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Kienholz in Italia. (Un'intervista inedita.)  
Isabella Li Gotti
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 26 luglio 2000, n. 211
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Area Interviste

Edward Kienholz era un artista americano, nato nel 1927 a Fairfield, piccolo villaggio dello stato di Washington, da una famiglia di agricoltori di origine svizzera. Cresciuto, nell'ombra della depressione economica, con la filosofia del «waste not, want not » (se non sprechi non avrai mai bisogno), si scontrò con l'obsolescence losangelina quando a venticinque anni, tappa di un viaggio beat sulle strade americane, approdò a North Hollywood. Era il 1952, l'economia statunitense in ripresa, Los Angeles era il paradiso dello spreco. E Kienholz, l'adolescente del «waste not, want not », formato al valore intrinseco delle cose, convinto che una civiltà potesse essere capita da ciò che buttava, rimase affascinato da un luogo dove i rifiuti sono beni ancora utilizzabili e la spazzatura è un tesoro per chi vi sa cercare.

Kienholz all'epoca ancora componeva quadri, splendidi lavori espressionistico-simbolici, dove la pittura era stesa con la scopa al posto del pennello, mischiata a schegge di legno per renderla più densa. Probabilmente fu il contatto con Los Angeles a sviluppare, o forse solo accelerare, la propensione dell'artista verso opere freestanding, lavori che si staccavano dal muro invadendo lo spazio dello spettatore, costruiti con oggetti presi dalla realtà, oggetti trovati nella spazzatura o nei mercatini, portati a nuova vita dalla sua creatività e dal feticismo della nostra civiltà. Nacquero così gli assemblage (John Doe, 1959, Jane Doe, 1960) e poi all'inizio degli anni Sessanta i tableaux. I tableaux erano enormi assemblage, human scale environmental assemblage, che ricostruivano interi ambienti e situazioni. Roxy's (1961) fu la prima di queste opere ambientali che avvolgevano e sconvolgevano lo spettatore con i particolari della vita di ogni giorno. L'environment ricostruisce un bordello degli anni Quaranta, e le sue prostitute sono terrificanti assemblage, nello stesso tempo rigettanti e sensuali, spaventosi e simbolici. A Roxy's seguirono altri famosissimi tableaux come The Illegal Operation (1961), la descrizione dell'attimo immediatamente successivo ad un aborto clandestino, Back Seat Dodge '38 (1964), il sedile posteriore di un'automobile dove una coppia sta facendo l'amore, The Birthday (1964), la solitudine di una donna che sta partorendo, The Wait (1965), la rassegnazione all'abbandono e l'attesa nella vecchiaia, The Beanery (1965), un bar della West Hollywood e la sua clientela con orologi al posto delle teste. Tableaux e tableaux sulla vita, sui problemi sociali, sulla quotidianità più povera e squallida, sulla solitudine, sulle parti buie della società americana. Tableaux e assemblage fino al 1994, anno in cui morì per un attacco di cuore a Hope, nell'Idaho, dove passava sei mesi l'anno; gli altri sei mesi li trascorreva a Berlino.

Kienholz non ebbe un'istruzione formale, non studiò storia dell'arte, egli voleva fare un'arte per quelli come lui, che non sanno niente di arte. « Io riproduco cose che tutti conoscono. Ad esempio nel caso di un'opera come The Beanery, il pubblico può benissimo ignorare la parola "arte", ma sa sicuramente che cosa è un bar, o un bordello nel caso di Roxy's. Li riconoscono, capiscono e partecipano » 1. Ma attraverso questa ingenuità egli celava, di fatto, la capacità di assorbire le attività abituali in una dimensione estetica in grado di stravolgerle e costringerci ad osservarle filtrate dal suo sguardo. L'aria familiare dei suoi ambienti induce lo spettatore ad entrare, fisicamente e psicologicamente, nelle opere, ma la realtà che Kienholz mostra è solo apparentemente vicina alla nostra, perchè egli l'ha deformata fino a farne un incubo. Ce la ripropone, la realtà, ma caricata di valori emotivi e significati simbolici, di atti di denuncia e riflessioni, veicolati proprio da ciò che abbiamo scartato. E le sue meticolose ricostruzioni, dai particolari estranianti, ci ingannano e ci costringono a notare (e a vivere) ciò che all'interno della nostra realtà noi distrattamente non guardiamo, o forse ci rifiutiamo di guardare.

Le opere di Edward Kienholz colpiscono la nostra immaginazione e il nostro cuore come un'opera letteraria, e la sua letteratura tridimensionale, costruita sulla spazzatura, affidata a vocaboli che sono cose reali, oggetti compagni della nostra banalità, ha conquistato l'America e l'Europa, ma non è riuscita ad affascinare l'Italia. La prima mostra di Kienholz in Italia fu nel 1970, Edward Kienholz: Watercolours, alla Galleria Françoise Lambert di Milano. Per quanto importanti per capire l'atteggiamento dell'artista americano nei confronti dell'arte, gli acquarelli non potevano tuttavia mostrare al pubblico italiano in che cosa effettivamente consistesse la sua opera.

Nel 1973 ci fu, sempre alla Galleria di Françoise Lambert, un'esposizione collettiva, Records as Artwork, alla quale partecipò anche Kienholz. Ma la prima grande mostra dedicata all'artista fu ospitata nel 1974 nella Galleria Giancarlo Bocchi di Milano. L'esposizione, Edward Kienholz. Opere principali dal 1961 ad oggi, si trasferì successivamente alla Galleria LP 220 di Torino. Giancarlo Bocchi pubblicò per l'occasione un catalogo delle opere direttamente curato da Edward Kienholz.

Nel novembre 1974, ancora alla Galleria Giancarlo Bocchi, Kienholz partecipò ad Assemblage Now, una mostra collettiva, con Arman, Cesar, Herms, Spoerri, Tinguely, Vostell, alla cui realizzazione collaborò Enrico Crispolti.

Nel 1977 l'artista fu invitato alla Biennale di Venezia dove partecipò con l'opera The Middle Island No. 1.

Altra partecipazione alla Biennale fu nel 1990.

Nel 1978 Kienholz venne a Roma, alla Galleria Il Gabbiano, dove espose le sue Volksempfängers.

Con l'aiuto dell'allora mercante d'arte Giancarlo Bocchi, che nel 1974 organizzò l'unica vera mostra in Italia delle opere di Kienholz, abbiamo tentato di ricostruire il rapporto dell'artista americano con l'Italia.

Siamo a Zibello, vicino Parma, in una trattoria dove l'artista americano veniva spesso a mangiare con Bocchi quando si trovava in viaggio nel nostro paese.

Giancarlo Bocchi mette a disposizione tutto il suo materiale. Ritagli di giornale, riviste, foto personali. La cosa più emozionante è un album realizzato per lui dai Kienholz 2 (personalizzato con il suo nome sulla copertina di finta pelle scura) per ringraziarlo di aver "posato" per The Art Show. Infatti, nell'opera, che oggi si trova alla L. A. Louver Gallery, a Venice in California, le sculture di gesso, i plaster casts, furono realizzate eseguendo il calco di amici e familiari. Una volta terminato il lavoro, Edward e Nancy Kienholz composero, per ogni persona che aveva partecipato, un album dove raccolsero foto e ricordi. Nella prima pagina di questo souvenir, realizzato per la collaborazione di Giancarlo al tableau, si può leggere una lettera dove i Kienholz lo ringraziano e gli chiedono di spedirgli in America una "macchinetta" per il caffè.





Ci fu una mostra alla sua galleria nel 1974. Perché dopo quell'occasione nessuno si è più occupato di portare in Italia Edward Kienholz ?

    (Giancarlo Bocchi) Perché la struttura del mercato dell'arte italiana non è delle migliori. Non c'è mai stata una galleria di spicco, l'unico che ha fatto un lavoro culturale ad alto livello è stato Arturo Schwarz.

Lei come ha conosciuto Edward Kienholz ?

    L'ho conosciuto in modo un po' curioso, perché nel 1972 ero andato a Berlino per una fiera d'arte, e avevo incontrato Wolf Vostell, che era uno dei grandi artisti del gruppo Fluxus. Io ero stato uno dei primi a comprare le opere di Vostell, ed eravamo diventati amici. Sapevo che l'anno dopo sarebbe venuto a Berlino Kienholz per una borsa di studio del DAAD, allora ho detto a Vostell - anche se era una cosa piuttosto imbarazzante, poiché anche lui voleva fare una mostra con me, poi la facemmo a Parma - allora gli ho detto: « Sai, per me in questo momento è molto interessante fare qualcosa con Kienholz a Milano ». Lo chiesi a lui perché sapevo che fra di loro c'erano già stati dei contatti.

Ma lei aveva già visto le opere di Kienholz, già lo conosceva come artista ?

    Sì, io conoscevo le sue opere, e comunque lui era già noto in Italia; aleggiava una sorta di aurea, di presenza mitica ...

Ma ciò in conseguenza del fatto che in Europa c'erano già state alcune sue mostre importanti ?

    Dunque, era stato al Documenta di Kassel nel 1968, ci furono poi quelle grandi mostre del 1970 organizzate da Pontus Hulten, poi quella di Düsseldorf. Lui era un artista che in quel momento superava le discussioni a livello politico fra figurativi ed astrattisti. Era un artista che indiscutibilmente faceva controcultura a livello americano, e se ne parlava, a Milano se ne parlava moltissimo. Io sapevo che lui era molto difficile, inavvicinabile, per tanti motivi, ma principalmente perché voleva sentirsi in libertà, quindi chiedeva ai mercanti delle condizioni particolari.

    Quindi parlai con Vostell, con il quale ero molto amico e gli dissi: « Senti un po' Kienholz se gli si può parlare ». Lui mi rispose: « Sì, ti aspetta, vuole parlarti ». Io andai a Berlino nel 1973. In quel momento Kienholz si era appena installato a Berlino. Gli dissi: « Vorrei fare questa mostra ... » certamente lui conosceva il mio background, quello della mia famiglia, io ero molto giovane, avevo diciannove anni ... però ero convincente; grazie a mio padre avevo già conosciuto tutti i grandi dell'arte di quel periodo. Allora gli dissi. « Sai, la cosa è molto semplice, io vorrei fare una tua mostra in Italia perché l'Italia è stato l'unico paese che non è stato toccato dalle tue grandi esposizioni europee nei musei, e credo che questo, per la cultura italiana sia veramente un crimine ». Io sapevo che lui era stato avvicinato da altri galleristi italiani, e sapevo anche che era una persona che preliminarmente, per difendersi dal mercato, poneva delle condizioni estreme. Lui mi ha guardato un po', poi ha detto: ‘Sì, questa mostra la facciamo.' Io rimasi molto stupito perché lui già allora aveva grandi mercanti, quindi fidarsi di un ragazzino che aveva diciannove anni ... ma questo me lo ha spiegato dopo, quando siamo diventati amici, mi ha detto che aveva visto in me un coraggio e una forza superiore a quella di tanti altri galleristi.

    Certamente fu una mostra contrastata con parecchi problemi di tipo tecnico, perché si trattava di portare in Italia delle opere molto grandi, dovemmo far costruire delle casse enormi, dovetti noleggiare mezzo aereo da Los Angeles. Poi quando arrivarono in Italia, queste casse ebbero una vicissitudine curiosa, perché le Belle Arti non capirono di che cosa si trattasse e mi volevano far pagare una cifra esorbitante; parlai allora con Franco Russoli, il direttore della Sovrintendenza di Brera, e gli spiegai la cosa. Lui sistemò tutto, per fortuna, altrimenti non avremmo potuto fare la mostra. E questa fu una mostra in qualche modo profetica.

Cosa intende per profetica ?

    La cultura milanese era abituata o alle cose stabilite, ai vari Picasso, eccetera, eccetera, o alle riscoperte di tipo europeo. Questa mostra fu vissuta veramente come un grande evento. Vennero tutti i più importanti nomi della critica. Li colpiva questo binomio insolito fra un grandissimo artista che aveva fatto mostre in tutti i più importanti musei del mondo, ed un ragazzino come me.

Come mai allora la fama di Kienholz è andata diminuendo in Italia ? Perché in Italia non ha trovato pubblico ? L'arte è qualcosa che ha bisogno anche di pubblico, non solo di critici, di mercanti, di esperti ... era troppo difficile fare mostre con le sue opere ?

    Dunque ... la mostra di Kienholz andò molto bene da un punto di vista economico, magari ci furono molte spese per far venire le opere da Los Angeles, per queste grandi casse, impicci, dogane ... poi la mostra si spostò a Torino. Insomma, ci fu anche il riscontro del pubblico. Kienholz in quel momento rappresentava un mito, quindi funzionava. Cosa sia successo dopo non lo so. Certamente la figura di Kienholz era legata al mio nome, ed io dopo il 1976 decisi di non occuparmi più di arte. E poi, probabilmente, era un artista che funzionava più per gli spazi pubblici, per grandi istituzioni culturali che in Italia non esistevano e ancora adesso non esistono. Cioè, uno faceva un'operazione in Germania e una fondazione, come la Ludwig per esempio, ti comprava una grande opera; questa non è la tradizione culturale italiana. Io mi scontravo con una situazione di mercato dove bisognava vendere ai collezionisti privati, perché quasi tutto il lavoro grosso di mercato che si svolgeva in quel momento in Italia, e che si svolge ancora adesso, è rivolto ai collezionisti privati. E questi vogliono la grafichetta di Warhol, o cose abbastanza banali. Noi riuscimmo comunque ad avere un successo finanziario.

Chi comprò le opere? Furono collezionisti Italiani ?

    Sì.

Quindi in Italia ci sono alcune delle sue opere ?

    Sì. Si vendette tutto tranne The Middle Island No. 1.

Quindi era diffuso un gusto tale da poter apprezzare le sue opere ...

    Io ho trovato dei collezionisti tradizionali, non so, di quelli che compravano Marino Marini, che di fronte a Kienholz rimanevano colpiti, come si può rimanere colpiti di fronte ad un Picasso, ad un grande uomo della storia dell'arte. Poi ragionavano in funzione della casa borghese, della moglie, dicevano «ma come faccio a portare questa cosa a casa ... » in fondo perché era già passato il gusto un po' triviale dei collezionisti legati ad un cultura post moderna e asettica, c'era già la cultura della casa come emblema di casta. Kienholz non poteva essere inserito in una casa, doveva essere inserito in una struttura, in una struttura pubblica, cioè essere visto. Questa è la grande forza della sua opera. E' la forza dell'opera pubblica, dell'artista rinascimentale, o medievale, che deve investire il contesto sociale, come Antelami. Lui difatti amava moltissimo Benedetto Antelami, il grande artista romanico, perché capiva che quella era vera arte popolare, non nel senso della parola Pop, non nel senso della Pop art. L'arte popolare non è un fatto di diffusione, è un fatto intimo, e l'artista deve essere un artista contro.

Questo non poteva attecchire in Italia?

    No.

È un fattore di mentalità ?

    C'era una mentalità legata, in quel periodo, a tanti altri stereotipi ... certamente l'operazione Kienholz fu un'operazione di rottura, con gli schemi, con le gallerie; difatti vennero Arturo Schwarz, Marconi, tutti.

Secondo lei oggi questa mentalità c'è ancora o è cambiata ?

    Credo che adesso la mentalità sia deteriore, sia ancora peggio. Credo che l'arte si sia ristretta in un nucleo, quasi in una setta segreta, una specie di identità misteriosa che non ha nessuna incidenza sul reale. La storia dell'arte di tutti i secoli corrisponde ad un'incidenza con la struttura politica del momento in cui vive, al momento presente questa cosa non esiste più. Gli artisti si fanno i fatti loro e basta.

Quindi lei pensa che ciò che ha determinato i rapporti fra l'Italia e Kienholz non sia stato un fattore di gusto quanto di mentalità ? Ossia che non sia giusto ipotizzare che noi non siamo riusciti, e non riusciamo, ad apprezzare queste opere solo perché abbiamo un gusto troppo classico, rinascimentale, legato all'armonia, alla forma, al bello ?

    Io credo che sia un momento di grande crisi di valori, e in questa crisi di valori si inserisce anche l'arte.

Adesso. E allora, negli anni Settanta ?

    Allora, negli anni Settanta, tu capisci che c'era ancora la ferita della guerra del Vietnam aperta, c'erano grandi questioni aperte, il muro di Berlino, quindi c'era una grande combattività della sinistra, che ora non c'è più.

C'era quindi più apertura di adesso ?

    No, non c'era un'apertura, c'era una cultura, che è diverso, una cultura alternativa, non dico underground, ma una cultura che è quella cultura storica che ha percorso duemila anni di storia dell'arte. Non c'è una differenza vera fra Antelami, artista del 1100, e Kienholz. Sono ambedue due artisti contro. Anzi, il famoso fatto che Kienholz non amasse affatto la cultura tradizionale, tipo Michelangelo, ma amasse Antelami, conferma questo fatto. Cioè, Antelami rappresenta una cultura che in qualche modo era popolare ma nascondeva in sé dei significati altri.

Dunque lei sostiene che, in un certo senso, passata la cultura degli anni Settanta, la controcultura della sinistra, diventava ancora più difficile coltivare o introdurre un artista come Kienholz ?

    No, io credo che la responsabilità principale, come ho già detto, sia nel fatto che la struttura delle gallerie e la struttura del mercato dell'arte in Italia, siano mediocri. A parte Arturo Schwarz, che ha realizzato grandi cose, i galleristi non sono riusciti a fare molto. Non c'è la preparazione dei grandi mercanti come Kahnweiler, come Vollard ... Io ho conosciuto Kahnweiler, e prima di tutto era un grande intellettuale, uno che si confrontava con i ministri della cultura del suo paese. I nostri mercanti ...

    Kienholz non poteva vivere in una struttura come quella italiana, basata sul collezionismo privato, dove non ci sono grandi musei che possano contenere certe opere d'arte, come in America, o nel resto d'Europa. Lui in fondo era un artista rinascimentale, legato direttamente alla committenza, che sfuggiva il mercato come lo intendiamo noi. I suoi Concept Tableaux non sono nient'altro che opere in cerca di committenti, dove si vende un progetto e l'artista per realizzarlo è pagato ad ore, come un antico artigiano.

Quindi lei sostiene che è stato essenzialmente un problema di strutture, di mancata diffusione delle opere. Ma se questa diffusione fosse avvenuta, noi saremmo stati in grado di capire, di apprezzare i suoi lavori ?

    L'opera di Kienholz è stata apprezzata a priori rispetto alla mia mostra. C'era tutto un milieu culturale che lo apprezzava tantissimo. Abbiamo parlato oggi pomeriggio di Guttuso, e Guttuso era uno che lo amava moltissimo, che ammirava la sua capacità di sviluppare un'idea politica, sociale, in questo modo così forte. Barilli, Dorfles, e altri erano molto interessati; Carluccio addirittura ha comprato un'opera, e si sapeva che dietro di lui c'erano gli Agnelli. Si, c'era un grande interesse, ma un interesse legato ad un tempo che ormai è passato. Non si può contestualizzare ora l'interesse che c'era a quei tempi. Erano tempi di grande energia culturale, ma anche di grandi problemi politici, le Brigate Rosse, la Guerra Fredda ...

    In Europa lui era un mito, inavvicinabile. Molto stimato dai critici e dai direttori dei musei, meno apprezzato dalle gallerie, perché comunque sapevano che le sue opere erano difficili.

    Il dato di fondo è questo: lui era un artista famoso in tutti i paesi europei fuorché in Italia, perché in Italia non aveva girato la mostra di Pontus Hulten.

Perché la mostra di Pontus Hulten non era arrivata in Italia ?

    Ma perché l'Italia era una specie di terzo mondo nell'arte contemporanea. Cioè non c'era nessuno che avesse i soldi per fare delle cose così clamorose, l'unico pazzo ero io. Pontus Hulten non aveva legami con l'Italia, lui era un grande organizzatore culturale, e riuscì a fare questa operazione perché Kienholz aveva una pregnanza carismatica. In Italia, in quel momento, forse tranne Palazzo dei Diamanti e Farina, che era una persona molto intelligente, non c'erano grandi strutture, e poi in quel momento in Italia le cose si facevano con quattro lire, e quella con Pontus era una mostra che costava molti soldi.

Quindi l'Italia rimase esclusa. La sua mostra in qualche modo rimediò. Ma perché non riuscì a portare all'attenzione generale un artista così ... complesso ?

    Non è vero, Kienholz in quel momento in Italia ebbe molta attenzione. Si mosse anche la Rai, poi ci furono dei problemi tecnici.

Ci fu qualche forma di censura ?

    No, non ci fu nessuna forma di censura, assolutamente.

In quel periodo c'era interesse per l'arte americana? Ossia, l'interesse per Kienholz poteva rientrare in una più generale attenzione per l'arte americana ?

    Il discorso sull'arte americana è molto complicato, perché io credo che ci fosse un interesse di parte per l'arte americana. Nel senso che solo ora vediamo i coinvolgimenti fra l'Espressionismo Astratto, la Pop art e il ruolo che ha avuto la C.I.A., e Tom Braden nello sviluppo del MOMA e nella promozione dell'arte americana. Loro avevano delle capacità finanziarie illimitate. In queste non rientrava Kienholz. Basti pensare alla reazione negativa da parte delle strutture ufficiali del governo americano in Italia, che invece, di solito, erano ben felici di promuovere le mostre. Ma era naturale, Kienholz mostrava il lato oscuro della società americana, ed eravamo ai tempi della Guerra Fredda, della contrapposizione fra i due blocchi.

Ritornando al rapporto di Kienholz con i critici italiani, non capisco come mai, nonostante l'attenzione generale che lei mi dice ci fosse in quel periodo, io abbia trovato solo uno o due articoli su di lui o sulle sue mostre, e nessuna altra pubblicazione, tranne la sua, chiaramente, e quella per la mostra alla galleria Il Gabbiano.

    Perché i critici lo consideravano come un UFO, nel senso che non lo capivano bene, lo confondevano con la Pop art. Ma lui non è mai stato un artista della Pop art, anzi, posso dire, come testimonianza diretta, che lui non ha mai voluto avere rapporti con gli artisti della Pop art. Leo Castelli tentò più volte di avvicinarlo e lui respinse qualsiasi offerta, poiché considerava la Pop art un'arte di regime, un'arte contraria a quella che secondo lui doveva essere l'arte americana libera. Un elemento fondamentale del suo pensiero era molto probabilmente la Guerra Fredda. Lui distruggeva i miti americani proprio perché pensava che ci fosse un ideale "oltre", al di là di Est ed Ovest. È stato un artista che ha cercato in qualche modo, come un progressista americano doveva fare, di rompere con certi meccanismi, con certi sistemi, e con certa cultura che, come poi abbiamo visto, si sono radicati nella crociata di McCarthy contro i comunisti. Kienholz era un artista libero, che non ha avuto i giusti riconoscimenti perché era un artista scomodo. Probabilmente venne apprezzato più in Europa che in America. In primo luogo perché in Europa c'era un regime di tolleranza più ampio che in America. Gli americani stavano rifiutando tutto ciò che veniva dalla cultura europea. In realtà Kienholz ha gettato un ponte, come ha scritto bene Achille Bonito Oliva in Europa-America, un ponte tra due culture. Lui faceva parte di un mondo a sé, all'interno del mondo a sé che è Los Angeles negli Stati Uniti.

Ci sono state delle cose dell'Italia che lo hanno colpito in maniera particolare ?

    Sì, Giuseppe Verdi. È stato colpito dal paese del melodramma, non poteva non esserlo. Cantava Rigoletto ... Edward Kienholz fu un artista americano profondamente europeo. Ma a Firenze non entrò, per non scontrarsi con Michelangelo ... Kienholz non cercava la forma, non cercava l'estetismo, Michelangelo per lui era troppo aristocratico. In qualche modo egli si sentiva più vicino agli artisti medievali, legato a quella cultura invisibile dei posti dove tu vai e vedi una mano che non sai di chi è. Lui si sentiva molto vicino a questa terra, ma qui c'erano anche delle tradizioni culturali molto forti e quindi lui poteva essere inquinato, molto di più che altrove, nella sua essenza estetica americana.

Come mai non voleva essere inquinato ?

    Lui voleva rimanere un artista istintivo ...

Vuole dire che lui voleva rimanere spontaneo, non voleva acquistare un filtro derivante dalla conoscenza ? Che la sua arte, cioè, non doveva essere stimolata da niente altro che da ciò che gli scaturiva da dentro ?

    Sì, direi che è proprio così. L'unica volta che sono riuscito a coinvolgerlo in una situazione culturale ufficiale fu appunto a Parma a sentire Rigoletto.





NOTE

1 F. Minervino, intervista in Che ve ne sembra dell’America, "Bolaffiarte" n. 46, 1975.

2 Nel 1972, a Los Angeles Kienholz incontrò Nancy Reddin che divenne sua moglie e con la quale collaborò nella creazione di tutti i suoi lavori successivi.





 
 

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