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Jean Louis Barrault: dal mimo all'attore  

Cecilia Napoli
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 10 Novembre 2015, n. 790
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Area Artisti

Il lavoro svolto per questo articolo si ripropone di evidenziare l’importanza che il contributo di Jean-Louis Barrault (1910-1994) ebbe, nello scorso secolo, nell’approfondire ed arricchire gli aspetti tecnici e teorici del lavoro sul corpo che Etienne Decroux (1898-1991) aveva iniziato nella seconda metà degli anni Venti. In particolare il contributo barraultiano si colloca nel biennio 1931-1933 all’Atelier di Charles Dullin (1885-1949), dove Barrault fu allievo di Decroux. Il lavoro portato avanti successivamente da Barrault, rappresenta un ulteriore passaggio che testimonia l’evoluzione del teatro nel Novecento, quando lo studio totale della messa in scena e dell’attore in particolare divengono protagonisti. Il Novecento rappresenta per l’arte teatrale, a partire da Antoine ma sopratutto da Stanislavskij, il secolo dell’attore. Lo studio dell’attore viene approfondito in tutti i suoi ambiti: espressione vocale, interpretativa e corporea. Barrault con il Teatro Totale propone un’idea di teatro come fusione delle arti.

Barrault fece la sua prima esperienza teatrale all’Atelier di Charles Dullin, a Parigi. Nel libro La ricerca degli dei. Pedagogia di attore e professione di teatro 1 sono raccolti gli scritti, le riflessioni e il lavoro sul teatro che Dullin compì nell’arco della sua vita. Al centro della sua riflessione vi è il lavoro dell’attore, la sua educazione, personale e collettiva. L’Atelier di Dullin era un teatro di fondazione e di ricerca, in cui il punto di vista era sempre quello di un attore che guarda lo spettacolo come situazione di incontro tra il mondo dello spettatore e quello del lavoro di teatro. Barrault entrò all’Atelier, nel 1931 ad appena vent’anni e, prima di entrare all’Atelier, si manteneva facendo il sorvegliante al collegio Chapital per potersi dedicare alla pittura, ma il teatro lo aveva sempre appassionato. Dullin accettò Barrault alla scuola gratuitamente, in quanto per il giovane sarebbe stato impossibile pagare la retta. All’Atelier: «Barrault si dedicò totalmente, con una sorta di disperata speranza, al teatro. Ormai, Dullin era la sua guida» 2 . La scuola di Dullin fu fondamentale nel far comprendere a Barrault i punti cardine del mestiere, ad eliminare quella confusione che anima tutti i giovani apprendisti. Quello di Dullin era un insegnamento lontano da quello che all’epoca si impartiva nelle scuole di arte drammatica. All’Atelier, Dullin si concentrava sull’interpretazione della parte, ricercava la sincerità in scena ma soprattutto insegnava ad amare la propria professione e ad onorarla: «Non bisogna dimenticare che l’«Atelier» respirava un’aria da circo (non nel prodotto artistico, ma nel modulo informativo) e nulla aveva in comune coi caratteri del teatro d’arte» 3 .

Sappiamo inoltre, che l’Atelier era un luogo in cui veniva lasciato ampio spazio alla propria creatività
4 e Dullin era un uomo che puntava molto sui rapporti personali, basti pensare che nel luglio del 1931 prese Barrault nella compagnia senza la firma di un contratto: «non ho mai firmato un contratto con Charles Dullin» 5 , queste le parole che Barrault scrive nelle Riflessioni. L’importanza della formazione attoriale, per Dullin, non risiedeva negli psicologismi ma nella sincerità: «Uno dei cardini della sua [di Dullin] pedagogia consisteva nell’insegnare a vivere sinceramente una situazione. Gli esercizi che si eseguivano nella sua scuola erano infatti, per lo più, esercizi di sincerità attraverso i quali si ricercava la capacità di sentire ancor più che quella di esprimere. Attraverso il lavoro d’improvvisazione, pilastro del suo insegnamento, agli attori veniva chiesto di provare l’autenticità di alcune sensazioni come la paura, il dolore, la gioia, la scoperta di sé, la nascita della vita, senza doverle necessariamente esteriorizzare» 6 . Un’altra grande ricchezza che avevano gli allievi di Dullin era quella di poterlo vedere “all’opera”, senza però avere il compito di imitarlo, come avveniva nei lavori di stampo sette-ottocentesco, ma cercando un’ispirazione, diversa in ognuno: «Appresi soprattutto all’Atelier ad amare il Teatro. Avevamo davanti a noi uno dei più grandi e sinceri innamorati di teatro che possa trovarsi. La cosa più istruttiva per noi era infatti guardar lavorare Charles Dullin» 7 .

Nel celebre libro Il teatro e il suo doppio 8 l’autore, Antonin Artaud, dedica un intero capitolo all’Atelier di Charles Dullin; nel 1921 scrive: «Con la creazione dell’Atelier, Charles Dullin affronta i gravi problemi del risanamento e della rigenerazione morale e intellettuale del teatro francese. […] Ma prima di tutto occorreva costruire un piccolo nucleo di attori perfettamente disciplinati, perfettamente al corrente delle esigenze del loro mestiere, perfettamente coscienti. A questo scopo mirano i nuovi metodi instaurati da Dullin, che egli ha inventati o adottati per primo in Francia. Di tali metodi, il principale è l’improvvisazione che costringe l’attore a pensare gli impulsi dell’anima invece di rappresentarli» 9 . Appare evidente l’importanza del lavoro impartito da Dullin ai suoi allievi sull’improvvisazione, da cui deriva la sincerità in scena, l’affidamento dell’allievo al maestro e viceversa, come capiamo dalle parole di Barrault: «Il maestro non è un buon maestro che nella misura in cui l’allievo gli permette di essere un buon maestro. Tutto il nutrimento ch’egli vi porta è nel nutrimento che gli si permette di portare. È l’allievo che porta la ricchezza del maestro. Avevo messo tutto il mio amore su Dullin. Dullin per questo mi innestava a sé tutto intero» 10 . Dullin aveva iniziato ad apprendere il lavoro dell’improvvisazione al Vieux Colombier 11 con Jacques Copeau 12 . Il primo grande successo attoriale di Dullin fu proprio il riadattamento dei Fratelli Karamazov 13 , di Copeau al Teatro d’Arte nel 1911. A questo proposito è necessario evidenziare l’influenza che ebbe il rapporto tra Dullin e Copeau nella formazione e nella pedagogia dell’Atelier.

Nel 1912-13 Copeau chiamò Dullin a collaborare alla fondazione stessa del Vieux Colombier
14 e, nonostante alcuni dissidi che li allontaneranno, manterranno sempre buoni rapporti. Queste le parole di Copeau: «Ho appena bisogno di ricordare la ventennale amicizia che mi lega a Charles Dullin, amicizia traversata da alcuni momenti burrascosi, ma di quelle che, se hanno radici profonde, nell’età matura sentono rifluire la ninfa e portano frutti inattesi» 15 . Infatti dagli anni 1934-36 Dullin e Copeau stringono un accordo di comune gestione dell’Atelier. In questo modo Copeau poté mettere in scena Shakespeare 16 avvalendosi degli attori dell’Atelier. Questo spettacolo fu un successo incredibile, è quindi evidente che Dullin fu inevitabilmente influenzato dal lavoro svolto da Copeau. Si ricorda inoltre che, nel 1935, Barrault inscena all’Atelier Autoru d’une mére, sua prima regia, e qui conobbe Copeau. Nel lavoro svolto da Copeau si individua il primo passaggio dalla pantomima tradizionale di origine ottocentesca al nuovo mimo francese. La pantomima è indicata come arte: «imitativa e descrittiva, basata su di un uso convenzionale della gesticolazione manuale e della mimica facciale» 17 e viene ben distinta dal mimo che acquista l’identità di una nuova forma di espressione autonoma e indipendente dal linguaggio verbale, poi chiamata con Decroux mimo corporeo. «Di particolare interesse ai fini del nostro discorso è il ruolo assolutamente privilegiato dell’improvvisazione mimica nel progetto pedagogico di Copeau […][il quale] cerca di risvegliare nell’attore il primario e fanciullesco istinct du jeu» 18 . Da queste parole si evince come Copeau mise a fuoco un mezzo d’espressione, uno «strumento del teatro», come lo chiama De Marinis, il cui fine era quello di risvegliare aspetti nascosti/dimenticati dell’attore. Il passaggio del lavoro di Copeau nelle mani di Decroux spinge quest’ultimo all’elaborazione di un mimo come genere autonomo: un mimo come fine e non più come mezzo.

La formazione teatrale di Etienne Decroux ebbe inizio nel 1923 presso la scuola del Vieux Colombier: «Le esperienze che Decroux fa al Vieux Colombier in quel primo e unico anno di permanenza, seguendo fra l’altro il corso di Suzanne Bing sull’improvvisazione con maschere inespressive, si riveleranno ben presto determinanti per lui» 19 . Nell’unico anno in cui frequentò il Vieux Colombier come allievo, Decroux familiarizzò con tutta una serie di esercizi che miravano al lavoro sul corpo e all’espressività e questo fu centrale per le sue future teorie sul mimo. Oltre al lavoro con le maschere neutre, infatti, si lavorava con esercizi di mimo allegorico, come quelli di improvvisazione collettiva, educazione fisica, musica corporea e pantomima. A partire da questo lavoro, Decroux iniziò ad immaginare il mimo come arte autonoma e questo fu il principale punto di divergenza tra lui e il direttore del Vieux Colombier, che invece aveva tutt’altro immaginario: «Per quanto riguarda i testi drammatici, il progetto progressivo-evolutivo di Copeau prevedeva, dunque, che non si partisse da essi, ma che ad essi si dovesse arrivare, o più esattamente ritornare, dopo aver in qualche modo riportato l’attore alla condizione di bambino, e cioè dopo avergli fatto recuperare, con l’aiuto di metodiche adeguate, l’attitudine al gioco […] e la disponibilità all’espressione senza clichés […]. È chiaro, pertanto, che la conoscenza e l’esperienza del corpo umano, che la scuola dovrebbe procurare, non costituiscono un fine in sé per Copeau […] esse non vanno cioè finalizzate secondo lui, all’elaborazione di una forma espressiva autonoma o comunque prevalentemente fisico-plastica, ma, intese invece come mezzi, debbono servire per facilitare all’attore l’accesso all’«autenticità» dell’interpretazione drammatica» 20 . il differente ruolo del mimo, come fine per Copeau e mezzo per Decroux rimane il cardine della dissonanza di pensiero tra i due: «Il mimo corporeo - che nasce in Francia negli anni Venti/Trenta ad opera di Etienne Decroux - è caratterizzato in primo luogo da una radicale rivendicazione dell’autonomia estetico-linguistica del gesto, considerato non più come semplice succedaneo della parola, suo tautologico sostituto, ma come ‘linguaggio’ capace di esprimere propri significati in modo originale e autosufficiente e di dare quindi vita a una nuova, e specifica, forma d’arte» 21 .

Altro discorso invece si apre con l’arrivo di Decroux all’Atelier di Charles Dullin, con cui rimase in rapporto per oltre vent’anni. È qui che Decroux compie un’elaborazione approfondita del mimo corporeo assieme al giovane allievo Jean-Louis Barrault: «Decroux arriva all’Atelier nel 1926, dopo essersi distaccato dal gruppo di Copeau in Borgogna e aver già cominciato a lavorare come attore professionista» 22 . L’atmosfera è molto differente rispetto a quella del Vieux Colombier: Dullin lasciava Decroux lavorare all’Atelier sulle sue ricerche in piena autonomia. È infatti in questa sede che prendono forma, in collaborazione con Barrault, i primi esperimenti del mimo corporeo decrouiano. Molti altri furono gli aspetti che lo condizionarono, a partire dalle teorie di Craig sulla Supermarionetta, ma anche la ginnastica, gli sport, la danza moderna e il rapporto instauratosi con Isadora Duncan; per non dimenticare che, fondamentali nella sua formazione, furono i due movimenti culturali francesi quali illuminismo e realismo, di cui condivise quasi sempre le scelte più radicali.

Il 1931 fu l’anno in cui Decroux realizzò il suo primo numero mimico, La vie primitive, con la moglie Suzanne Lodieu, ma anche l’anno in cui venne pubblicato il suo primo scritto teorico; per Barrault, invece, il 1931 rappresenta l’inizio del suo percorso teatrale con l’approdo all’Atelier. L’elaborazione del mimo corporeo, da parte di Decroux, era già stata messa in moto prima dell’incontro con Barrault negli anni al Vieux Colombier; ma fu con lui che presero forma quelle immagini corporee che fino ad allora erano rimaste chiuse nella mente di Decroux. Barrault aveva un dono per l’arte mimica e questo lo confermano le dichiarazioni stesse del maestro a partire da quella che troviamo nel suo testo Parole sul mimo: «Jean-Louis Barrault, il più dotato di talento, non deve nulla a questo movimento [si riferisce allo studio che si svolgeva alla scuola del Vieux Colombier] come attore di cinema. Ma come uomo di teatro è nipote della nostra scuola» 23 e, citando anche le parole di De Marinis: «Barrault è il giovane artista che ha ricevuto dal cielo il dono dell’espressione corporea e che incontra in Decroux la persona capace di riconoscere in lui questo talento, di tirarglielo fuori e di metterlo a frutto per portare a compimento le proprie ricerche sul mimo, dando loro una forma concreta, un repertorio espressivo e una grammatica» 24 . Quella tra Decroux e Barrault fu una collaborazione in cui, pur mantenendo sempre il rapporto maestro/allievo, come ribadisce De Marinis, si nota anche uno scambio reciproco: si parla di nascita del mimo proprio negli anni della loro collaborazione, non a caso. Questa collaborazione fu fondamentale per tutto il percorso teatrale di Barrault: «Più si penetrava nel mimo, più risorse gli si trovavano. Quale tesoro avevamo scoperto! Il mimo rapidamente era divenuto una delle mie passioni. Resterà sempre una delle mie passioni» 25 e, citando anche la Rietti: «L’incontro con Decroux segnò, al pari di quello con Dullin, in maniera indelebile non solo l’apprendistato, ma tutto il cammino teatrale di Jean-Louis Barrault» 26 . Fu un primo imprinting al teatro, che lo fece appassionare enormemente.

La teoria teatrale sviluppata successivamente da Barrault prende il nome di Teatro Totale: un lavoro che riesca a fondere in sé tutte le arti espressive. Viene fatto riferimento ad un preciso capitolo delle Nouvelles Réflexions sur le Théatre: Du «Théatre Total» et de Christophe Colomb. Questo testo viene scritto nel 1953, in occasione dell’allestimento di Christophe Colomb di Paul Claudel:
«[…] è senza dubbio perché il XIX secolo e la prima parte del XX hanno chiuso il teatro in un settore specifico inventando il teatro psicologico inventando la formula “teatro psicologico”, che noi, per reazione contro questo “teatro parziale” diamo l’impressione di inventare il teatro completo. In realtà non inventiamo niente, vogliamo semplicemente tornare al teatro vero, in breve, alla vera tradizione. […] L’essere umano è il mezzo necessario e sufficiente di cui dispone l’artista del teatro: l’autore. E c’è un Teatro Completo quando le risorse di questo essere umano sono utilizzate da questo autore in modo completo. Si può dire quindi che il Teatro Totale utilizza tutta la gamma dell’Essere Umano. È in rapporto al teatro parziale che bisogna pensare ad un chiaroscuro del teatro a colori. Che rischia di essere più caldo, più vivo…più umano. […]Ma il teatro è anche spettacolo. Intorno a questo “uomo-teatro” che si muove, vive, agisce, arde e muore, che da solo è tutto il teatro, si ha l’abitudine di fare appello alle altre arti per incorniciarlo e rendergli omaggio, come con lo stesso sentimento di omaggio e per meglio presentarlo si ha l’abitudine di incorniciare un quadro. Come una bella cornice ben appropriata non ha mai fatto torno ad un bel dipinto, un bello spettacolo non ha mai rovinato una buona azione drammatica. Certamente succede che una cornice troppo ingombrante uccida il dipinto come succede che uno spettacolo troppo fastoso soffochi il teatro. Ma ciò non sopprime il principio. Armonizzare lo spettacolo alla parte essenziale del teatro, cioè la parte che l’autore affida all’attore , è un problema difficile da risolvere ma è un problema che non si può eludere. Sopprimere lo spettacolo non è risolvere il problema. […] A volte capita che lo spettacolo non si accontenti più di servire da cornice ma che si elevi al livello di teatro essenziale: in qualche modo si umanizza, diventa simile ai personaggi e partecipa all’azione; lo spettacolo allora non solo presenta un’opera ma, alla pari degli attori, le da significato. Queste decorazioni avendo nutrito l’occhio per un certo tempo si mettono improvvisamente a muoversi e fanno risaltare l’azione. […] In altre parole: finché lo spettacolo stesso resta nei limiti della cornice, cioè della presentazione più o meno accattivante dell’opera drammatica, non aggiunge niente di particolare al teatro totale, ma non appena lo spettacolo si eleva al punto di partecipare in modo umano all’azione, partecipa essenzialmente al teatro puro, fa parte integrante precisamente del teatro totale. Il punto più prezioso nel montaggio di un’opera teatrale consiste perciò nel trovare il mezzo di elevare sufficientemente il livello dello spettacolo (decorazioni, accessori, luci rumori e musica) perché esso non si contenti più del ruolo secondario di “cornice” o miscuglio delle arti, ma arrivi a umanizzarsi a un punto tale da fare in qualche modo parte dell’azione e da potersi presentare con lo stesso titolo dell’uomo, cioè arrivi a servire il teatro nella sua totalità – a questo punto il teatro totale trova la sua unità […]» 27 .

Come possiamo notare, queste parole chiariscono ciò che, del pensiero di Barrault, più trae in inganno. Per Barrault il teatro completo è più semplicemente il «vero teatro», opposto al teatro borghese, «parziale». «Ma se si vuole prospettare di nuovo il problema della vera tradizione, si chiami teatro totale o no, importa poco; sarà necessario anzitutto prospettarsi di nuovo il problema dell’attore» 28 . La totalità cui Barrault rinvia è, quindi, quella dell’attore: «si dà teatro completo ogni volta che le risorse dell’essere umano possono essere utilizzate in modo completo dall’«artista di teatro», e cioè – si badi – dall’autore» 29.

È necessario eliminare lo scarto presente tra attore e scena (intesa come costumi, luce, scenografia, musiche) per creare un rapporto in cui attore e scena convivono reciprocamente per lo spettacolo. Barrault sostiene che il problema del mimo sia quello di essere, ormai, stereotipato al tal punto, da non poter più essere usato per esprimere se stessi liberamente: «Ora quella tecnica nessuna scuola l’insegna e nessun attore del nostro paese vi è veramente addestrato. Il problema del teatro totale pone dunque semplicemente il problema dell’insegnamento dell’attore occidentale»
30 . È necessario per Barrault che l’arte mimica venga resa più comunicativa e accessibile, senza che sfoci nella pantomima tradizionale. Sulla differenza tra mimo e pantomima, si rimanda alle Riflessioni: «[…] Ciò che si faceva in altri tempi: Pantomima, e ciò che ci siamo messi a fare oggi: Mimo. In realtà, pantomima e mimo non fanno che una cosa sola: è l’arte del gesto. Tuttavia, esiste già dall’inizio una differenza tra la pantomima antica (cioè la pantomima della seconda metà del XIX secolo) e il mimo moderno. La pantomima detta antica è un’arte muta; il mimo detto moderno è un gioco silenzioso. […] Fin qui, la pantomima, arte muta, era stata sempre considerata come un’arte popolare, un’arte di secondo piano, non pura, un’arte minore. Il mimo moderno, arte del silenzio, quand’è riuscito, sta al livello delle arti più silenziose. È un’arte pura» 31 .

Parola e gesto sono entrambi mezzi di espressione dell’uomo e Barrault sostiene una possibile comunicazione tra questi: un sostenersi dell’uno per mezzo dell’altro. Il gesto, da parte sua, non viene associato da Barrault all’arte muta che è la pantomima, ma a quella silenziosa del mimo, la poesia del corpo. «Il Mimo è l’arte stessa del SILENZIO. È uno dei due punti estremi del teatro puro; l’altro estremo, all’opposto è la dizione pura» 32 , queste parole, che ritroviamo nelle Riflessioni, ci parlano di un Barrault consapevole, che intende l’arte silenziosa del mimo come teatro puro, che necessità però l’integrazione di altri linguaggi, avendo come obiettivo il recupero di una espressione artistica totale. In questa totalità, il mimo costituisce quindi solo una parte, se pur fondamentale, della formazione teatrale. Proprio in questo punto si trova il motivo dell’allontanamento tra l’allievo talentuoso e il maestro Decroux: in quest’ottica il mimo diviene un mezzo di espressione teatrale, tornando alla linea Copeau-Dullin, allontanandosi dal “mimo come fine” decrouiano.: «È molto probabile che proprio la decisione, da parte di Barrault, di darsi al teatro di prosa, creando spettacoli che mescolavano mimo e parola […] sia stata la ragione principali della rottura con Decroux» 33 . Nel breve saggio, Il problema del gesto 34 , Barrault parla del mimo come di un’arte che si ritrova chiusa in una impasse. Liberare il mimo da questa impasse vuol dire renderlo più accessibile e meno complesso senza però accostarlo alla tradizione ottocentesca della pantomima tradizionale. Il problema per Barrault sta nel visualismo di un’arte corporea che ha estromesso completamente la parole finendo nell’esagerazione e nella deformazione artificiosa. Questi sono i motivi che hanno spinto Barrault a “contaminare” il mimo puro decrouiano con altri mezzi espressivi. La riflessione che Barrault, più di altri, ha aperto con l’idea del Teatro Totale è quella del passaggio da un teatro declamatorio, ottocentesco, ad un teatro fisiologico, in cui corpo e gesto assumono una funzione primaria nell’espressione del personaggio.

Nel biennio di sodalizio Barrault e Decroux misero a punto i principi e le tecniche che sono ancor oggi alla base del mimo corporeo come il contrappeso e il disequilibrio, i movimenti contrari, scatto e fluidità. Queste le parole di Decroux: «Ciò che l’uomo introduce nell’arte, è la disarmonia che trova nella vita: sincopi, controtempi, enjambement, esitazione (l’esitazione nel valzer). Ciò che introduce nella propria vita, è l’armonia che vede nell’arte: ritmo, equilibrio (valzer nell’esitazione)» 35 . Inoltre, approfondirono il problema della marcia, pratica che vede l’uomo portarsi in avanti con le gambe che lo seguono e il punto più avanzato del petto non deve mai lasciarsi superare dalla punta del piede che sta davanti: «Il problema della marcia in sé ci appassionò. Nulla è più difficile che camminare e s’identifica l’uomo al suo passo» 36 , da queste parole, che Barrault riporta sulle Riflessioni, appare chiaro il tipo di lavoro che svolgevano insieme lui e Decroux, la profondità che veniva data all’analisi di ogni gesto fino a dire che «s’identifica un uomo al suo passo» e, ancora: «Lo studio approfondito della marcia mi deformò talmente che misi ben dieci anni a ritrovare un passo normale…(e ancora adesso mi capita talvolta!...) […] Ora, un uomo che cammina è TUTTO che si sposta. Il passo non si centra, né sulla punta del piede, né sul tacco. Si centra all’altezza del petto» 37 .

È con Barrault, inoltre, che Decroux mise a punto la distinzione tra mimo soggettivo e mimo oggettivo. Queste le parole di Barrault: «Lo studio dei contrappesi era appassionante; è la chiave del mimo detto oggettivo. Mimo soggettivo. O studio degli stati d’animo, tradotto con una espressione corporea. Atteggiamento fisico dell’uomo nello spazio»
38 . Per quanto riguarda l’aspetto tecnico vero e proprio, possiamo affermare che il mimo di Decroux rovescia la gerarchia tradizionale degli organi corporei come concepita nell’Ottocento dalla pantomima: il volto e le mani, privilegiati dal teatro tradizionale, vengono messi da parte per lasciare il primo posto al tronco (petto, spalle, cintura e bacino), poi vengono le braccia, poi le gambe e in fine la testa. Queste ancora le parole di Barrault: «L’uomo che cammina non deve attirare l’attenzione sui suoi piedi né sui suoi ginocchi, ma sul davanti del petto; se posso esprimermi così, è il petto che fa il primo passo. L’uomo che cammina ha deciso di spostarsi; e ciò ch’egli sposta anzitutto, è il centro di sé stesso; quella scatola magica e cava, grazie alla quale respira e che è sostenuta, come un emblema di vita, dall’asta più agile del mondo: la sua colonna vertebrale» 39 . Il lavoro svolto da Barrault e Decroux era volto al rifiuto di un lavoro mimico intriso di cliché e descrizioni immediate, alla ricerca di una non-figurazione, un’arte astratta dei movimenti. Mani e volto sono gli strumenti della menzogna e del cliché, secondo Decroux. Il volto in particolare viene spesso coperto da maschere neutre o veli che ne impediscono quell’espressività che per Decroux deve essere propria del corpo.

Conclusione
L’obiettivo della ricerca era quello di evidenziare il contributo che Jean-Louis Barrault diede alla nascita del mimo moderno evidenziando il biennio di collaborazione con Etienne Decroux (1931-33). Il lavoro di ricerca svolto mi ha portata a concludere che nel lavoro di ricerca mimica, centrale fu il rapporto che si instaurò tra Jean-Louis Barrault ed Etienne Decroux. Imprescindibili furono le condizioni che resero questo rapporto così particolare e fruttuoso: la completa libertà di lavoro concessa da Dullin all’Atelier; la convivenza dei due, che portò ad una conoscenza reciproca profonda; inoltre il 1931 è un anno che vede entrambi spinti da una sete di conoscenza come anche quella di imparare e crescere che non deve essere stata indifferente in un progetto di ideazione teorica e tecnica come quello che necessita il lavoro sul corpo.
Mi piacerebbe concludere con un aneddoto a testimonianza del mio lavoro. Nell’autunno del 1931, Barrault partecipò assieme a Decroux e sua moglie, Suzanne Lodieu, alla seconda versione della pièce creata da Decroux Le vie primitive. La prima versione era stata precedentemente presentata da Decroux e sua moglie nel giugno 1931, al Théatre Lancry. Jean Dorcy, amico di Decroux fin dai tempi del Vieux Colombier assistette alla prima rappresentazione, quella quindi in cui non era presente Barrault, e affermò: «Quest’opera testimonia di una ginnastica molto ritmica ma ancora embrionale» 40 , mancandovi i principi essenziali, quale ad esempio il contrappeso (studio degli stati d’animo tradotto in espressione corporea) o i canoni della danza classica. Lo stesso Dorcy affermerà successivamente: «1931: Decroux e Barrault, due estasiati, lavorano tutto il giorno. Ne uscirà il mimo» 41 .

Fu, quindi, proprio grazie al contributo di Barrault che il mimo corporeo decrouiani poté acquisire quella forma più concreta, maggiormente tecnica, nuova, che ci permette oggi di porre la differenza tra pantomima e mimo moderno.



NOTE

1C. Dullin, Ce sont les deux quil nous faut, 1° ed., Paris, Gallimard, 1996; (tr. It. di Gerardo Guccini, La ricerca degli dei. Pedagogia di attore e professione di teatro, a cura e con un saggio di Daniele Seragnoli, Firenze, La casa Usher, 1986, pp.285)

2ivi.

3P. E. Poesio, Jean-Louis Barrault, Documenti di teatro 17, 1 ed., Italia, Cappelli, 1961, p. 16

4Un esempio è proprio la collaborazione Decroux-Barrault che ci fu dal 1931 al 1933.

5J-L. Barrault, Reflexions sur le théatre, 1° ed, Paris, J. Vautrain, 1949, (tr. It. a cura di Glauco Natoli, Riflessioni sul teatro, Firenze, Sansoni, 1954) p. 11

6F. R. Rietti, Jean-Louis Barrault. Artigianato teatrale, Collezione Biblioteca teatrale. Memorie di teatro, 26, Roma, Bulzoni, 2010

7J-L. Barrault, Reflexions sur le théatre, 1° ed, Paris, J. Vautrain, 1949, (tr. It. a cura di Glauco Natoli, Riflessioni sul teatro, Firenze, Sansoni, 1954) p. 23

8A. Artaud, Le Theatre et son double, 1 ed., Paris, Edition Gallimard, 1964 (tr. It. a cura di Gian Renzo Morteo e Guido Neri, Il teatro e il suo doppio con altri scritti teatrali, 2 ed., Torino, Einaudi, 2000, pp. 262

9ivi. p. 105

10J-L. Barrault, Reflexions sur le théatre, 1° ed, Paris, J. Vautrain, 1949 (tr. It. a cura di Glauco Natoli, Riflessioni sul teatro, Firenze, Sansoni, 1954) p. 18

11Il Théatre du Vieux-Colombier è un teatro parigino. Venne fondato dal regista teatrale Jacques Copeau nel 1913 all'interno della preesistente sala teatrale dell'Athénée-Saint-Germain. Il teatro si configurò, su volere del fondatore, come punto di rottura dalla recitazione coeva, pregna di simbolismo, alla ricerca di un classicismo moderno che rappresentasse la semplificazione delle arti, scema dal manierismo o dall'eccessiva astrazione. Oggi, è una delle tre sale utilizzate dalla Comédie-Française per i propri spettacoli.

12Jacques Copeau (Parigi, 4 febbraio 1879 Beaune, 20 ottobre 1949) è stato un attore, regista teatrale, drammaturgo e critico francese.

13Lo spettacolo cui qui ci si riferisce è il riadattamento di Jacques Copeau de I fratelli Karamazov di Dostoevskij, presentato al Théâtre des Arts il 6 aprile 1911.

14Dullin collaborò nella ricerca della sala e degli attori; partecipò alle esperienze della nuova compagnia durante il soggiorno in campagna, a Limon.

15J. Copeau, Souveirs du Vieux Colombier, 1° ed., Paris, Nouvelles Editions Latines, 1931, pp. 125 (tr. It. di Annamaria Nacci, Ricordi del Vieux Colombier, collana biblioteca delle Silerchie, Milano, Il Saggiatore, 1962, pp. 80) p. 40

16Ci si riferisce allo spettacolo, andato in scena nellottobre del 1934, Rosalinde ou Comme il vuos plaira di William Shakespeare.

17ivi. p. 14

18ivi.

19M. De Marinis, Mimo e teatro nel Novecento, 1° ed., Firenze, La casa Usher, 1993

20ivi.

21M. De Marinis, Mimo e mimi. Parole e immagini per un genere teatrale del Novecento ,1° ed, Firenze, La casa Usher, 1980

22M. De Marinis, Mimo e teatro nel Novecento, 1° ed., Firenze, La casa Usher, 1993

23E. Decroux, Paroles sur le mime, 2° ed., Librarie Théatrale, Paris, Editions Gallimard, 1963, Nouvelle édition revue et argumentée 1977; (tr. It. di Clelia Falletti e Claudia Palombi, Parole sul mimo - Il grande classico del teatro gestuale contemporaneo, 2° ed., Roma, Dino Audino editore, 2009) p. 28

24M. De Marinis, Mimo e teatro nel Novecento, 1° ed., Firenze, La casa Usher, 1993

25ivi.

26F. R. Rietti, Jean-Louis Barrault. Artigianato teatrale, Collezione Biblioteca teatrale. Memorie di teatro, 26, Roma, Bulzoni, 2010

27J.-L. Barrault, Nouvelles reflexions sur le theatre, 1° ed., Paris, Flammarion, 1959, pp.282

28 J.-L. Barrault, Reflexions sur le théatre, 1° ed, Paris, J. Vautrain, 1949, pp. 203 (tr. It. a cura di Glauco Natoli, Riflessioni sul teatro, Firenze, Sansoni, 1954, pp.210)

29M. De Marinis, Mimo e teatro nel Novecento, 1° ed., Firenze, La casa Usher, 1993, pp. 390

30J.-L. Barrault, Reflexions sur le théatre, 1° ed, Paris, J. Vautrain, 1949, pp. 203 (tr. It. a cura di Glauco Natoli, Riflessioni sul teatro, Firenze, Sansoni, 1954, pp.210) p. 95

31ivi. p. 184

32ivi. p. 33

33M. De Marinis, Mimo e teatro nel Novecento, 1° ed., Firenze, La casa Usher, 1993

34J.-L. Barrault, Le problème du geste, in Nouvelles reflexions sur le theatre, 1° ed., Paris, Flammarion, 1959

35E. Decroux, Paroles sur le mime, 2° ed., Librarie Théatrale, Paris, Editions Gallimard, 1963, Nouvelle édition revue et argumentée 1977; (tr. It. di Clelia Falletti e Claudia Palombi, Parole sul mimo - Il grande classico del teatro gestuale contemporaneo, 2° ed., Roma, Dino Audino editore, 2009) p. 78

36J.-L. Barrault, Reflexions sur le théatre, 1° ed, Paris, J. Vautrain, 1949, pp. 203 (tr. It. a cura di Glauco Natoli, Riflessioni sul teatro, Firenze, Sansoni, 1954, pp.210) p. 31

37ivi. p. 31-32

38ivi. p. 36

39ivi. p. 32-33

40M. De Marinis, Mimo e teatro nel Novecento, 1° ed., Firenze, La casa Usher, 1993, pp. 390

41ivi.



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