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Ritratto dell' artista da giovane. Sull'esposizione “Il giovane Ribera tra Roma, Parma e Napoli 1608-1624”  
Massimo Maiorino
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 15 Novembre 2011, n. 632
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 Chissà se, come il Dedalus di Joyce lasciando l’Irlanda, anche il giovane Ribera, mentre partiva dalla Spagna, pensava di andare ad “incontrare per la milionesima volta la realtà dell’esperienza e a foggiare nella fucina della [sua] anima la coscienza increata della [sua] razza”. Eppure il viaggio in Italia, che Ribera compì molto probabilmente intorno al 1608, da viaggio di formazione divenne “esperienza di realtà” e ben presto l’artista comprese che la “dimensione” italiana, da passaggio temporaneo si trasformava in definitiva scelta d’esistenza. La mostra “Il giovane Ribera tra Roma, Parma e Napoli 1608-1624”, che il Museo di Capodimonte di Napoli ha dedicato agli anni giovanili dell’artista, cerca di far luce su di un periodo poco conosciuto della carriera dello Spagnoletto, provando ad azzardare tentativi, a suggerire percorsi, a gettare tracce. Insomma sembra sottrarsi alla degradante retorica delle mostre compilative, noiose ed inutili, che si susseguono nei nostri musei, per diventare invece momento di studio, strumento metodologico in fieri. I rischi di tali operazioni sono enormi e gli esiti non affatto scontati, ma occorre la dovuta riconoscenza quando sono mossi da studi adeguati ed onestà intellettuale.
Ad una prima analisi l’esposizione risulta abbastanza lineare e tocca, come già il titolo precisa, tre tappe della carriera dell’artista, ma, accanto al dato strettamente geografico e cronologico, appaiono in nuce le problematiche d’analisi che ad ognuno di questi momenti si confanno. Il passaggio, nell’ordine, tra Roma, Parma, ancora Roma, e Napoli, come la più recente letteratura ha indicato, è segnato da notevoli difformità, come sempre avviene negli esordi delle carriere più brillanti. Nessuna strada segnata, ma tante possibili esplorazioni. Sembra, almeno in parte, cadere l’etichetta di caravaggesco della prima ora, favorendo una lettura più aperta, una complessità di ricerca ed una diversificazione del tutto inaspettata. In questa direzione meglio andrebbe rimodulato anche il rapporto del primo Ribera con il naturalismo del Caravaggio, provando a riformulare, sulla scorta del noto saggio di Maurizio Marini “Caravaggio e il naturalismo internazionale” pubblicato per la Storia dell’Arte italiana Einaudi, la categoria pittorico-linguistica d’appartenenza. Così per i primissimi anni d’attività dell’artista spagnolo, anziché utilizzare l’abusata, e forse impropria, definizione di naturalismo, più opportuna sarebbe quella di realismo o di verismo. Infatti nella premessa del saggio sopra citato, scritta dal Marini a quattro mani con Federico Zeri, si legge: “Il termine di naturalismo (che, nell’apparente transitività del sinonimo linguistico, appare univoco - vedi realismo e verismo) all’atto della definizione pittorica, legata ad angolazioni cronologiche, filosofiche e ideologiche, assume significati paralleli e, perciò, distinti e in intersecabili. In tal senso, naturalismo, realismo, verismo, indicano momenti diversi dell’esperienza conoscitiva e comunicativa di una pittura che guarda al mondo estrinseco e percettibile”.
Ma tornerò più avanti sulla questione per meglio chiarirne i termini e gli sviluppi. Facciamo ora un passo indietro e proviamo a ricostruire brevemente la vicenda biografica dell’artista, tenendo in sottofondo, come un basso continuo, le indicazioni geografiche e cronologiche indicateci dall’esposizione. Jusepe de Ribera nasce a Jàtiva, nella provincia di Valencia nel 1591 e, come scrive Alina Cuoco, nel sempre utile “Maestro del colore” Fabbri del 1966: “l’oscurità che avvolge i primi anni di vita del Ribera si riflette sulla precisa conoscenza della sua formazione. Per la vicinanza della sua città natia con Valencia è ipotizzabile un periodo di primissima formazione in quest’ultimo centro, come ricorda il Palomino, tra gli allievi di Francisco Ribalta. L’iniziazione artistica in un centro estremamente attento alla pittura italiana e l’alunnato presso la bottega di Ribalta, artista attivo in gioventù presso i cantieri dell’Escorial, dove fu sensibile all’influsso del manierismo riformato di Pellegrino Tibaldi e di Federico Zuccari ed alle portentose opere dei veneti, sono probabili indizi della linea poetica seguita da Ribera agli esordi della carriera.
Con tali premesse sembra che il viaggio in Italia, anziché essere orientato dall’astro di Caravaggio, fosse un approfondimento su quanto già si andava realizzando in patria ed uno studio delle “fonti” del tardo manierismo. Infatti, da quanto riportato dal pittore e teorico spagnolo Martinez, nel corso delle loro conversazioni, Ribera dichiarò che “l’ammirazione e lo studio lo avevano spinto verso Michelangelo, Raffaello e Correggio, l’inclinazione verso il Caravaggio”. Molto difficile è ricostruire l’itinerario del viaggio: alla possibilità suggerita da Josè Milicua di una traversata Valencia-Napoli si oppone Nicola Spinosa indicando i pericoli che un simile viaggio comportava all’epoca.
Qualche certezza in più è offerta dalla cronologia: l’arrivo in Italia è da fissare all’altezza del 1608, ed al di là di altre possibili tappe, troviamo sicuramente il diciassettenne spagnolo a Roma ad ammirare le opere di Michelangelo e Raffaello. Successivamente, tra il 1609-10 e il 1611, Ribera si sposta a Parma dove troviamo i primi documenti certi che attestano il pagamento all’artista di 109 lire parmensi per la realizzazione di un San Martino per la Congregazione di San Prospero, poi trasferito nella chiesa di Sant’Andrea. Anche Giulio Mancini nelle sue “Considerazioni sulla pittura” (1620) menziona la sua permanenza a Parma a meditare sul classicismo restaurato dei Carracci e sull’arte di Correggio e di Parmigianino.
Queste considerazioni sono il miglior viatico per affrontare la prima opera presente in mostra, la Pietà del Museo di Capodimonte. La piccola tavola, realizzata tra il 1610 e il 1611, risale al periodo emiliano e fu attribuita a Ribera da Roberto Longhi, anche sulla base dell’ inventario farnesiano del 1680. L’opera appare un esordio insolito per un caravaggesco in stricto sensu, che preferisce al tenebroso naturalismo un classicismo maturato sulle opere di Correggio e dei Carracci e permeato da una tonalità che rimanda ad un senso atmosferico quasi di matrice veneta. Le figure inondate di luce si plasmano in uno struggimento materico che ricorda le calde sensualità cha dall’ultimo Tiziano portano a Rubens. Nome, quest’ultimo, da non tralasciare nella formazione dell’artista, tenendo conto anche dell’ipotesi di una tappa a Genova durante il suo viaggio verso l’Italia. Le due opere successive, il San Giacomo della collezione Caylus di Madrid ed il San Tommaso di Budapest, sono grosso modo coeve e dovrebbero essere state realizzate nel primissimo periodo romano. Entrambe nella costruzione e nei toni spingono l’adesione al “modello” di Carravaggio più in là.       

 

 

Il giovane Ribera versus il Maestro del Giudizio di Salomone

L’altro nodo che caratterizza l’esposizione è, come spesso accade, quello attributivo. Allineati nella Sala Causa in serrata sequenza cronologica, si susseguono quarantatrè dipinti dell’artista, di cui più della metà, tra cui quasi tutti quelli che segnano l’avvio della fase napoletana, sono di attribuzione certa. Il problema riguarda principalmente le opere realizzate tra il primo soggiorno romano e quello successivo a Parma. La querelle è generata dall’ingresso “in mischia” di un nome mitico nella storiografia artistica del Seicento e lungamente dibattuto: il Maestro del Giudizio di Salomone. L’identità proposta da Roberto Longhi per designare un ignoto pittore di origini francesi, operante negli anni Venti del Seicento, raccoglie un gruppo di opere alla cui testa c’è l’omonima tela del Giudizio di Salomone della Galleria Borghese. Per l’opera del museo romano che, insieme alla serie degli Apostoli della Fondazione Longhi, di cui sono presenti in mostra il San Tommaso, il San Bartolomeo, il San Mattia ed il San Paolo, forma un nucleo dalla sorprendente unità stilistica, è stato proposto nel 2002 da Gianni Papi il nome del giovane Ribera. Il Maestro del Giudizio di Salomone era Jusepe de Ribera: per dirla brevemente il Papi è giunto a tale conclusione sulla scorta dell’analisi incrociata degli inventari delle famiglie Borghese e Giustiniani e del diplomatico spagnolo, attivo a Roma ai principi del Seicento, Pedro Cussida. Da questi documenti è emersa la paternità comune di un gruppo di opere, tutte attribuibili a Ribera. Spinosa, tra i principali esegeti dello Spagnoletto e curatore della mostra in questione, dopo un’iniziale ostilità alle tesi di Papi, si è mostrato convinto delle prove portate a sostegno dell’assimilazione del Maestro del Giudizio di Salomone con il Ribera operante a Roma. Qualche dubbio su tale tesi resta: innanzitutto la datazione del Giudizio di Salomone tra il 1609 ed il 1610 sembra troppo prematura per un’opera che mostra un’impaginazione classica ed uno sviluppo teatrale dello spazio che appare quasi protobarocco. Sembra quasi opera di un caravaggesco di seconda generazione, e perciò lontana da un artista, il Ribera, che all’altezza del 1609 appare ancora incerto sulla strada da percorrere. Inoltre il confronto con le opere immediatamente successive del periodo parmense, presenti in mostra, segna una discontinuità molto evidente e difficilmente spiegabile.
A chiudere, probabilmente, in modo definitivo la questione è giunta nel 2009 la testimonianza di Alessandro Zuccari, che nel volume “Da Caravaggio ai Caravaggeschi” ha riconosciuto il Maestro del Giudizio di Salomone in Angelo Caroselli. La mostra comunque, seguendo la linea indicata dal Papi, allinea una serie di figure, inquadrate quasi a piano americano, che accrescono il presunto corpus del secondo soggiorno romano. Spiccano la Liberazione di San Pietro della Galleria Borghese, precedentemente assegnata a Pierfrancesco Mola, ed il Mendicante della stessa galleria romana. Quest’ultima opera, realizzata intorno al 1612, è caratterizzata da un potentissimo realismo, quasi di stampo ottocentesco. La figura vibra come illuminata da una flebile lampada a petrolio; le carni arrossate di chi assaggia il primo bruciante caldo della legna in combustione dopo tante notti al freddo e lo sguardo rassegnato di chi non ha più spazio per sperare sembrano quelli di un clochard parigino. Gli abiti consunti e le mani protese ad elemosinare ci ricordano il dramma dell’esistenza, Van Gogh non è poi così lontano e i Mangiatori di patate sembrano appartenere alla stessa famiglia.

 

 

Verso Napoli  per la strada di Caravaggio, ma più tento e più fiero”

Gli ultimi anni del soggiorno romano di Ribera ci mostrano un artista ben inserito nella scena cittadina, come documentato anche dalla sua presenza alle riunioni dell’Accademia di San Luca. E’ del 1614 l’impegnativa a versare ben cento scudi per l’edificazione della chiesa dell’ente. Questi sono anche gli anni decisivi per le sorti della sua pittura, gli anni in cui si conquista la fama di “seguace di Caravaggio”. Infatti nel 1618 Ludovico Carracci, in una lettera a Carlo Ferrante, elogia il pittore come uno tra i maggiori della “scuola” del Caravaggio e, nel 1620, il già nominato Giulio Mancini legge la sua pittura in chiave naturalistica, ma in direzione ancora più netta e “più fiera”. Dunque in ambito romano Ribera allenò l’occhio sulle opere di Caravaggio, ma di grande suggestione furono per lui anche le riletturecaravaggesche operate dai nordici. Sono di questo periodo (1615-16) la serie dei Sensi, di cui in mostra è presente La vista del Museo Franz Mayer di Città del Messico, saggio di potente realismo, tra la crudezza iberica ed il descrittivo analismo fiammingo. Il gusto per l’aneddoto, l’attenzione rigorosa al dato fisico, una materia calda e pastosa imbevuta di luce lasciano pensare alle prime opere di Velasquez. Così, al di là di tutte le etichette degli storiografi dell’epoca, nell’esito pratico l’adesione al naturalismo tarda a venire, se con tale termine si intende, come scrive il Marini, “l’esperienza naturale e trascendente (o divina) nella dimensione quotidiana.
Quella di Caravaggio è una natura anima mundi, dove la luce ha un potere trascendente di redenzione, il soggetto illuminato è sottratto dalle tenebre. Luce ed ombra: il dualismo sintetizza in valori estetici visivi la lotta tra bene e male, la luce rivela la natura ed annulla il male nell’ombra. Nell’ambiguità del post-caravaggismo si è spesso scambiato il lume di candela per la luce del Caravaggio. Ecco allora l’utilità del distinguo fatto all’inizio tra naturalismo, realismo e verismo, e l’opportunità di indicare questi anni della carriera di Ribera non come naturalisti, ma come realisti o veristi. Infatti, citando nuovamente il Marini, questi per il realismo scrive che spesso “si tinge…d’insistenti connotati sociali” e per il verismo che è “parte insostituibile in certa pittura fiamminga del XVII secolo…facile all’aneddoto, al dettaglio pittoresco, al simbolo proverbiale”. Mi sembrano queste le caratteristiche più specifiche della pittura del Ribera romano. Novità nella sua pittura appaiono a cominciare dalla serie dei Padri della Chiesa o dei filosofi dell’antichità, come il Sant’Agostino di Palermo, il Sant’Antonio Abate di Madrid e l’Origene di Urbino. L’opera del periodo romano che più di tutte presenta intense caratteristiche caravaggesche è la Negazione di San Pietro di Palazzo Corsini a Roma con le figure immobilizzate dal dramma.
Nel 1616 Ribera lascia Roma, il trasferimento a Napoli per uno spagnolo è un po’ un ritorno a casa. Arriva in città d’estate, probabilmente caldissima: è una “discesa all’inferno” che segue l’itinerario di Caravaggio. La realtà quotidiana diventa un richiamo troppo forte, un assillo terribile, violento, che può reggere solo attraverso il confronto con il potere redentivo e misericordioso delle opere napoletane del Caravaggio. La visione di dipinti come Le opere di misericordia o la Flagellazione sono la folgorazione definitiva che orienta in trasfigurazione trascendente l’esperienza quotidiana. In questo clima sfilano le ultime opere in mostra, evidenti appaiono anche i contatti con le elaborazioni locali del Caravaggio, su tutti le opere di Battistello Caracciolo, Massimo Stanzione e Carlo Sellitto.
A Napoli Ribera gode di appoggi importanti, tra i quali il potente pittore Giovan Bernardino Azzolino, di cui ha sposato la figlia nel 1616, e del vicerè della città, il duca di Osuna. Attraverso anche queste conoscenze la sua bottega diventa ben presto la più importante della città e realizza un gran numero di lavori. La Resurrezione di Lazzaro (1616) del Prado di Madrid è un’opera sontuosa, la luce che “resuscita” Lazzaro è diretta emanazione divina e lo stupore attonito del gruppo di figure rende più di qualsiasi commento. Di grande rilievo sono le opere realizzate nel 1618 per la moglie del duca di Osuna, il Martirio di San Bartolomeo e il Calvario; quest’ultima presenta sintomi di un caravaggismo di maniera, riletto sugli affascinanti esempi di Massimo Stanzione.
Le accensioni cromatiche dei panneggi e il patetismo teatrale appaiono, ancora una volta, una trasgressione del naturalismo più integrale. La Susanna e i vecchioni del 1617 dal taglio intensamente teatrale, con la fisiognomica  dei vecchi e con gli elementi architettonici classicheggianti, può essere un supporto all’identificazione di Ribera con il Maestro del Giudizio di Salomone, ma quanti anni separano le due opere. Per concludere meritano di essere citati due capolavori, il Compianto su Cristo deposto (1620-23) della National Gallery di Londra, e l’opera che chiude la mostra, La Madonna col bambino consegna la regola a San Bruno (1624) di Berlino. Il Compianto anticipa come soluzione la Pietà del 1637 dipinta per la Certosa di San Martino, ma con un registro meno drammatico ed un colorismo neomanierista. La luminosità generata dalla cascata d’oro dei capelli della Maddalena imbeve tutta la composizione, ed i panneggi si caricano di calde tonalità. L’opera di Berlino con la Madonna incoronata dalle teste di puttino appare già carica di istanze neoclassiche e rende merito a quanto suggerito da Alvar González-Palacios sui possibili rapporti dello Spagnoletto con Guido Reni.


 

 

 

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