFM doc. 158, DIS004, -]
AND.A CAP.A [Andrea CAPRANICA ?], Discorso del S.r And.a Cap.a
sopra l'emblema di una tigre domata da Bacco, Roma, Archivio Colonna
nel Palazzo dei Santi Apostoli Miscellanea storica, II.A.18.II, fasc. 76.
Dell'emblema nel basso rilievo venuto in mano di V.E. si
raccoglie quello, che io ho detto più volte, che grande errore fanno et li
scultori et li pittori di hoggi giorno, et quelli Prencipi che si diletteno con
diverse vaghezze adornare li lochi delli lor' diporti, che queste cose, et li
dipinghono et li compongono piu casual[men]te a ostentazione del artificio, che
a significato alcuno. Là dove se l'havessero accomodate misteriosamente,
secondo facevano l'antichi, a significare qualche secreto della nat[ur]a, o
qualche precetto di moralità; havriano alle lor'opre data l'anima; che in vero
altro no[n] è una artificiosa scultura, o pittura senza misterio, che un
bellissimo corpo, ma morto.
Questa usanza dunq[ue] delli antichi, per la pocha
esquisitezza, che oggi si trova nelle arti, posta in odio et scordata, si vede
gratiosamente eseguita nel emblema di V. Ecc.za: perchè nella tigre scolpita
non dimeno talhora con pava [:?] fortuna viene a restarne al di sopra, e quelli
tali che sono offesi, guidati dall'amore delli proprii interessi, lor' mal
grado sono forzati a deporre l'ira, la forza, con la potenza; et anche contra
ogni decoro della propria grandezza cerchare di quietare et placare colui, che
dubitino che non gli cagioni danni magiori.
Questo a punto in questa tavola si vede espresso, che l'homo
occupato da soverchio piacere si significa per Baccho, è accompagnato dal
satiro, che denota la compiacenza, quale essendo cosa conveniente anche alle
bestie, però il satiro si scolpisce et homo et bestia: bene si vede là et
artificiosamente scolpita la bravura e la franchezza del satiro che tale a
punto è il n[ost]ro sfrenato desio: nè con minore eleganza si vede certa
tumulenza nel gonfio Bacchetto, con certi atti scempi et preziosi, che tale è
il stato nel quale si lassa co[n]durre l'homo quando si lassa opprimere dal
Piacere. Si scorge anche la sciochezza del uno e dell' altro, che non ti
guardeno dalla ferocia et forza del troppo offeso animale, che co[n] piccolo
bastone lo vogliono atterrire; nè si accorghono che con un minimo impeto li
puote sbranare: Vedesi la tigre all'incontra che deposta la natia ferocità,
humile quasi cagnolo, pare che l'attendi, et li aduli: solo per il timore del
caro pegno del figlio, che il grasso baccho ha in mano: sì che spinta et
forzata dal amore di esso, dolorosamente gli conviene deporre la rabbia et la forza:
onde ben si vede sopra la tigre amore addolorato et afflitto, che miseramente
va detestando l'insopportabile insulto.
Emblema
in vero bello; deve al paragone si sono poste le due principali potenze del
anima, l'irascibile, et la concupiscibile: quella discritta in una bestia,
questa posta nell'homini: quella da un giusto amore, che la nat[ur]a ha posto
in tutti li animali moderata nelle bestie, questa da un sfrenato desiderio che
li homini tramuta in bestie pazzamente esercitata nell'homini.
E tanto più è stato l'emblema ben composto, quanto che
viene a concludere, che quando l'homo no[n] sta desto et vigilante nella
vigilia della ragione, no[n] solo viene ad assimigliarsi alle bestie, ma anche
dalli più fieri, selvaggi, et feroci animali, di accortezza et sagacità vien
superato.
Questo emblema dunq[ue] si pole applicare a diversi successi che
occorrono tutto giorno nelle cose humane, et quel tale che lo fece scolpire
facil[men]te a qualche suo particolare pensiero s'andava adattando; volendo
tal'hora dare ad intendere ragionevol causa di qualche sua raffrenata vendetta.
Hoggi mi pare che attamente si potesse applicare la tigre alli
Sig.ri spagnoli, quali e nella p[rese]nte occasione non hanno mostrata la
lor natia bravura con la lor forza et potenza, non è scolpita in esso, altro
non li significa, che una potenza che si trova brava et valorosa, nè è solita a
sopportar' offesa: quale non di meno viene domata da baccho, et dal satiro suo
fido seguace et ministro in dui modi: o con la dolcezza del piacere, che doma
qual si voglia fiero et tenero instinto, o anche con la pazzia che questo
proprio si disegna nel emblema proposto.
Già fu simbolo molto volgare delli antichi la tigre domata da baccho
ma posta sotto il freno: che volevano significare, che con la dolcezza del
piacere simbolata p[er] Baccho qualsivoglia fierezza si sottoponeva, et
superava. Ma in questo emblema escendo dal simbolo comune, com magior
esquisitezza si viene a significare, che il soverchio piacere; no[n] solo co[n]
la dolcezza ma p[er]che imbriacha, et leva l'uso della ragione a coloro che
possiede, viene ben spesso con la pazzia a domare, et la ferocia de crudeli, et
la forza de gagliardi, et la sup[er]bia di potenti. in quella maniera a punto
che il Proverbio dice che al fortuna ha cura di pazzi.
E' talmente insita all'homo questa proprietà di lassarsi sorprendere
et occupare p[er] dir così dal soverchio piacere; che offuscando con esso il
lume della ragione, subito si lassa governare affatto dalla co[n]cupiscenza
sfrenata et sendo [?] quella viene molte volte ad oltragiare coloro, dalli
quali pole facil.te essere oppresso: stato p[er] altro, se no[n] p. che così li
ha guidati l'amor del proprio interesse; che consistendo (come carissimo et
geloso pegno) nella quiete di Italia, questa in mano di altri; a quelli tali
haverà forse dato orgoglio di esercitar la bravura a credenza; ma a essi ha
data occasione, che rimettendo et la bravura et la forza, et placando et
portando la pace, essercitino la lor' propria accortezza et prudenza; nella
quale in vero consiste la fermezza di ogni grande et ben ... imperio.
All'Ill.mo et Ecc.mo Sig.re
Et P.ron col.mo il sig.r
D. Philippo Colo[n]na
Gran' Contestabile
[scrittura coeva di mano dell'archivista:]
Dicorso del S.r And.a Cap.a sopra l'emblema di una tigre domata da
bacco.
S.r D. Filippo Seniore
n. 133 [:cancellato]
125
Tit.o Famiglie Marsilie [:?]
Curiose
Scritt. 2
Partim. 7
era fra le cose curiose n. 22
[RFM doc. 25, EPI030, COL010]
FRANCESCO COLONNA Jr., [Epistola
al Cardinale Odoardo Farnese circa una testa antica di Antonino Pio],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano estero: Roma 1599, cassetta 413.
Ill.mo et oss.mo sig.re mio Col.mo
Mentre fu qui il S.or Cardinale sforza per favorire le nozze mie,
dimostro di compiacersi molto di una testa anticha di marmo di molta stima
ch'io havevo di Antonino Pio, la quale offerta da me in dono a S.S. Ill.ma
l'accettò, e gli la feci condur'in Roma, dove havendola tenuta molto cara per
spatio di cinquant'anni, hoggi contra ogni mia oppinione, ne so che a buon fine
me l'ha rimandata fin qui; e parendomi questo fatto degno di consideratione ho
voluto darne conto a V.S. Ill.ma come mio singolariss.o sig.re per ogni buon
rispetto, acciò sappia quanto mi occorre intorno a questo particolare;
supplicandola insieme a conservarmi nella solita sua buona gratia, et a
favorirmi spesso delli suoi commandamenti che per fine faccio a V.S. Ill.ma
humiliss.a riverenza, pregandole prosperità continua.
di Palestrina alle 8 di luglio 1599
Di V.S. Ill.ma e R.ma
A.mo et obblig.mo S.re Fr.co Colonna
Ill.mo S.r Card. Farnese. Caprarola
[nel sunto della cancelleria si legge, tra l'altro:]
Da conto che il S.r Card.le Sforza gl'ha rimandato la testa d'Antonino
Pio, senza saper la causa.
[RFM doc. 32, EPI037, DEL015]
GENTILE DELFINI, [Epistola
al Conte Cosimo Masi con la quale chiede se gli è stato consegnato il suo dono
di alcune pitture e disegni],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno: luglio - agosto 1594;
cassetta 186.
Molto Ill.re S.r mio oss.mo
Molto tempo è, ch'io desidero intendere per certo se a lei furono mai
consegnate in dono per mia parte tutte le pitture, et dissegni (eccetto un
quadretto d'una Zingara) lasciati costì nella morte di mio Zio m. Tiberio
Delfini, non per che punto mi sia pentito d'avergliene fatto presente,
intendendo per l[ette]re del S.or Alberto Strazzi V.S. le desiderava, anzi
ratificandolo, vengo a pregare per ciò V.S. mi faccia gracia darmene aviso
particolare, che di ciò le ne restero con obligo grande, et non essendo questa
mia per altro, che per basciarli le mani, le prego da N.S.re ogni felicità.
Di Parma il di 16 di luglio 1594.
Di V.S. M Ill.re Ser.re Alessandro Delfini
Al molt.Ill.re S.r mio oss.mo Il S.r Co: Cosimo Masi
[Bruxelles]
[il sigillo presenta un'aquila coronata che sovrasta una coppia di
delfini dalle code incrociate]
[RFM doc.29, EPI034,FAR008]
Cardinale ALESSANDRO FARNESE, [Epistola a Fulvio Orsini sui numeri antichi ed un lavoro di cristallo
intagliato], Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano estero: Caprarola
1571-1700, cassetta 117.
[Minuta di epistola]
R. M. Fulvio
Vi mandiamo l'incluso foglio de numeri antichi, p[er]che lo
consideriate, et ci avisiate poi se vi parrà cosa da poterne cavar [niente
(:cancellato)] construtto [?] che ci sarà caro haverne il parer vostro.
Parlerete col Guidacci, et vedrete di accordar quel maestro intagliatore
per conto di certo lavoro di cristallo intagliato e per le cose del
dorare perciò che habbiamo veduto opere di molto miglior mano esser state
pagate meno di quello che egli domanda per questa.
Vi mandiamo anche una lettera del nipote del S.r Card. di Augusta
bo.me. perchè gli teniate la risp.ta.
28 luglio 1573
[RFM doc. 28, EPI033, FAR008]
Cardinale ALESSANDRO FARNESE, [Epistola a Fulvio Orsini sulla medaglia agrigentina],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano estero, Caprarola 1571-1700,
cassetta 117.
R. N.ro Car.mo
Con la v[ost]ra de xiij havemo ricevuto la medaglia Agrigentina,
et visto l'opera fatta da voi col Turbolo.
Intorno a che, non havemo altro che dirvi, se non che come ci piace, che
si veda se tra quelle ch'egli ha, vi fosse qualche cosa rara, così desideriamo
di sapere, in che modo havemo da tener questa Agrigentina, cio è se con
pagamento, et quale. Per tanto non
mancate di darcene aviso, et conservatevi sano.
Di Cap.la [:Caprarola] alli xvi di luglio 1576.
Desideriamo che ci teniate avisato di quel negotio, il quale
vorrem[m]o che terminasse una volta.
V[ost]ro il Car.Farnese
Al R. M. Fulvio Orsino
N.ro Amat.mo Roma
[RFM doc. 51, EPI056, FAR004]
ENRICO FARNESE, [Epistola
a Ranuccio I Farnese duca di Parma e Piacenza con la quale comunica la propria
decisone di abbandonare l'impresa di scrivere la biografia del duca Alessandro
Farnese], Parma, Archivio di Stato, Carteggio
farnesiano interno: gennaio -marzo 1596, cassetta 205.
Ser.mo et invittissimo s. Duca Padrono mio sempre oss.mo
Con l'occasione del S.r stirpio, è parso mio debito darmi di novo a
S.A. per humiliss.o et devotiss.o suo servitore, con dirli che se bene il
ser.mo et Invittissimo s.r Duca suo Padre merita uno elevatissimo ingegno, et
la prima penna d'ogni altro seculo nel scrivere sua historia: nondimeno circa
questa gloriosissima impresa non puoco mi sono affatigato.
Ma perche S.A. facilmente havera qualche scrittore particolare, del
quale solo, come Alessandro Magno d'Apelle, vora il vero ritratto d'imperio et
d'uno tanto famoso Principe: mi sono ritirato da detta opera, timendo di
disgustarla, ne presumero seguitare avanto, se lei in particolare non mi la
com[m]andi. Perche altro non bramo,
che gradirla desiderandole ogni contento.
La onde mi rincresce infinitamente del disgusto Lei ha pigliata del
N.ro Collegio, promettendoli che la colpa è d'alcuni particolari non del
collegio, quale amira, et adora S.A. et, come spero, Lei restarà a pieno
satisfatta di questi n[ost]ri dottori.
quanto a me, niente più al mondo desidero che servire S.A. et questo
senza alcuno mio interesse particolare, poiche q.to solo è il summo premio del
mio desio et contento. con quale fine
li prego dal cielo mille anni di vita.
di Pavia alli 7 de febraro 1596.
Di S.A. Ser.ma et invittissima. Humiliss.o et Devotiss.o Ser.re
Henricus Farnesius ortus Eburo, oriundus ex Gallia in Ducatu
Borbonensi.
Al Ser.mo et Invittissimo Principe
il S.r Duca
Ranuccio Farnese mio sempre oss.mo Padrono. Parma
[Note della cancelleria:]
Dice che q[uan]do fosse aiutato da qualche scrittore proseguirebbe
nell'Historia del S.mo Duca Alessandro.
Risp[os]ta a 26 di Aprile
[RFM doc. 41, EPI046, FAR004]
ENRICO FARNESE, [Epistola
a Ranuccio I Farnese duca di Parma e Piacenza con la presentazione delle
prefazioni e titoli di alcune delle sue opere a lui dedicate],
Parma, Archivio di Stato, Casa e corte farnesiane, Serie II, busta 25, fasc.15.
Ser.mo Principe mio oss.mo Padrono.
Poi ch'ogniuno [sic] honori i suoi santi, ben'è il donare ch'io
essendo annotatomi a Lei, facia ancora il medemo con S.A. Li consacro aduncq. i frutti et fatige
mie di tre o quattr'anni, cio è tre opere, i cui tituli, et prefatione hora
mando a S.A. a cio da quaeste, facia giuditio di quelle. Queste opere se bene son in mano mie
finite, tuttavia, per esser'io sessagenario con indispositione di petto vedero,
avanti mi manca questo puoco restante di vita, de repolirle, et inviarle parte,
per parte a S.A. o a Mons.re Ill.mo suo fratello.
Mi rincresce che nella sua causa contro il S.r Pallavicino, non sia
stato, per suo maggior servitio, megliore de me stesso. puro con l'amici del n[ostr]o collegio ho
fatto quello che da me non potea.
Il S.r Li dia felice principio d'anno, co[n] mill'anni di vita.
di Pavia alli 29 de xembre 1597
De S.A. Humiliss.o et
Devotiss.o Servitore
Henrico Farnese Eburone.
Al Ser.mo Principe il Duca di Parma mio oss.mo Padrono.
Parma
[RFM doc. 116, EPI078, FAR004]
ENRICO FARNESE, [Epistola
a Ranuccio I Farnese duca di Parma con notizie della biografia di Alessandro
Farnese],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno, gen. - mar.1598,
cassetta 205.
Ser.mo Principe mio eterno et oss.mo Padrono.
Abenche sempre ho fugito, per natura, l'otio, come pare per molte et
varie mie fatige: nondimeno quando non havesse mai fatto altro, in questa vita,
che l'opere da me a lei consecrate, non mi reputarei esser stato al mondo, se
non molto giovevole et utile.
Perche si come d'un Hippocrate vengono instrutti quanti medici se
ritrovano: cossì la virtù d'Alessandro gloriosa memoria suo padre, non è altro
ch'unica arte, et vero lume d'ogni felice governo et imperio. Si de pace, come
di guerra persevero adunq. in dette opere, non solamente con ardente et assidua
diligenza, ma ancora con infinita mia satisfattione.
Per questo sperarei in breve ma[n]darle a S.A. quando non fossino
simile alla veste della dea Pallade, nella cui tessitura, et ricammi [sic],
perchè se depingeano tutti gloriosi potentati, sempre mancava tempo, per
ridurla a perfettione puro fidandomi nel aggiuto del S.r non dubito q.to anno
de venire al colmo d'ogni possibile mio desegno, et fare cognoscere a S.A.
ch'altro non bramo, che spendermi vivo et morto a gloria sua, et beneficio
pubblico.
Il S.re li dia insiemme con la buona Pasqua ogni bene co[n]forme al
suo desio.
da Pavia alli 20 de marzo 1598.
Di S.A. Humilissimo et
devotissimo eterno Ser.re
Henrico
Farnese Eburone.
[RFM doc. 38,
EPI043, FAR004]
ENRICO FARNESE,
[Epistola a Ranuccio I Farnese
duca di Parma e Piacenza con la notizia della sua ammissione all'Accademia
degli Intenti di Pavia ed una nuova richiesta di intercessione per il capitano
Luca],
Parma, Archivio di Stato, Casa e corte farnesiane, serie II, busta 25, fasc.15.
Ser.mo Principe
et oss.mo mio Padrono.
Mi congratulo
sommamente con sua Ser.ma A. del amore le porta q.ta cita di Pavia, del che ne
da manifesto segno in lodarla, insieme con suoi troppi amorevoli compimenti,
insino al cielo.
Hieri lei fu
accettata nella nostra Accademia d'Intenti, con tanto honore et gloria sua,
quanto hanno comportato le forze et valore dell'Accademia. mi ralegro senza fine che lei habbi fatto
q.ta buona resolutione perche participera di frutti di piu elevati, et belli
ingegnij d'Italia come vedera alla giornata.
Quando per amore mio sera per rilassare il capitanio Luca, il che
tengo per impetrato da sua clemenza, la supplico se degni darmene aviso con
quattro linee, a cio apresso i amici resta indubitata l'instanza ho fatto
apresso V.A. ser.ma.
Il S.re la
conservi di Pavia alli 7 de luglio 1599
Di V.A. Ser.ma Humiliss.o et obligatiss.o Ser.re
Henrico Farnese
Eburone.
Al Ser.mo
Principe
il S.r Duca
Ranuccio Farnese mio S.re Parma.
[RFM doc. 39, EPI044, FAR004]
ENRICO FARNESE, [Epistola
a Ranuccio I Farnese duca di Parma e Piacenza con la presentazione di
un'orazione per l'Accademia degl'Intenti di Pavia e la prima parte della
"Statua", panegirico del duca Alessandro Farnese], Parma, Archivio di Stato, Casa e corte
farnesiane, serie II, busta 25, fasc.15.
Invittisimo et Ser.mo Principe mio S.re et in eterno oss.mo Padrono.
La present'oratione stampata, vene da me fatta, per l'obedienza deggio
alla sua Ill.ma Academia d'Intenti, et la statua scritta d'Alessandro
Massimo gloriosa memoria, per l'antiqua osservanza di tutti miei maggiori,
verso sua Regia Casa. Questa li mando
non come Academico, ma come humilissimo, et devotissimo suo servitore. penso li gradira. perche apresso a me, essa
statua è, per valor incomparabile de cossi felice, et glorioso Principe,
stimata al parangone de qualsivoglia grandissimo thesoro. Volendo sua ser.ma A. farla stampare, sera
bene, se facia in Pavia, acio possi, con la censura de S.A. ser.ma metterla in
vera perfettione, et correger'insieme la sta[m]pa. Questa prima parte è solamente sopra la testa della statua:
l'altra parte contiene il restante di tutto il corpo, quale al piacere di S.A.
Ser.ma m'affretero de ricopiare et de mandarle: acio l'una, et l'altra parte
maturisca [sic] con il iudicio sodo de S.A. et di che com[m]andara. Tra ta[n]to il S.re li dia insiemme co[n]
ogni co[n]tento mille anni di vita.
di Pavia alli 26 9e[m]bre 1599
di Sua Ser.ma A. Humiliss.o et devotiss.o in eterno ser.re Henrico Farnese Eburone
Al Invittissimo et Ser.mo Principe S.r Duca Ranuccio farnese.
[RFM doc. 40, EPI045, FAR004]
ENRICO FARNESE, [Epistola
a Ranuccio I Farnese duca di Parma e Piacenza con la quale chiede che venga
rintracciata la prima parte del libro "Statua" che non è arrivata a
destinazione],
Parma, Archivio di Stato, Casa e corte farnesiane, Serie II, busta 25, fasc.15.
Invittiss.o S.r Principe mio oss.mo in eterno Padrono.
Scrisse nell'ultima mia passata a S.A. ser.ma ch'io li mandava con
l'oratione dell'Academia, il primo tomo della vita del Ser.mo Principe Aless.o
Massimo suo padre in alcuni an[ni] a Lei da me dovuta. Ma dalla risposta sua comprendo che S.A.
Ser.ma ha receputa l'oratione solame[n]te, et no[n] il Libro. il che tanto
m'afflige, che mai in vita, ho sentuto tale dolore. Li dico aduncq. ch'io volea
portarle detto libro in persona: ma che il S.r Alfonso Petra Conte di Silvano,
Principe dell'Accademia n[ost]ra piglio q[ues]to assunto de farlo ricapitare in
mano de S.A. Ser.ma et cossi alli 26 del passato esso Libro, intitolato
statua, fu con due oratione, et diverse altre mie fatige serato in una
cassetta, et inviato al Ecc.mo Presidente Petra in Piacenza. Talche esso S.r Presidente o altro che
aveva levato fora di detta cassetta l'oratione, et mia littera, debbe sapere,
quello è fatto di detto Libro: forse di q[ues]to sera informato il S.r Conte
Oratio Scotto.
La suplico per l'amore d'idio, voglia intervenire, acio si trovi il
Libro, et io mi libero d'uno ta[n]to, et intolerabile affanno. tra tanto li prego dal cieli centi migliari
d'anni di vita co[n] le bone fede.
di Pavia 23 x.bre 1599
Di S.A. Ser.ma Humiliss.o
et obligatiss.o Ser.re
Henrico farnese Eburone.
[RFM doc. 163, EPI112, FAR009]
card. ODOARDO FARNESE, [
Epistola al card. Ascanio Colonna sui Canonici della Basilica Lateranense con
riferimento particolare a Fulvio Orsini ],
Subiaco, Archivio Colonna, II.CF.1, lett. 427.
Ill.mo et R.mo Sig.or mio oss.mo
Del favore, che V.S. Ill.ma è stata servita farmi con la sua di 9,
rallegrandosi meco del mio ritorno alla corte, vengo a darle le gratie, ch'io
devo, havendole per altra mia dichiarato, che uno de i principali rispetti, che
mi ha fatto tornar volontieri [:sic] a Roma, è per poter meglio servire a V.S.
Ill.ma nelle occorrenze del suo servitio, et spetialm[en]te nella sua Chiesa
Lateranense, dove quei ss.ri Canonici mi vedono tanto più volontieri, quanto
più sanno, che nissuno può essere più serv.re a V.S. Ill.ma di me. Il Sig.or
Fulvio Orsino mio mi ci va aiutando con li ricordi suoi, non mancando egli di
adempire l'offitio, che gli è stato imposto nel servitio di quella Chiesa.
Ma nè lui, nè io potremo far tanto, che ricompensi in qualche parte l'incommodo,
che porta l'assenza di V.S. Ill.ma, alla quale bascio humilmente le mani; et le
prego questo buon capo d'anno con tutti gli altri di sua vita sani, e felici.
Roma, ult.o x.mbre 1593
Di V.S. Ill.ma et Rev.ma
Humiliss.o et Affett.mo
Ser.re
Il Card. Farnese
S.r Car.l Asc. Colonna
[destinatario, sul verso del secondo foglio:]
All'Ill.mo et Rev.mo mio Oss.mo Card.le Ascanio Colonna
Alla Torre del Greco
[RFM doc.5, EPI013,
FAR009]
Card. ODOARDO FARNESE, [
Epistola a Fulvio Orsini sulla decorazione del Camerino di palazzo Farnese ],
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 9064, fol. 336 r.
[fol. 336 r.:] [...] Mi
piace che si attenda alli stucchi et pitture della mia cam.a come
V.S. mi avisa et perchè io spero d'essere a Roma nante che sia finita, riservo all'hora di
risolvermi se ci si haveranno da fare le l.re ()
per intelligenza dell'historie che saranno in essa secondo che V.S. mi propone
o pure se si haveranno [fol. 336 v.:] da lasciar le historie senza l.re.
Intanto non mi e
spiaciuto intendere il pensiero di V.S. anzi ne la ringratio [...].
[RFM doc. 127,
EPI085, FAR002]
RANUCCIO I
FARNESE duca di Parma, [ Epistola ad
Alberto Albergati Gonfaloniere di Giustizia del Senato di Bologna con la
richiesta di concedere una licenza al dottor Gallesi per venire in Parma a
leggere Logica e Morale ad Odoardo Farnese ] , Bologna, Archivio di Stato, Lettere di
principi e prelati al Senato, serie 6, vol. 26.
Ill.re Sig.re
Desiderando
il sig.r Don Duarte mio fr.llo di udire la logica, et le morali tutto il mese
di maggio pross.o et havendosi boniss:a relatione, che'l dottor Galesio
Gentil'huomo bolognese lettor'pubblico costì saria attissimo per'insegnar'a S.
Ecc.a dette scienze, et virtù, vengo a pregar V.S. con questa mia molto
caldamente, che si contenti, non solo per quel che tocca a lei concederli
licenza di poter'venir'a star qua per tutto detto mese, ma bisognando voglia
anco operar'con cotesti SS.ri del Regimento, che se ne contentino anco loro,
assicurandoli, che in ciò ci faranno serv.o molto grato, et a V.S. et a loro ne
restaremo con obbligo grande, sicome più largam.te intenderà dal S.r Camillo
Paleotti et dal S. Fabio Albergati, a'quali ne ho scritto parim.te in
conformità. et di core me le racc.do
et offero.
Di Parma alli
16 di aprile 1590
Di V.S. Ill.re
Al ser.io
Ranuccio
Farnese.
[Indirizzo:]
Al Ill.re
Sig.re Albergati Gonf.ro delli S.ri Quaranta di Bologna.
[RFM, doc. 126, EPI084, FAR002]
RANUCCIO I FARNESE duca di Parma, [
Epistola ad Alberto Albergati Gonfaloniere di Giustizia del Senato di Bologna
per giustificare il ritardo nel rientro di Agostino Gallesi nello Studio di
Bologna dopo la missione a Parma ],
Bologna, Archivio di Stato, Senato, Lettere di principi e prelati al Senato,
serie 6, vol. 26.
Molto ill.re Sig.re.
Tornandosene a Bologna il dottor Galesio p.nte, ho voluto
accompagnarlo a V.S. con q.a mia, sì per pregar (come fo) lei insieme con tutti
cotesti altri SS.ri del Regim.to ad haverlo per escusato, per amor del s.r
don Duarte mio fr.llo, et mio, se egli havesse trappassato il tempo della
licenza, che teneva di fermarsi qui, come per farle testim.o della molta
satisfatt.ne che lui ha data a S. Ecc.za, et a me, essendosi diportato beniss.o
nel serv.o, che si desiderava da lui, et però se le resta obligato assai della
cortesia, che ci hanno voluto usar della comodità di detto dottor Galesio, et
potendo io far alc.o serv.o a V.S. la prego a valersene liberam.te, et di core
me le racc.do et offero.
Da Parma alli 5 di giugno 1590.
Di V.S. molto ill.re
Per ser.le
Ranuccio Farnese
[Indirizzo:]
Al molto Ill.re Sig.re il Sig. Conf.ro di Giustitia del Regm.to di
Bologna.
RANUCCIO
FARNESE duca di Parma e Piacenza, [Epistola
a Fulvio Orsini in cui ringrazia della scelta fatta riguardo le medaglie
antiche], Parma, Archivio di
Stato, Carteggio farnesiano interno: luglio-agosto 1594, cassetta 186.
[Copialettera]
Al S.or Fulvio Orsino
M.re et m.to Ill.re
Ho inteso per la di V.S. de 27 del passato la dilig.e da lei usate in
mat.a [:materia] delle medaglie, et la provision che ne ha fatta, tutto
sta bene, et a mia satisfat[tio]ne, et hora la sto aspettando col ricevimento
di esse promettendomele della qualità effett[iv]a che mi fa credere l'essere
passate per sue mani, et parere, et con ringratiarla della cura, che sen'è
presa, me le offero, et prego da N.S. ogni contento.
Di Parma 7 d'Ag.to 1594.
[RFM doc. 42, EPI047, FAR002]
RANUCCIO I FARNESE duca di Parma e Piacenza, [Epistola al conte Cosimo Masi con la quale
chiede il "Libro delle imprese" del duca Alessandro Farnese per gli
affreschi della "Sala grande" di Palazzo Farnese in Roma], Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno:
gennaio-marzo 1595, cassetta 189.
Ill.re mio amat.mo
Il S.re car:le mio fr[at]ello mi fa inst[anti]a che io le mandi il
libro delle Imprese del s:r Duca n[ost]ro P[ad]re di fe:me: che voi havete
portato di Fiandra, volendo farle depingere nella sala grande del Palazzo di
Roma, però vi piacerà d'inviarmi esso libro, acio che io possa mandarlo a
S.S. Ill.ma, che ne farà far la copia, et me lo rimanderà, et Dio vi guardi.
Di Piacenza al pr.o di Marzo 1595.
Di V.S. Ill.re
Al piacere Ranuccio Farnese.
All'Ill.re mio amat.mo
Il conte Cosimo Masi. Parma
[cfr. HALLER]
[RFM doc. 44, EPI041, FAR002]
RANUCCIO I FARNESE duca di Parma e Piacenza, [Epistola al Cancelliere Zangrandi con
l'ordine di rintracciare la ricevuta del pagamento fatto a Giovanni Andrea
Scalabrini per il trasporto di alcuni statue da Genova a Parma],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno: gennaio - marzo 1595,
cassetta 189.
Molto mag.co n[ost]ro amat.mo
Vi ordiniamo, che facciate vedere nella n[ost]ra Computisteria costì,
il pagamento, che fu fatto dalli Ministri n[ost]ri, a Gio: Andrea Scalabrini
per la condotta di alcuni marmi da Genova a Parma, cioè dell'Adone, et
della Venere, che sono alla Fontana, et facendo cavar'una fede autentica di
esso pagamento con la legalità della Comunità, ce la inviate qua quanto
p[ri]ma, et Dio vi conservi.
Di Piac.za li 4 di marzo 1595.
V. Ranuccio Farnese.
La sud.a fede autentica, espedita che sarà, l'inviarete voi stesso a
Roma al Moschino n[ost]ro scultore, il q[u]ale ne ha di bisogno per li
rispetti, che vedrete per le allegate due lettere sue col mem[oria]le incluso
in esse.
Al Can.re Zangrandi
Al molto mag.co n[ost]ro amat.mo
Il Can.re Pietro Giangrande a Parma.
[la risposta è del 7 marzo 1595, da Parma]
[RFM doc. 46, EPI052, FAR002]
RANUCCIO I FARNESE duca di Parma e Piacenza, [Epistola a Giulio Feo per raccomandare una
causa in Rota dello scultore Simone Moschino],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno: settembre - ottobre
1595, cassetta 192.
[Copialettera del duca Ranuccio I Farnese]
Al S.r Giulio Feo 6
d'ott.re 1595
Simone Moschino, mio scultore, tiene una causa costì in Rota, come
dovete star'informato, et se bene mi persuado che voi li haverete a cuore et
usarete in essa ogni dilgenza, come suolete [?] in tutte q[ue]lle de un
cliente, Tuttavia p[er] la buona voluntà, ch'io porto al p[redett]o mio
ser[vito]re ho voluto raccom[m]andarvela con q[ues]ta, et pregarvi sicome fo
caldam.te che per rispetto mio particularm[en]te vogliate haverla al petto, et
procurare, che ne segua il buon fine, che ragionevolm.te pretende, et desidera
il d.o Moschino, che ne restarò anch'io obligato a voi al quale mi racc[oman]do
et offero per fine di quella.
[RFM doc. 52, EPI057, FAR002]
RANUCCIO I FARNESE duca di Parma e Piacenza, [Epistola a Fabio Albergati con la quale
ringrazia dell'operetta ricevuta in dono],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno: aprile - giugno 1598,
cassetta 206.
[Copialettera]
Al S:r Fabio Albergati, de iiij de Aprile 1598
Ill:re Sig:re Con la
l[ette]ra di V.S. de 28 de febbraro, mi è comparsa anco ultimamente l'operetta
che lei ha fatto stampar in Roma, et mi ha mandato a p[rese]ntare, la q.le
ho gradito come frutto del suo valore, et come segno part[icolarissi]mo
dell'amorevole voluntà, che continua a portarmi
le ne rendo però doppiamente gratie, et me le offero così pronto p[er]
gl'effetti in suo serv.o dove io p[er] esso, come con affetto conserverò
particularmente di questa sua amorevolezza, et il S.re la prosperi, come
desidera.
Di Parma.
[RFM doc. 53, EPI058, FAR002]
RANUCCIO I FARNESE duca di Parma e Piacenza, [Epistola a Corradino Orsini di
accompagnamento per Simone Moschino],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno: gennaio - aprile 1599,
cassetta 210.
[Copialettera]
Al C. Corradino Orsino a 29 d'Aprile 1599
Sarà essibitore della p[rese]nte il Moschino, con la venuta del
q[u]ale ho voluto visitare V.S. et ricordare la part.re mia aff.ne verso di
lei. Mando esso Moschino grosso, et
grasso come vederà, non so se V.S. lo rimanderà qua tale, le racc.do la sua
pancia, et credo, che sarà di serv.o a lui, se tal'hora lo farà digiunare,
come, che così sia per attendere meglio a lavorare.
V.S. si vaglia di me in cio che vaglio per serv.o suo, che me le
offero pront.mo, et rimett[endo]mi al d[ett]o Moschino intorno allo stato di
suo Nipote, et alla protett.ne ch'io ne tengo, resto racc.mo a V.S. di cuore.
di Parma
[RFM doc.59, EPI064,FAR002]
RANUCCIO I FARNESE duca di Parma e Piacenza, [Epistola ad Enrico Farnese di ringraziamento
per l'orazione ricevuta in dono],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno: dicembre 1599, cassetta
214.
[Copialettera del duca Ranuccio datato 7.12.1599 :]
Al S. Enrico farnese Eburone 7 di x.bre 1599 da Parma.
Insieme con la l.ra sua de 26, del passato ho ricevuta l'oratione,
che mi ha mandata, la quale mi è stata molto cara, particolar[men]te essendo
fattura di lei, la quale la ringratio della sua amorevolezza verso di me, et si
come la scuopro ogni giorno magg.te, così maggior sia q.to merito et sarò
pronto in tutte le occasioni a mostrarli con effetti dove potrò, la stima, che
fò, delle sue virtù, et l'aff.ne che le conservo, et me le racc.do et offero.
[RFM doc. 60, PAS002,
FAR002]
RANUCCIO I FARNESE duca di Parma e Piacenza, [Passaporto per Roma rilasciato al Conte
Pomponio Torelli e a suo figlio Paolo],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno: dicembre 1599, cassetta
214.
Ranuccio Farnese duca di Parma, et Piacenza et Confaloniere perpetuo
di Santa Chiesa
Andando a Roma per n.ro servitio Il Conte Pomponio Torelli n.ro
feudatario, et in sua compagnia il Conte Paolo suo figlio, con sei loro
ser.ri, due tamburi, et due valigie di robbe loro, ci è parso di accompagnarli
con la p.nte, non solo per far fede, come li suddetti Conti, ser.ri, et robbe
partono di q.ta n.ra Città, libera, Dio gratia, di peste, e d'ogni altro mal
contagioso, ma per pregar tutti, i SS.ri Gov.ri, Luogotenenti, Cap.ni, Datiari,
Portinari, et altri Ministri, et officiali de'luoghi, et terre, a noi non
sottoposti, per dove haveranno da passare, che non gli diano impedm.to alcuno,
ma, bisognando, li prestino ogni aiuto, et favore, assicurandosi, che lo
riceveremo per grato serv.o, et in occasioni simili, corrisponderemo loro con
l'istessa prontezza: et a tutti, i, sottoposti al nostro Dominio, di che
qualità, offitio, et carico si siano com[m]andiamo espressamente di far il
medesimo, et di ciò non manchino per quanto stimano la gratia, In fede di che.
Dato in Parma a di 9 di x.bre 1599.
Ranuccio Farnese.
[seguono altre firme, poi, in basso a destra:]
Aless.ro Orso sec.rio.
[RFM doc. 61, EPI065, FAR002]
RANUCCIO I FARNESE duca di Parma e Piacenza, [Epistola a Juan Idiaquez sulla questione del
proprio matrimonio],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno: dicembre 1599, cassetta
214.
Al S.r Giovanni Idiaquez a 9 di x.bre 1599 [: copialettera del duca
Ranuccio].
Quanto era il mio casam:to più desiderato dal S.or Card.le mio
fr.ello, et da q.sti miei Stati, tanto il procrastinam.o d'esso, rendeva a S.S.
Ill.ma, et loro, maggior travaglio, che se gli accresceva, poichè, alla
continua istanza, che me n'era fatta, non potevo, con quanto si trattasse
dell'intiero stabilim:to di casa mia, dare sodisfattione nè di effetti, nè di
parole; poichè a certi partiti, per vantaggiosi che fossero, non potevo, nè
dovevo applicar l'animo, come Ser.re di S. M.tà, et certi altri, pur pativano
di qualche altre eccettioni; tra quali, non era l'ultima, una poca comodità,
che ne risultava, a questo bisogno in che mi ha lasciato il S.or Duca mio P.re,
Finalmente è piacciuto a Dio, di aprir la strada al mio casam:to, con far, che
sia seguito con la s.ra D. Margaritta Nipote di N.S.re, al qual partito,
sono condesceso volentieri, havendo, in più d'una occ.ne; toccato con mano, il
S.r Car.le mio fr.ello, et io, che doppo il serv.o della S.ta Sede, S. B.ne non
desidera cosa più, che di dar ogni sodisfatt.ne a S. M.tà, alla q.ale anche, i
SS.i Nipoti fanno professione di vivere devot.mi serv.ri, onde posso sperare,
che sia per nascermi q.alche occ.ne di servire alla M.tà S., come sopra tutte
le cose desidero, se ben sin qui non ho avuto ventura di farlo aparire in cosa
veruna, Di q.sto mio casam.to come a S.re di q.sta casa, et mio part.re, vengo
a dar parte a V.S. Ill.ma con q.sta, et con Giovanni Canobio esshibitore di
essa, sapendo, che per sua bontà ne sentirà sodisfatt.ne, Ne ho dato conto del
trattamento, avvisandomi, che il S.or Contestabile, il S.or Duca di Sessa, et
il S.or Conte di Lemos, a quali SS.ri feci saper tutto, quando il negotio si
dimostrò riuscibile, ne haveriano dato conto a S. M.tà, al qual fine feci dar
parte del d:o negotio all'Ecc:ze loro, et con V. S. Ill:ma ne sarà stata
participata, et rimett.mi al Canobio in q.el più che potrei dire a lei con
q.sta, in partic.re, del desiderio che conservo di ser.la, et pregandola a
crederli, resto basciando a V.S. Ill.ma le mani.
Di Parma
[RFM doc. 36, EPI041, FAR002]
RANUCCIO I FARNESE duca di Parma e Piacenza, [Epistola al Pontefice Clemente VIII sul
matrimonio con la nipote Margherita Aldobrandini],
Parma, Archivio di Stato, Corte e casa farnesiane, serie II, busta 21, fasc.7.
[Copialettera
non datata, ma 1599]
Alla
S.ta di N.S.a Clemente Ottavo.
Della
conclus.ne del matrimonio, che è piacciuto alla M.ta di Dio, che segua tra la
S.ra D. Marg.ta Nipote di V. S.ta, et me, io ho sentito infinito contento per
infiniti rispetti, tra quali tiene il primo luogo l'essermi con ciò dato a
credere di mostrare a V.S.ta, et a Casa sua, l'osservanza, et affet.ne mia, le
q.li, come non sono terminate, così mi fanno soprabondare in desiderio di
servire alla S.ma persona di V. B.ne [:Beatitudine] con q.sti Stati, che mi ha
dati Dio, et con q.sta vita, che mi ha preservata, forse a fine, di poter
spenderla, come sopra tutte le cose desidero, in serv.o di V. B.ne, alla quale
devo tanto, quanto m'han posto in obligo, le molte gratie ricevute in diversi
tempi, et occ.ni da V. S.ta, la qual vengo a supp.re [:supplicare] con la
riverenza che devo, et con la maggior efficacia, ch'io posso, a credere, che
dura ancora il rimorso che ho havuto in q.to negotio, d'essermi ritrovato in
necessità, non che bisogno, di parlare di quelle cose, che haverebbero potuto
tal volta scemare l'essenza, non che l'apparenza di q.ta mia divot.ne verso la
S.ta V. et amore verso [carta 1v.:] casa sua, dove V. B.ne non havesse toccato
con mano q.ta mia impossibilità, onde so, che mi sarà condonato da lei l'haver
fatto trattare di cose, che voleva, per altro, il dovere, che si suprimessero,
nè se ne toccasse parola mai, poiche, et q.llo che ne viene, et q.sti stati, et
il sangue proprio mio, renderanno sempre certa, et indubitata fede a V. S.ta
del'animo mio qualhora occorra di spender tutto (). Resta, che la S.ta V. si degni, come ne la
supp.o riveren.te, di annoverarmi hora tanto più tra il numero de suoi più
devoti serv.ri, et con la sua S.ma benedit.ne habilitar la S.ra D. Margarita,
et me, a ricever dalla divina mano, di q.lle gratie, che si sogliono aspettare
da Matrimonij, qual'e q.sto, stabilito per mano di V. S.ta, rapresentante in
Terra Dio benedetto, che viene con tutto il core pregato da me, a mantener V.
B.ne p. tanti anni con salute, quanto la christianità tutta, et io tanto
maggior.te hora, ne tengo bisogno.
[Seguono altri copialettera indirizzati alla S.ra Olimpia
Aldobrandini, al Card. Ald.ni, a Gio. Fran.co Ald.i e al card. Farnese].
[Nel copialettera al card. Odoardo Farnese, si legge, tra
l'altro, a carta 1r.:]
[...] questo mio casam.to [:casamento] non sia che per aportar
serv.tio alla casa et consolat.ne a me poiche come ella prudentem.te dice, pare
a me ancora che sia stato fatto da Dio benedetto in cielo, et qua è fattura di
V. S. Ill.ma [...].
[RFM doc. 67, EPI071, FAR002]
RANUCCIO I FARNESE duca di Parma e Piacenza, [Epistola a Nicolò Cesis di accompagnamento
per Simone Moschino incaricato di accomodare la fontana di Parma],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno: febbraio - marzo 1599,
cassetta 216.
Al Co: Nicolò Cesis 14 di Marzo 1600 da Roma [:Copialettera del duca Ranuccio]
Mandò costà il Moschino per far'accom[m]odare la fontana
secondo lo stabilito fra di noi, et p. che egli viene informato della mente
mia, fate che conformem.te si esseguisca, che mi riporto alla sua relat.ne et
se bene mi persuado, che senz'altro, p.esser egli chi è gli farete sapere q.llo
che passa intorno alla fabrica. tuttavia venendo egli anche in cio instruito
della volontà mia. vi incarico a fare, ch'egli non solo ne habbia parte, ma
sopraintenda ad essa fabrica, et mi racc.do
[RFM doc. 129, EPI087, FAR002]
RANUCCIO I FARNESE duca di Parma, [
Epistola al Senato di Bologna per facilitare il trasferimento del dottor
Annibale Marescotti dallo Studio di Bologna a Parma ],
Bologna, Archivio di Stato, Senato, Lettere di principi e prelati al Senato,
serie 6, vol. 30, anni 1599-1601 e 1630.
Molto Ill.ri SS.ri
La confidenza, ch'io tengo nell'amorevolezza delle SS. VV. da me
conosciuta a più prove, mi fa aspettare in tutte le occ.ni ogni giusto piacere,
et servitio, imperò dovendo partirsi di cotesta città il S. Dottore Annibale
Marescotti, per venire chiamato da me a leggere qua alla p.a cathedra della
mattina, et che il stipendio, che ha di pr.nte non sia messo in
distributione, vengo con la presente a pregar le SS. VV., che si compiaccino
per amor mio di fare, che tanto segua, che oltre intendo, che sono cose solite
a concedersi, et tutto sarà impiegato in gentil'huo., di così buone parti, et
virtù, quanto è esso Dottore, io per la stima, che faccio della persona sua, et
per l'aff.ne che gli porto, lo riceverò dalle SS. VV. per serv.tio acett.mo,
del quale restarò loro per sempre obligato, et di cuore me le racc.do, et
offero.
Di Parma li 26 di sett.bre 1600
Delle SS.VV. M.to ill.ri
Per servirle
Ranuccio Farnese
[RFM doc. 62, EPI066, FAR003]
VITTORIA FARNESE, [Epistola
a Ranuccio I Farnese duca di Parma e Piacenza con la richiesta del ritratto di
Margherita Aldobrandini, sua promessa sposa],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno: gennaio 1600, cassetta
215.
Ser.mo Sig.r mio oss.mo
Mi conosco et confesso favorit.ma da V.A. per la l.ra, con
la quale s'è degnata fra l'altre darmi conto del suo felice arrivo in Roma, di
quanto caram.te, et amor.te sia stata ricevuta da N. S.re, dell'off.o, che è
stata servita fare in mio nome con S. Beat.ne la quale si mostra in vero troppo
grata dell'aff.ne et osservanza, che le porto, et che gli ho portata sempre, et
parim.ti per che non m'habbia a restar che desiderare, significandomi l'essere,
nel quale V.A. ha trovata la persona della Sig.ra sposa ser.ma: tal che per
tante et segnalate gratie bascio mille volte le mani dell'A.V. pregando N.S.e
Iddio a prosperarla in quel colmo di felicità, che da me le viene del continuo
desiderata. Non posso però lasciare
di ricordare a V.A. la promessa, fattami del ritratto della Ser.ma mia S.ra
sposa, del quale sto con grand.ma ansietà, per compiacermene sin che S.D.
M.tà mi conceda il poterla godere et servire presentialm.te et nella buona
gratia dell'A.V. mi racc.do, con
tutt'il cuore.
Di Pes.ro [:Pesaro] a 6 di Genn.ro 1600
D. V.A. Ser.ma Humil.ma et obl.ma serva d. Coor.
Vitt.a far.se fest.a
Al Ser.mo Sig. mio oss.mo il Sig.r Duca di Parma e Piacenza. Roma
[RFM doc. 106, EPI075, FEL002]
PORFIRIO FELICIANI, [Epistola
a Ranuccio I Farnese scritta in nome del Card. Scipione Borghese con la quale
annuncia l'arrivo degli ambasciatori della lega cattolica di Germania], Roma, Biblioteca
Angelica, MS. 1216.
[carta 131v.:]
Il S.or Duca Alessandro P.re di V.ra Alt. che lasciò lei herede di
tanta gloria, quanta acquistò in tante, e sì ardue imprese contra i ribelli
della M.tà Catt.a et d Dio, gli ha lasciato gran peso nell'emulatione della sua
virtù, alla quale per eccitar V.Alt. benchè pronta per sè medesima, vengono
hora gli Ambasciatori della lega de i Principi Cattolici di Germania, et le
esporranno [carta 132r.:] l'oppressione, che tuttavia gli Eretici fanno a i
buoni et alla Religione, la quale è in estremo pericolo se da tutti i Principi
Christiani non si soccorre. I medesimi
Amb.ri sono stati a i piedi di N.ro Sig.re e partiti dalla S.tà sua ben
contenti per la dichiaratione ottenuta, che aiuterà la causa della Religione
costantemente per tutto quello, che le sarà possibile hora conferendosi a i
Principi d'Italia con l.re de Collegati, e Breve di N.S.re so che V.A. non è
per mancare di dar loro tutta quella honesta sodisfatione, che possono
desiderare. Però non ho altro, che baciarle le mani, e pregarle continua
felicità.
Di Roma li 27 di marzo 1610.
[RFM doc.45, EPI050,HAL001]
LAZZARO HALLER, [Epistola
al conte Cosimo Masi in cui si parla del libro delle imprese del duca
Alessandro Farnese], Parma, Archivio di
Stato, Carteggio farnesiano interno: gennaio - marzo 1595, cassetta 189.
Molto Ill.re Sig.r mio oss.mo
Mi spiace intendere con la di V.S. delli 4 di questo che il mal del
occhio non haveva ancora dato molza, sperando pero che con la medicina pigliata
doveva liberarsene affatto il che faccia il sig.re, e per conseguenza che V.S.
possa sollicitare li suoi conti e prezzo delle possessioni poichè così presto
havemo restituito a V.S., il patrone con il quale non ho havuto tempo di
trattare del farmi dare alcuna delle imprese, che pur haveria voluto
vedere quella di Duncherche e Dendermonde per veder quale riesce meglio,
e farla dipinger nel spazio di mancha, como faro potendola havere, ma
io pensavo che li dissegni fussero di V.S. il che si fusse così li dovese
pur rihavere, et potermene servire, e quando non sparagnerò [?] ()
questi soldi, falsando la causa perchè faccio dipingere le imprese [...]
Dal castello di Piacenza li 8 di Marzo 1595
Aff.mo e devotis.mo sempre di V.S. M. Ill.re
Leo Lazaro Haller
Al molto Ill.re Sig. mio oss.mo il sig.r Cosimo Masi Conte di S.
Michele da [...] E Parma
[RFM doc. 9, EPI017,
LIG001]
PIRRO LIGORIO, [ Epistola a Fulvio Orsini con l'autentica dello
specchio antico del Giambellino ],
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 4105, fol. 254 r.
Gentilissimo Signor Fulvio, fo fede a Vostra Signoria del specchio
che fu della bona memoria del Corvino, è antico, trovato dentro certi muri
con ornamento di legno di larice molto grave, fu prima trovato da Giovan
Bellino pittore nella sua Vigna nell'Esquilia; nella morte del pittore venne
alle mani del Signor Martio Colonna, poscia dopo la morte della signora Livia
sua mogliere [sic] il Corvino ()
procurò di haverlo con quella sua solita e naturale ansietà e diligentia,
havendolo acquistato, gli tolse via il suo ornamento il fece purificare nel
lustro al specchiaro che è oltre per la via di sansalvatore del lauro, e l'ornò
di quel'ornamento che hora tiene attorno.
con questo infinitamente me le raccomando il di 14 di febraro del 1563.
S:re pyrrho
Ligorio Meisopogniros
[fol. 255v.:]
Al mag.co et Ecc.mo s.or fulvio ursino pad.ne mio oss.mo
[una copia di questa epistola è nel Vat.Lat.9067, fol.164r.]
[RFM doc. 117, DIA007, LIG001]
PIRRO LIGORIO, Di amore,
in EIUSDEM, Silloge antiquaria..., Napoli, Bilioteca Nazionale, Ms.
XII.B.8.
No restorono gli antichi che con nuove finzioni d'immagini di diverse
figure mostrate e dichiarate le loro intelligenzie et lor stati, e desiderij et
fine di mortali, insegnando con tal figure d'operar bene, et a ridurre nella
mente ad altrui ogni effetto, et atto virtuoso et honesto per che essendo la
virtù produtta dalla providentia dell'amor divino, appropriano la maggior
spetialità a quelli che participano de le divine opre, et tanto più
particolarmente quanto più participano di quelle cose adiutrici nell'opere
virtuose, per conseguire gli atti honesti: et indurre agli altri in memoria la
perfettione, con la suadeza [?] della pacienza et forza dell'animo, perche come
contiene in se tali virtù et eccellentie così facilmente conseguisce lo intento
virtuoso. Onde ne viene poi l'essempio
imitativo di tutti quelli che cercano operar virtuosamente tanto per se come
per altri sono concordi et forti. Qual magior filosophia può suaderci, et qual
liberalità è quella che può condurci ad esser tenuti huomini d'abbene, si non
vi si adopra la pietà dell'amor celeste egualmente ver'ogni uno, et si noi non
usiamo facilità in adoperare l'amor con la virtù, che fa parte d'ogni cosa
prodotta, et così dunque accompagnata la bellezza dell'animo, con
l'amorevolezza con la cosa che si opera ver'altrui accresce la forza
dell'astenentia, scaccia da sè la superbia, et ogn'altra cosa dannatrice
dell'animo, et facendo questo cioè colui che considera le attioni et
l'imitatione di quelle cose operate bene che non gioisca, et che non voglia
conseguire perpetuo quel ben che si conosce per ben operare et porre in effetto
gli atti honesti e buoni. Dunque voglio dir per questo, che colui sculpì il
simolacro di Amore nella sua sepultura ad dimostrare la sua amorevolezza verso
altrui, o quel che communemente dovemo usare nelli nostri governi, onde con la
figura del maestro maraviglioso, vero et ottimo ammaestratore, delle compagnie,
et diletti che sono tra gli huomini. Questo fece colui per attrarci [?] a tutte
le cose honeste et sante mediante i suoi chiari et manifesti esempii, cioè che
egli iace sepolto nel fior dell'età sua, quasi volendo dire, che amore
l'habbia vinto, et egli superato gli appetiti inohonesti, et si contenta
per esser passato di questa vita all'altra più quieta, aspettando quel merito
che l'anima dev'haver quando ha ottenuto al mondo cose egregie et degne di
laude, et per mostrar questo s'a preso per suo sugetto Amore che ogni cosa
vince, che senza lui nessuna cosa è perfetta, el che demostra Xenophonte
nel convito con le parole di Socrate presente ad'ogni huomo, et è eguale a' i
sempiterni Dei, sopra a tutto di forma giovenile, il quale è quello che con la
sua grandezza ogni cosa sostiene, essendo tuttavia d'animo agli huomini eguale,
vedete dunque quanta forza ha nelle cose l'amor celeste, il qual Theocrito
ancho lui fa parlar Amor stesso in quel luogo dove figne le [carta 143v.:] ale
d'esso iddio in questo modo. Tu vedi me Re del cielo, et dela terra; non haver
paura se esse[n]do io tale, ho la barba così folta, et grave, per che alhora
nacqui quando com[m]andava la necessità. tutte le cose che vanno per il cielo,
et per il caos cedeno a me. Non sono il figliuol di Venere, ma mi chiamo Amore.
Non fo cosa alcuna per forza ma adolcisco con la persuasione: mi tremano le
profondità del mare et dela terra et il cielo, de quali m'ho acquistato
l'anticho scettro, et gli dò legge, sin qui con bellissime e purgate parole
Theocrito fa dire ad amore, et come vedete il figne vecchio, cio è che ogni
altra cosa si consuma sotto il suo tempo, et con gli suoi anni supera tutte le
cose mortali, et con la sua dolcezza applaca l'ire di chi lo conosce, per che
egli non sforza nessuno, per che le passioni non ce le da amore ma i nostri
sfrenati appetiti, per che essendo egli conosciuto per bello et per buono
ci fa gioire, et ci conseglia da vecchio, et chi non lo conosce adviene tutto
il contrario et questo è quel che esorta colui col simbolo di amore. volendo
opprimere la vanità del mondo, et la morte esser cosa naturale, et certa. onde
dovemo guardar al nostro fine, cio è la vecchiezza, et non temer la morte, mali
vitij. Anchora forse ha voluto significare, che con la sua morte ha vinto amor
terreno in certo modo, referendose all'amor celeste, essendo uscito dalla
circuitione de tormenti e passioni, dolor pungitivi con mille altri afflittioni
dell'animo conoscendo forse il celeste. abbandonando il terreno che per il
quale si generano le cose nocevoli che si acquistano dalla veduta degli occhi
visivi i quali mirano la bellezza donde nasce la lascivia che è del mondo inferiore
causata da la vita, che alcuni chiamano delettevole, o veramente intese che noi
mirassimo l'amor nocivo, che si parte dalla ragione, et che l'havesse trattato
tale che gli havesse rotti gli anni suoi nanzi il tempo, mostrando che amor
l'ha vinto sì come dio vincitore delle cose come scrisse Pallada poeta nella
sua epigramma in questa sententia. Amore nudo per questo ride, et è piacevole
perchè egli non ha l'arco, et le saette infocate. Nè accaso porta nele mani un
delfino, et un fiore, il che demostra, che è padrone del mare, et dela terra.
Così duncha, s'amore si conosce si vede com'egli è vecchio, et a cui non lo
conosce è sempre putto et cieco, e nudo, et non sol questo gli parrà, il vero
ma per li suoi effetti crederà siano più amori di uno, et questo adviene dalli
effetti dell'animo incomposto, et occupato nella voluttà, che'l fin di questo è
il sdegno. la qual cosa è terrena, et veramente degi huomini più vulgati. ma
cui lo conosce è di vita tale che ogni cosa spirituale non gli è segreta. Resta
hora dichiarare le due facelle, et queste credo che s'intendesse per li dui
effetti d'amore, che infiamma, et indolcisce, et per questo fu detto l'amor
esser gemino, cio è di due nature, che addolcisce, et infiamma, et chi non lo
conosce tormenta, et bruscia, i quali contrari consumano la vita humana nanzi
il tempo, per ch'alli più interviene che si affoganno in essi ligitimamente. Le
facelle anchora accese significano la immortalità dell'anima, la vittoria,
il passaggio di questa vita nell'altra, significa la luce del sole, la lucidità
delle degne imprese exequite coll'animo franco, et secondo in che modo si
rappresentano così hanno il significato, significa ancora il fine della nostra
vita, come ho detto nel giuoco della Lampada, qual si faceva ad honor di Apolline,
di Volcano, di Minerva, et di Cerere, neli quali giuochi molti contenti di
morire passavano da questo secolo nell'altro gittandosi dalla cima di una
torre, il che Aristophane ne demostra in colui, che desiderava gire
all'inferno. Dunque per questo dovemo intendere per le fiaccole accese la morte
di colui, et sua immortalità e la sua bona memoria accesa al mondo et sparsa
con chiara fama, dando il luogo a gli Heredi.
[RFM doc. 118, DEG001,
LIG001]
PIRRO LIGORIO, Degli amanti disgratiati, in EIUSDEM, Silloge
antiquaria, Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. XIII.B.8.
[carta
80r.:]
Dentro di Roma, un trar di mano discosto la porta di san sebastiano,
dentro la vigna di Battista da Anagna fu trovata una picciola urna di marmo di
questa maniera come si vede disegnata ove sono due cupidini legati colle mani
de dietro in tronchi d'arbori: la quale è sepultura di quel Pomposidio
Vestispico, che forse morì per amore di qualch'una persona; o veramente vuole significare
a noi di non seguitare l'amori terreni: ma li celesti. o veramente, che ci
debbiamo riguardare dalli superchi appititi; o veramente che egli morendo
ha lasciati i lacci d'amore i quali lo tormentavano, e colla morte, egli ha
terminato e confinato amore perpetuamente come ristretto dalli legami mortali:
ma indubbitatamente ne vole significare qualche gran disgratia intervenuta
nelli effetti amorosi, che mentre colla pena de pensieri, che l'atterravano in
simili cupidità fu assalito da qualche accedente mortale, et egli come si
legato et astretto d'amore periculo non possendo scampare corse alla morte ,
come ad venne a molti Heroi, et nominandone qui qualch'uno si proverà la
disgratia di Pomposidio, e si farà comparatione consolatoria, sì come essendo
persona bassa a rispetto degli altri che morirono nel megliore che amavano
essendo Heroi; maggiormente, non si doveano dolere i parenti suoi di tal morte,
essendo toccata ad'altri anchora, come dicono, che combattendo Achille con
Penthesilea Regina bellissima e formosissima, egli con gran fatica restato
vincitore, volendole cavare le spoglie per farne tropheo, vidde la gran
bellezza di quella, non potè contenersi che non lacrimasse sopra il suo corpo,
nè potendola renvivare comandò ali Greci, che honorevolmente la portassero a
sepellire, et li dessero degna sepoltura come meritava il suo grado, et essendo
dato il carrico a Thersite, il quale era inimico occulto di Achille, come era
ancho di tutti gli huomini eccellenti, cominciò a calunniare Achille, dicendo
che così morta era giaciuto seco per amore che già li portava, il quale non
potendola haver viva per tema che lei non gli desse qualche colpo mortale al
fine la occise, et dopo morta con amare lacrime giacque seco carnalmente: la
onde Achille sdegnato incorse in errore, perchè non dignandosi di por mano alla
spada, gli diede un tal punzone che trasse via l'anima a Thersite. Altri si
dicono che Achille non per questa cagione usò tal atto: ma per che Thersite per
dispreggio di Achille cavò un occhio a Penthesilea, et Diomede parente di
Thersite risentito della morte di quello calco co piedi con inpito il corpo di
quella misera Regina che per amore grande si condusse a Troia che ella portava
al figlioli di priamo; et per peggio Diomede la gittò nel fiume scamandro, et
mentre queste cose si facevano venne una gran compagnia di donne amazone
guidate da Cleta nutrice di penthesilea, et colle navi divertiron [?] gli
oltraggi: et preso quel corpo, e non possendo ritornare dove desideravano
spente da venti contrarij nè possendo più drizzarsi al Thermodonte la patria
loro, arrivorono in Italia et appresso i confini di Crotoniati edificorono una
terra, che poi li vicini la ruinorono. Ma questo non è nulla a rispetto
dell'errore di Achille il quale mentre si credeva ottenere polisena per moglie
di cui ardea mirabilmente, fu colla saetta di paris occiso. Hippolito
anchora essendo amato da Phedra malvaggia matrigna fu ruinato dal padre e
lei se impiccò, o veramente s'occise. anchora l'historia di Narcisso
amando s'istesso s'annegò. et quella di Oebalide et Hyacinto, et quella
di Pytis, et Borea re di Sicilia, et quel amor di Croco famosa
dalli biondi capelli, et quella di Semele et Giove, la quale fu
fulminata per le prosuntuose dimande sue, et quella anchora di Coronis saettata
da Apolline amando un altro. et l'amor di Procis, verso di Cephalo, morta
da una punta di un bastone tirato accaso, credendosi cephalo ferir una fiera
percosse la pazza innamorata. guntante [?] anchora par che voglia dire il morto
pomposidio l'amor di Sappho, et di Phaone, la quale parendo far vendetta
dell'amante dispierato e crudo, si gittò nel mare, della quale si loda Lesbo
patria sua, et mirate quell'altra anchora di Liandro, et Herone; et
guardasi Eriphyde mesta et lacrimosa dall'infelice munile. Riguardisi il
strano et sviscerato amor di pasiphe la qual giacque col tauro infamia
di Minoe suo padre è fabula di Creta accompagnata con l'amorosa voglia di Ariadne
e di Phedra, l'una et l'altra amando Theseo, si tradirono. Lodisi pur Pyrramo
et Tysbe cruciati d'amore; et faccisi pur infelice le due Laudomie
scelerate in dui mariti che loro hebbono; cantisi pure l'infelicita amorosetta
bella Canace, et Elissa fabula di Sidone la quale di congiunse
con quella che l'haveva [carta 81r.:] generata, di notte ingannando quello che
l'haveva fatta donna, e cagion che il padre per lo suo dispierato pensiero
colla spada se stesso si trafisse il petto. et compagna di costì fu Myrra
iniqua e fella. e Myrsina fanciulla giocondissima per lo furor d'amanti,
et per invidia di Venere fu morta; come ancora palustra figliola di Mercurio.
et quell'altro pazzo d'Endimione che si credette che la luna lo portasse
in cielo. e in sparta non fu tormento d'amore Venere et Adone. e per
insino all'inferno si sentirono gli amori di proserpina e di plutone, et
quelli di Orpheo et Euridice. Et è pieno tutto lo Hellesponto, del
Lampsaceno dio, et sallo ancor Thebe per la fanciulla Lothos perseguitata dalla
libidenosa voglia di priapo. et quell'altra salmace col suo Ermaphrodito
in un corpo congiunti nel fonte. et sandolo anchora li due scylle l'una
tormentata da Glauco per la sua bellezza, et l'altra tormentata che per
amor di Minoe tradì il padre proprio et la patria insieme; e che piena fu
quella del'amore dolente di Alcione et Ceice [?]. et qual maggior pena
fu quella di philumena violata da Theseo, cagion della morte di
se stesso et del figlio et la moglie insieme. come ancora l'amor di Dianira
caggionò la morte d'Hercole suo marito che tanto l'amava. Non senza
causa dunque i Galli dipignevano amore cruciato, da diverse pene legato et
rispetto da catene et percosso da ogni sorte stimoli, et ardente facelle, sì
come lo dipigne Ausonio nella sua ecloga di cupido. la cui imagine veggiamo
sculpita in un'altra reliquia di sepultura la quale è fabricata in un angolo
del palazzo di Portogallo verso la piazza di San Lorenzo in Lucina presso la
porta del cortile. Ne vedemo un altro come se detto in altri luoghi delle
nostre antichità nelle mani del signor Alessandro Corvino di bronzo col capestro
al collo colle mani legate di dietro et li ferri ai piedi. et tra l'altre belle
cose che haveva il Molza dignissimo poeta de nostri giorni, intagliato in una
pietra lo quale amore da un philosopho era sforzatamente messo dentro una
Gabbia d'occelli; di maniera che questi simboli ne insegnasse la temperanza
dell'amore carnale, et trapassando più oltre che la modestia che s'appartiene
se cade in furore come fece Phille a septevie [?] che s'impiccò per amore. in
grave danno come fu l'amore di Tarpeia la quale amando Tito Tatio Re di Sabini
tradì [?] il padre, e per premio suo ne ricevè la morte. e Paris amando
troppo la voluttà per lo amore di Helena ruinò il padre i fratelli e la
patria insieme, Turno re per amor di Lavinia volse più tosto
morire che darsi pace e godersi il Regno; et quel che scrisse Virgilio
dell'Amor di Didone che s'occise con furore stemperatamente amando. come
anche fingono l'amore di Fauno, et Iole, et quello di Canente
et Pico, et quello di Egeria et Numa, et quell'altro di Ersilia
et Romolo non potendosi consolar della legge de la natura l'una in fonte et
l'altra alla morte corseti [?]. come quell'altra percossa dall'invidia de Erse
sua sorella divenne saxo, et solo il nome di Aglauros restò in viva
pietra. e quanti infelici amanti furono questi amando Circe, et Medea,
et la fabula di Ecco, et lo disshonesto amore di Tiresia, et
l'amore di Siringa, et Pan e quello d'Apollo et Daphne, et
l'Amor di Attis e di Cibelle, et l'amore di Rhodope et Emo et
quell'altri miseri che amavano Hippomene. e quello Iphi e Theletusa.
et quello di Galathea, e Acis, et quello di Poliphemo et la detta
donna; et quell'altro di Glauco et Cyrce la quale mentre quel dio
marino amava Scylla fu amato da Circe. come a quello anchora di Naxarete
nata di Teucro, la qual diventò saxo veggendo Iphi suo innamorato
appiccato alla porta della casa sua stessa divenne sasso.
[RFM doc. 120, DEL018, LIG001]
PIRRO LIGORIO, De le Gratie et di Amore et di Thetis, in EIUSDEM, Libro X
dell'Antichità, Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. XIII.B.3.
[carta 94v.:] [...]
Amor'non è un'solo, perchè dalle diverse passioni delle cose celeste,
con le terrene, et con quelle dell'animo, causano diverse maniere, di cupideni;
et in diverse forme et modi vanno considerati, perchè gli antichi philosophi
hanno visto che sono diverse le virtù sue donde è proceduto non esser'un solo
Amore, ma molti, et due principalmente furono posti da Platone, et due Venere,
l'una celeste con el celeste Amore, che è quel divino Amore, che solleva
l'animo humano alla contemplatione de Iddio delle menti separate, che noi
chiamiamo Agneli, et gli antichi intelligenze et demoni et potentie menistri
della divina sapienza. et sono li celesti spiriti che adornano il cielo, e
iddio lodano, et questo amor dunque vogliano che habita nel cielo, come scrive
Philostrato, dicendo che Amore celeste, il quale è uno, e se ne sta in cielo,
et quivi ha cura delle cose celesti; et è tutto puro, è mondo e sencerissimo, e
perciò fassi di corpo così giovane, tutto lucido, e bello, a cui hanno dato
l'ale per mostrare il rivolgimento, qual sanno gli animi humani mossi
dall'amoroso desiderio, al cielo et a quelle cose che quivi sono. come sanno
etiandio quelle pure menti, le quali sopra i cieli sono ordinate tutte secondo
i gradi loro, che si innalzano quanto più ponno alla vista di quella beata
faccia, che è fonte eterno di tutta la bellezza, la quale in diversi modi dalla
più alta parte del cielo manda i raggi suoi ad irritare, e provocar le cose
tutte perchè a lei si rivolgino, et queste sono le saette, e gli acuti strali,
che sovente scocca amor celestiale, che con lo suo lume si diffonde [?] per
tutto circolarmente insino al profondo dell'abisso feriscono, et chi considera
il suo corpo divino vede la purità sua nel cielo nel lucido corpo in cui è
composto d'eterna vita. Egli è alato per potere portar sospese per l'aere quei
corpi i quali per loro stessi non si potrebbono levare o reggere di sopra della
terra, et chi considera questo vede il sollevamento che fa Amore nei corpi
celesti, et degli animi nostri alle divine bellezze sì come per le saette si
può comprendere i raggi de la divina luce, la quale in mille modi ci viene a
ferire, perchè ci si voltiamo a lei, meravigliati [?] della bellezza sua non
stimiamo più le cose di quagiù, che quanto elle ci sono scale di sallire al
cielo si che intendevo per amore celeste non del vero amore fattor
dell'universo il quale sotto cotal nome era contemplato da alcuno et da pochi
conosciuto: per haver humano genere perduto gli occhi della mente et questo non
era conosciuto [carta 95r.:] se non per uno ignoto dio, il quale si fa
conoscere passando dal celeste segno in corpo humano et d'indi triomphante
della croce santissima ritorno all'unione divina. Del medesimo amore qual il
Petrarcha lo invoca, dicendo. Anchor' se questo a quel che tutto avanza, da
volar'sopra il ciel gli havea date l'ale, per le cose mortale, che son'schala
al fattor' chi ben l'estima. questo amor divino, ... splendente come un sole,
il qual sparge i raggi suoi per l'universo e si diletta ... ... corpi lucidi et
puri, et come un sol riscalda ovunque tocca.
Ma com'unque sia questa, verremo all'altro Amore, che ha in mano
l'accesa face per denotar l'ardente effetto con cui seguitiamo le cose amate
trahendone continuo sollazzo. perchè egli splende come dilettevole ai pensieri
e giocondo al vedere pena nell'essenzia, arde et abrugia in presenza, et perchè
fa male è noioso, e questo più si confà all'amor delle cose terrene, il qual ci
porge diletto, genera molto più dispiacere, per ciò che mai porge nè diletto nè
piacer'intero, et per un'solazzo s'han mille tormenti, il che si nota nella
face che egli porta sicome in quella è il splendore et il diletto della sua
chiarezza et la fiamma che consuma ardendo, così anche egli splende consuma et
arde. perciò dice Plutarcho che i pittori i scultori et i poeti, finsero, che
questo dio havesse sempre seco la facella accesa, perchè dal fuoco quel che
luce n'è dilettevole, ma quel che abbrugia poi è fuor di modo molesto. questo
chiamano amor brutto, che sempre percuote et tormenta, et lo fia figliuolo di
Vulcano et della terrena Venere, a come altri vogliono figliuol di Marte.
questo chiama Platone pieno di rivolgimento di lasciva humana et di
compiacimento, et mondana Venere sua madre donna terrena. questo fu cagione che
Giove e Apolline e Saturno commettessero tanti stupri et tanti adulterij, de
quali Hercole et Neptuno impirono il mondo di favolose et strane macchie,
questo fu cagione dell'infelicità di Biblyde [?] ... e della misera Philli, e
dell'incesto di tante donne greche, di Philira, di Corone, di Danae, di
Euriphile, d'Helena e dell'altre disgratiate diventate fiere. questo fu la
rovina di Lucretia e della gloria insieme e de la cacciata dei Re di Roma,
questo ancora fece pericolar'Antonio, Cleopatra, e Clodio. et l'afflitta
Ottavia la qual come dice Seneca l'error di ciechi, e miseri mortali, che per
coprir il suo stolto e van disio han fatto che Amor sia dio, il quale par che
in vista sia diletto, ma si gode dell'altrui mali. che egli habbia agli homeni
l'ale, le mani armate d'arco e di saette con breve face porti fiamme
all'universo le quale accende in ogni cosa il qual di Venere e di Vulcan sia
prole, e del ciel venghi il più sublime stato, vitio della mente insana, il
qual movendosi da proprio la ... scalda con una piacevol foco, l'ocio nutrisce
la lascivia humana pien di molti contrari hor incende hor'avampa hor pende ogni
sua forza, or si rinova, et [carta 95v.:] et va vincendo et perdendo ad un
tempo, sinchè penetra nelle medolla et l'ossa, et incenerisce et si rifredda,
et di nuovo la face nel cuor accende all'uno et l'altro ... e tanto
piacer'assale appoco appoco quanto in un tratto manda. ora havendo detto
dell'amor celeste et del terreno, è di necessità di dire di dui amori anche
terreni. l'uno come s'è detto ha la face et l'arco, l'altro, ha il scudo con
cui egli ripara i colpi, et in luogo d'arco porta tre strali da far i suoi
colpi ed ha sei ale, in testa nei piedi e nelle spalle, si come erano ambe dui
intagliati in una corniola. in un'altra era Amor che faceva seder un cane. et
l'altro amore era da un cane a guisa di cieco menato, in un'altra corniola era
Amore che sedeva pescando all'amo, assiso su un scoglio con una sportella di
pesci accanto, i quali seranni [?] gli amori, della terra e del mare, secondo
l'opre che loro fanno. i dui amori anchora discrive Ovidio, quando chiamò
Venere madre d'ambi gli amori, che l'uno è il gioco, e l'altro è il piacere,
overo l'uno è quel che fa amare, et l'altro corresponde in ambi gli amanti, si
pure perchè dui sono gli amori l'uno per li effetti honesti et l'altro per li
dissonesti: l'uno di questi si dice Herote e l'altro Anterote come
havemo detto più di sopra. Anterote fu trovato contra di quei che essendo amati
non amano; il qual nume punisce chi non ama essendo amato tanto nell'uno come
nell'altro sesso. l'uno nasce dalla Venere e l'altro dall'effetto Venereo.
Favolano che Venere essendogli nato Herote quello era sempre bambino: ne dimandò
consiglio all'oracolo di Themis cio è esaminò qual fusse la natura di questo
suo figliuolo, rispose che quel fanciullo stando solo non crescerebbe mai,
bisogna darle un fratello, acciochè l'amore fusse tra loro dui scambievole et
l'uno per l'altro crescerebbeno al suo giusto dovere. per questo oracolo Venere
partorì Anterote, nè fu questo così tosto nato, che'l primo cupido cominciò a
crescere, pose l'ale, caminò prestamente, l'uno tolse le saette in mano e la
face, et l'altro il scudo e la facella, che significa che l'amor non è mai
solo, e se solo e sarà picciolo bambino che comincia a veder un poco la luce.
ma quando è accompagnato l'operation sua cresce e si fa grande, per cui che
intendendo l'uno l'altro con le faci, l'uno tira le saette l'altro nel scudo le
raccoglie, che viene a dire che l'amor cresce quando è posto in persona che
medesimamente ami, e chi è amato deve del pari amare. Per questo gli Attici
nell'amor socratico e Platonico tenevano gli essempli degli reciprochi amori,
gli Atheniesi parimente e singularmente haveano gli altari a i due amori
consecrati. Presso gli Elei, in un sol luogo del gymnasio ci voglino dir nella
loro schola venivano le statue dell'uno et l'altro amore. acciochè si
ricordassero i giovani di non esser'ingrati contra chi gli amava. aciochè
amassero altri come altri l'amavano. questi due amori finsero che insieme
combattessero per levar la palma di mano l'uno all'altro, o vero che il ramo
della palma l'uno lo concedeva all'altro, e Anterote è quello, che più
[carta 96r.:] dimostrava con atto di affaticarsi, d'acquistar la palma di
Herote. Lattantio Firmiano usò una certa ironia contra gentili introdusse
Marco Tullio, col suo Pomponio Attico, come che per mottegiarlo del amore disse
che furono i Greci di grave consiglio, e di parere di molta audacia, a porre
davante agli occhi de i giovani ove si dovevano nelle cose virtuose essercitare
la imagine di cupidine. quasi che dubitasser'estino, che quella più tosto
potesse svegliare negli animi giovenili le lascivie, e i dishonesti piaceri,
quali dicevono gli antichi tutti vivere di Amore, che accenderli alla virtù: ma
i romani per vietar'tanta sfacciata ordinatione poseno nelle schole amor tra
Mercurio et Hercole, per demostrare che quivi non si doveva seguitare l'amor lascivo,
e dishonesto, ma quello che fosse ragionevole, e virtuoso, per che mostrava
Hercole la virtù, e Mercurio la ragione. per questo nelle intagli delle gemme
che si portavano per vedere e tener sempre nanzi agli occhi i virtuosi pensieri
sono pieni dell'imagine di Hercole o questo con l'amore, o l'Amore con
Mercurio, o Mercurio con Minerva. e nelli Theatri si mettevano et nei Gymnasij
gli huomini fortissimi per essempio commune, fatti di marmo e di bronzo, e vi
si locavano come per inalzare gli animi e non esser poltroni ma di fare [?] et
essercitare corpo e atti a ogni fatica, immortale, od anche si bene erano
simili essempi impublico dedicati e ordinati da gli huomini savij non perciò
mancarono degli abbusi e di porne anco di quelli che si bene aveano qualche
parte cattiva. Voleano che la migliore anche in queste necessarie lucesse
mettendovi l'essemplari di quei ch'erano forti de corpi, se bene erano
edacissimi o vogliamo dir gulosi et voracissimi mangiatori, i quali almeno
quella quantità di sostanze che devoravano se le vedevano nelle forze, tra i
quali furonon huomini heroici, athleti, poeti e pastori. de quali fu un numero
infinito, et molti nell'amor fertili. i quali nel vero furono più per la loro
prudenza sculpiti che per altro nei Theatri, nell'Amphiteatri, nell'Hyppodromo
o Cerci o Stadij come li vogliamo chiamare luoghi fabricati a rappresentar le
feste degli dei e honorar gli huomini di memoria degni: così questi nei luoghi
pubblici de Gymnasij o schole, dove s'essercitavano vivi, le cui imagini voleano
per insegnar l'essercitio loro alla posterità, sculpendogli, appresso a gli
amori, con li instrumenti con che s'essercitavano, e con li rami di palme,
signal della vittoria da loro acquistata e quei ch'erano tiratori del disco gli
ponevano il disco in mano, il quale era fatto in forma di piatto tondo e piano,
come poseno alla statua di Iacintho, e di Apolline quelli che haveano vinti gli
altri alla musica gli locavano presso la imagine di Orpheo e di Apollo e quegli
che haveano meglior degli altri saltato, havevano in mano gli altri [?], che
sono pesi di piombo, di tredici e di quindice libre di pesso per ciascuna mano,
anche si libravano e contrapesavano per meglio levar'il corpo e le piedi in
alto e così se contrapesavano nella motion del salto, o vero questi tali piombi
scambievolmente [carta 96v.:] li ponevano in terra con prestezza stando in
piede col flesso del corpo piegandosi hor con la man destra poneva dal lato
sinistro in terra, hor colla sinistra poneva al lato destro l'altra alteres [?]
così essercitavano e usavano il corpo a snodarsi e farse flessibile ad ogni
moto [...].
[carta 99r.:] [...]
Nella casa de Salviati verso piazza Agona si vede Amore appiè della
statua di Baccho, molto ben disposto. questo è per che Amore e Baccho sono dui
tipij [?] i quali usano grandissima violenza, che come dice Taxio Alexandrino,
che questi occupando l'anima, muovono altrui con furore a operar
sfacciatamente: questi infiammandola col solito fuoco: e questi ardendola con
l'occulta fiamma del vino, il quale è il nutrimento di Amore; per questo
anchora si vede Amore sculpito in alcune pietre che fanno la vendemia dell'uve,
per che l'uva s'intende baccho, e sono tale vendemie molto frequente
nell'antiche sculture. e nelle gemme è Amore col tirso di Baccho in spalla
accavallo a un lynce cane di Baccho, overo portano canestri o raspi d'uve. e
con essi va la Ebbrietà, che è una vecchia che difformamente camina con li
pandi vestita inordinati e sparsi, sacrificano a Baccho. il vino scuopre molto
l'amore, per che palesa chiunche ama nascostamente; e par [carta 99v.:] che
egli porta odio a chi non è sfacciato, come s'havessi da alcuno ricevuto
oltraggio così disgratiatamente fa a furore movere altrui, e fallo incorrere al
pericolo. di grave periglio.
[RFM doc. 121, DEL019,LIG001]
PIRRO LIGORIO, Della
Disperatione, et durezza, in EIUSDEM, Libro X dell'antichità, Napoli,
Biblioteca Nazionale, Ms. XIII.B.3.
[carta 109r.:]
DE LA DISPERATIONE, ET DUREZZA
La disperatione d'amore dipingono phille, che s'appiccò sua unpiedi
[?] amandola in cui ella si trasformò, la quale aspettando il suo Demophane che
sopra ogni altro suo pensiero amava sette volte venne in valugo detto le sette
vie, e non trovandolo si appiccò. il medesimo fece Iphi per amor di Naxarette,
la quale non volle mai consentire all'amor di cui l'amava. Iphi s'appiccò
all'uscio, e essendo mandato con l'essequie a sepellire Naxarete morsa dal
peccato diventò sasso. significante la sua durezza. Biblis mandò Cauno suo
fratello come dice Parrhenio, et seguendolo per tutto, s'appiccò sul fonte
detto Biblide, ove purgò la sua ostinata voglia non potendo ottener l'amor del
fratello. Fu disperatione anchor quello di Timagora e di Milete, il quale
amando svisceratamente Milete e non potendo avere quanto desiderava; e un
giorno havendolo scongiurato, che gli comandasse qualche cosa gli disse. vatti
a gitar da quel scoglio: Timagora dunque acceso dal desiderio, e dal
compiacimento della cruda dimanda: per uscir d'affanni: si gittò da quella
balza e s'uccise. la onde Milete congiunto dall'amor che quello gli portava
come cagion del suo male dalla medesima rupe si gittò: e dove furono sepulti
furono fatti dui altari, l'uno ad Herote, e l'altro ad Anterote, cioè
all'Amore, e al reciproco amore che resiste, del che avemo detto altrove.
[RFM doc. 122, DIP004, LIG001]
PIRRO LIGORIO, Di Priapo et di Iside et dell'Amore, in
EIUSDEM, Libro X dell'antichità, Napoli, Biblioteca Nazionale,
Ms.XIII.B.3.
[fol.300v.:] [...]
Non meno fu bella quest'altra invenzione dove sono da una parte il Dio
Priapo di forma di termine sull'altare rotondo, e dall'altra parte un tropheo
d'arme con due palme, e tra queste dette due imagini sono dui Amori, che
cominciano la lotta, afferrandosi con le mani alla larga ogni uno di essi in
guardia si sforzano di venire alle prese più ristrette, come che quegli ci
rappresentano, molte battaglie essere state fatte, e molte città dessolate e
vinte, e molte fabricate, e molte tradite infatto ci mostrano gli atti amorosi,
come che da lascivi pensieri combattono per acquistar'la palma dell'acquisto
d'ogni vincitore, impero che non è si fiero core, ne sì valoroso soldato, che
non venghi dalle passioni amorose vinti, e superati, e fatti humili e
smenticati d'ogni lor gloria. o pure che Amore acquista la palma nella sua
lotta nei tempi della guerra quando intalhor'i stupri vanno in volta. che i
capitani siano presi dal giogo d'Amore, e fatto di loro vittorie tropheo, è
cosa nota, vedasi tra troiani Paris, e tra i Greci Achille e Neoptolemo tutti
uccisi per le occasione de seguire i loro amori. chi distrusse il regno di suo
padre e la grandezza de i suoi fratelli, chi perde la vita e il stato insieme
dell'Aniani. Diomede vinse a Troia e la sua moglie lo cacciò dal regno
dell'Argivi. Hercole vinse tutti i mostri e il sfrenato amor di Deianira
inveleno lui. Iasone vinse il velo d'oro e Medea vinse lui, Ulisse tanto
savio gli fu pure offuscato il cervello dall'amor di Circe, ove perdè tutti i
suoi compagni pria che si partisse e scampasse dalle false lusinghe di quella
figliola del sole. Le cose dell'amore
hanno molti trophei e molti acquisti piantati nelle tragedie di innumerabili
signori de quali troppo sarebbe a raccontar di tutti loro: e per la potenza
grande di questi effetti gli antichi se industriano di far dell'essempi dele
memorie locali, per ricordar con le imagini tutte le cose [fol.301r.:] che sono
honorevoli a esseguire, tutti sono essempij morali. perciò fero sempre Marte
padre dell'armi preso dall'amore, e lo chiamarono vincitore, quando havea
allato congionta Venere detta da lui Martiale, per che intalhor'nelle guerre,
molti lascivamente fanno delle prede delle faccende amorose, o pure perchè la donna,
si sogioga con l'arme, e si tiene sotto custodia, o pure perchè si porta la
palma quando l'amore nudrisce il core di giovenili e valorosi pensieri,
perciochè pare chell'amore sia di vano pensiero e di vano dolore quando non
cerca di portarne la palma, ma senza vergogna del frutto, e per essi combatte
per far'una vaga vendetta di chiunque se le oppone. imperochè Amore è tale che
assale con le sue saette ne da spatio altrui a prender l'arme in sua difesa,
per che dall'altro assalto con l'ardente facella incende, e da poggio faticoso
e aspro il mena a farne stratio, e spoglia ogni corpo armato di valorose arme,
perciò i poeti dissero che gli Amori, spogliarono il cielo. tolseno l'arme a
gli dij, con questa loro mentione macchiarono il cielo di false oppenioni.
qual mirabile arte usò quell'altro che sulpì Amore, che havendo presi i suoi
strali et l'arco e appesegli a un piè di myrto, e preso per la mano il suo
fratello Anterote, che è il reciproco amore, che porta uno scudo in
braccio col specchio in mezzo, mostrano di correre a una meta per pigliar la
palma che è in uno termine di Priapo appoggiata, i quali par che demostrano la
fiera voglia, che la lussuria mena, e tira ad acquistar'la gloriosa insegna de
suoi fatti, e da parte è una donna legata, come sdegnosa, posta sotto l'albergo
di una capanna, tutta dolente per che al mondo sia essempio di non havere
libertate la quale l'ha ligata in quel luogo Diana. quasi mostrando, che se li
amori per lei corseno ad'acquistar'la palma, quella voglia dalla quale l'ha
ligata per lo mezzo della dea della castità, viene sforzata, con fatti liberi
non deve peccare, se non quanto che alla forza, come che l'osservanza della
pudicitia venghi come permessa dagli dei, e non dover esser per forza obligata,
ma liberamente ligarsi, et per essi legami si osserva pietosa vita verso la
buona fama, che fa l'anima tranquilla: perciochè l'angoscia de pensieri casti
sono un vincolo: che fa alli lussuriosi voltar'le spalle, e trapassare il duro
effetto. per ciò che altro è essere percossa dal strale amoroso, altro da
quello di non amare con lascivi effetti, come sono quei percossi dal strale di
piombo, e non dell' [fol.301v.:] aurate quadrella che accendono l'amore, e alle
fiamme lascive avampano: e quello ch'era anche bello in questo intaglio, erano
dui caproni, che insieme cozzavano, e due capre iacevano in terra riguardante
come ruminassero le contese de lor combattitori e vi si vedeva anco un cane, e
un pastore appoggiato a un bastone, le quai cose erano tutte in uno Acathe. in
un altro pareva che fusse sculpita la prima etate dell'huomo in una dolce
primavera, per che questo era un fanciullo quasi adolescente, con capelli
lunghi con le ale alle spalle, quali si dipigne Hiccaro, che è l'Amore di
quell'età quando è più bello, e più giocondo, il quale con un dardo in mano su
un prato di herbette segue un cervo, un altro Amor poi, più fanciullo bambino
di dietro con una facella lo siegue, e lo incende a furor lo voglia muovere, e
di lontano, è un tempietto con la dea Diana dentro. forse il che demostra
questo che Amore è tanto naturale e potente, che seguita nella gioventù anco
quei che sono de pensier casti, e molte volte sono da tal corso nanti [?] come
il cervo, che vola nel correre e per Amore s'arresta della sua leggiera
gagliardia. tanto che l'amore ai giovanetti, li muove a perseguitare le cose
sacrate alla castità, come è la cerva, che serva sempre il suo signore, perchè
la gioventù fa troppo altamente sperare nelli suoi acquisti, per che senza
sperimento alcuno non sa nè dove nè quando il suo termine dell'amorose passioni
habbino fine. e sempre pensa a cose di che Amore l'attizza, e il sprona, e
fatto un fallo incontenente ne siegue un altro: tanto che si consuma a poco a
poco s'invecchia e si dissecca del natural humore, e sempre per lo continuo
habbito, gli cresce la voglia.
[RFM doc. 34, EPI039, MOS001]
SIMONE MOSCHINO, [Epistola
a Ranuccio Farnese duca di Parma e Piacenza con la richiesta di pagare Achille
Turbati], Parma,
Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno: nov.-dic.1594, cassetta 188.
Ser.mo Sig.re et patron mio Col.mo
Quando io mi parti da Parma per venire a servire Ill.mo Sig.re Card.le;
io domandai a V.A. se io dovevo fare pagare Achille Turbati al S.re Car:le et
V.A. mi disse che havrà pagato lei et io ho già detto al S.re Card:le et per
che il detto Achille mi solecita il quale si trova avere grandissimo di bisogno
per aiutare suo padre e madre umilmente supplico V. A. Ser.ma a farmi gratia
di ordinare alli sua ministri che debiano pagare la provisione che il detto
Achille avanza a Giulio Torbati suo fratello che è già quattro mesi che si
trova per simil causa a parma cio è dal mese di febraro per tuto setembre che
poi ha partito di qua et e andato a casa sua o vero V.A. io lo faro pagare al
Ill.mo Sig.re Car.le che esendosi il detto achile porto bene et avendo servito
et a cio () posi
tornare a servire la suplico a liberarmi di questo im pacio ()
et sapendo io che V.A. Ser.ma auto [c.1v.:] raguaglio de l opera mia dal S.re
oratio lina e per che adeso io mi trovo nelle fatiche delli studi e per potere
atendere con l?animo ()
riposato e non avere a pensare a daltro ()
che condurre a buon fine la in cominciata opera che piacia al S.re Idio che io
la conduci a perfezione conforme al merito del glor:mo et ser:mo Sig.re Duca
suo padre agiuntamente la suplico a farmi gratia di ordinare al S.re
governatore che spedisca la lite che o con il mirola acio io sia libero da
tanti travagli trovandomi io molto obligato ()
al Sig.re Dotore vago al quale suplica a V.A. a farli gratia duna ()
litera al Ill.mo Sig.re Car.le Rusticarecio [?] conforme al incluso memoriale
che il tuto attendo come spero da V.A. ser.ma le ne saro eternamente obligato
con che baciandoli le Ser.me mano.
Di Roma alli 27 di novembre 1594.
Di V.A. Ser.ma Humi.mo et Dev.mo Serv.re Simone Moschino.
[RFM doc. 27, EPI032, MUR005]
GASPARO MURTOLA, [Epistola
a Ranuccio I Farnese duca di Parma e Piacenza con le felicitazioni per le sue
nozze con Margherita Aldobrandini e l'offerta di alcune canzoni composte per
l'occasione],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano estero: Roma, 1600, cassetta
414.
Sereniss.mo Sig.r mio
La venuta di vostra Altezza sereniss.ma a Roma, e le nozze sue, mi
hanno dato occasione di rinovare con questo piccolo segno, la servitù, che il
Sig.r Gio. Battista Maineri mio zio havea con la bona memoria del Ill.mo Signor
Cardinal farnese, e si come esso è morto servitor di casa sua, et Aio dell'Ill.mo
Sig.r Cardinale suo fra[te]llo, così vengo a supplicar vostra Altezza
sereniss.ma a tener questa Protettione di me, che ha havuto la sereniss.ma casa
sua di lui e dove per se stesse queste mie Canzoni sono di poco valore
per la debolezza d'Auttore non dubito che col favor di vostra Altezza non
habbiano da mutar natura, e le bacio le mani
di Roma li 12 di febraro 1600.
Di Vostra Altezza Sereniss.ma
Humiliss.mo e devotiss.mo servitore
Gasparo Murtola
Al Sereniss.mo Sig.r e P.ron mio Col.mo Il S.r Duca di Parma, e di
Piacenza. Castro.
[RFM doc. 63, EPI067, ORS002]
FULVIO ORSINI, [Epistola
al cardinale Alessandro Farnese con varie comunicazioni e un cenno all'
"historia per le due camere" ideata per Caprarola],
Parma, Biblioteca Palatina, Carteggio del cardinale Alessandro Farnese,
cassetta 105.
Ill.mo & R.mo S.re
Ho consegnato al Guardarobba i libri che V.S. Ill.ma desidera nella
nota mandatami dal Gambara: & molti altri ancora quali ho giudicato possino
servire a V.S. Ill.ma q.sta estate. Io
ho atteso fin qui a sbrigarmi del servitio di Giugno, del q.le non è mai solito
farsene gratia et finito questo, sperarò col favore fattomi da V.S. Ill.ma et
con q.llo che tutta via mi promette il Car.le Colonna, haver grazia
dell'estivo, non ostante la difficultà ultimamente fatta dall'ormanetto [: sic]
al S.r Giulio Monacho in una cosa simile. del che chiarito che sarò fra due
giorni, verrò, piacendo a Dio, a Caprarola, et portarò meco, l'historia per le
due cam.re che V.S. Ill.ma commanda alla q.le humiliss.te bacio le mani.
da Roma a xxviij di Giugno 1570
Di V.S. Ill.ma et R.ma
Humiliss.o Ser.re fulvio orsino
[RFM doc. 66,
EPI070, ORS002]
FULVIO ORSINI, [Epistola al cardinale Alessandro Farnese con
notizie su marmi di scavo e con un cenno alla Chiesa del Gesù in Roma],
Parma, Biblioteca Palatina, Carteggio del cardinale Alessandro Farnese,
cassetta 105.
Ill.mo &
R.mo S.re
Il mandato
delli danari per M. Alessio Cipriani sera rinchiuso in q.sta, nel quale io ho
fatto lasciare in bianco la quantità, acciocchè V.S. Ill.ma possa mettervi
q.lla che piacerà a lei honde stimi, come io le dissi, scudi 150 delli due
fauni, et dell'Hermaphrodito, che fu mandato al Duca di Savoia. et altri scudi
150 dalle colon[n]e, et scudi 60, della conca: ancorche delle due colon[n]e
dice Isac haverne portate al Palazo scudi 300 p. il Card.le Cosimo, et 100 p.
la conca. V.S. Ill.ma si risolse
darne 200 d'ogni cosa insieme, et tanto m'è parso ricordarle. il mandato s'è fatto
diretto a me, perche M. Alessio desidera, per un suo rispetto, ricevere a nome
di dono q.llo che V.S. li darà per la conca e le colonne, et a nome di
pagamento, q.llo che per li fauni & Hermaphrodito però parendo a V.S.
Ill.ma farle q.ta gra., potrà, piacendole, ordinare a me che io li doni a nome
di V.S. Ill.ma scudi 125 per la conca e le colon[n]e; et scudi 75, per li fauni
& Hermaphrodito, gli dia per pag.to.
Il libro
dell'epigram[m]i fra due giorni sarà finito, et subito ligato si mandarà a V.S.
Ill.ma col Principio che mi lasciò in nota.
S'è mandato a
M. Viviano un'Hygino, con certa carta di segni celesti, che li ho scritto
debbia riporre nello studio di V.S. Ill.ma servito che se ne sarà.
Con quel m.o
Gio.ni Ant.o che fu proposto a V.S. Ill.ma per la cosmographia [carta 1v.:], ho
parlato di nuovo con persuaderlo a contentarsi della provisione honesta. &
parmi honesto ridutto che verrà ogni volta che V.S. Ill.ma si risolverà, con li
dodeci scudi il mese & le spese, o vero dodeci, senza spese, come pare che
più si contenti.
Perche V.S.
Ill.ma mi com[m]andò che io dovessi pigliare cura più particolare delle l.re
per l'inscrittioni del Giesù, cercai un'impronta dell'OSSA AGRIPPINAE, che
avevo fatto fare con diligenza molt'anni sono p. Monsig. Ant.o Augustino. &
riscontrai infatti che la copia che n'havevano quei Padri, che vidde V.S.
Ill.ma, non era ben fatta. perciochè riscontrate in presenza con ciascuna l.ra
insieme, ve si trovò differenza grande dal bono al malo. feci poi paragonar
q.ste med.e l.re con q.lle della colon[n]a Traiana, con q.lle del Palatino, di
Cesare, & d'altri, et tutte parvero anco a M. Thomaso, che non
s'accostassero di gran lunga alla bontà di q.ste; delle q.li feci fare un
alphabeto, et un cartone dell'ALEXANDER per vedere come riuscivano in opra.
& parve al med.o ms. Thomaso che riuscisseno beniss.o et che non ne si
potesse desiderare altro, eccetto che nell'A. l'offendeva q.lla quadratura,
come invero non è da piacere. hora V.S. Ill.ma potrà vedere l'impronta stessa,
che io le mando a effetto, acioche possa risolverse, et darmi ordine che le
l.re si comincino a intagliare, che hormai [carta 2r.:] è tempo. et piacendole
q.sta forma, mutato l'A, et alcune cosette di giuditio d'esso M. Thomaso, la
supplico rimandarmi q.st'originale quanto prima. con che humiliss.te le bacio
le mani.
Da Roma a
xxviii di Giugno 1574
Di V.S. Ill.ma
& R.ma
Questi p.ri del
Giesù mi fanno sapere che hanno trovato alcuni marmi in casa di V.S. Ill.ma che
seranno buoni per il scudo del Giesù, ma che per haverli, vi bisogna la
com[m]issione di V.S. Ill.ma et per i putti che s'hanno da fare, mi dicono
haver trovato un pezzo di marmo a proposito, quale però bisogna comprarlo da
scarpellino che n'è p.rone, et se n'aspetta la licenza di V.S. Ill.ma.
Humiliss.o
Ser.re ful.o or.no [:FULVIO ORSINO]
All'Ill.mo
& R.mo S.or mio col.mo Il S.or Car.le Farnese a Cap.la [:Caprarola].
[RFM doc. 64, EPI068, ORS002]
FULVIO ORSINI, [Epistola
al cardinale Alessandro Farnese per la commissione di un lavoro ad un artista], Parma, Biblioteca
Palatina, Carteggio del cardinale Alessandro Farnese, cassetta 105.
M.o Antonio orefice da Faenza mi dice che q.l Fiamingo che doveva
fare la coverta dell'officio di don Giulio è per andare a Siena, dove starà
q.lche tempo, et che sarà necess.o se V.S. Ill.ma non lo retiene, capitare in
mani di Bartholomeo da Turino, che sarà lunghissima pratica: Con che
humiliss.te bacio le mani di V.S. Ill.ma
da Roma a xvij di Aprile 1577
di V.S. Ill.ma e R.ma obligatiss.o Ser.re Ful.o Ors.no
[RFM doc. 65, EPI069, ORS002]
FULVIO ORSINI, [Epistola
al cardinale Alessandro Farnese per i lavori dello studiolo],
Parma, Biblioteca Palatina, Carteggio del cardinale Alessandro Farnese,
cassetta 105.
Ill.mo & R.mo S.r mio col.mo
Mando a V.S. Ill.ma il scritto fatto con M.o flaminio sop. il studiolo,
q.le io scrissi a V.S. Ill.ma che s'era ridotto a legno solamente di noce,
acciocchè'l m.o si contentasse delli s.di 300, & perchè nella l.ra di V.S.
Ill.ma non era espressa q.ta conditione, mi è parso replicarla, & insieme
mandarle l'obligo , accioche piacendole, si degni ordinare che me sia
rimandato, insieme con l'ordine delli s.di 500, q.li per q.sta volta si pagano
anticipati per supplire alla p.visione che s'è fatta di legno bello, et
stagionato che è q.to m'occorre dirle in q.ta, nella quale humiliss.te bacio le
mani di V.S. Ill.ma.
Da Roma a xxix d'Ag.to 1578
Di V.S. Ill.ma et R.ma obligatiss.o Ser.re Ful.o orsino
[:FULVIO ORSINO]
[Senza destinatario]
[RFM doc. 21, EPI026, ORS002]
FULVIO ORSINI, [Epistola al cardinale Odoardo Farnese sul restauro
di alcune statue antiche], Parma, Archivio di
Stato, Carteggio farnesiano estero: Roma, 1592-1594, b. 410.
Ill.mo et R.mo S. mio Col.mo
Per dar conto a V.S. Ill.ma di quel che si fa della restauratione
del fiume di casa, le dico in questa, come trovo molta carestia di huomini,
che siano a proposito, perchè li proposti da M. Gio.Battista nostro a me non
piaceno punto, et Hippolito, del quale altre volte ho ragionato con V.S. Ill.ma
di presente è occupato con il S.or Cardinal Sforza, et dui altri, che mi
piaceriano, l'uno è longo d'operationi; l'altro è molto bizzarro, et è quello
che restaurò la Venere comprata dal Duca Cesarini.
In tanto attendo a far finire li piedistalli, accioche V.S. Ill.ma
trovi messo in opera almeno l'uno de'fiumi, cioè quello del Cesarini, se non si
potrà l'altro così presto.
Il S.or Carlo Cremona non credo che averà il giardino, perchè
ci vuole una clausula nell'istrumento che il Duca non la concederà, et
rompendosi la prattica, il giardino sarà del S.or Alessandro de Sanguini, col
quale s'era prima trattato, et sborsarà di contanti scudi tre millia alla fine
di questo mese, per tal compra. Il
sud.o S.or Aless.o per compiacere al S.or Card.e Sforza, che desiderava la statua
di Meleagro, o vero d'Adone, secondo altri (il che io non credo
perchè non somiglia) ha pagato la d.a statua cento cinquanta scudi, et
ottenutela con molta difficoltà, per essere in un nicchio nel giardino da
basso, dove era il fiume, et donatela al S.or Card.le Sforza. Nel resto il Duca è faciliss.o nel
concedere tutto quello, che se li chiede in vendita, nel che io non ho cosa,
che mi prema, fuori di quelli due Colossi, che sono bella cosa,
et rara, quando pero se potessero havere per prezzo conveniente.
Et con questo fine bacio humiliss.te le mani di V.S. Ill.ma.
Da Roma, li 22 di Settembre 1592.
Di V.S. Ill.ma et Rev.ma
fedeliss.o Ser.re Ful.o Ur.no [: Fulvio Orsini]
[P.S.:] Il Car.le Montalto mi
ha detto q.ta matina haver per le mani una testa di Hadr.o
[:Adriano] che se ne chiede cento scudi, et mi ha fatto istanza perche la veda.
All'Ill.mo et R.mo S.or mio Col.mo
il Sig.r Cardinal Farnese.
Parma
[:card.Odoardo Farnese].
[RFM doc.22, EPI027, ORS022]
FULVIO ORSINI, [Epistola al duca Ranuccio I Farnese circa
l'acquisto di medaglie antiche], Parma, Archivio di
Stato, Carteggio farnesiano estero: Roma 1592-1594, cassetta 410.
Ser.mo Sig.r et p.rone mio Col.mo
Pensavo con questa poter dire a V.A. Ser.ma d'haver fatto il bisogno
completam.te per conto delle medaglie, che me scrive; ma ritrovo tanta
difficoltà in complere il numero, che desidera, con haver riguardo che le cose
siano buone, et il prezzo non sia eccessivo, che a pena a quest'hora ho messo
insieme la metà di esse med.e et queste poche non altrimente che con sfiorare
quattro, o cinque concerti, che sono al p[rese]nte in vendita.
Con tutto ciò spero che la settimana seguente, haverò messo ogni cosa
insieme, et s'io non m'inganno, con sodisfattione di V.A. Ser.ma et di quel
S.re ancora, a chi lei disegna di mandarle, perche io pretendo principalm.te
che le medaglie siano buone, et che nel prezzo si faccia il maggiore sparmio,
che si può.
Il che mi è parso intanto dire a V.A. Ser.ma alla quale
humilissimam.te bacio le mani; et prego da Dio ogni contento.
Da Roma, li xvii di luglio MDXCIIII
[: 17 luglio 1594].
Di V.A. Ser.ma Humiliss.mo Ser.re
Ful.o Orsino.
[:Fulvio Orsini]
[Indirizzata al Duca di Parma e Piacenza, Parma].
[RFM doc.23, EPI028,ORS002]
FULVIO ORSINI, [Epistola a Ranuccio Farnese duca di Parma e
Piacenza circa l'acquisto di medaglie antiche], Parma, Archivio di
Stato, Carteggio farnesiano estero: Roma 1592-1594, cassetta 410.
Ser.mo Sig.r mio Col.mo
Finalmente ho messo insieme le quattro dozzine di
medaglie, che V.A. Ser.ma commanda, cioè doi dozzine di medaglie grandi, et
altre dui di medaglie mezzane. Se
tutte si fossero potute haver grande, e che fossero state buone, l'haveria
prese volentieri con spendere la somma delli 400 scudi. Ma delle grandi non ho potuto haverne di
più, che doi dozzine, et queste con grandissimo mio stento, havendo con ogni
diligenza scielto [sic] il fiore di cinq. concerti. In queste doi dozzine di grandi ve ne sono quattro, che vaglieno
cento s.di. Nelle doi dozzine di
mezzane ve ne sono sei, che vaglieno s.di 50.
Tutte insieme si sono pagate 270 s.di delle quali si mandarà nota a V.A.
Ser.ma insieme con le medaglie istesse.
Io non mi sono curato di medaglioni, perchè il prezzo loro è molto alto,
et quando se ne fossero messi sei insieme, il che sarebbe stato impossibile,
bisognava pagarli almeno 200 s.di. Dui
solamente si sarebbero havuti con 60 s.di
Ma così poco numero non concertava bene con l'altro. Se pure lei li vorrà, si farà opera
d'haverli. Ma a me pare che queste
quattro dozzino bastino, certificandola che'l dono haverà rispetto così al
termino a quo, come a quello, ad quem.
Ancorchè io creda che quel S.re non sia intelligente a bastanza delle
conditioni, che si richiedeno nelle medaglie, che sono principalm.te la
sincerità, et bontà di esse.
Altro non ho da dire a V.A. Ser.ma se non che a me sarà sempre
singolariss.o favore d'esser commandato da lei, alla quale humilissimam.te
bacio le manj, et prego da Dio ogni contento.
Da Roma li 27 di luglio 1594.
Di V.A. Ser.ma Humiliss.o Ser.re
Ful.o Orsino [: Fulvio Orsino]
[Al Duca di Parma e Piacenza Ranuccio I Farnese]
[RFM doc. 24,
EPI029, ORS002]
FULVIO ORSINI, [Epistola a Ranuccio I Farnese duca di Parma
e Piacenza circa la conclusione della pratica per l'acquisto di medaglie
antiche e la consegna delle stesse], Parma, Archivio di
Stato, Carteggio farnesiano estero: Roma 1592-1594, cassetta 410.
Ser.mo Sig.r
mio Col.mo
Ho consegnato al sig.r Adonia
Salvi agente di V.A. Ser.ma una scatola con quattro carte di medaglie di
bronzo, due di 24 medaglie grandi, et due di altrettante medaglie mezzane, che
fanno il numero in tutto di 48 medaglie, essendone poste 12 per carta, nelle
quali tutte si sono spesi 270 s.di et quel poco di più che si sono pagati
alcuni cerchi, et taffetà cremisini.
Et per che con le medaglie viene la nota di esse, non replicarò altro a
V.A. Ser.ma se non che queste sono le migliori, che io ho potuto havere, poi
che non ho voluto medaglie, che non fossero sincere, et che non havessero
sospitione alcuna di ritoccamento.
Quanto poi alla valuta di esse, potrà credere V.A. Ser.ma che quattro
delle grandi, et sei delle mezzane vagliano poco meno del denaro, che s'è speso
in tutte. Percioche un Vitellio col
rovescio delle cinq. figure, che è nello studio di casa simile a questo, che se
le manda, fu pagato già scudi 60 et l'altro Vitellio col MARS VICTOR è stimato
scudi 25 et altrettanto il Calligola col rovescio delle tre sorelle. La medaglia di Aelio medesimam.te è di gran
stima per la rarità del suo rovescio delle tre sorelle. La medaglia di Aelio medesimam.te è di gran
stima per la rarità del suo rovescio, et conservatione. Nelle medaglie mezzane vi sono quattro
Domitiani col rovescio delli Ludi secolari, che uno solam.te di essi è stimato
25 s.di oltre il Vitellio mezzano, che è stimato s.di 12, et alcune altre, che
sono tutte notabili. S'io haverò
satisfatto a V.A. Ser.ma in questo suo commandam.to haverò conseguito il fine,
che è stato di servirla, come farò sempre in tutto quello, che lei si degnerà
commandarme. Con che facendo fine le
bacio humiliss.te le manj, et le prego da Dio ogni contento.
Da Roma li 12
d'Ottobre 1594.
Di V.A. Ser.ma
Humiliss.o Ser.re
Ful.o Orsino
[Indirizzata al
Duca di Parma e Piacenza. Parma]
[RFM doc.123, EPI081,ORS002]
FULVIO ORSINI, [ Epistola ad
Ulisse Aldrovandi sull'iconografia di Plinio ],
in ULISSE ALDROVANDI, Observationes,
Bologna, Biblioteca Universtaria, Manoscritti Aldrovandi, ms. 124, vol. 136,
tomo 27.
[fol. 99v.:]
Ex l.ris Ill.ris D. Fulvij
Ursini.
Romae datis die 27 iunij
1598.
Di Plinio non ho veduto imagine alcuna, et mi piace quel, che il sig.r
Velli dice, che in luogo suo si potesse mettere, ma molto più mi piaceria la
figura, che si trova in un marmore senza testa, che alli piedi tiene una
cassetta di libri; et manderone il disegno a V.S. se lei vuole, al quale si
potria supplire una testa imaginata, come fece Asinio Pollione alla statua
d'Omero.
Et forsi chi cercasse, si potrebbe trovare qualche luce dell'effigie
sua appresso gli scrittori.
[RFM doc. 124, EPI002, ORS002]
FULVIO ORSINI, [Epistola ad
Ulisse Aldrovandi ancora sull'iconografia di Plinio],
in ULISSE ALDROVANDI, Observationes,
Bologna, Biblioteca Universitaria, Manoscritti Aldrovandi, Ms. 124, vol. 136,
tomo 27.
[fol. 127r.:]
Ex l.ris Ill.is D. Fulvij
Ursini.
Romae datis die 22 iulij
1598.
Nel resto credo, che il torso di Roma sarà p. molto a proposito, o con
la veste vera, o con l'immaginata.
[RFM doc. 125, EPI083, ORS002]
FULVIO ORSINI, [Epistola ad
Ulisse Aldrovandi con la quale si scusa per aver perduto il disegno del
ritratto di Plinio], in ULISSE ALDROVANDI, Observationes, Bologna, Bilbioteca Universitaria, Manoscritti Aldrovandi, Ms.
124, vol. 136, tomo 27.
[fol. 127r.:]
Ex eiusd. l.ris
ibid. datis die 8 Augusti
1598.
Io non so, che folletto m'habbia levato dinanzi il disegno della
figura, che doveva servire per il libro di V.S. per Plinio.
Et dovendo V.S. haverne bisogno p. tutto questo mese, et io non
ritrovandolo p. molta diligenza, che ho usata nel cercarlo, prego V.S. che si
serva del disegno della figura, che li dirà il sig. Veli, che è nel mio libro
delle immagini, che è tutta simile a quest'altra, che non ritrovo, dalla casset
[fol. 127v.:] ta de libri in poi, et certo motto, che mostrava d'esser
iurisconsulto et così la cosa passerà beniss.o.
Intanto escusi questa mia disgratia di non poterla servire, come
desidero.
[RFM doc. 33, EPI038, ORS005]
ALESSANDRO ORSO, [Epistola
al Conte Cosimo Masi con la quale chiede di acquistare alcune pitture per suo
conto in Fiandra],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno: luglio - agosto 1594,
cassetta 186.
Molto Ill.re S.r mio oss.mo
Con l'occ.ne del p[rese]nte Simone Baccalari di S.A. che se ne viene
in Fiandra per suoi affari, per tornarsene qua al solito suo serv.tio espedito
che sia, ho voluto basciar le mani a V.S. come vengo a far con q[ue]sta,
ricordandomele il solito ser.re, et racc[omanda]re alla sua protett[io]ne il
p[redet]to in q[ue]l che li potesse accadere d'haver bisogno della
protett[io]ne sua, che restarò a V.S. con part.re obligo di quanto si degnarà
di fare a benef[iti]o del p[redett]o, per amor mio.
Un cattaro stravagante mi ha posto in necessità di pigliar la china,
nella qual purga che ho finita a punto hoggi sono stato sino a quaranta di, è
stato causa, ch'io mi sia dato a veder delle Pitture, et intrato in humor di
esse, imperò, con la confidenza ch'io so di poter haver nell'amorevolezza di
V.S., la supp.co a farmi g[rat]ia, se a sorte li da alle mani alcuna cosa di
pittura che sia buona, di farla comprare a nome mio, che gli rimetterò sub[it]o
il costo, et le sarò oblig.mo del favore, et mi saria anco car.mo di poter
haver q[ua]lche cosa di colui che lavora così bene di Piuma [...].
Di Parma li xi luglio 1594.
[Non è firmata. Il mittente
si ricava dalla nota coeva della cancelleria ad uso d'inventario]
Al molto Ill.re Sig.r mio oss.mo Ill.s.or Conte Cosimo Masi a Brussels.
[RFM doc.35, EPI040, ORS005]
ALESSANDRO ORSO, [Epistola
a Cosimo Masi con la quale chiede di dare informazioni ad Enrico Farnese per la
biografia del duca Alessandro Farnese],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno: nov.- dic. 1594,
cassetta 188.
Molto Ill. S. mio oss.mo
Il s.r Duca ser.mo m'ha comandato, ch'io invij a V.S. l'alligata
l[ette]ra scrittali dal S. Dottore Enrico Farnese Eburone, Questi è uno, che
vuole scrivere l'historia del ser.mo S.r Duca di glo: me:
()
et ricerca l'informatione che V.S. potrà vedere. Onde dice S.A. ()
ch'ella veda, che satisfatt[io]ne se gli può dare, et ne avvisi, con rimettere
la l[ette]ra r[icevu]ta perchè se gli possa rispondere, dò a V.S. il buon anno
nuovo, q[u]ale le prego da Dio feliciss[im]o con molt'altri appresso, et le
bascio le mani.
Di Parma l'ult.o di x.bre 1594.
Di V.S. M.Ill. Aff.mo Ser.re
Aless.ro Orso
Al molt'Ill.re sig.or mio oss.mo Ill.e Conte Cosimo Masi a Parma.
[RFM doc. 47 EPI052, PAN006]
MUZIO PANSA, [Epistola al
Vescovo Picedi perchè ottenga un'udienza per suo fratello presso il cardinale
Odoardo Farnese],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno: aprile - giugno 1596,
n.195.
La gentilezza sua, alla quale restai infinitamente
obligato nel mio Dottorato a Roma, mi spinge a valermi anco di essa in un'altra
occ[asio]ne. Mando mio fra[te]llo per
far dono all'Ill.mo card. Odoardo Farnese co[m]mune Padrone di una operetta in
verso, che contiene in parte le lodi e glorie sue.
Supplico V.S. vogli far si che detto mio fratello sia am[m]esso
all'audienza di q[ue]llo Ill.mo e che per mezo del favor suo venghi dal card.le
con buono ochio rimirato. so quanto
può, e quanto vale. Nel resto detto
mio fratello compirà a bocca con V.S. R.ma con la q.le grandeme[n]te mi alegro
della sua Promot.ne al Vescovato (come me vien riferito) pregola però di ciò a
darmi più certo raguaglio, accioche più sicuramente ne possa godere e
ralegrarmi. Mandoli un di detti volumi
perche nell'hore di recreatione possi passar tempo con esso. Torno a suplicarla vogli favorire, aiutare,
e ricomandare il d:o mio fr[ate]llo a q[ue]llo Ill.mo con che li fo riverenza
p[re]gando Dio N. Sig.re tuttavia l'esalti a magior grado
da Chieti lì 23 di maggio 96
Di V.S. m. Ill.e e R.ma
Ser.re aff.mo Mutio Pansa
Al m.to Ill.re e R.mo e P[adro]ne oss.mo
Mons. r Papirio Picedi. Roma
[RFM doc. 4, EPI012, PER005]
ANTOINE PERRENOT Cardinale di Granvelle, [ Epistola a Fulvio Orsini
con la richiesta di tradurre alcuni frammenti di Polibio ], Città del Vaticano,
Biblioteca Apostolica Vaticana,Vat. Lat. 4104, fol. 205 r.
[...] Io veram.te non haverei osato conoscendo la sua compless.ne,
altre fatiche che l'occupano et la poca inclinatione che ha al tradurre,
chiederli che s'occupasse in tradurmi quelli fragmenti di Polibio, et per
questo mi sono voltato al Gobbio, perchè me ne facci una traduttione alla
grossa come fece del Nonno ()
per il Gambaro (),
bastandomi a me di vedere il senso [...]
[RFM doc.26,
EPI031,PIC008]
GIO. PICCIONI, [Epistola a Ranuccio I Farnese duca di Parma
e Piacenza con le felicitazioni per il suo matrimonio con Margherita
Aldobrandini e l'offerta di un madrigale composto per l'occasione], Parma,
Archivio di Stato, Carteggio farnesiano estero: Roma 1599, cassetta 413.
Serenissimo
Signore.
Era pubblico il
grido che S.A.S.ma dovendo essere a Roma con l'occasione delle gloriosissime
sue Nozze passasse per Orvieto; ond'io per rinovare la sincerissima servitù,
ch'io ho tenuto coll'Ill.mo Cardinal Farnese, già felice memoria, e con tutta
la Ser.ma sua casa, havevo fatto il presente Madrigale, picciol segno
della mia professione, et havevo intentione io istesso con ogni dovuta umiltà
presentarlo a S.A.S., ma poichè (per mia mala fortuna) è successo diverso da
quello che mi pensavo, q.le lo invio nell'inclusa, e la suplico, con tutto
l'affetto del core, ad accettarlo, non guardando alla bassezza del dono, ma
alla grandezza dell'animo col quale glielo porgo, e gli resto humilissimo
servitore.
Di Orvieto il
di 28 di x.bre 1599
Humilissimo, e
Devotissimo Servitore.
Gio: Piccioni
Organista del Duomo d'Orvieto.
[indirizzata a
Ranuccio Farnese duca di Parma e Piacenza]
[RFM doc. 55, EPI061]
I QUARANTA di Bologna, [ Epistola a Ranuccio I Farnese duca di
Parma e Piacenza con la notizia della conferma della licenza concessa al dottor
Gallesi di recarsi ad insegnare a don Duarte ], Parma,
Archivio di Stato, Carteggio farnesiano estero: Bologna 1578-1600, cassetta
194.
Ser.mo Sig.r n.ro oss.mo
Habbiamo approvata, et per
leggittimo partito confirmata molto volentieri la licenza che'l sig.or
Alberto Albergati Conf.re n.ro di Giust.a diede li giorni passati al Dott.re
Gallesi di venire a servire per tutto il mese che viene all'Ecc.mo s.or D.
Duarte secondo in tutto che fossimo ricercati dall'Alt.a V.ra Ser.ma per
sua l.ra, et in conformità dalli ss.ri Camillo Paleotti et Fabio Albergati,
sendoci stata tal occ.ne gratiss. per poterle dare alc.o segno, et de gli
infiniti oblighi che conserviamo verso quella Ser.ma casa et della singolare
osservanza, et divotione che portiamo alla part.re persona di V.ra Alt.a, la
quale humilm.te supplichiamo a continuare, per benignità sua, di favorire col
commandare liberam.te che ce le offeriamo hora per sempre prontissimi;
basciandole con vero affetto et qualonque termine di riverenza le mani.
Di Bol.a [: Bologna] l'ult:o
di Aprile MDXC
Dell'Alt.a V.ra Ser.ma Devotiss.
Ser.ri
li Quaranta del Reg.to
Al Ser.mo sig.re et p.ron
n.ro Col.mo
Il S.or Prence di Parma
[RFM doc. 69, EPI072, RIV003]
BARTOLOMEO RIVA, [Epistola
a Benedetto Baistrocchi con la richiesta del disegno del Po],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno: aprile - maggio
1600, cassetta 217.
Al mag.co S.r mio oss.mo
V.S. mi facia gratia mandarmi per il p.sente il Disegno del Po, e
tenghi la p.sente, per la receputa et le bacio le mani
di casa li 14 Aprile 1600
Di V.S. M. M.ca
S.re Bartolomeo Riva.
Al M. M.co S.r mio oss.mo
Il S.r Bened.o Baistrocchi.
[RFM doc. 54, EPI060, SCO002]
ETTORE SCOTTI, [Epistola a Ranuccio I Farnese duca di Parma
e Piacenza con il disegno della Chiesa della cittadella e la richiesta di
istruzioni in proposito],
Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno: set. - ott. 1596,
cassetta 197.
Ser.mo s.r e pad[ron] mio
col.mo
Si manda a V.A. S. il dissegno
de la chiesa di cittadella, sopra'l quale si degnarà di far presta
risolutione, a ciò sopr'agionti da i cattivi te[m]pi no[n] restiamo impediti di
poter far alciar la muraglia sopra la quale, va imposta la loggia ch[e] s'ha da
far[e] verso la porta, e si co[m]e sa V.A. a la qual bascia[n]do la mano faccio
riverenza co[n] pregarle da Dio ogni contento.
di Piac.a [: Piacenza] a li 9
di 7bre [:settembre] 1596.
di V.A. Humiliss.o et aff.mo
ser.re Hettor Scotto
[RFM doc. 58, EPI063, TAR001]
LUCA TARDEGLIERI, [Epistola
al cardinale Odoardo Farnese con la quale comunica l'avvenuta discussione delle
proprie osservazioni filosofiche nell'Accademia degl'Innominati di Parma], Parma, Archivio di Stato, Carteggio farnesiano interno: maggio -
luglio 1599, cassetta 211.
Ill.mo et Re.mo S.r et pron
mio Col.mo
Poiche non ho potuto haver ventura d'esser favorito della
desideratiss.a presenza di V.S. Ill.ma nel difendere le mie conclusioni di
filosofia già a lei dedicate, ho giudicato debito mio di darle parte,
almeno per lettere, si come fo humiliss.e con questa della difesa loro, la
quale fu fatta da me hieri l'altro, giorno della solennità di S. Antonio da Padova,
in questa Academia de ss.ri Innominati, con molto gusto, et qualche lode
mia, non già per valor mio, ma si bene per esser difese sotto l'alto, et
feliciss.o nome di V.S. Ill.ma et per esservi stato presente il Ser.mo S.r Duca
mio S.re () quale
in ciò si è degnato favorirmi con tanta benignità, quanto è suo solito, et io
mi potessi desiderare.
Restami di supplicare V.S. Ill.ma come fò con ogni divotione, che sì
come non sdegnò di accettare le d.e mie conclusioni, così sia servita hora di
gradire questa riverente dimonstratione della fede, et divotione mia verso di
lei, facendomi degno della gratia sua, et di accettarmi, et tenermi sempre per
ser.re suo fedeliss:o Il quale procurerò con ogni studio di non demeritarmi
questa mercede, che desidero sopra tutte le cose del Mondo. Et per fine prego N.S.re gli dia ogni
felicità, et contento.
Di Parma il di 15 giugno 1599.
Di V.S. Ill.ma Ser.re Humiliss.o et divotiss.o Luca
Tardeglieri
All'Ill.mo et R.mo Sig.re mio sempre Col.mo Il S.r Cardinale Farnese a
Roma.
[RFM doc. 130, PAR008,
TOR001]
POMPONIO TORELLI, Parafrasi nell'etica di Aristotele, Città del Vaticano,
Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 1336.
[Libro 1, cap. 3, carta 21:]
[...] il giovane non sarà uditor accommodato alla disciplina civile,
perch'è rozzo dell'attioni della vita, et da queste si tirano le ragioni, et di
queste si concludono. oltra di ciò indarno, e senza frutto udirà seguend'egli
le perturbationi; non essendo il fine di quest'arte la cognitione, ma sì ben
l'operatione: ma in ciò non è alcuna differenza, ch'altri sia giovene o d'età,
o di costumi simili a gioveni, percioch'il diffetto non consiste nel tempo,
[carta 22:] ma nell'essere soggetto nella vita alle perturbationi, et che
l'huomo si lasci guidare da esse, nel seguir ciò, ch'egli segue; perchè a
tali , non altrimenti, ch'agl'incontinenti giova niente il cognoscere ma bene
apportarà grand'utilità a quelli, che sottopongono ogni loro appetito alla ragione,
et operano con la scorta d'essa. [...] consideriamo le ragioni d'Aristotele
contro a i giovani, che si riducono a doi, la prima si fonda su l'inesperienza
della vita; ma a quest'è facile il rimedio con l'historie, che possono fare,
ch'il giovene habbi vivuto molt'anni, la second'è il dominio delle
perturbationi; le quali se sono naturali a giovani, non veggio il maggior
rimedio, ch'aiutarlo con l'intelletto, che [carta 23:] se non farà, ch'egli
incontinente non sia, lo levarà almeno dal precipitio dell'intemperanza, et
con mostrargli la malitia delle perturbationi, et come si possono moderare,
non veggio ch'egli in ciò non possa migliorare. ma il farlo eguale a i vecchi,
che si lasciano guidare dalle perturbationi potrebbe far qualche difficoltà,
poichè molto più eradicate saranno ne i vecchi tai perturbationi, et dove i
gioveni cangiano spesso voglie, i vecchi persistendo fanno l'habito più
facilmente nel male [...].
[Libro 2, cap. 5, carta 28:]
Ma temp'è che ritorniamo onde ci siamo partiti; perciochè non senza ragione pare, che si stimi il
sommo bene, et la felicità, misurandola col modo del vivere. Il volgo certamente, et quelli, che sono
più importuni, et strascinati dalle loro voglie, et de gl'altri stimano, che'l
piacere, al quale si sono tottalmente dati, sia il sommo bene, et perciò amano
la vita piena di lusso; et nella quale non si cerchi, se non quello che
s'accost'al senso et particolarmente a quello del tatto, che seco tira il gusto
[carta 29:] come si vedrà. Perciochè sono tre sorti di vivere, che vite
chiameremo ch'all'altre sono superiori nella stima, che se ne fa; quella,
ch'habbiamo nominato pur hora, e la civile, e la contemplativa, ch'è la terza.
et tale la pone Arist. perchè è meno conosciuta, e manco dell'altre stimata;
con tutto che sola comprenda il vero, e sommo bene, et perciò pone primo
quella, che, com'è inferiore, così è stimata da più dicendo. Il volgo certo
pare simile a uno schiavo amando la vita delle bestie, et lasciatosi incatenare
dal piacere: ma ha una sola ragione, che lo sostenta, et è l'essempio de
grandi, ch'hanno il potere, et governano gl'altri, et vivono a guisa di
sardanapallo. Ove chiaramente dimostra
il filosofo, che non la potenza, o la grandezza; ma il modo del vivere, leva i
Prencipi, e gran potentati dal numero del volgo; perchè s'essi viveranno
sepolti nelle delitie, dati solamente alla crapola, al gioco, et a piaceri
carnali; et ch'in quest'habbiano post'il so fine, et solament'in essi co'l
pensiero s'acquistano, non saranno differenti da [carta 30:] qualunque
caverniero per grandi, et sublimi di stato, et di ricchezze, ch'essi si siano.
Questa vita non riprova egli con ragione, perchè già chi vive in essa ha
abbandonata la ragione, et vive solo del senso. Ma si potrebbe con l'istesso
suo fine facilmente confutare; perchè discorda da se stessa, et si procura cose
contrarie a quel fine, che s'ha proposto; poichè volendo il piacere del senso
con le crapule et altri piaceri, trabbocca in mille dispiaceri di doglie, di
stomaco, di debolezze di membri, et altre infirmità. Oltra che procedendo co'l
desiderio in infinito, è sempre bisognosa, et per consequenza infelice [...].
[Libro 1, cap. 5, carta 52:]
[...] si sopporrà, che Dio, et la mente siano lontani da ogni macchia
[carta 53:] d'affetto, della quale per il contagio corpo vediamo imbrattarsi
l'anima, havendosi dunque l'anima, impara a congiungersi con Dio, converrà
prima purgarla dall'eccesso dell'affetti, et ciò si farà con le virtù morali,
nelle quali, et nella felicità attiva, ch'è l'ultimo lor fine, converremo con
Aristotele; ma queste seranno mezzi a più sublimi virtù, ch'Aristotele forse
chiamò heroiche, noi virtù d'animo purgato nomineremo; per questo
l'anima non solamente s'adopera bene intorno le passioni, ma disprezza ogni
fondamento loro, et s'eleva a le forme intellegibili, co'l lume, delle quali,
quasi terso, et ben polito specchio, si volgea bene astratto, dal quale viene
fecondata d'ogni piacere, et colmata di salda, et vera felicità quest'ultimo
fine appartiene alla più sublime scienza, che sapienza vien detta [...]
[Libro 2, cap. 1, carta 120:]
Ma essendo la virtù di due sorti, cioè l'intellettiva, et la morale,
l'intellettiva certo per lo più nasce dalla dottrina, et con l'istessa dottrina
cresce; per il che ha bisogno d'esperienza, et di tempo; ma la morale
s'acquista con l'assuefarsi, onde ha meritato un nome tale. Onde si cognosce
chiaramente, che nissuna virtù ci è data dalla natura. Perciochè non vi è cosa
naturale che si possa assuefare a far altrimenti di quello che fa per l'ordinario;
come la pietra alla quale conviene per natura l'andare all'ingiù, già mai
s'assuefarà d'andar in su per prova [...]. Non si generano dunque le virtù
in noi per natura, ne meno nascono fuori del corso naturale; ma per natura
siamo atti all'acquisto loro, et poscia l'acquistiamo con l'assuefarci, et p.
questo stesso uso diveniamo p. esse perfetti.
[Libro 2, cap. 5, carta 151:]
[...] Chiamo affetti la cuppidiggia, l'ira, il timore, la confidenza,
l'invidia, l'allegrezza, l'amicitia, l'odio, il desiderio, l'emulatione, la
misericordia, e tutte quelle, che sono accompagnate dal piacere, o dal dolore;
perchè, o siano veri affetti, o vero a gl'affetti, o come cagioni, o come
effetti, o come proprietà si riducono.
[Libro 4, cap. 13, carta 546:]
[...] i putti, et le bestie hanno certi abiti naturali, co'quali
giovano, et nocciono; ma lo fanno senz'alcun'aiuto dell'intelletto. et come un
corpo robustissimo, al quale manchi l'uso della vista, quale leggiadramente ci
viene da poeti dipinto, il Polifemo, o l'orco, non ostante l'estrema possa,
conviene, ch'erri nei movimenti suoi, non accertando l'offesa per diffetto
degl'occhi, così in questo caso occorre. ma se questa virtù naturale riceverà
la vista dalla mente, ch'è l'occhio interno, farà le sue attioni perfette, et
molto diverse da quelle di prima. Et all'hora quell'habito, che solo haveva la
somiglianza della virtù, si farà virtù vera, et perfetta.
[RFM doc. 20, SET002,
TOR004]
TIBERIO TORRICELLA, Le tre canzoni in morte del Ser.mo
Duca Alessandro Farnese, Parma, Biblioteca
Palatina, Ms.Parm.306.
[carta 24r.:] [...]
In te risorse un figlio,
Che'l bel ceruleo Giglio
Inalzò al par de l'Aquila reale;
Ch'al Sol, ch'eterno splende altera sale;
E desir valse in te novo destare d'ergere il trionfale
Vessillo, u'Febo scalda, u' bagna il mare [...]
Settima canzone.
In morte del Ser.mo Duca Alessandro Farnese
[carte 40r. e segg.]
[carta 41r.:]
Sorgea cinta di rose in Oriente
L'amica di Titone, e l'auree stelle
Impallidiansi a l'apparir del giorno:
E rivestendo lor sembianze belle
Le Valli, e i colli, fea terrena gente
A l'opere interposte homai ritorno;
Quando l'Heroe ch'adorno ()
Ha d'ostro il tergo, e'l crine,
E in rosso tinge il bel ceruleo Giglio,
D'Alessandro immortal mortale figlio,
Chiuse sue luci al fine
In placida quiete.
Con fronda asperso nel licor di Lete;
E mentre cerca racquetare il moto
De l'affannosa mente, e del pensiero,
Repente un Cavaliero ()
Con celesti arme, e con sembiante ignoto,
sceso dal più remoto
Cerchio del Ciel si mostra a lui, che giace,
Quinci, e quindi avventando aurata face [carta 41v.:].
Corruscante ha di rai la real chioma,
Che chioma assembra in Ciel di Berenice
O d'Arriana l'immortal Corona:
Tal già, (Se'l vero a noi la fama dice)
Lui fra stelle mirò l'antica Roma,
Ch'a gli Augusti Cesareo il nome dona:
Tal, quando Giove tuona,
Appar di fiamma cinto,
E di foco splendente a mille a mille
Van sfolgorando lucide faville
Quinci al suo lume estinto
Quel de l'Aurora scolorarsi vede
Come a luce maggior la minor cede,
E per l'aria scorrendo aureo baleno
Del divin volto a gli amorosi lampi,
Par, ch'ella accesa avampi,
E con nembi di fiori il ciel sereno
Lieto ammanti il terreno.
E già par d'essi il gran Guerriero asperso
E in lui per meraviglia il Sol converso [...]
REPERTORIO DELLE FONTI A STAMPA
[RFS doc. 62, SYM003,
BOC002]
ACHILLE BOCCHI, Symbolicarum
Quaestionum...libri quinque, Bologna,
1574.
[pag.160, libro 3, simbolo 75:]
OMNIA CUI CEDUNT DIVINO CEDAT AMORI
[pag.161:]
PAN VICTUS A CUPIDINE IN LUCTA CADIT
Te quoque Pan ovium custos dignissime, Amori
Luctando quondam succubuisse ferunt.
Nec tibi profuerunt ridenti cornua fronte,
Barbaque Phoebea lampade splendidior
Non illa astriferum referens tua Nebrys olympum,
Non calamis septem fistula disparibus.
Non dextra gestasse pedum, quo cuncta gubernas,
Nempe tuum est mundi totius
imperium.
Ergo si tantum numen tu cedis Amori,
Ecquis erit nostrum cedere quem pigeat?
Victore
a summo vinci victoria summa est,
Testis
naturae es maximus ipse parens.
[RFS doc. 91, FIL005, CAM005]
RIDOLFO
CAMPEGGI, Il Filarmindo favola pastorale,
Bologna, 1605.
[Commento del Coro alla fine del
secondo atto, pag.89:]
CHORO
Goda furtivo Amante
De' suoi lunghi martir frutto
soave,
Con dubbio cor tremante,
Ch'in mezo del gioir sospira, e
pave.
Ad un soffiar del vento, [pag.90:]
Al moto d'una fronde,
Privo d'ogni ardimento
Ei fugge, o si nasconde,
Che teme: onde al timor l'anima
avvezza,
Prova pena, e dolor, più che
dolcezza.
Habbia i frutti amorosi
Di leggitimo ardor Giovane
ardente,
Che i suoi dolci riposi
Già non può disturbar la tema
algente;
Spiri il vento, e respiri,
Scotansi pur le foglie,
Ch'allhor baci, e sospiri,
E parolette ei coglie
Da una soave bocca, e sol
l'accora,
Che finisca il gioir, fuggendo
l'hora,
Hor tu cieco Tiranno,
Che a l'alme il foco atrocemente
avventi,
Talhor con doppio affanno
Appassionato seno, empio,
tormenti.
Ama il misero, e teme,
Teme, dubbioso, ed ama,
E mancando la speme,
Via più cresce la brama;
Così schernisce, e così crucia un
core, [pag.91:]
Ne l'amoroso Agon l'ingiusto
Amore.
Ma tu, puro desire,
Refrigerio a l'ardor, conforto a
l'alma,
Condisci quel gioire,
Ch'è d'honesto pugnar pudica
palma;
O ritrosetti inviti, Dolci, e care
contese,
O sdegni saporiti,
Soavissime offese,
Voi, voi mostrate al senso guasto,
Che non è dolce Amor, se non è
casto.
Adunque il varco chiuda
A lascivo pensier ragion
feroce,
E da la mente escluda
Quel rio piacer, che in
dilettando, nuoce.
Serri pur gli occhi a i guardi,
L'orecchie, e il core a i prieghi,
Che sono acuti dardi,
E ripregato, nieghi,
Così al vincerà, ch'a un saldo
petto
E spesso Amore un'impotente
affetto.
Chi superar diffida
Il domator del Mondo, habbia almen
questo,
Che piangere non suol, chi ha fine
honesto.
[RFS doc. 37, RAG002, CON004]
LUCA CONTILE, Ragionamento di L.
C. sopra la proprietà delle imprese con le particolari de gli Academici
Affidati et con le interpretationi et croniche,
Pavia, 1574.
[pag. 50: Incisione con un paesaggio notturno, cielo stellato e la
Luna. In alto la scritta: "ILLUMINATIO MEA", in basso:
"ENDIMIONE"]
Questa notte con la Luna è
Impresa di Filippo Binaschi, onde egli tragge la similitudine de'suoi
pensieri, i quali sono volti alla contemplatione sì per la buona dispositione
dell'animo suo, sì ancora perchè la vita sensibile non lo impedisce, imperciò
che nella età sua giovenile per infirmità rimase cieco, onde egli suol dire quel
medesimo, che dir soleva Democrito, cioè che'l lume visivo è di grande
impedimento alla contemplatione delle cose divine, però essendo questo
Academico di tal lume privo è in cotale stato molto più atto a contemplare che
quando haveva il lume, per questo si tolse la notte per Impresa, alla quale
diede per anima questo Motto cioè ILLUMINATIO MEA volendo inferire, che la
privazione del lume del corpo è l'habito del Lume dell'anima sua tutta rivolta
alle meditationi, e perciò che ne i suoi poetici componimenti celebra (a
tutto suo potere) gli alti e chiarissimi honori delle singolari bellezze del
corpo e dell'anima di che a Dio piacque d'ornare l'Illustre e virtuosissima
signora Alda Torella lunati, però di questa nuova Luna alludendo al cognome del
marito di così celebrata signora, virtuosamente innamorato il Binaschi, prese
per cognome academico ENDIMIONE il quale poeticamente dicono esser stato
l'innamorato della Luna.
[?]
[pag. 64]
[Impresa incisa con fanciulla vergine e liocorno ed il cartiglio
"SIC VIRTUTIS AMOR". Tabella con: "INVAGHITO". Dimensioni
dell'incisione: mm.166 x 115 (h)].
Il liocorno in grembo a una fanciulla
vergine la quale sedendo sta appoggiata ad un faggio è impresa di Carlo Angelo
Ghiringhelli Pavese, questo Mirabile Animale è tenuto che sia inventione, e
non vero nè naturale, imperciochè niuno scrittore antico, o moderno lo pone
nella natura delle cose, e molte ragioni si potrebbero addurre che sia cosa
finta e simulata, ma veramente maravigliosa e stupenda e degna d'alta e immortale
consideratione ma, o che sia, o che non sia, dovendosi dar la colpa al difetto
dell'huomo il quale d'infinite cose che naturalmente sono egli con tutte le sue
fatiche ne sa solamente una piccola particella, però in vero non si può negare
chel Liocorno sia, nè confermar che sia. universalmente lo dipingono così,
quasi a somiglianza in parte di Leone e però dalla maggior parte è chiamato in
cotal guisa.
Con tutto ciò bella vaga e regolata impresa è questa donde questo
honorato Academico tragge somiglianza imitando, o la natura, o la favola e
prendendosi la figura humana per mistica rappresenta la virtù universale, alla
quale lo stesso Academico Ghiringhello a guisa di Liocorno, si muove per
giacerle in grembo, il cui celeste odore, lo vivifica tutto, e forse per
openione d'alcuni huomini d'alta intelligentia, quella mirabil virtù del corno
contra i veleni, procede dal medesimo odore della virginità e nettezza della
carne dello steso animale, & vero che l'odore della virginità è solamente
celeste, onde il corno assicura dal veleno tutte l'acque. L'Arbore poi
che è il faggio è stato di bella conformità con l'animo di di sudetto
Academico, imperciochè per quanto Plinio scrive, e Teofrasto; ha il faggio
l'ombra sotto la quale niuno animal velenoso si pone, anzi li rami e le
fronde difendono ogni altro animale da velenosi morsi, sì che la virtù del
corno e quella del Faggio convengono con la sincerità di questo vertuoso
Academico, promettendo egli di non rimoversi da questa somiglianza, usando
confermamente il presente Motto cioè SIC VIRTUTIS AMOR parimente si è
voluto nella Academia chiamare l'INVAGHITO con ciò sia che la vaghezza che
viene da somigliante virtù, sia vera e certa tranquillità dell'huomo.
[RFS doc. 15, EPI007, DAT001]
GIOVANNI D'ATTENNIS, Epistola ai
lettori,
in SCIPIONE DI MANZANO, Aci favola marina,
Venezia, G. B. Ciotti, 1600.
[fol.3r.:]
A'Lettori
Questa favola dell'Illustre Signor Scipione di Manzano, non è stata nè
corretta, nè revista da lui, essendo piacciuto a Dio di chiamarlo a sè mentre
disegnava di farlo: Et perchè la stampa s'è cavata dalla prima sua mano, si
sono scoperti in essa notati in margine, come per memoriale di molto, che
doveva andarvi aggiungendo, infiniti nobilissimi concetti, dai quali sarebbe
stata maravigliosamente illustrata, oltre molti altri, che per la stretta
amicitia, & conversation mia con lui a bocca m'haveva communicati: si come
anche l'havrebbe limata, & polita in tutte le sue parti conforme ai precetti
dell'arte. Il che si potrà giudicare che non gli sarebbe stato malagevole
dall'eccellenza de'suoi discorsi poetici, ch'in breve usciranno alla luce.
Io solamente ho voluto mettere qui sotto alcune memorie principali,
che concernono il compimento dell'opera, la quale & dalle sue memorie,
& dalla sua bocca posso affermare che nell'animo suo haveva formata con
ogni perfettione: & sì come haveva introdotto il Choro nell'atto primo a
trattare dell'amore, potenza, & origine sua; & come dispensi le sue
fiamme, & accendi nell'acque; così nel secondo voleva che ragionasse
dell'Amor Divino, come la bellezza mondana è ombra di quella divina, & come
il perfetto amante, per mezzo di questa mortale, perviene al godimento di
quella celeste. Nel terzo, dell'amor ferino, & quanto sia biasmevole. Nel
quarto, dell'amor coniugale, delle sue dolcezze, & come in lui
congiuntamente stanno amore, & Cupidine [fol.3v.:]. Nel quinto voleva un
madrigale, che mostrasse l'amor di Dio verso le creature, & come l'homo per
mezo dell'amor di lui si trasformi in Dio. Il prologo della favola da lui
non era approvato; e disegnava d'introdurvi l'anima del mondo, che lo facesse,
per aver campo di poter discorrere della presente grandezza di questa
Serenissima Republica sotto il velo dell'idee Platoniche, & lodar il
Senato, & la nobiltà Venetiana tutta, alla presenza della quale haveva
deliberato di farla recitare. Et perchè alla conclusione di detta Favola si
scuopre manifesto diffetto, ho voluto aggiunger quelle parole istesse, che
dall'autor medesimo sono notate dove finisce.
Et
sono queste: « Seguiti, & si parangoni al Cielo. Si dica che l'universalità
del governo sarà simile all'anima del mondo, & si mettano in prova gli
effetti dell'una & dell'altra. Il governo dei ministri particolari alla
mente Angelica; e quello del Prencipe, alla prima cagione, ch'è Dio. Onde si fa
quel circolo Platonico, che tutte le cose escono da un fonte, & ritornano
in quello. Da che si provi la perpetuità della Rep.Venetiana ». Nel resto non
ho voluto accumular altro, bastando questo in quanto alla perfettione
dell'opera, & potendo ognuno da se medesimo, persauadersi il modo, col
quale haverebbe trattato quello, che manca, & adornato quello, ch'appare.
Giovanni d'Attennis Dott.
[RFS doc. 4, DEP004,
FAR004]
ENRICO FARNESE, De Perfecto Principe ad Clementem VIII
apophtegmata Card. P.Aldobrandini in quibus
ars imperandi tenetur inclusa ab Henrico Farnesio Eburone... Pavia, Andrea Viani,
1600.
[Prefazione dell'autore; carta a 3 r.:]
Quod semper cum Antiquissima Aldobrandinorum Domo creverit religio, in qua ars,
arxque; omnis fundata est Imperij, ad Praestantissimum Religione, & Pietate
Cardinalem P. Aldobrandinum Henricus Farnesius Heburo.
[carte c 2 r. - c 3 v.; carta c 2 r.:] [...] Est igitur, & Belli,
& pacis magistra, atque domina Aldobrandinorum domus, quae ius &
scriptum, & non scriptum tuetur summa religione auctum, & cumulatum.
Quid a viris gloriae eius monimenta requiram, cum elucescant etiam in foeminis?
Testis est una instar omnium Margarita Ioannis Francisci Aldobrandini filia
Invictissimi Ducis Ranutii coniunx integerrima. Necquis quam est tam tardi
& hebetis ingenij, qui ex oris eius figura, non possit omnia regiae
virtutis pigmenta recognoscere. Quemadmodum enim Socrates, a Diotima fatidica
instructus norat statim, ex cuiusque indole, qui essent mores animi, &
sensus intimi: ita nemo est, in quo mica modo sit salis, qui [carta c 2 v.:]
Margaritam cum intueatur, non sentiat continentiae, modestiae ac summae
virtutis exemplar se intueri. Virtus enim omnis in eius indole, tanquam in
picta tabula, suis lineamentis ita est expressa, ut eos omnes a quibus
cernitur, ad gloriam videatur virtutis amore accendere. Quare sicuti
quod honestum est, corpore simul sit & animo, ita in oris eius figura
spectanda, non solum adhibendi sunt oculi, sed etiam iudicium.
Quocirca non possunt Amplissimo Principi Ranutio Farnesio, non
felices, & beatae esse eius nuptiae, quae non magis sunt Matrimonii
foedere, quam virtutum omnium societate coniunctae. Nam sicuti in uxore, formae venustas, omnium virtutum
comitatu tenetur stipata: ita in viro summa prudentia, cum pari corporis
dignitate spectatur coniuncta. quid enim altere petam ? animadverto ex eo
sacrosancto Matrimonio, non solum Italiam: sed etiam Europam omnem gestire
laetitia. Etenim Principum matrimonia non solum affinitates, in coniunctione:
sed etiam in imperio, pacis, & concordiae arctissima quaeque habent
vincula. Atque si Matrimonij interventu inter Mortales, non solum inveteratae
intermoriuntur inimicitiae: sed etiam iura amicitiae concitantur eaquae vix
ulla dirimi possint iniuria: quaenam ex faustissimo hoc Matrimonio perpetuo
futura est, & Hispaniae, & Germaniae, & Italiae seges, &
materia concordiae ? Margarita Austria Ranutii Avia Germania obses est: Rex
Philippus II Avunculus Alexandri Farnesi, Hispaniarum [carta c 3 r.:]
arctissimum nunc etiam foedus cum Italia constringit benevolentiae: Rex
Gallorum Henricus II Horatii Farnesii Castri Duci Socer, firmamenta affinitatis
reliquit.
Nihil est igitur hoc matrimonium, nisi veluti quoddam plurimarum
regionum vinculum summo amoris foedere constrictum. Res est Antiquis exemplorum testimonijs aperta.
Etenim nisi Raptae Virgines Sabinae coniugio fuissent placatae, connubijque
iura, parentum animos reddidissent tranquillos, & quietos, actum omnino
erat de re Romana ex quo intellegimus odij flammam non solum restingui
matrimonio: sed etiam accendi mutui
amoris ardore, & benevolentiae. Qua re nemo est qui, si pacis publicae,
& concordiae gustum, sensumque modo habet, non totus iam, pro
auspicacissimis his nuptijs, gestiat laetitia. At que ut illa omittam: is est
Ranutius Farnesius, qui religione: gratia: veritate: observantia: pietate,
atque usu, & experientia rerum tractandarum tantum valet, ut nihil unquam
fuerit in sapientissimo Principe, tam gloriosum, et admirabile, cuius per omnes
gentes, non efferatur gloria, & laudibus. Nam sicuti res est admirabilis
Salamandra, quae non solum, non uritur in igne, sed etiam ignis restinguit
incendium: ita ille demum vere temperans est, & integer, qui in ardore
iuventutis, nulla flagrat cupiditate, qui in ipso aestu aetatis, faces omnes
restingui voluptatis: qui appetitus domat ratione: qui sensum, qui impetus
omnes frenat consilio: qui denique ita sui habet imperium, ut rerum omnium
simul videatur habere ob [carta c 3 v.:] sequium: quod omne,eo praeclarum est
magis, quo gloriosus est voluptate abstinere, quam frui.
[RFS doc. 20, DES001,
FAR004]
ENRICO FARNESE, De Simulacro
Reipublicae sive de imaginibus politicae et oeconomicae, Pavia, Girolamo
Bartoli, 1593
[libro
3,fol.89v.:]
De simulacro Pacis et
Concordiae. Panegiricus Octavus. Cuius capita haec sunt:
1 Quod.Ro.Farnesiorum insigne verum
exemplo sit Pacis & concordiae.
2
Encomium pacis.
3 Paradoxa de pace disputantium.
4
Hieroglyphicum pacis.
5
Ritus Antiquorum de pace,
6
Quaedam de pace exemplorum testimonia.
Etsi res est salutaris, Odoarde Farnesi,
Cardinalis genere et virtute Amplissime, oleum: id tamen nec infestorum genus,
quod male sentit: nec planta, quae non perfecte vivit, ferre ullo modo potest. Itaque
hoc naturae documento instructus, solo interdum in aequo etiam, & bono
agere timide. Nam si qui sunt, qui multi sunt, qui nec bene vivunt & male
sentiunt, ij quae recta sunt, fere stomachantur omnia. Non enim ijs videtur quid, quoniam
equus est placere: sed quia placet, aequum esse. quid igitur ? in primo rei ingressu, rem omnem ad Heroes
defero, ut si quid placeat, id alijs sine culpa, non possit displicere. In
eoque nunc formicae volo imitari solertiam, quae ut umbilicum grani excedit, ne
germinet, sic modo ex hominum linguis, quas mihi praesidio comparo, studeo, tui
generis gloriam adumbrando, germen tollere petulantiae. Nam cum Regiae tuae
familiae splendorem, caeteri mor [fol.90r.:] tales suspiciunt cum admiratione:
tum mei maiores, qui ei multis ante saeculis, numquam cessarunt eam omni
honore, & gloria in coelum tollere. Tanta quippe olim, tamquam admirabilis
fuit in tuo genere, veterum etiam Farnesiorum virtus, ut non solum Italiam, sed
etiam Galliam implerint suo nomine & fama. quid inquam nomine & fama ?
imo summa singularique virtute et gloria. Nam quingentis iam ante annis, in
Ducatu Borboniensi, ut dictitabant maiores mei, oppidum extruxerunt, quod a
Farnesijs etiamnum fornes Galli corrupto vocant nomine: quod ad haec fere
tempora semper fuit in Farnesiorum ditione. Nam Jacobus Farnesius fuit oppidi
eius Heros & Dominos, cuius sum Nepos, ex eius filio Jacobo I.C. &
Curiae Leodiensis advocato, Leodij natus.
Nec id dico, ut hoc
dicam, sed at intelligas omnes meos maiores nexu & mancipio, summo tuo
generi semper fuisse deditus vetustis enim, puto, temporibus tanta fide
probitate, officiorumque sedulitate Farnesijs suam navarunt operam, ut tandem
penes eos nomen remanserit Farnesiorum. Neque enim Ciceronis a Cicero: neque
Lentuli a lente iccirco olim sunt dicti, quod hortum haberent ex eo leguminum
genere: sed quoniam toti erant in eo colendo legumine, leguminis eius nomen meruerunt
habere. Itaque nisi maiorum meorum velim esse dissimillimus, non possum operam,
industriam ac laborem denique omnem meum ad te, regiamque tuam familiam non
deferre.
Huc me Margaritae ab
Austriae aviae tuae summa erga patrem meum, dum Bruxellis egit, urgent merita:
hunc invictissimi Ducis Octavii avi tui, in omnes meos parentes, vocat
beneficentia: Huc denique puerum me impullit Girardi Grousbech Episcopi &
Cardinalis Leodiensis, qui Pauli III fuit a Cubiculo, [fol.90v.:] frequens
exortatio: quam ut omittam, ea sunt tui generis lilia, quae cum virtutes omnes,
tum pacem maxime videntur olere. Nam quorsum in tuis insignibus, caerulea
lilia illa sex, triplici ordine sic distincta, ut uni duo: duobus tria
superemineant ? veram habent, in imperij gubernaculis, adumbrationem concordiae:
quae, ut inquit Antisthenes quovis muro firmius civitatis est munimentum. quid
inquam civitatis ? imo Universi Imperij. Nam quid est eius concordia, nisi in
administranda Rep. mutuus consensus imperantium, & obedientium quo nullum
in amore arctius est et societas vinculum ? Hoc aperte natura, per lilium: quae
semper aliter loquitur, quam solent strepere imperitorum greges. Nam lilium
dicitur quasi hnion [:greco, spirito dolce] hoc est bonum, cuius sensus vix
ullus esse potest sine concordia, atque; eius nomine Syrium vocatur unguentum
susinum, e suso hoc est lilio. Nam praecellit in Syria lilium, unde Syropiorum
appellatio medicis frequens est, & ad salutares potiones propagata, ex quo
natura grande quiddam nobis videtur in aures sussurrae. Quid enim quod apertus
praeceptis, & usu expeditus est Lilij succus ? degrotae reip.nulla est nisi
in populi concordia medicina. Etenim sicuti, vix quicquam Iucundum est,sine
salute: ita in Imperio nihil firmum esse potest & stabile, sine praesidio
concordiae.
Horum insignium
auctoritatem confirmavit sic suo testimonio PAULUS III Pont.Max ut eius
Pontificatu felicius Sol nihil unquam viderit: praetereo summos virtutum
Cardinales RANUTIUM, & ALEXANDRUM patrem tuum taceo, cuius nomen, usque adeo
terrori est armatis hostibus, ut eius nomine sedari videantur turbulentiae
armorum tempestates, & procellae atque id cum ea sit mortalium [fol.91r.:]
ratio, ut aut hostes sint, aut amici illos virtute bellica: hos legibus, &
institutis ita semper temperavit, ut quod multi populi sint in virtutum
Calustri inclusi, quod pascantur officio, & honestate, id omne beneficium
eius sit proprium & singulare. Neminem fere latet quas stages fortiter
dimicando hostibus intulerit: quanta gloria rem bellicam administravit, quas
victorias, quos triumphos reportavit: quot populos, quas civitates in viam
redire coegerit, qui inferiorem Germaniam PHILIPPO iam quasi restituit
perditam.
Verum ut ad imaginem
redeam, quid illa, in tres ordines liliorum figura ? vera est concordiae imago.
qui sic ? quia discordia omnis est aut animi, cum ratione, aut sensuum, cum
virtute: aut hominis, cum hoste prima prudentiae vi reconciliatur: altera
temperantiae auxilio: fortitudinis tertia. Hoc ille in tres hordines distinctus
numerus. Testis est non ieiuna iam plebecula: sed ipsa qua nescit mentiri
natura, per trifolium, quod venenatis omnibus animantibus reluctans est, &
controversum.
Quorsum igitur
triplex illa ordinis figura ? non geometrica est forma, sed eximiae, quae
in maximo Alexandro residet virtutis. nihil enim latet aut in delectu militum,
aut in tormentis bellicis, aut in arte militari, quod non sic possideat, ut
iure ei simul cum rei difficultate, semper crescat animus. Quid duobus
subiectus unum lilium ? una est veritas, una sapientia: una sublato, duo esse
non possunt, sapientiam ex Imperio si tollas, nullus statim erit concordiae, in
quo consistat, locus est in unitate pacis vis sita omnis, &
concordiae. Unitas enim animorum,
amicitia est: unitas maris, & foeminae matrimonium: unitas populorum,
civitas: civitatum provincia: plurium provintiarum, regnum: unitas denique;
bonorum, & malorum Ecclesia. Est [fol.91v.:] igitur unitas eorum bonorum,
quae maxima sunt, sedes & fundamentum, idque; belle lilij natura.
Itaque in numo Imp.
Alexandri Pij Aug. ab altera facie lilium spectabatur cum iscriptione, spes publica admonet enim floris imago
nihil esse, aut in honoris vocabulo, aut in virtutis praemio, quod ab Odoardo
Ampliss. Cardinale, non sit sperandum ? Nam ab invictissimo Duce eius
parente plura iam universa Christianorum Resp.accepit, quam ab ullo mortalium,
ei fuit expectandum verum quoniam cum de eo dico, de Principe eo dico, qui suam
gloriam coeli, & terrae regionibus terminavit: quique Regis PHILIPPI, qui
omnium regum, qui sunt, qui fuerunt, atque futuri sunt personam, ita in armis
sustinuit, ut iam ipse Rex, Regis nomen, tanti principis virtute, videatur
superasse. Qua re iam facilius possum Maximum illum Alexandrum admirari, quam
laudare. Nihil enim potest praescribi, & definiri de Principis armati
officio, & munere, quod omnes non videantur, ex praeclarissimis eius rebus
gestis, posse addiscere. quid inquam armati ? io etiam togati. Nam cum coni
principis, fit ,non solum bonum virum se praebere, sed etiam ex improbis bonos
reddere: ita milites omnes suos animavit, ut mallent religionem sine vita, quam
vita sine religione. Id in eo belli incendio, quo multis iam annis exarsit
inferior Germania, sic docuit, ut numquam dubitarit pro Ecclesia, &
religione iugulum suum ostentare: atque se omnibus fortunae casibus odijcere,
in quo tantum effecit, ut nunc demum perfidorum furorem sapientia:
flagitiosorum libidinem temperantia: perditorum denique vim & dolum virtute
videatur superasse. Nec ullum est tantum cupiditatem cum rationem dissidium,
quod passim non videatur sustulisse, atque appetitus cum honestate, faedera
pacis continenter [fol.92r.:] ferijsse.
Hoc unum lilium. Nam unitatum unio,
concordia est, qua res magnae crescunt. Quid duo tribus subiecta illa lilia ?
concordiae materiam docent, quae omnis in bono est fundata. duo enim sunt
bonorum genera, unum infinitum, alterum externum: quorum neutrum neque parari,
neque retineri potest sine concordia. duae sunt animae facultates, sentire
& intelligere: quorum alterum cum bono: alterum cum vero nisi concordet,
anima fungi non potest suo munere. ex duobus demum homo est compositus, ex
corpore & anima: illud ex humorum, sanum: haec ex Dei concordia, felix
vocatur, & beata. quod non adeo ex numero, quam natura fas est intelligere
liliorum.
Nam lilium flos est
Iunonis, haec est Imperij, quod suis quasi quibusdam lacertis complectitur
omnia bonorum genera. siquidem Palladis, ut loquuntur Poetae, est animi
sapientia, Veneris, pulchritudo corporis: Junonis, vis & robur Jmperij.
quod tempore pacis, cum semper sic rexerunt tui maiores: ut in ijs rebus, quae
humanitus accidunt, in quibusque non datur bis errare, ita omnia repente
circumspexerint, ut non videantur in fronte modo, sed etiam a tergo oculos
habuisse: tum belli tempore, Maximus Alexander sic illud obtinuit, ut tanquam
alter Lycurgus, qui cum bellum indiceret, vulpem Marti, quod primordia belli ex
consilio sint petenda: cum autem manus cum hoste vellent conferere, ei taurum
dicabat, quod in rerum discrimine audendum sit magis, quam consultandum; omnia
desiniat gemina ea virtute: hoc est tranquilla, & pacata consilio: tetra
& turbulenta, summa quadam fortitudine. Nam concordiae nihil est in tenendo
imperio difficile. Hoc aperte forte: eleganter certe prisci Poetae. Nam cur finxerunt
concentu Apollinis, & lyrae vocibus antiqua Thebarum [fol.92v.:] Moenia
aedificata fuisse, nisi ut intelligeret mortales perfecta rerum coniunctione,
& concordia, perduci ad exitum, quae maxima sunt in civitate ? quamquam
artes omnes varijs itineribus ad virtutem proficiscuntur, nulla vera tamen est
virtutis via, nisi concordia.
Hoc liliorum natura, hoc
ipse, secundo ordine, numerus. Nam in pace & concordia duo necessaria,
unio, & distinctio. qui sic ? quia primum, concordia nihil est, nisi unum
rerum diversarum consensus: deinde quoniam concordiae duo sunt vincula, amor
& beneficium, quorum alter comparat: conservat autem concordiam. utrumque
natura docet per lilium. quid ita ? quia lilij utraque est virtus, suam enim
amat cum mortalium beneficio propaginem & ita ut hasta eius effossa,
tamquam vitis propagetur, quotque sint hastae nodi, tot inde ad paucos dies,
oriri gemina cernantur, & bulbi: si modo nec hastae flos adhuc sit apertus,
nec a radicibus hasta ipsa avulsa.
Nam quid dicerem de
lilij beneficio ? eius flos, suavis est odore: medicina utilis: aspectu
iucundus: ut videantur eius beneficentia sensus omnes recreari. Qua re quo
videntur tuae gentis munera, quorum unum in amore rerum divinarum: alterum in
beneficio mortalium est positum. in quibus, ita lynceus est pater tuus, ut
nulla sit temeritas fortunae, nullus casus, quem non quasi antecessionem in
omnibus rerum procellis, ante videat, aut potuis quasi divinitus non praedicat:
In quo etsi difficile est mortalium iudicium, nihil tamen potest errare. Nam,
cum boni principis sit, in silentio multa audire: plura videre in obscurissima
simulationum caligine: numquam obdormire tempori: semper ita excubare animo, ut
inter absentes, quasi praesens omnia temperet, tum id omne ita est eius
virtutis [fol.93r.:] proprium, & singulare, ut nihil videatur eius bonitas,
nisi communis omnium errorum medicina: nihil iudicij eius vis, nisi vetustatis,
& recunditate doctrinae memoria. Atque ita, ut ex eius potius testimonio
convincamus, quam ex Platonis iudicio, tum fore beatam Remp. cum aut sapiens
coeperit regere, aut Rex sapere.
Quid demum, in
supremo ordine, tria illa lilia? finem mostrant concordiae, qui omnis est in
lege aut divina, aut naturali, aut positiva. Quid ? ad opinionis cum
veritate concordiam, Dialectici figuras faciunt tres, primam, secundam, &
tertiam: Philosophi item ad appetitus, cum temperantia tranquillitatem,
virtutes tres: abstinentiam, quae est cibi: sobrietatem, quae est
potionis: & Castitatem, quae libidinis domina esse debet &
Imperatrix. hoc non obscurare numerus liliorum tertij ordinis: aperte natura.
Nam quorsum, quod lilij flos, quamdiu est integer, suavissimam odorem spirat:
putidam fractus & collisus ? sine virtutis integritate, nulla est, non
faeda, & obscena concordia.
Habet igitur lilium
Symbolum felicitatis, quae nec male audit, & optime facit. Nam haec est
lilij natura, si medici credimus, ut dolorum acerbitates leniat: faciem naevis,
& sordibus abstergat: veneni vim tollat, ac denique vulnera sanet. Huc
accedit maiorum tuorum virtus, cuius studio sic semper incensi fuerunt, ut non
Themisthocles ad virtutem rei bellicae: non ad medicinam Hippocrates: non
denique Democritus, non Pythagoras ad rerum cognitionem, studij & operae
plus posuerit, quam tui maiores semper posuerunt in ijs virtutibus, quibus bene
beateque; tractantur rerum in Imperio habenae, atque [fol.39v.:] guberancula
Reip. quid ita ? quia virtus quae ijs quasi divinutus semper fuit insita, si
non potest studio augeri, potest tamen ad alios propagari.
Quamquam tamen non parum
ij mihi videntur tuae dignitati derogare, qui cum volunt te laudare, gloriae
tuae monimenta mutuantur a tuo genere, quod in orbe terrarum spectatur, tamquam
thetrum divinae humanaeque gloriae. Non enim est tua virtus laus fortunae: non
maiorum tuorum patrimonium: non aliorum: sed tua gloria: quam qui spectant,
desinant eam oculorum sensibus examinare: desinant opes, regias gazas: rerumque
copias spectare. Etenim non urbes, non militum praesidia sunt tui generis
ornamenta, sed sapientiae lumina: non divitiae, sed sublimes invictique
principes: non res, non pecunia, sed religio, sed pietas, sed probatissimi
sanctorum patrum moras. Nihil est, quod PAULO III Farnesio commemorem, qui, ut
pater tuus, terra marique in armis, sic in Pontificatu suo, tantum adeptus est
nominis & famae, quantum potest per omnes gentes, virtutis gloria obire.
cuius rei non plebecula est nuncia, sed Europa & Asia, non anceps &
incertus aliquis testis, sed ipse iam orbis terrae globus. Atque eo patris tui
felicitas processit, ut sicuti placet uni, ex septem Atheniensium sapientibus,
Pittaco, quod in Principe est gloriosissimum, timeatur ab omnibus, ipse timeat
neminem. Ateque ille in apparatu rei bellicae, Mathematicam sic sibi comparavit
subsidio, ut nihil gloriosum fit in bono milite, quod apud eum non sit
usitatum, & familiare. Haec enim ars obsidiones docet; in obsidionibus,
flexiones, recessus, & diverticula: haec insidias instruit hostibus, &
ab ijs instructas eludit stratagemate: haec loca in suspicionem adducit: rataque
facit, in quibus lignari, aquari, frumentari, pabulari pos [fol.94r.:] sint
milites: haec acie denique deducit: capita enumerat, atque ad pugnam dirigit:
non parum ad commeatum valet, plurimum ad navalem apparatum, ne sit nobis
potius cum maris procellis, & fortunae tempestatibus pugnandum, quam cum
hostibus. multa sunt artis praesidia: sunmma in eo Duce, & Imperatore
felicitatis adiumenta. Etenim non solum Reges inter se dissidentes, bella tot
principum, populorum, potentissimarumque nationum ad concordiam sua virtute
perduxit, sed etiam ita semper fuit Imperij, & Ecclesiae Romanae
propugnator, ita publicae salutis, & communis vitae studiosus, ut ibi, ubi
pedem imposuerit, expressa reliquerit summae suae felicitatis vestigia, in quo
antiquorum gloriam sua superat virtute. Nam laudatur in Metello rerum arduarum
peritia: audacia in Pompeio: in Pyrrho consilium: is aut ijs omnibus sic floret
virtutibus, ut ijs omnes summi Imperatores in eo una iam videantur reviviscere.
Qua res facit, ut non solum non possit laedi hostium iniuria; sed etiam eam
lucro habeat. Hoc ipsa imago.
Nam quorsum liliorum
color ille ceruleus ? non pigmenti, sed coeli est color, quod non potest
violari: quamquam id etiam ipsa loquitur coloris natura. Nam quod ab
infectoribus componitur, ex calce viva, oleo, & glasto, id omne summum
testimonium habet eximiae eius virtutis. Etenim calx cum re ipsa sit frigida,
occultum tamen habet calorem, ex quo viva dicitur, irascique rebus adversis,
& placari secundus videtur. nec id, meo quidem iudicio, sine quasi quodam
naturae miraculo. Nam aqua diffusa
calx effervescit, qua restinguitur ignis: & incensa, restinguitur oleo, quo
ignis incendium excitatur. Farnesiorum concordia, ut natura per calcem
loquitur, plena est admirationis, quae neque facere neque patiscit iniuriam.
quid enim de oleo in [fol.94v.:] eo colore effingendo dicerem, quod fluitat in
mollibus corporibus: in solidis contra penitus se immergit ? Nihil est tui
generis concordia, neque cedentibus facilius, neque gravius renitentibus testis
est in eo colore, per glastum, natura. Nam plantam eam Brittannorum coniuges
sibi comparat, ad oris pulchritudinem, quae ansam habet amoris & gratiae,
erga coniuges. Tu vero, ODOARDE Cardinalis Amplissime, ad amorem non glastum
habes: sed beneficentiam, qua omnes inflammas tui amore: non oleum ad
calcis restinguendum incendium: sed iustitiam ad summovendos improbos cives ad
improbitate: non denique calcem vivam malis irascentem: sed virtutem, mala aut
turpia pati nescientem. Felices
igitur illae sunt civitates, quibus tu, aut tui imperant. Nam in illis, legibus
est locus, iustitia armatur: studium pacis viget: quam non solum in tuis
insignibus effingunt lilia, sed etiam colorant. In his igitur, cum facile
Imperium ijs artibus retineatur, quibus ab initio partum est, sola videtur ars
esse universij Imperij.
Nam quid est ipse mundus, nisi coeli &
elementorum veluti quaedam harmonia, sive concordia, quae si tollatur statim
mundus esse desineat ? potest plus, quam coelum concordia. nulla enim coeli vis
potest pluere: potest coeli cum elementis concordia. quare ea nihil est neque
valentius neque sapientius: qua tantum intelligimus mundum, & regi, &
conservari. Hoc in tuis insignibus, corroborat aureus ille alveolus. Nam in
eo colore, non splendor est pigmenti, sed sapientiae: cum sit Phoebi color;
virtus autem tui generis: in qua nihil tibi est potius, quam iacentes
excitare tuo beneficio: quam non pati inopes circumveniri a potentioribus, quam
resistere seditiosis, atque optimum quemque ab oppressione tegere:
purgatissimamque ab omnibus vi [fol.95r.:] tijs,& turpitudinum maculis
Ecclesiam tenere. eo quippe omnes ingenij tui vires, & industriae nervos
contendis, ut in primis tua domus sit, non voluptatis, sed iustitiae
domicilium: non otij, sed virtutis: non turpitudinis sedes, sed honoris: non
discordiae, sed salutis, & gloriae arx sit munitissima.
Qua re de hac tui Cardinalatus dignitate
vehementer gratulor Ecclesiae Universae: de te enim non possum non fausta omnia
ominari. Si enim felix ille censor fuit Imperio Ro. C. Cassius, qui concordiae
simulacrum in senaculo erigendum, & Senaculum ipsum concordiae consecrandum
curavit, qua eris Ecclesiae Romanae felicitate, qui non in seraculo, sed in tui
generis imaginibus, simulacrum gestas concordiae ? eoque quaeque obsignas, ac
veluti quodam commendas publicae pacis faedere ? Multae sunt tuae virtutes,
quas etsi non possum verbis honestare: nolo tamen eas honestatas, ut aliqua
scintilla mei erga te amoris appareat, silentio appareat, silentio praeterire,
quae autem de te, & tuis summa sunt, facile, cum propter imbecillitatem
virium omitto: tuum quia ea sum aetate, qua fieri potest ut cito moriar, fieri
non potest ut diu vivam. Sunt enim tuae ac tuorum res eiusmodi, ut non solum
longissimi sint temporis, sed etiam tam acris ingenij, ut vix possint verbis,
nisi ab eo axaequari, cui sit M.Tullij copia: acrimonia Aeschinis: ars
Demosthenis: atque Orthensij facilitas. Sed quod in tuam gratiam debeo,
quamquam turpe est, ut reddam sperare, honestum tamen est id affectare. audi
non quid ego de te dicam: sed quid tua loquantur insignia. quid ? & lilia
quo pluribus rubis, ac sentibus tenentur interiecta, eo maiorem odoris fundunt
fragrantiam, & tu quo res difficiliori loco tenetur inclusa, eo Summo
virtutis, pariquae doctrinae praesidio adiutus mihi crede [fol.95v.:] inde plus
gloriae videris capere.
In quo generis tui
fortitudinem non parum sapit liliorum hasta: multum etiam iustitiam et
aequitatem. Nam quorsum
quod lilij. Thyrsus non contorte, dum crescit,sed recte in coelum insurgit ?
nescit mihi crede Farnesiorum familia contortis, & devijs itineribus ad
honores progredi, & tu viam eam insistis iustitiae, qua nihil est ad
coelestem, & divinam gloriam rectius. quod cum facis, sapis quidem, &
multum certe ut docet lilium sapis.
Nam quorsum, quod lilij flos quasi languido
collo sit reflexus ? quid hastae celsitudo, tanquam non sufficiens capitis
oneri ? nec tu certe quidem impiorum vitia, nec impij tuam virtutem ferunt sine
onere: sed maior est summae tuae virtutis spes, quam scelerum omnium metus. hoc
Farnesiorum familia per lilium. Nam quorsum, quod lilij radix plurimum adversus
gravissimas corporis tempestates habet remedij ? cur duriciem splenis,
nervorum: cur oleo roseo sanat ? quare vulneribus cicatricem obducit? quamobrem
denique tumores solvit: ulcera abstergit: dolores mitigat: venena depellit: ac
denique puncturis, & ulceris medetur ? non ut medicinam ex tuis insignibus
capiamus, sed ut ex ijs intelligamus nihil esse in Rep.mali, cuius a te non
speranda sit vis omnis remedij.
[RFS doc. 32, CAN002, LON003]
ONORIO LONGHI, Canzone
di Honorio Longhi nelle nozze del Sereniss.
Ranuccio Farnese duca
di Parma, e Piacenza,
Roma, Nicolò Mutij, 1600, cc.A 2r. - A 4v.
[carta A 2r.:]
CANZONE
Queste
mie note fortunate, e care
Con
l'indorato stral di propria mano
Ne
le sfere celesti intaglia Amore;
Risplendano
lontano
Fatte
eguali di fiamma, e di splendore;
Che
le Muse leggendole a la luce
Di
sì vivace ardore
Desteranno
a cantar il mio Gran Duce
Cigni
felici, e fortunate cetre,
Ch'
a nove Thebi si trarran le pietre.
Bianca
e vermiglia Aurora in Oriente
Tu
già fiammeggi, e il Sol t'indora il crine,
Mentre
con le tue perle rugiadose,
Rimovi
al giorno le bellezze spente.
Più
belle, e più divine
Sono
le luci, e le purpuree rose
Di MARGHERITA,
& in più bel levante
Ti
fan gare amorose,
Ma
non qual tu stringe canuto amante,
Ch'in
letto più soave, & amoroso
Più
vago accoglie, e più gradito sposo [carta A 2v.:]
Candida
perla, a cui fu conca il Cielo,
E in
vece di rugiada in su'l matino
Ti
diè pasco d'Ambrosia il Paradiso;
Simile
al crin, che al Dio splende di Delo,
E il
tuo capel divino
E i
colori dell'Alba nel tuo viso
Dipingono
più bella primavera,
Che
il Giacinto, e il Narciso
Non
languon mai ne la tua fronte altera,
E ne
la gentil bocca & amorosa
Spiega
le pompe sue lieta la rosa.
O
figlio d'Alessandro il grande, il forte
RANUCCIO
Invitto a guisa di Fenice
A
trionfar de popoli rinato,
Che
ancor fanciullo sprezzator di Morte
Ti
fu cuna felice
Il
Campo a te di guerra fortunato;
E
non sdegnasti i giovanetti crini,
E il
volto delicato
Coprir
di ferri, & elmi adamantini,
Sì
che si vide la Vittoria estinta
Per
la tua mano vincitrice, e vinta. [carta A 3r.:]
Come
all'hor quando vendicar ti vide
Ancor
fanciullo il glorioso Padre
Quel
sangue, che per Dio da lui fu sparso.
Quando
sembrasti qual tra Mostri Alcide,
Tra
le barbare squadre,
E fu
il Campo infedel distrutto, & arso;
Sì
che al lor sangue il Reno, a l'ossa il lito
Fu
angusto spatio, e scarso.
Così
già il seno valoroso, ardito
Vide
offrir Pirro contra mille, e mille
All'hora
che arse, e vinse Troia Achille.
Ansiosi di vita i marmi al Mondo
Mostran
scolpiti ne i Colossi & Archi
Le
gloriose tue vere grandezze,
E
vede ognun, che le tue forze al pondo
De
suoi pesanti carchi
Sommette
Atlante, a simil peso avezze.
E
che da la tua spada escono tuoni,
Onde
par, che si spezze,
Non
sol l'orgoglio a l'Hidre, e a i Gerioni,
Ma
dal Gange, dal Nilo, e da l'Eufrate
Conduchin
le provincie incatenate [carta A 3v.:]
Tu
sei fama a la fama, & a la gloria
Tu
gloria sei per te già fatte illustri
Dal
valor, che nel cor tu porti impresso.
Per
te nacque superba la Vittoria,
Ch'in
giovanetti lustri
Fida
compagna havesti sempre appresso.
E
Virtù, che ti porse il latte in fasce
Diede
solo a te stesso
Quel,
ch'in mille altri Regi appena nasce,
Onde
godono i Regni ne i perigli
Viver
a l'ombra de'tuo'invitti Gigli.
Quella
corona, che di gemme e d'oro
Splendeati
accesa quasi in ciel sereno
Regal
diadema a tuoi capelli intorno,
Hor
di stelle risplende (alto thesoro)
Il
Gran Giove terreno
Così
cangiolla, e fe'il tuo crin più adorno
Tal
già vide Arianna, e ancor fiammeggia
Del
crudo Theseo a scorno
La
sua corona a la celeste Reggia,
E
così vide le sue chiome belle
Risplender
Berenice in ciel di stelle. [carta A 4r.:]
Tu
dunque, cui nel mondo fanno chiaro
La
nobiltate, in grembo a cui nascesti,
E il
tuo valore, le corone, e i fregi,
A
chi giamai dovevi esser sì caro
Se
non a chi piacesti,
Ambi
sol speme a sacrosanti Regi ?
Ma
già la sposa tua ecco ti cinge.
E de
più ricchi pregi
La
bellezza il bel volto le dipinge
Mentre
chiede al tuo Sol con i sospiri
Unirsi
a te come col Ciel fa l'Iri.
Ah
tu l'abbracci pure, e lusinghiero
Co'
dolci lumi dal bel viso involi
E da
la bocca i rugiadosi humori,
E
intento a sì felice magistero
Par,
che lieto sen voli
Amor
fra voi, & i più schietti ardori
Con
l'ali accenda a la soave impresa
Con
i seguaci Amori;
E
con la face de le Stelle accesa
Amoroso
Himeneo lieto vi vede,
E
son presenti Amor, Concordia, e Fede. [carta A 4v.:]
Ne
la fucina di Vulcan l'incudi
Scintillan
liete, e suda il Crine a Bronte
Percotendo
più duri aspri metalli
Per
fabricar novi elmi, e novi scudi.
Ogni
più eccelso monte
Di
già s'inchina, e le profonde Valli
S'inalzano
a mirar la vostra Prole.
Il
Tebro ambre, e christalli,
E
ricco manto le prepara il Sole,
E
nascon MARGHERITA novi mondi,
Perchè
novi ALESSANDRI in seno ascondi.
Troppo
vicino a i rai del Sol salisti,
Canzon
di roca Cetra,
Ond'io
pavento, poichè troppo ardisti,
Che
dileguando l'incerate piume
Icaro
non rinuovi il nome a un fiume.
Con
licenza de'Superiori
In
Roma, appresso Nicolò Mutij. MDC.
[RFS doc. 17, SEM001,
MAN007]
MUZIO MANFREDI, La Semiramis
boscareccia,
Bergamo, Comin Ventura, 1593.
[carta A 2r.:]
Al Serenissimo e
Magnanimo Principe, Ranuccio Farnese, Duca Di Parma e Piacenza, &c. Mutio
Manfredi.
Appena hebbi io,
Serenissimo, e cortesissimo Principe, abbozzato, non che finito, questo mio
Poema, che da un Principe Serenissimo mi fu con triplicate lettere
instantissimamente domandato: e sotto la fe' di suo padre promessomi, che rimandato
mi sarebbe subito sicurissimamente, e non copiato, nè pure letto, o veduto da
altri, che da lui. Ma perchè io ho fermo, e ragionevole proponimento di non
fidare [carta A 2v.:] lontano da me a persona del mondo qual si voglia opera
mia, di cui non habbia che il solo originale; negai modestissimamente di
mandare l'istesso originale, e prontissimamente promisi di mandarne una copia
quanto prima potessi: E postomi a dare una riveduta all'opera, la quale in
trenta quattro giorni soli, e continui havea composta; di mia mano la copiai, e
di qua giela mandai per persona sacra, e sua familiare assai: scrivendogli, che
io gliene faceva un presente, e che di altro nol supplicava, se non che me ne
fosse scritta la ricevuta, e che l'opra non si stampasse: ma nel rimanente la
mostrasse, la communicasse, lasciandone moltiplicar le copie, & ogni suo
piacer ne facesse; ancora che io non l'havessi fino allhora ben considerata, nè
limata: anzi gli soggiunsi, che fra l'haverla copiata, e l'havergliela mandata,
io l'havea fatti molti acconciamenti, & aggiunti più di cento versi in
diversi luoghi, e nulla nella copia, ch'io mandava a lui havea voluto riporre,
per non imbrattarla; ma essendo anche, le aggiunte, principalmente essentiali,
ma solo per abbellimento di alcuna delle parti. Di più gli scrissi, che s'egli
havesse voluto farla rappresentare, io mi offeria di venire a posta in Italia
per esserne il chorago, sì come l'Autore ne sono.
Puossi notare maggior
voglia e maggior prontezza di ubbidire, e di servire ? Ma aspettato più di diece mesi indarno la
domandata gratia della ricevuta; scrissi di nuovo al medesimo Serenissimo
Principe, raccontandogli tutta la historia del come,e del quando, e del per cui
gli mandai il Poema, ch'egli mi favorì di doman [carta A 3r.:] darmi; non
d'altro supplicandolo, che di quanto prima supplicato l'havea: e questo per
istare io con l'animo riposato, che la mia ubbidienza, e la mia cortesia
havesse havuto effetto; nè fossi da lui in concetto tenuto, s'egli ricevuto non
l'havesse per mancamento altrui, e non per difetto mio,di non curante, o di
villano. Ma cinque altri mesi ancora indarno aspettata la ridomandata, e debita
gratia: desiderando io pure questo riposo d'animo, a giustificatione ancor
della mia conscienza: sicurissimoche alle seconde mie lettere egli l'havrebbe
havuto, se non con le prime, essendo in sua mano, non pure d'haverlo da chi da
me havuto per dargilele l'havea, ma di farlo pentire dell'indugio, e più della
fraude, se stata ve ne fosse; riscrissi, e risupplicai: e per usare anche
maggior humiltà, e diligenza, ne scrissi a uno de' suoi principali
geltil'huomini, e forse il più intimo suo servidore, pregandolo che mi
favorisse egli di darmi cotale aviso, non volendo il Signor suo farmene gratia.
E questo ancora, fin qui, è stato indarno, come che le lettere mie tutte sieno
state date in Milano al suo Secretario residentevi, e delle sue ogni dì ne
vengano a Madama Serenissima la Duchessa di Bransvich, mia Signora.
Talchè, non volendo io
dire (nol potendo pensare, & havendone veduti segnali in contrario) che
questo Principe, e Principe Serenissimo, sia ingrato, o sconoscente, o
discortese; altro non vò credere, se non che quello, ond'io mi lamento di lui,
sia puramente nato da discretione, e da modestia: come dire, che il Poema a lui
semplicemente non sia piacciuto, o [carta A 3v.:] vero che qualch'uno de i
grandi huomini di belle lettere, ch'egli ha d'intorno glie l'habbia biasimato:
e così non lo havendo avuto caro, non mi habbia nè anco voluto scrivere di
haverlo ricevuto: nè rimandato me l'habbia, havendogli io scritto, che una
copia, e non l'originale gli mandava. Perchè senza fin mi rallegro, che io
servassi il mio proponimento di tener sempre appo me l'originale delle opere
mie, che da me dilungassi giamai. E che,se non l'havessi servato ? E perciò da
hora innanzi tanto maggiormente il servirò pur sempre.
E poichè hora io sono
risoluto di stampare questo medesimo mio Poema, il quale è Boscareccio, come
poco fa ne stampai un'altro, il quale è Tragico: e perchè sono fratelli,
contenendo ciascun di loro una attione di Semiramis: e che quel Tragico ho
dedicato all'Illustrissimo Odoardo, vostro fratello; questo Boscareccio dedico
a voi Serenissimo Ranuccio, suo fratello. E non come cosa rifiutata da
altri; che ad altrui non la mandai stampata, nè realmente la dedicai; ma come
Poema, la cui favola constituita in casa vostra, mentre io serviva il vostro
grande Avolo Ottavio Serenissimo, e reale; benchè i versi sieno stati fatti
in casa la Serenissima, e benignissima Dorotea di Lorena mia Signora, e come
cosa, la quale spero, che non habbia semplicemente da spiacervi, non ispiacendo
a me, e piacendo a infiniti altri: nè da esservi biasimata da niuno di quei
letterati, e Poeti, che vassalli, e servidori vi sono; perciochè con occhio più
diritto forse, e più chiaro la mireranno, e con più sodo sapere la
giudicheranno. E la vi dedico, perchè [carta A 4r.:] so per prova,
che mi amate, e perchè altre opere mie di minor fatica, fatte per voi, e per
altri del vostro Serenissimo sangue vi sono piacciute, e state care in guisa,
che con lettere, e con parole ringratiato me ne havete: e perchè siete
Principe, non pure Serenissimo, per mille splendori, ma piacevole, e generoso,
e valoroso, e niente dissimile dal gloriosissimo, e veramente eroico Alessandro,
vostro Padre: & ancora questo Poema vi dedico, perciochè siete
giovinetto, e bellissimo e per conseguenza necessaria, amoroso; & in esso
d'altro non si tratta, che d'amore: e d'amore honestissimo, come honestissimo
siete Voi. Se lo gradirete; una humile sì, ma nobile offerta gradirete, e
da un'humilissimo sì, ma non vile vostro servo degnamente fattavi, &c.
Di Nansì, il primo giorno di giugno 1593.
[RFS doc. 18, SEM001,
MAN007]
MUZIO MANFREDI, Semiramis Boscareccia, Bergamo, Comin
Ventura, 1593.
[pag.17r.:]
[Atto II] ATTO SECONDO, SCENA
QUARTA.
TISIRA. SEMIRAMIS
Tis.
Pur venisti. ò sei bella:
Ma quando non sei bella ?
Et hora poi ,che t'ha vestita Amore,
E di sua mano ornata.
Come si mostra ben tra il bianco, e
l'oro
Del velo, e de le chiome
L'azzurro, e'l verde di quei
nastri. Dimmi;
Che vogliono importar quei duo colori ?
Sem. Mostra speranza il verde:
Azzurro è il cielo, & alto.
Voglio dunque inferir che'l mio
pensiero
Ad alte cose aspira.
Frisseno,ch'è sì dotto: e che sa tanto
De l'Arte de le Muse, e seppe tanto
Già de l'arte d'Amor;
Fin che d'Amore
Fu soggetto, portogli, & io li
porto
Perchè non men di lui spero altamente.
[pag.27r.:]
ATTO TERZO,SCENA SECONDA.
PIRNESIO E FRISSENO
Pir. L'ultima speme de'cortesi amanti
Altro non è, Frisseno
Che l'esser riamato
Fris. Se dunque la tua Donna
Dicesse, ch'ella t'ama;
Non saresti felice ?
Pir. Felicissimo ancora
Fris. Hor tu sei; ch'ella il dice
Pir. O Frisseno, Frisseno; ama anco il padre
I suoi figliuoli, & è da i figli
amato:
Il fratello, i fratelli;
Et ama il vero amico i veri amici.
L'amor di ch'io ragiono,
E che non pur felice,
Ma mi faria, come tu di,beato,
Sol ch'una dramma la mia Dea m'havesse;
E' Frisseno un amore,
Ch'esprimer non si può, se non col core
Ma so ben che m'intendi,
E per mia perfettissima sciagura,
A beffarmi ancor tu crudele attendi.
Lasso, ove più ricorro,
Et a cui per soccorso;
S'ove, e da cui più ne sperava,
meno [pag.27v.:]
Oimè ne trovo, e s'io
Privo son d'argomento, e di consiglio;
Colpa de la mia sorte,
Che mi conduce a manifesta morte ?
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