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J.L. Borges e A. Bioy Casares, Cronache di Bustos Domeq, Einaudi, Torino 1975  
Cecilia Canziani
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 26 settembre 2000, n. 222
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Area Libri

Normalmente la recensione di un libro che raccoglie i divertimenti narrativi di due scrittori argentini non dovrebbe trovare posto in una rivista di arte.

Scritto a due mani da Borges e Bioy Casares, il libro contiene gli (immaginari) articoli del giornalista Bustos Domeq il quale affronta in 20 cronache vari aspetti della cultura, mettendone in (involontaria) luce il lato surreale e grottesco. Perché riteniamo che questo libro meriti un posto tra le pagine di BTA e nella libreria dello storico dell'Arte, se ammettiamo che esso non parla di Arte ? Potremmo a questo punto archiviare la questione e posare la penna, o potremmo intavolare «una conversazione, la quale lo si avverte, potrebbe essere continuata all'infinito; se non accadesse qualcosa.
Qualcosa accade.
L'Arte ricompare.» ( P. Celan)1

"Far le lodi della multiforme opera di César Paladiòn, esaltare l'infaticabile ospitalità del suo spirito è, certo uno dei luoghi comuni della critica contemporanea; ma conviene non scordare che i luoghi comuni hanno sempre la loro parte di verità. Altrettanto inevitabile il riferimento a Goethe, né è mancato chi suggerisse che l'accostamento si basa sulla somiglianza fisica dei due grandi scrittori e sulla circostanza più o meno fortuita che essi hanno in comune, per così dire, un Egmont. Goethe disse che il suo spirito era aperto a tutti i venti; Paladiòn evitò tale affermazione, giacchè essa non figura nel suo Egmont, ma gli undici proteiformi volumi che ha lasciati provano che avrebbe potuto adottarla a pieno diritto. Entrambi, Goethe e il nostro Paladiòn, fecero mostra della salute e robustezza che sono la miglior base per l'erezione dell'opera geniale. Gagliardi contadini dell'arte, le loro mani reggono l'aratro e segnano la zolla !

Il pennello, il bulino, lo sfumino e la macchina fotografica han diffuso l'effigie di Paladiòn; noi che lo conoscemmo personalmente forse disdegniamo ingiustamente una tanto profusa iconografia, che non sempre trasmette l'autorità, la probità che il maestro irraggiava come una luce costante e tranquilla, che non acceca.

Nel 1909, Cesar Paladiòn esercitava a Ginevra la carica di console della repubblica Argentina; là pubblicò il suo primo libro, I parchi abbandonati. L'edizione, che oggi i bibliofili si contendono, fu scrupolosamente corretta dall'autore; la macchiano tuttavia i più incredibili errori, giacché il tipografo calvinista era un ignoramus completo per quanto riguarda la lingua di Sancio. I ghiotti della petite histoire gusteranno la menzione di un episodio assai ingrato, che nessuno ormai ricorda, e il cui unico merito è di rendere evidente in modo palmare la quasi scandalosa originalità della concezione stilistica paladioniana. Nell'autunno 1910, un critico di notevole valore confrontò I parchi abbandonati con l'opera dallo stesso titolo di Julio Herrera y Reissig, per giungere alla conclusione che Paladiòn aveva commesso -risum teneatis- un plagio. Lunghi estratti delle due opere, pubblicati in colonne parallele, giustificavano, a suo dire, l'insolita accusa. Che del resto cadde nel vuoto, i lettori non la presero in considerazione, né Paladiòn si degnò di rispondere. Il libellista, di cui non voglio ricordare il nome, non tardò a comprendere il suo errore e si condannò a perpetuo silenzio. La sua sorprendente cecità critica era stata messa allo scoperto !

Il periodo 1911-19 corrisponde ormai ad una fecondità quasi sovrumana: in veloce successione appaiono Il libro strano, il romanzo pedagogico Emilio, Egmont, Thebussiane (seconda serie), Il segugio dei Baskerville, Dagli Appennini alle Ande, La capanna dello zio Tom, La provincia di Buenos Aires fino alla definizione della questione Capitale della Repubblica, Fabiola, Le Georgiche (traduzione di Ochoa) e il De divinatione (in latino). La morte lo sorprende in pieno lavoro; secondo la testimonianza degli intimi, aveva in avanzata preparazione il Vangelo secondo San Luca, opera di stampo biblico, della quale non è rimasta minuta e la cui lettura sarebbe stata interessantissima.

La metodologia di Paladiòn è stata oggetto di tante monografie critiche e tesi di laurea che riesce quasi superfluo esporla di nuovo. Ci basti tratteggiarla a grandi linee. La chiave è stata data, una volta per tutte, nel trattato La linea Paladiòn-Pound-Eliot (vedova di Ch. Bouret, Parigi 1937) di Farrel du Bosc. Si tratta, come ha messo definitivamente in chiaro Farrel du Bosc citando Myriam Allen de Ford, di una dilatazione di unità. Prima e dopo il nostro Paladiòn l'unità letteraria che gli autori accoglievano dall'eredità comune era la parola, o tutt'al più la frase bell'e fatta. E' molto se i centoni del bizantino o del monaco medievale allargano il campo estetico accogliendo versi interi.

Nella nostra epoca, un abbondante frammento dell'Odissea inaugura uno dei Cantos di Pound ed è noto che l'opera di T.S. Eliot ammette versi di Goldsmith, di Baudelaire e di Verlaine. Paladiòn, nel 1909, era già più lontano. Si annesse, per così dire, un opus completo, I parchi abbandonati, di Herrera y Reissig. Una confidenza resa nota da Maurice Abramowicz ci rivela i delicati scrupoli e l'inesorabile rigore che Paladiòn portò sempre nell'ardua fatica della creazione poetica: egli preferiva I crepuscoli del giardino di Lugones a I parchi abbandonati, ma non si giudicava degno di assimilarlo; mentre riconosceva che il libro di Herrera era nelle sue possibilità di allora, giacché le sue pagine lo esprimevano pienamente. Paladiòn gli dette il proprio nome e lo passò in tipografia senza togliere né aggiungere una sola virgola, norma alla quale fu sempre fedele.

Siamo così dinanzi all'avvenimento letterario più importante del nostro secolo: I parchi abbandonati di Paladiòn. Niente di più remoto, certo, del libro omonimo di Herrera, che non ripeteva un libro precedente. Da quel momento, Paladiòn si consacra all'impresa, a cui nessuno s'era sobbarcato fino ad allora, di scandagliare nelle profondità della sua anima e di pubblicare libri che la esprimessero, senza appesantire il già schiacciante corpus bibliografico o cadere nella facile vanità di scrivere una sola riga. Modestia incorruttibile di quest'uomo che, davanti al banchetto che gli offrono le biblioteche orientali e occidentali, rinuncia alla Divina Commedia e alle Mille e una notte e accondiscende, umano e affidabile, a Thebussiane (seconda serie) !

L'evoluzione mentale di Paladiòn non è stata del tutto chiarita; per esempio nessuno ha spiegato il misterioso ponte che va da Thebussiane al Segugio dei Baskerville. Per conto nostro, non esitiamo a lanciare l'ipotesi che una simile traiettoria sia normale, propria di un grande scrittore che supera l'agitazione romantica per incoronarsi alla fine della nobile serenità classica.

Chiariamo che Paladiòn, a parte qualche reminescenza scolastica, ignorava le lingue morte. Nel 1918, con una timidezza che oggi ci commuove, pubblicò Le Georgiche nella versione spagnola di Ochoa; un anno dopo, ormai consapevole della propria grandezza spirituale, dette alle stampe il De divinatione in latino. E che latino ! Quello di Cicerone !

Per alcuni critici, pubblicare un vangelo dopo i testi di Cicerone e di Virgilio comporta una specie di apostasia degli ideali classici; noi preferiamo vedere in quest'ultimo passo, che non dette, un rinnovamento spirituale. Insomma, il misterioso e chiaro cammino che va dal paganesimo alla fede.

Tutti sanno che Paladiòn dovette provvedere di tasca propria alla pubblicazione dei suoi libri e che le esigue tirature non superarono mai la cifra di trecento o quattrocento esemplari. Sono tutti virtualmente esauriti, e i lettori ai quali il generoso caso ha messo in mano Il Segugio dei Baskerville aspirano, affascinati dallo stile personalissimo, ad assaporare La capanna dello zio Tom, forse introuvable. Per questo motivo plaudiamo all'iniziativa di un gruppo di deputati dei più opposti settori, che propugna l'edizione ufficiale delle opere complete del più originale e vario dei nostri letterati."

L'Arte ricompare. Ricompare nelle parole del primo racconto del libro, il cui oggetto è - prima del suo effettivo avvento - il postmoderno, movimento artistico che fa della pratica di ri- produrre opere precedenti, la sua bandiera e, come è qui reso evidente, il suo limite. Ora poiché la nostra è l'era del postmoderno, non ho analizzato il testo di Borges e Bioy Casares mettendolo in relazione al movimento artistico di cui sopra: ho applicato, per dimostrare di saper mettere in atto l'insegnamento ora ricevuto, il solo tipo di critica che abbia sostanza postmoderna: la citazione del testo. Critica postmoderna: il testo commenta il testo. Postmoderno: contaminazione e schizofrenia, un racconto scritto nel 1963 può commentare un'opera d'arte nata negli anni ottanta (esempi: gli oggetti duchampiani di Sherrie Levine, il cinema di Brian de Palma, una fotografia di Victor Burgin). Conclusione: insospettabilmente l'arte è ricomparsa, io posso scomparire nella citazione.

J.L. Borges e A. Bioy Casares, Cronache di Bustos Domeq, Einaudi, Torino 1975.

NOTE

1 Paul Celan, La Verità della Poesia, Torino, Einaudi 1993.




 
 

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