bta.it Frontespizio Indice Rapido Cerca nel sito www.bta.it Ufficio Stampa Sali di un livello english
Hercules exemplum virtutis per Camillo Pamphilj il Giovane.
Analisi degli affreschi di Aureliano Milani nella Galleria degli Specchi di Palazzo Doria Pamphilj a Roma
 

Guido Galetto
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 18 Agosto 2019, n. 875
http://www.bta.it/txt/a0/08/bta00875.html
Precedente
Successivo
Tutti
Area Ricerca

Sommario

Aureliano Milani fu uno dei pittori più rappresentativi della scuola bolognese attivi nell’Urbs nel secondo quarto del XVIII secolo, dove promosse un ritorno all’arte dei Carracci. Nella Galleria degli Specchi di Palazzo Doria Pamphili di Roma ha lasciato un maestoso ciclo di affreschi, di cui il presente saggio si prefigge di mostrare come sia caratterizzato da un programma iconografico più complesso di quanto finora ipotizzato e ben inserito nella celebrazione genealogica di casa Pamphili. Si cercherà di spiegare, inoltre, come il pittore non dovette avere la libertà di scegliere i temi da raffigurare, come affermato da alcuni studiosi sulla base di Zanotti, ma la possibilità di decidere come rappresentare i soggetti elaborati probabilmente da un erudito in accordo con il committente. Quest’ipotesi si basa sia su quanto scritto nel contratto di allogazione, riportato nell’Appendice per la prima volta per intero, sia sull’analisi dei soggetti qui presenti.

 

1. Aureliano Milani

Aureliano Milani (Bologna 1675–1749) ricevette i primi insegnamenti di pittura dallo zio Giulio Cesare Milani, passò poi brevemente alla scuola di L. Pasinelli ed infine studiò sotto l’anziano G. Gennari[1]. Ben presto fu affascinato dall’arte dei Carracci, che iniziò a studiare assiduamente anche grazie al Conte A. Fava, il quale divenne suo protettore, permettendogli di copiare i celebri affreschi carracceschi presenti nel suo palazzo. Per tutta la vita l’arte dei Carracci rimase il suo modello di riferimento, invero gli studiosi hanno mostrato come uno dei suoi scopi fosse quello di promuovere una “rinascita” dello stile dei Carracci, a tal punto che il frate Giambattista Bernardi, ‹‹molto amatore della sua pittura››, lo lodava e lo promuoveva presso gli altri come ‹‹un nuovo Carracci››[2]. Dalla loro arte apprese un attento studio dell’anatomia; il disegno saldo e rigoroso, tanto che Zanotti poté scrivere che i Carracci stessi avrebbero visto e valutato con piacere i suoi disegni[3]; il naturalismo, ovvero la necessità di tornare a verificare i modelli sulla natura e quindi l’importanza della μίμησις della natura; l’uso di composizioni equilibrate e una grande abilità prospettica, che gli permise di realizzare complessi scorci prospettici[4]. Chiaramente l’indagine di Milani non si limitò solo ai Carracci, ma studiò anche i lavori dei successivi artisti della scuola Emiliana–Bolognese. Prestò attenzione alle opere di Guido Reni, per le composizioni più monumentali; a Guercino, per la prospettiva, il naturalismo, l’esuberanza e la vitalità delle figure; ma anche a G. M. Crespi[5], poco più anziano di lui, ed infatti in alcune sue opere si possono scorgere influssi delle scene di genere di Crespi. Zanotti scriveva che ad essere ‹‹il piacere di questo pittore, e la delizia››, sono ‹‹questi argomenti, che vogliono uomini nudi, musculosi, e terribili, [] siccome ancora i malinconici, e vulgari, come messioni, e mercati, e cose simili››[6], indicando così la preferenza del nostro pittore per soggetti “di Storia” dove potesse mostrare le sue abilità disegnative (soprattutto nella resa naturalistica di complesse pose di nudo) e prospettiche. Infatti ‹‹circa il disegno ha avuto sempre non pochi lodatori, non così intorno al colore›› commentava Zanotti, spiegando che Milani si era applicato più nel disegno che nel colore. Aggiungendo però che questo era avvenuto ‹‹con ragion›› e che comunque anche nel colorito era ‹‹molto gradito››, Zanotti, che dà un buon giudizio del pittore, probabilmente voleva rispondere a critiche che, dobbiamo supporre, facevano di Milani un ottimo disegnatore, ma non altrettanto valido nelle pitture, dove il colore è una componente essenziale. Del resto Zanotti constata che ‹‹la fama di buon disegnatore gli ha fatto sempre avere occasioni di far disegni più, che pitture, e molti, e molti se ne veggono, che meritano di esser tenuti in pregio siccome il sono››[7].

A Bologna era stimato e ricoprì ruoli importanti nell’Accademia Clementina: nel 1715 risulta uno dei Direttori dell’Accademia ed il 4 ottobre 1722, al momento del sorteggio del nuovo Principe dell’Accademia, fu estratto proprio il suo nome, ma il biglietto fu rimesso nella borsa ‹‹essendosi egli stabilito in Roma da molti anni in quà, con la famiglia, ne più si spera, che alla patria ritorni››[8]. Milani si era sposato a 24 anni e dalla moglie aveva avuto sette figli maschi e tre femmine, era pertanto continuamente alla ricerca di commissioni per sfamare la famiglia. Nel 1719 si trasferì a Roma[9] insieme con uno dei figli e qui riuscì a stabilirvisi, tanto che nel 1720 poté far venire nell’Urbs anche il resto della famiglia.

 

2. La Galleria degli Specchi: le fonti

Il Principe Camillo Pamphili il Giovane era il terzogenito di Giovan Battista Pamphili[10]. Dallo zio Benedetto aveva appreso a prestare attenzione alle questioni artistiche ed infatti anche egli diverrà un mecenate. Nel 1717, per conto dello zio cardinale, aveva assunto l’architetto G. Valvassori, all’epoca trentenne, che iniziò ad ottenere fama e successi proprio grazie a Camillo[11]. Morto il cardinale Benedetto nel 1730, Camillo affidò a Valvassori il compito di costruire, riorganizzare ed ampliare tutta la parte del Palazzo che dà su via Lata (via del Corso), in modo da far sì che il Palazzo di famiglia[12] presso il Collegio Romano si sviluppasse e si affacciasse su via del Corso con una facciata monumentale. I lavori furono svolti dal 1730 al 1735[13] e, tra i nuovi ambienti costruiti da Valvassori, la Galleria degli Specchi è uno dei più coerenti a livello architettonico e presenta una meravigliosa decorazione ad affresco realizzata da Aureliano Milani per conto del Principe Camillo. Il contratto di allogazione (in Appendice) è datato 6 dicembre 1732 e fornisce il terminus ante quem per la fine dei lavori di costruzione di tale ambiente. Nel documento, il nostro pittore si impegnava, a partire dal primo gennaio 1733, a dipingere tutto in un anno per 550 scudi. Stabiliva, inoltre, che avrebbe cominciato dal lato con le quattro parti del mondo e che avrebbe dipinto ogni cosa nella Galleria, eseguendo gli affreschi ‹‹in conformità›› dei disegni da lui realizzati, segno che a Milani spettava sia la fase dell’inventio (cioè ideare la composizione sulla base del tema datogli), sia quella dell’esecuzione. Ogni cosa doveva poi essere approvata dal committente: dai disegni preparatori all’uso della tempera invece dell’affresco per alcune parti secondarie.

Di quest’importante impresa, Zanotti scriveva:

 

- Ultimamente ha pinta la gallerìa del Principe Panfìlio, e avendo potuto scegliere gli argomenti delle sue favole, a suggetti s’è rivolto, che di nudi musculosi, e fieri abbisognano, estimando, che qui consista la somma del suo sapere. Nello sfondato principale v’ ha la caduta de’ giganti, e negli altri i fatti d’ Ercole. Vi sono poi ancora le quattro parti del mondo, ed altre cose. Io sento dire, che questa sia l’opera più stimata, ch’egli abbia fatto fin’ ora.[14]

 

Secondo Zanotti quindi, il Principe Camillo Pamphili avrebbe lasciato a Milani il compito di ideare il programma iconografico e questi si sarebbe orientato su soggetti che permettessero la rappresentazione di nudi in complesse torsioni, in modo da poter mostrare la sua abilità nella resa anatomica, anche di quelle più difficili[15]. Inoltre avverte che aveva udito che fosse l’opera più stimata che il pittore avesse eseguito fino a quel momento[16]. Come vedremo, il programma iconografico è ben inserito nella “mitologia celebrativa” di casa Pamphili, quindi è più probabile che Milani si sia trovato ad avere una certa libertà, all’interno però di alcune direttive dategli dal committente. Del resto quest’ipotesi è suggerita proprio dal contratto, nel quale il pittore si impegnava a dipingere una Gigantomachia e quattro ‹‹fatti›› di Ercole (senza specificare quali), notizia che rivela che al momento del contratto si fosse già previsto di realizzare tali soggetti, con il pittore che aveva, forse, la libertà di scegliere quali ‹‹fatti›› di Eracle rappresentare, ma non la possibilità di scelta di Ercole come eroe protagonista. In realtà è probabile che tutte le scene siano state ideate da un erudito legato ai Pamphili; la libertà di cui godette Milani fu invece quella propria di tutti i pittori affermati, ovvero di poter ideare l’iconografia del tema datogli. In ogni caso sicuramente tali soggetti gli dovettero risultare graditi, dacché gli consentivano di esibire la sua bravura nel disegno del nudo.

Alcuni anni dopo, il ben informato Crespi scriveva:

 

- Sempre più incontrando le Opere del Milani il comune gradimento, il sig. Principe Panfili fecegli dipingere la volta della galleria nel suo palazzo, dalla parte del corso, tutta a fresco, e vi espresse la caduta de’ Giganti, la quale è una delle sue più belle Opere, arricchita d’altre storie, di puttini, di festoni, ed altre cose.[17]

 

 

Anche egli, quindi, giudicava questa una delle migliori opere eseguite dall’artista.

Nella descrizione della Galleria fatta nel 1794 da Tonci, si afferma che l’autore degli affreschi era Melani[18]. Non si sa bene se abbia semplicemente sbagliato la scrittura del nome, cambiando la i con la e, oppure se si sia confuso con uno tra Francesco e Giuseppe Melani (due fratelli frescanti che realizzarono numerosi affreschi a Pisa e Siena), fatto sta che ciò generò una confusione tra gli studiosi successivi fino a quando Loret non dimostrò l’errore[19].

 

3. Analisi iconologica

Come espresso nel contratto, nella Galleria degli Specchi Milani affrescò non solo la volta, ma anche le due lunette sopra i due ingressi posti sui lati corti della Galleria; le arcate delle finestre, decorate con mascheroni, conchiglie e motivi fitomorfi realizzati in gran parte in monocromo, ad imitare rilievi marmorei, e in parte in oro; infine i catini al di sopra delle finestre, sui quali poggia la volta.

La volta vera e propria è così strutturata: al centro vi è la Gigantomachia, posta all’interno di una grande cornice dorata rettangolare che termina con una centina nei due lati corti. È quindi concepita come un quadro riportato. Osservando la volta con le spalle rivolte ad uno dei lati lunghi, a destra e a sinistra del “quadro” centrale sono pensati altri due quadri riportati per parte, con storie di Eracle: i due più esterni presentano una cornice dorata ovale decorata con foglie d’alloro; i due più interni, ovvero quelli ai lati del riquadro centrale, presentano una cornice d’oro rettangolare, con una centina sul lato corto rivolta verso il “quadro” centrale, decorata con ovuli nella parte esterna e un nastro in quella interna. Le due parti terminali della volta prevedono un clipeo centrale e quattro figure femminili poste nei pennacchi. La struttura della volta presenta quindi una ricerca di varietas, nella diversità delle forme delle cornici e della decorazione ad esse legate, all’interno però di una struttura simmetrica, equilibrata e ben bilanciata.

Nei pennacchi, al di sopra delle paraste, vi sono ignudi in monocromo, ad imitare statue marmoree, colti in complesse torsioni, dove il pittore poté mostrare le sue abilità anatomiche–prospettiche. Anche i catini al di sopra delle arcate presentano nella decorazione una varietas, posta però in modo da creare simmetrie e quindi una composizione equilibrata. Sono dieci catini per lato e quelli di un lato presentano la medesima decorazione di quello fronteggiante. Partendo dal lato verso la chiesa di S. Maria in via Lata, nel primo catino è dipinta una conchiglia marmorea con all’interno, al centro, un mascherone dorato con sopra un putto “vero” che sostiene una ghirlanda floreale. Ai lati vi sono due cornucopie dorate da cui escono vari frutti, simbolo di prosperità ed abbondanza. Il secondo presenta una medesima conchiglia con all’interno due putti alati che sostengono una colomba e sotto un mascherone dorato arricchito di fiori variopinti. Nel terzo vi è la solita conchiglia con il mascherone dorato con fiori e due putti alati, che però sostengono un giglio dorato. Nel quarto ricorre il medesimo motivo del secondo. Il quinto e sesto catino si estendono meno all’interno della volta per lasciare posto all’enorme “quadro” centrale. Presentano entrambi uno sfondo che si finge di pietra scura, con al centro una conchiglia dorata con dentro una maschera dorata di un putto sormontata da una corona floreale variopinta. Ai lati della conchiglia vi sono motivi fitomorfi sempre in oro. Il settimo catino ripresenta la decorazione del secondo e l’ottavo la medesima del terzo. Il nono la stessa del secondo e il decimo la medesima del primo.

La colomba ed il giglio che ricorrono sono ovviamente gli emblemi dei Pamphili. Lo stemma della famiglia, infatti, è composto da una colomba bianca che tiene nel becco un ramo d’ulivo su fondo rosso e da tre gigli dorati su fondo blu scuro. Lo stemma si prestava ad essere interpretato sia in chiave cristiana, sia in chiave pagana. Secondo la prima interpretazione, la colomba rinviava alla colomba dello Spirito Santo che reca il ramo d’ulivo simbolo di pace. Nella seconda, la colomba era sacra a Venere, dea dell’Amore, l’ulivo ad Atena (visto come simbolo di Pace e Saggezza)[20] ed i gigli a Giunone, dea dei matrimoni; pertanto rinviava ai temi di Amore (la colomba di Venere), Pace e Sapienza (l’ulivo d’Atena), Unione (i gigli di Era). Questi erano i concetti che i Pamphili volevano evocare con il loro stemma, poiché li giudicavano collegati al loro cognome, che facevano derivare dalla parola greca πάμφιλος-ον (amico di tutti, caro a tutti). Il loro cognome conteneva pertanto il concetto dell’amore di tutti verso tutti e dell’essere amati da tutti[21]. A questo proposito i Pamphili avevano inventato due genealogie per dimostrare come essi discendessero direttamente da nobili famiglie della Roma antica. Una faceva discendere la famiglia da Enea, figlio di Venere, ad indicare così che l’origine stessa dei Pamphili era connessa con i temi di pace ed amore. In questo modo si giustificava la colomba come emblema famigliare ed il fatto che nel loro cognome fosse contenuta la parola greca φιλία (amicizia, amore), in quanto discendenti della dea dell’Amore[22]. Secondo l’altra genealogia discendevano, invece, dal pacifico re di Roma Numa Pompilio e, attraverso di lui, dallo spartano Pamphilius[23], un discendente di Eracle e quindi, tramite quest’ultimo, direttamente da Zeus stesso.

Sui catini resta da sottolineare la bravura di Milani nell’usare le ombre dietro le figure per creare l’idea della profondità. Nella Galleria con la pittura si finge ogni cosa: l’architettura, la scultura in marmo ed oro, la pittura stessa (i quadri riportati) e la “vita vera” (i putti con i festoni floreali). Quest’idea di μίμησις ovviamente Milani, amante dei Carracci, la riprende dalla Galleria Farnese, tenendo anche a mente quelle che erano state le fonti dei Carracci: gli affreschi di Tibaldi, la volta della Cappella Sistina di Michelangelo e il Raffaello delle Stanze Vaticane e della loggia della Farnesina[24].

Per le scene della volta vera e propria, procederemo nell’ordine con cui Milani si impegnò a dipingerle, cioè partendo dal lato dove vi è la porta che immette nella saletta con il Ritratto di Innocenzo X di Velázquez.

 

3.1 Le quattro parti del mondo

All’inizio vediamo un clipeo centrale contornato da una corona d’alloro marmorea. Nel clipeo vi è una cartina geografica che rappresenta l’Europa (con l’Italia che spicca al centro) e l’area mediterranea e, in alto a sinistra, si scorge una parte del nord America. Intorno al clipeo, nei quattro angoli, vi sono le personificazioni di quattro continenti. L’Europa è la figura bianca con veste azzurra e mantello giallo. Ha la corona in testa, lo scettro nella mano destra, la spada nella sinistra e una cornucopia dietro. È rivolta ad osservare il cavallo che le sta accanto, il quale compie una torsione simmetrica alla sua, ottenendo così un effetto di equilibrio compositivo. L’oggetto sotto i piedi dell’Europa, più che un globo terrestre, parrebbe una sfera celeste. La corona in testa indica che ‹‹è stata sempre superiore, e Regina di tutto il Mondo››. La cornucopia allude all’abbondanza e fecondità del suolo europeo; lo scettro, la spada ed il cavallo indicano che è il continente dominante, sede dei più potenti prìncipi e superiore in armi al resto del mondo. La sfera celeste sotto i piedi denota che è ‹‹la prima e principale parte del Mondo››[25]. L’Asia è riconoscibile per la pelle mulatta, i capelli neri, il turbante, le vesti suntuose, le scarpe a punta, l’asta e l’elefante[26]. Tra l’Europa e l’Asia vi è una maschera marmorea con ghirlande, che ricorre anche tra l’Africa e l’America. L’Africa si riconosce per il colore scuro della pelle, i capelli neri, il turbante con la spiga di grano, che denota la gran copia di frumento qui presente, il leone, che indica l’abbondanza di questi ed altri feroci animali, l’arco e la faretra con le frecce[27]. Tra l’Asia e l’Africa vi è una conchiglia ed una maschera marmorea con una ghirlanda floreale. L’America, di carnagione un po’ più rossiccia rispetto all’Europa, è vestita di bianco con un turbante ed una penna anch’essi bianchi, un braccialetto d’oro al polso destro, una verga d’oro nella sinistra ed un enorme drago accanto[28]. I due catini laterali presentano la doppia cornucopia con frutti e uve bianche e nere, che in Ripa è un attributo dell’Europa che denota la sua abbondanza, e che qui sembra invece evocare l’abbondanza di tutti e quattro i continenti. Da notare due elementi: le indicazioni di Ripa sono scarsamente seguite e tutte e quattro le figure femminili non presentano nudità, sebbene ciò fosse tipico per l’Africa e l’America[29]. Sembra quindi emergere una volontà di pudicizia che appare anche nel resto della galleria: le figure qui dipinte sono quasi tutte ignude, ma le parti intime sono coperte (grazie alla torsione del corpo, o a un drappo o con altri espedienti) o comunque poste in modo da non emergere troppo dal basso. A parte i putti, le cui nudità non hanno mai costituito un problema, fa eccezione solo la figura della Scultura che mostra un seno. Nella Roma del ’700, l’esigenza moraleggiante non era affatto anomala.

 

3.2 Eracle e Acheloo

A questo punto viene il primo quadro riportato con i fatti di Eracle (Fig. 1). Qui l’Alcide sconfigge Acheloo strappandogli uno dei due corni da cui, secondo la versione seguita da Ovidio[30], le Nereidi avrebbero ricavato la Cornucopia, il corno dell’Abbondanza. Eracle è riconoscibile per via della λεοντῆ, ha la barba marrone ed è rappresentato come maturo. Acheloo ha un corpo umano e solo il volto di toro. In teoria anche il resto del corpo sarebbe dovuto essere di toro, come compare nelle incisioni che accompagnano i volgarizzamenti di Nicolò degli Agostini, Lodovico Dolce e Giovanni Andrea dell’Anguillara[31]; per quale ragione allora qui non avviene altrettanto? Il motivo è che Milani amava mostrare la sua abilità nella resa di corpi plastici in pose complesse e da qui l’espediente di rappresentare Acheloo in questo modo. Le figure sono immerse in un paesaggio naturale e nelle foglie e nella λεοντῆ si può constatare il naturalismo di Aureliano, componente importante di tutti i pittori carracceschi. Nel volto di Acheloo si può scorgere invece una vena grottesca e quasi comica[32], che rinvia alle scene di genere di G. M. Crespi, mentre nelle anatomie plastiche, muscolose ed un po’ esasperate, si scorge una vena di manierismo, tipico della tradizione bolognese[33].

Fig. 1: Eracle e Acheloo, Roma, Galleria Doria Pamphilj © su concessione Amministrazione Doria Pamphilj s.r.l.

Per Nicolò degli Agostini la scena può essere allegoria di due concetti diversi: Acheloo può rappresentare la filosofia ed Eracle la virtus ed il secondo posto sopra al primo denota che la virtus sta sopra la filosofia. In alternativa indica la vittoria della virtus (Eracle) sulla libido et lascivia (Acheloo)[34]. La scena mostra quindi Eracle come un exemplum di fortitudo (fisica e morale) e di virtus. Inoltre il premio della contesa era la mano della principessa Deianira, a denotare che le splendide nozze sono una ricompensa per il valore dimostrato (sebbene ad Eracle queste nozze saranno fatali).

È importante notare che intorno alla cornice vi sono quattro ignudi, due seduti e due in piedi. Quelli stanti, però, non sono ignudi generici. Quello di sinistra ha la λεοντῆ, si appoggia ad una clava con fare riflessivo ed ha un cinghiale sconfitto sotto i piedi. È Eracle, rappresentato in riposo e pensante dopo aver vinto il cinghiale di Erimanto[35]. Il gesto in parte sembra essere la fusione di due statue di Michelangelo: il gesto del braccio sinistro dello Schiavo morente (Parigi, Louvre), qui trasposto al braccio destro, ed il gesto pensante del braccio sinistro di Lorenzo Duca d’Urbino (Firenze, S. Lorenzo, Sagrestia Nuova). La torsione del corpo però richiama anche quella del Laocoonte. Ripa[36] spiega che Eracle che si appoggia alla clava con fare riflessivo è simbolo di tutte le virtù, il cinghiale rappresenta la sua forza fisica ed il leone la sua magnanimità (qui da intendere nell’accezione originaria di grandezza d’animo), quindi Eracle è exemplum di tutte le virtutes: fisiche e morali. Anche per Cartari, il fatto che l’eroe sconfisse mostri e tiranni, denota la sua forza d’animo e non solo del corpo, la λεοντῆ, la sua grandezza e generosità d’animo, mentre la clava, la sua Prudenza[37]. Per Bonsignori, l’uccisione del cinghiale indica la vittoria della virtus et veritas sull’ira[38].

Dalla parte opposta, in torsione speculare, vi è sempre Eracle, riconoscibile per la clava. Sotto i suoi piedi vi è un drago che, siccome ha una sola testa, piuttosto che l’idra di Lerna, dovrebbe essere Ladone, il drago che custodiva il Giardino delle Esperidi e quindi rinviare all’undicesima fatica compiuta da Eracle: portare ad Euristeo i pomi d’oro del giardino delle Esperidi[39]. Ulteriore indizio di ciò, è il fatto che questo drago è molto simile al Ladone affrescato, forse da Solari, sulle pareti della Galleria Farnese[40], ben conosciuta da Milani. Ripa[41] afferma che la clava indica la ragione che regge e doma l’appetito dei sensi, Eracle la virtus che sa portare moderazione alla ‹‹cuncupiscenza›› ed alla ‹‹libidine›› rappresentate dal drago (non fa il nome di Ladone, ma dal contesto si evince che è lui) e, importante, scrive che Eracle deve essere rappresentato giovane, poiché giovane si trovò a scegliere tra la difficile ed aspra via della virtus e la dolce ma mortale strada del vitium. A differenza del riquadro con Acheloo, infatti, entrambe queste figure di Eracle sono giovani e sbarbate[42]. Eracle è in effetti uno dei pochi eroi che non viene sempre rappresentato giovane e bello, ma anche maturo. Abbiamo già sarcofagi antichi, come quello di Palazzo Altemps, dove nel corso delle fatiche Eracle invecchia, partendo come giovane e sbarbato, divenendo poi maturo con la barba ed infine più anziano con la fronte stempiata, probabilmente a rappresentare in chiave allegorica “le fatiche della vita”[43].

A separare questo riquadro dal successivo, vi è una finta decorazione marmorea fitomorfa, una conchiglia dorata al centro e due putti alati visti di schiena che sorreggono ghirlande floreali.

 

3.3 Eracle uccide l’idra di Lerna

Il secondo riquadro rappresenta Eracle che sta uccidendo con la sua clava l’idra di Lerna[44] (Fig. 2). Rispetto al rilievo di Algardi nella Sala di Eracle a Villa Doria Pamphili di Roma[45], il figlio di Alcmena, più che combattere contro di essa, è colto nel momento in cui sta sferrando il colpo fatale. Come nel precedente riquadro, infatti, Milani, grazie alla disposizione dei corpi, riesce ad evocare subito il senso di vittoria dell’eroe. Ercole è anche qui rappresentato maturo, con barba e capelli marroni e contraddistinto dalla λεοντῆ e dalla clava. Per la torsione e lo scorcio del corpo (dal primissimo piano allo sfondo) è probabile che Milani abbia tenuto a mente la figura di Polifemo che uccide Aci di Annibale Carracci (Galleria Farnese)[46]. La scena si svolge in un paesaggio con alberi e sullo sfondo vi sono le mura e la torre di una città. Nel rappresentare l’episodio, Milani non ha seguito molto i testi, poiché non c’è traccia del fuoco e l’idra ha sei teste[47]. Il numero sei potrebbe averlo ricavato dal rilievo di Algardi, dove vi sono sei teste, ma sette colli perché uno è stato tagliato dall’eroe; dal basso, però, è più facile contare le sei teste che i sette colli. In ogni caso, Milani è interessato a rappresentare la scena in modo da rendere in maniera esplicita la vittoria dell’Alcide. L’idra normalmente simboleggia i vitia del mondo, tanto che per Ripa poteva essere rappresentata con sette capi ad alludere ognuno ad uno dei sette peccati capitali[48]. La vittoria di Eracle indica quindi la vittoria della virtus sul vitium.

Fig. 2: Eracle e l’Idra, Roma, Galleria Doria Pamphilj © su concessione Amministrazione Doria Pamphilj s.r.l.

Il riquadro è affiancato sempre da due figure di Eracle, riconoscibili per via della clava: uno anziano, con la barba bianca, ed uno giovane e sbarbato. A proposito della clava di Eracle, bisogna aggiungere che, mentre per Ripa era formata da legno di rovere (perché in latino robur significa quercia, ma anche forza, ed Eracle è il simbolo della forza fisica e morale), per Cartari era formata da legno d’ulivo[49], che è la pianta che compare nello stemma dei Pamphili.

Tra questo riquadro e quello centrale torna lo stesso motivo che si trova tra il primo ed il secondo riquadro, solo che qui i putti sono posti frontalmente e vengono aiutati da ignudi a sospendere la ghirlanda. Ad un’estremità del riquadro centrale vi sono infatti due ignudi, uno anziano ed uno giovane[50], che sorreggono una ghirlanda con fiori e frutti. Nell’altra estremità troviamo sempre due ignudi, uno giovane e l’altro più anziano senza capelli, che sorreggono una simile ghirlanda. Essi sono quattro semplici ignudi, poiché non sono caratterizzati come Eracle, ovvero non presentano attributi distintivi del figlio d’Alcmena.

 

3.4 La Gigantomachia

Il finto quadro centrale con la Gigantomachia è molto più grande degli altri e si finge posto davanti ad una volta a botte, con cassettoni marmorei decorati con rosette dorate, attraversata da archi trasversali[51]. Nella parte bassa di questo enorme “quadro” centrale, vi sono dodici Giganti che avevano tentato la scalata all’Olimpo e che vengono ora fatti precipitare. Sono quasi tutti ignudi, ma, attraverso vari espedienti, si evita di esporre le parti intime, confermando l’esigenza moraleggiante presente in questi affreschi. Vi è la ricerca di una varietas nelle pose, attraverso la quale Milani mostra tutta la sua abilità nella resa dei corpi in diversi movimenti complessi: corpi posti in scorci ad arretrare e in scorci ad avanzare, verso l’alto e verso il basso, a destra e a sinistra.

Esistono diverse varianti del mito della Gigantomachia[52]. I Giganti erano esseri anguipedi dalle mille braccia, figli di Gea, che tentarono di spodestare Zeus e gli dei olimpici scagliando contro di essi massi e querce infiammate e ammassando monti su monti per raggiungere l’Olimpo; ma Zeus, con i suoi fulmini, fece crollare questa costruzione[53]. Né Ovidio, né Nicolò degli Agostini descrivono l’aspetto dei Giganti[54], cosa che permise a Milani di rappresentarli come muscolosi esseri umani e non come mostri, potendosi così esercitare nella resa dell’anatomia. Come armi hanno clave, che ormai gli sono cadute di mano e precipitano con loro verso il basso, e macigni, che adesso crollano su di loro evocando il tentativo dei Giganti di scalare il cielo ammassando massi.

Il Gigante di sinistra è posto in scorcio verso il basso, con le mani che creano due semicerchi contrapposti che incorniciano il volto. È un motivo che si ritrova nella figura di Dio che separa le tenebre dalla luce nella volta della Cappella Sistina, che Michelangelo aveva a sua volta ripreso dalla figura di Fetonte presente in un sarcofago antico[55]. La figura centrale, che ha le gambe in avanti ed il corpo ad arretrare, compie una torsione che ricorda quella di Polifemo nel Polifemo e Galatea della Galleria Farnese (la cui torsione è ispirata al Laooconte e al Torso del Belvedere)[56]. Da notare il bellissimo effetto illusionistico–prospettico di rappresentare i massi che precipitano oltre la cornice, dando così l’idea di cadere addosso allo spettatore hic et nunc, mentre egli alza gli occhi per guardare la scena. Il fine di questa soluzione prospettico–illusionistica è proprio quello di coinvolgere emotivamente lo spettatore nell’opera d’arte[57]. L’effetto illusionistico ricorda quelli messi in atto pochi anni prima da G. Odazzi nella Caduta degli Angeli ribelli (Roma, Basilica dei Santi Apostoli, 1714–1716). Milani poteva ben conoscere tale affresco, considerando la vicinanza di Palazzo Pamphili alla Basilica dei SS. Apostoli e forse il riferimento non è casuale, visto che la punizione dei Giganti e quella degli Angeli ribelli alludevano allo stesso concetto: la punizione di coloro che si macchiano di ὕβρις, in particolare di ὕβρις contro la divinità, come ha splendidamente mostrato Guthmüller in un saggio centrale per la nostra analisi[58].

La scelta di rappresentare una Gigantomachia non è affatto separata dal contesto della Galleria che presenta scene con le gesta di Ercole. Secondo alcune fonti, come Apollodoro, Eracle svolse un ruolo importante in essa, poiché fu l’eroe mortale che Zeus e gli dei scelsero per farsi aiutare a uccidere i Giganti, che secondo un oracolo non sarebbero potuti essere sconfitti senza l’aiuto di un mortale: infatti l’Alcide è qui rappresentato.

In alto, al centro, vi è Zeus assiso sulle nuvole, con l’aquila tra le gambe, barba e capelli bianchi. Ha il volto rivolto verso i Giganti, mentre con la mano destra sta per scagliare la folgore contro di loro. Zeus funge da asse di simmetria centrale della scena, con quattro dee alla sua sinistra e quattro dei alla sua destra, a formare una disposizione simmetrica. Le dee sono: Artemide, riconoscibile per via dei suoi attributi: la mezzaluna posta tra i capelli, l’arco e la faretra con le frecce; la regina Era, che accarezza il pavone, l’animale legato alla dea; Afrodite, con lunghi capelli biondi e la colomba a lei sacra; Atena, che, come usuale, indossa l’elmo, lo scudo e la lancia. Da notare che Era e Afrodite guardano verso lo spettatore e ciò non è forse un caso, dacché queste dee sono collegate con la famiglia Pamphili e la colomba tenuta da Venere rinvia all’emblema di famiglia (Fig. 3).

Fig. 3: Particolare della Gigantomachia con Zeus e le altre divinità, Roma, Galleria Doria Pamphilj © su concessione Amministrazione Doria Pamphilj s.r.l.

Gli dei alla destra di Zeus sono: Hermes, riconoscibile per via dei suoi attributi: il caduceo, il petasos con le ali e la tromba; Eracle, con la λεοντῆ e la clava; seguono due divinità maschili prive di attributi: una con capelli e barba marroni vista di schiena, in torsione e semisdraiata, che, per via della posa che richiama quella delle divinità fluviali, si potrebbe pensare essere Poseidon; l’altra, con fronte stempiata e barba bianca, potrebbe essere Ade, dal momento che Poseidon ed Ade ricorrono nel mito della Gigantomachia.

Sotto Zeus, a destra e a sinistra, vi sono due personificazioni di venti che soffiano in una conchiglia ricurva e sono assistiti, quello di sinistra da tre, quello di destra da due, aiutanti bambini di cui si rappresenta solo il volto[59]. I venti qui aiutano Zeus a far crollare la montagna che i Giganti stavano erigendo per tentare la scalata dell’Olimpo. Si può pensare che siano due venti impetuosi, come Austro e Bora, ma Milani non pone elementi per distinguerli e probabilmente vogliono solo evocare i venti che vengono in aiuto di Zeus, senza volerne indicare uno preciso.

Nel gruppo in alto a sinistra vi è un quinto personaggio, che volutamente avevamo omesso di menzionare prima. A differenza delle altre figure di questa scena, costui indossa un abbigliamento proprio dei nobili dell’epoca, ovvero una splendente armatura, sulla quale Milani si esercita nella resa dei riflessi di luce, con l’elmo con pennacchio bianco ed un manto giallo che rivelano uno status sociale elevato. Il volto presenta inoltre una caratterizzazione fisiognomica maggiore rispetto a quelli delle divinità che gli stanno accanto, pertanto egli non è un dio e, come mostra il gesto, non partecipa alla lotta contro i Giganti. Questi indizi inducono a ritenere che questa figura sia il committente Camillo Pamphili ed è probabile che il volto sia un suo ritratto. Egli è posto in piedi, è situato sul lato delle divinità maschili e significativamente è posto sopra il suo antenato Eracle, mentre guarda a sinistra verso noi spettatori a cui indica con orgoglio Zeus.

Come mostrato da Guthmüller[60], la caduta dei Giganti denotava la sconfitta e la giusta punizione di chi si è macchiato di ὕβρις, in particolare del superbus che si ritiene uguale o superiore a Dio. Ciò è espresso da Giovanni de’ Bonsignori e Nicolò degli Agostini[61], secondo cui i Giganti alludono ai superbi, che credono di essere dei e di poter più di Dio stesso, ed i massi alla superbia che reca con sé tutti i vizi. Anche per Cartari i Giganti sono il simbolo del superbus sprezzator di Dio che non fa mai cosa onesta e che vive costantemente nelle tenebre dell’ignoranza umana[62]. Ma c’è dell’altro. Zeus è signore della folgore e garante di Δίκη e, in quanto re degli dei, è il protettore di tutti coloro che in terra detengono un potere (imperatori, re, prìncipi, duchi ecc.), poiché è egli che concede il potere ai mortali, i quali lo amministrano in suo nome[63]. Proprio per questo motivo il tentativo dei Giganti di spodestare Zeus era interpretato come quello degli angeli che si ribellarono a Dio[64], ed infatti entrambi questi temi furono usati in arte per indicare la giusta punizione[65] di tutti coloro che, macchiandosi di ὕβρις, volevano andare contro coloro che in terra detenevano un potere legittimo, in quanto conferitogli da Dio e che essi amministravano in suo nome[66].

Per tal motivo la Gigantomachia è un mito che ricorre spesso negli affreschi delle dimore di famiglie che gestivano un potere[67], come monito rivolto all’esterno, a non voler andare contro il potere che essi esercitano legittimamente per mandato divino, godendo pertanto della protezione del Dio dei cieli, ragion per cui non potevano essere deposti. Il mito insegnava dunque che rivoltarsi contro di loro significava macchiarsi di ὕβρις, perché equivaleva ad andare contro la volontà di Dio e per questo motivo i ribelli saranno giustamente sempre sconfitti e puniti. Tuttavia questo mito conteneva anche un monito rivolto all’interno, ai membri di quella famiglia, che venivano invitati a non peccare di ὕβρις, ma a vivere nel timor Dei, venerando sempre la divinità a cui dovevano il potere[68].

Camillo Pamphili era un principe ed il tema è quindi adatto alla sua dimora, ma esso si carica anche di significati personali. Nell’affresco, Camillo indica Zeus. In parte, sicuramente il gesto serve a denotare che il potere che detiene gli deriva da Giove e che è quindi legittimo; tuttavia, nella genealogia dei Pamphili, Zeus è il capostipite, poiché è il padre di Ercole da cui essi discendevano. Infatti Camillo sta qui in piedi proprio dietro al suo antenato Eracle e addita Zeus. Il gesto, quindi, probabilmente ha un duplice significato: mostrare con orgoglio, come rivela l’espressione del suo viso, agli osservatori la genealogia divina dei Pamphili che discendono da Zeus attraverso Ercole. Secondo, indicare che il suo potere deriva legittimamente da Zeus ed è da lui protetto, fungendo quindi da avvertimento a non attentare ad esso e da monito alla famiglia a non peccare di ὕβρις, ma a vivere nel timor Dei.

 

3.5 Eracle e Anteo

Nel successivo riquadro è rappresentato Eracle, riconoscibile per la λεοντῆ, che sta stritolando Anteo, tenendolo sollevato da terra per impedirgli di ricevere le forze da sua madre Gea[69] (Fig. 4). Nel volto, Eracle esprime la concentrazione e lo sforzo, mentre Anteo cerca con tutte le sue forze di liberarsi. Nelle due figure si possono vedere i muscoli tesi, che riflettono bene la violenza dello scontro. Anche qui la scena si svolge in un paesaggio con alberi ed una fortezza sullo sfondo. L’albero dietro Ercole è una quercia, che è una pianta legata all’eroe in quanto simbolo di forza. Dietro di essa vi è un’altra pianta che potrebbe essere un alloro, simbolo di gloria eterna, o un giovane ulivo (altro albero legato a Ercole). La scena compare anche nei rilievi di Algardi sopra menzionati[70], dove si ritrova la medesima lotta violenta. La vittoria su Anteo veniva vista come la vittoria dell’anima, grazie alla Fede, Sapienza e Prudenza (Eracle), sulle debolezze del corpo, ovvero le passioni (Anteo)[71]. Anche qui il riquadro è fiancheggiato da due figure di Eracle, una matura con barba, λεοντῆ e clava, e l’altra giovane con solo la clava. Tra questo ed il successivo quadro riportato torna il motivo fitomorfo con conchiglia dorata e due putti, visti di schiena, che tengono una ghirlanda ciascuno.

Fig. 4: Eracle e Anteo, Roma, Galleria Doria Pamphilj © su concessione Amministrazione Doria Pamphilj s.r.l.

 

3.6 Eracle che uccide Nesso

Il successivo riquadro presenta Eracle che uccide il centauro Nesso che stava rapendo Deianira[72] (Fig. 5). L’Alcide ha già attraversato il fiume Eveno dal veloce corso e si trova sulla riva opposta. Tra i piedi vi è la sua clava, indossa la λεοντῆ e, come rivelano i gesti, ha appena scagliato la freccia dall’arco che stringe in mano. Il dardo ha colpito alla coscia[73] Nesso, il quale si trova in mezzo al fiume Eveno mentre tentava di scappare con Deianira. Il volto del centauro esprime agonia, causata dalla freccia di Eracle che è intrisa del sangue avvelenato dell’idra di Lerna.

Fig. 5: Eracle, Deianira e Nesso, Roma, Galleria Doria Pamphilj © su concessione Amministrazione Doria Pamphilj s.r.l.

Deianira indossa una veste gialla ed i suoi gesti e la sua espressione rivelano la paura ed il tentativo di divincolarsi da Nesso. La torsione del corpo di Deianira – con il busto e le braccia rivolti a destra, il volto a sinistra e verso l’alto, il braccio destro sollevato ed il sinistro abbassato – in parte richiamano la Persefone del Ratto di Persefone di Bernini (Galleria Borghese) che sicuramente all’epoca era l’esempio più celebre di fanciulla rapita che, disperata, cerca di sfuggire alla presa del suo rapitore[74]. Nesso, come tutti i centauri, viene di solito visto come emblema delle passioni ed in particolare della libido, mentre Eracle che lo uccide, come simbolo dell’anima che con la virtus sconfigge le passioni.

Da notare che anche qui l’albero dietro ad Eracle è una quercia, a sottolineare che egli è l’eroe della forza fisica e morale. Come nel primo riquadro ovale, la cornice è circondata da quattro ignudi: i due in basso sono semplici ignudi posti in torsione e visti di schiena, come nel primo ovale, ed i due in alto rappresentano Eracle. Quello di sinistra è dipinto maturo, con la barba, in posa riflessiva, mentre si appoggia alla clava (come quello di sinistra del primo ovale) ed ha il piede posto su una testa di leone morto, che ovviamente rinvia alla prima delle sue fatiche: l’uccisione del leone di Nemea[75] e questo spiega perché non abbia indosso la λεοντῆ. Eracle è l’eroe civilizzatore, che, sconfiggendo gli esseri del χάος, porta la vittoria della civiltà sulla non civiltà, del κόσμος sul χάος. Inoltre la pelle ricavata dal leone sconfitto diverrà il simbolo della sua grandezza e generosità d’animo[76]. Per Bonsignori il mito alludeva alla vittoria della virtù sui tiranni e sulla superbia[77].

In quello di destra, Eracle è giovane e sbarbato, come quello di destra del primo ovale, ha la λεοντῆ e si appoggia alla clava. Sotto i suoi piedi vi è una testa di toro, che rinvia alla settima delle sue fatiche: la cattura del toro di Creta[78]. La figura rinvia sempre alla virtus fisica e morale di Eracle capace di sconfiggere le belve del χάος, spesso viste come sinonimo delle passioni incontrollate.

Nella Galleria quindi, non solo nella forma dei riquadri, ma anche nelle figure che si trovano intorno ad essi, vi è una ricerca di ordine e simmetria: le finte tele ovali hanno quattro figure, due ignudi e due Ercole, mentre quelle rettangolari due personaggi (entrambi Ercole). Inoltre è da sottolineare la disposizione delle scene: quelle esterne hanno a che fare con il matrimonio con Deianira (Eracle con Acheloo e con Nesso), quelle più interne rappresentano la sconfitta di esseri selvaggi e non civilizzati (Idra e Anteo, due mostri: uno di forma animale e l’altro umanoide), la cui sconfitta denota la vittoria della civiltà sulla non civiltà e della virtus sul vitium. Non è pertanto da escludere che nella scelta delle scene ci sia un rinvio al tema delle buone nozze come premio per chi si dimostra capace di superare con virtù gli ostacoli della vita, anche se ciò solo in parte si adatta alla biografia di Camillo[79].

 

3.7 Le Arti

Nella parte finale della volta si ritrova un motivo analogo a quello iniziale, confermando la ricerca di simmetria. Anche qui si immagina una vola a crociera con al centro un clipeo con una cornice marmorea a forma d’alloro. Nel clipeo è posta, su un cielo azzurro, una sfera armillare dorata. Intorno, nei quattro pennacchi, vi sono quattro figure femminili che alludono alle Arti: la Pittura è riconoscibile per i pennelli e la tavolozza dei colori. In accordo con Ripa, ha i capelli neri, a indicare i continui pensieri sulla μίμησις della natura e dell’arte, e una catenina d’oro al collo che sostiene una maschera posta sul petto, simbolo dell’imitatio. Indossa una bella veste bianca, con sopra un mantello azzurro tenuto fermo al collo, e un manto blu chiaro[80]. Le vesti preziose servono a denotare la nobiltà della pittura, poiché è un’arte che implica l’utilizzo della mens prima che della mano e pertanto appartiene alla sfera delle artes liberales e non a quella delle artes mechanicae[81].

Accanto c’è la Scultura, riconoscibile per lo scalpello nella mano destra, per il volto scolpito su cui poggia il braccio destro e per la statuina nella sinistra. Ha una corona d’alloro in testa, perché come l’alloro resta sempre verde, così una scultura resta sempre bella contro la malignità del tempo; indossa una veste “vaga” (rossa in questo caso) che le lascia volutamente scoperto il seno destro. Questo è interessante, poiché è l’unica figura della Galleria che esibisce esplicitamente, ed in maniera perfettamente visibile dal basso, una parte intima del corpo, andando contro quell’esigenza moraleggiante visibile nel resto delle figure. Tra l’altro, Ripa non dice di rappresentarla con un seno scoperto e quindi è da ritenersi un atto volontario del pittore, forse motivato dalla sua volontà di mostrare la propria capacità nella resa di corpi nudi ‹‹vaghi››, scelta che comunque dovette essere avallata dal committente.

A dividere la Pittura dalla Scultura vi è una conchiglia marmorea incorniciata da girali d’acanto, sormontata da una maschera marmorea con una ghirlanda floreale, il tutto sempre dipinto.

Poi viene l’Architettura, con una tavola, su cui è realizzato un progetto, sostenuta con la mano sinistra e una riga nella destra. Indossa una veste bianca, un manto giallo e, come vuole Ripa, ha le braccia nude. Tra lei e la Scultura vi è una maschera marmorea con sopra ghirlande floreali.

La quarta è una figura femminile che indossa una veste gialla ed un manto bianco, entrambi ricoperti di stelle d’oro. Ha una stella sulla fronte e due alette ai lati del capo; con la mano sinistra indica verso l’alto, mentre con la destra tiene un compasso ed accanto ha una tavola con sopra una piramide. Non è facile capire esattamente quale Personificazione rappresenti, forse allude alla Geometria e Matematica, fondamento delle tre arti sorelle, per via delle alette, del compasso e della piramide. In ogni caso la stella sulla testa può rinviare all’ispirazione divina e la veste stellata al fatto che quell’arte sia divina, in quanto ispirata dalla divinità[82]. Tra questa figura e la Pittura vi è un motivo analogo a quello tra la Scultura e l’Architettura.

 

3.8 Lunetta con Eracle e Alcesti

Restano da trattare le due lunette poste alle due estremità della galleria, finora trascurate negli studi. Partendo da quella del lato in cui si trovano le Arti, è qui rappresentato Eracle, riconoscibile per via della λεοντῆ e della clava, che sta conducendo fuori dagli Inferi Alcesti (Fig. 6). Con la mano sinistra, l’Alcide aiuta Alcesti ad uscire dall’antro, mentre il suo volto è concentrato su Cerbero, che ha un collare da cui partono due catene e che, da custode dell’ingresso degli Inferi, abbaia con le sue tre teste vedendo due persone uscirne. Sulla sinistra vi è invece Caronte, posto sulla sua barca lignea che solca le acque dell’Acheronte, pronto a trasportare i due eroi sull’altra sponda, affinché possano tornare al mondo dei vivi.

Fig. 6: Lunetta con Eracle e Alcesti, Roma, Galleria Doria Pamphilj © su concessione Amministrazione Doria Pamphilj s.r.l.

A differenza della tragedia di Euripide, Eracle non lotta con Thanatos vicino alla tomba di Alcesti, ma va a riprenderla direttamente nell’Ade, secondo una variante già presente in Fulgenzio e nel Mitographus Vaticanus primus[83]. Già Fedro, nel Simposio di Platone, considerava Alcesti come simbolo della potenza di Amore che induce ad anteporre la vita e la salus dell’amato alla propria[84]. Eracle, che riporta Alcesti da Admeto, compie questo gesto come segno di riconoscenza verso Admeto che l’aveva ospitato e quindi sottolinea i valori dell’amicizia e dell’ospitalità. La scena potrebbe anche leggersi come l’anima virtuosa (Eracle e Alcesti) che dopo la morte risorge alla vita eterna, libera dalle passioni e dai vizi della carne, rappresentati da Cerbero[85], ma non pare necessario ricercare qui significati troppo profondi.

 

3.9 Lunetta con un mito di Eracle

Nell’altra lunetta (Fig. 7) è rappresentata una scena un po’ misteriosa. Al centro vi è Eracle, riconoscibile per la λεοντῆ, che ha atterrato una figura maschile possente e muscolosa, vista di schiena e con un drappo rosso indosso. Con la mano sinistra gli tiene il capo premuto contro la terra, mentre con la destra si appresta a sferrargli il colpo decisivo. Dietro vi è una grande quercia ed altri alberi. Accanto all’Alcide vi è una figura femminile che fugge spaventata verso destra, coprendosi il volto con la mano destra, orripilata da ciò che sta succedendo. Indossa una veste gialla analoga a quella che porta Deianira nella scena con Nesso. All’estremità destra vi è una personificazione fluviale rappresentata con la consueta iconografia di una figura maschile semisdraiata, che appoggia il braccio (sinistro) su un vaso da cui esce l’acqua che forma il fiume che scorre lì. Al fiume si sta abbeverando un pascolo di mucche, che si trova sulla sponda opposta rispetto ai personaggi al centro. Sullo sfondo, a destra, si possono vedere le mura di una città. Anche all’estremità sinistra si possono scorgere le mura di un’altra città, dalla cui torre pare salire del fumo.

Fig. 7: Lunetta con un episodio di Eracle, Roma, Galleria Doria Pamphilj © su concessione Amministrazione Doria Pamphilj s.r.l.

Nonostante sia la lunetta posta sul lato da cui abbiamo iniziato la nostra analisi, si è scelto di trattarla per ultima perché non à facile capire quale impresa di Eracle sia qui rappresentata. Il problema principale è che Eracle ha compiuto numerose imprese ed inoltre Milani, come abbiamo visto, rappresenta le scene in maniera un po’ libera rispetto alla tradizione, concependo l’iconografia della scena in modo tale da adattarla a ciò che lui voleva mostrare, per esempio la sua bravura nella resa dei corpi. Anche in questa scena l’attenzione è tutta focalizzata sulla resa anatomica delle due figure poste al centro. Dobbiamo trovare un’impresa svolta presso un fiume, con una figura femminile e che forse prevede la distruzione di una città. Interessante notare che nella Sala di Ercole di Villa Doria Pamphili a Roma è presente un rilievo di Algardi con Eracle che uccide una figura maschile presso un fiume, anche qui personificato, sulla cui interpretazione Batorska si è trovata di fronte ai nostri stessi problemi[86]. Non è impossibile che vi sia rappresentata la stessa scena, ma appunto quale? La studiosa propone due soluzioni: Eracle e Cicno o Eracle e Eurizione (il bovaro di Gerione). Queste soluzioni potrebbero essere adeguate per il rilievo, ma non per il nostro affresco. Nel primo caso manca una figura femminile (Eracle non affronta Cicno con Deianira al fianco) e forse perfino il fiume. Nel secondo, è vero che vi sarebbe la mandria, ma anche in questo caso manca un personaggio femminile. Le imprese a cui Eracle partecipò sono innumerevoli, ma diverse di esse non sono particolarmente note e riteniamo più probabile pensare che sia invece qui raffigurato un episodio di Eracle abbastanza famoso e rappresentato in arte.

Potrebbe trattarsi dello scontro con Caco[87]. Sulla destra sarebbe rappresentata la valle col fiume Tevere[88], dove si abbeverò il pascolo che l’Alcide aveva sottratto a Gerione, al centro Ercole che uccide Caco e sulla destra Caca, la sorella di Caco, che fugge spaventata; infine la città sulla sinistra, da cui sembra uscire del fumo, può rinviare agli accampamenti dei locali che Caco saccheggiava (Virg. Aen. VIII, 200–201; Ov. Fast. I, 551–552). Bonsignori considera il mito come una vittoria della virtù sul demonio che corrompe gli animi. Che Caco avesse un aspetto umanoide sembra evincersi dai versi di Virgilio e Ovidio[89]; in ogni caso c’è sempre la variante di Livio che ne fa un semplice pastore forte e sicuro e nell’arte moderna lo si può trovare rappresentato come un uomo muscoloso e possente, per esempio in Domenichino[90]. Certo lo scontro si dovrebbe svolgere nella grotta di Caco, invece che all’aperto, ma anche questo non costituisce un problema, poiché Milani si è mostrato piuttosto libero nella rappresentazione delle scene[91]. Il mito è ricorrente nell’arte moderna italiana, si svolge a Roma e sarebbe quindi adeguato ad una dimora principesca romana; per di più, diversi elementi qui presenti si adattano al mito. Ciò che invece può destare perplessità è la figura di Caca che fugge inorridita. È vero che era la sorella di Caco, però è anche vero che fu lei a dire ad Ercole dove trovare il fratello. Inoltre è un personaggio che compare solo in fonti tarde[92], sebbene fosse noto all’epoca[93]. Tuttavia, a sostegno di tale ipotesi, si può menzionare la presenza di questa scena negli affreschi eseguiti da Carlo Antonio Rambaldi (1680–1717) e Antonio Dardani (1677–1735) nella Stanza di Ercole (1707–1710) di Palazzo Buonaccorsi a Macerata[94]. Questi due pittori bolognesi, più o meno contemporanei di Milani, si erano formati anch’essi sugli affreschi dei Carracci presenti a Bologna, in particolare di quelli a Palazzo Fava, e, come il nostro pittore, proponevano ad inizio Settecento un ritorno all’arte dei Carracci[95]. Nella scena di Eracle e Caco[96], quest’ultimo indossa un manto rosso, come la figura sconfitta da Ercole nella scena di Milani qui analizzata. Caco è rappresentato in sembianze umane ed anche qui è presente la stessa attenzione per figure realizzate con un forte senso plastico, elemento che non sorprende visto che la fonte di tutti questi pittori erano gli affreschi dei Carracci. Nell’affresco di Palazzo Buonaccorsi bisogna però constatare che la scena è resa in maniera tale che non ci siano dubbi sull’episodio raffigurato e manca la figura femminile.

Altre ipotesi che si possono avanzare sono:

II) Eracle che uccide Lico, che voleva assassinare Megara ed i suoi figli. La figura femminile che fugge sarebbe quindi la moglie di Eracle, Megara, che più tardi l’Alcide avrebbe ucciso in preda alla follia. La scena si svolgerebbe a Tebe[97], subito dopo che Eracle era sceso negli Inferi per catturare Cerbero. In effetti la lunetta di fronte rappresenta Eracle che torna dagli Inferi e il mito di Megara era molto noto all’epoca, in particolare in letteratura, grazie alla tragedia di Euripide, l’Eracle, ma soprattutto grazie all’Hercules furens di Seneca[98]. Il fiume sarebbe allora l’Asopo, il maggior fiume della Beozia, che segnava il confine tra il territorio di Tebe e quello di Platea. In quel tempo, tuttavia, se il mito godeva di una solida fama nella letteratura italiana, era invece scarsamente rappresentato nell’arte monumentale[99].

III) Eracle che uccide Eurito, con Iole che fugge spaventata[100]. Iole non perdonò ad Eracle l’uccisione del padre e dei fratelli, in seguito alla quale divenne sua schiava. L’espressione orripilata della fanciulla qui dipinta può ben addirsi a lei. Sulla sinistra comparirebbe Ecalia, la città di cui Eurito era re e che Eracle saccheggiò. Il problema di questa interpretazione è che Eracle conquistò la città con un esercito e che, oltre al padre, uccise anche i fratelli di Iole: tutti personaggi che qui non compaiono. Certo Milani potrebbe aver voluto ridurre la scena solo ai personaggi principali in modo da creare una composizione ordinata, armonica e ben bilanciata, dove tutte le figure potessero essere plastiche, scultoree ed individualizzate[101], in accordo con i princìpi classicisti, come quelli di Bellori–Maratti, dove ciò è possibile solo nelle composizioni con poche figure. In effetti, in tutte le scene, Milani si attiene a questi princìpi. Tuttavia i dubbi su tale ipotesi restano, poiché nell’arte moderna questa è una scena non frequente.

IV) Eracle che uccide il centauro Eurizione (diverso da quello prima menzionato) per fare un favore a Dessameno. In questo caso la giovane sarebbe Mnesimache[102]. La metà inferiore dell’uomo ucciso da Eracle non si vede, quindi potrebbe anche essere un centauro, tuttavia lo riteniamo meno probabile, anche perché il mito non ha una grande tradizione figurativa.

Tra quelle proposte riteniamo che la prima ipotesi, Eracle e Caco, sia la più attendibile, per la sua ricorrenza in arte e perché si svolge a Roma, e che la seconda e la terza siano le due alternative più plausibili, in quanto storie note, sebbene, soprattutto la terza, non molto ricorrenti nell’arte moderna.

 

4. Eracle exemplum virtutis per Camillo

Nei trattati rinascimentali Eracle è considerato un exemplum virtutis, poiché è colui che non si lascia tentare dalle lusinghe dei vitia, ma sceglie la dura strada della virtus, simbolo quindi dell’anima che sconfigge le passioni e le debolezze del corpo e pertanto assunto anche come esempio di Sapientia. È inoltre considerato come exemplum di particolari virtù positive, come la Prudentia e la Fortitudo (sia del corpo sia dell’anima) e perfino dell’Eloquenza. È poi il simbolo di honos et gloria connesse con il trionfo della virtus[103] ed in generale come esempio di quella che i greci chiamavano μεγαλοψυχία (la grandezza d’animo, la magnanimità). In quanto eroe che uccide mostri selvaggi è poi stato sempre considerato un eroe civilizzatore, capace di sconfiggere gli esseri del χάος, portando la vittoria della civiltà sulla non civiltà, del κόσμος sul χάος.

Trovare Camerini e Gallerie di nobili decorati con le imprese di Eracle non è quindi raro, né strano; infatti Eracle, per il proprietario della dimora, in questo caso Camillo Pamphili il Giovane, ed i suoi discendenti, fungeva sia da exemplum di forza fisica, morale e di ogni virtù che essi erano chiamati ad emulare, sia da garanzia di gloria et honos eterne nel mondo materiale e di ricompensa massima dopo la morte[104], come premio per quelle virtù (Eracle fu infatti divinizzato alla sua morte come ricompensa delle sue imprese). Inoltre Eracle è figlio di Zeus che, in quanto sovrano degli dei, è colui che concede legittimamente il potere a coloro che in terra lo detengono, come i prìncipi, nonché colui che li protegge[105] e qui la scena della Gigantomachia presente al centro vuole evocare proprio questo concetto.

La scelta di queste tematiche da parte di Camillo affonda però ancor di più nelle radici stesse della genealogia familiare, poiché Eracle non era solo un exemplum esterno, ma, in quanto progenitore della stirpe dei Pamphili, era il grande antenato da imitare. Camillo, scegliendo queste tematiche, voleva quindi dimostrare di essere degno dei suoi avi. Inoltre è probabile che volesse misurarsi anche con il celebre nonno Camillo, il nipote del papa Innocenzo X. Nel Casino del Bel Respiro nella Villa Pamphili di Roma, il nonno Camillo aveva fatto decorare una sala con stucchi, eseguiti da R. Bolla e G. M. Sorrisi su disegni di Algardi, e affreschi, realizzati da G. F. Grimaldi, incentrati sulle imprese di Ercole ed infatti questa sala è nota come Sala di Ercole (1646)[106]. Non possiamo affermare con certezza che queste decorazioni fossero conosciute da Milani, poiché le scene coincidenti presentano nessuna o solo vaghe analogie. Certamente però questa sala era ben nota al committente, Camillo nipote, ed è probabile che, decidendo di far decorare la Galleria del Palazzo (che tra l’altro era divenuto dei Pamphili proprio grazie al nonno Camillo), abbia voluto imitare quel ciclo fatto realizzare dal nonno per mostrarsi suo degno discendente ed erede, nonché valido continuatore della virtù non solo del nonno, ma anche del capostipite Ercole.

Questa analisi ha cercato di mostrare come la scelta dei temi raffigurati non sia affatto casuale, ma presupponga una precisa volontà di Camillo e ciò conferma quanto sopra ipotizzato, ovvero che Zanotti è in errore nell’affermare che Milani ideò il programma iconografico. Come rivela il contratto, egli ricevette indicazioni sulle storie da realizzare (Gigantomachia e fatti di Ercole), avendo semmai la possibilità di scegliere quali fatti di Ercole rappresentare, ma anche questo suscita forti dubbi, poiché la scelta di un episodio come quello di Eracle e Alcesti presuppone una certa erudizione. È più probabile, pertanto, ritenere che il programma iconografico fu elaborato da un erudito vicino ai Pamphili in accordo con il committente. Milani ebbe, invece, la libertà, propria di tutti i pittori affermati, di decidere come rappresentare le scene indicategli, cioè la libertà d’inventare l’iconografia (e non il tema), giacché rappresentò l’evento mitico in maniera piuttosto libera, senza attenersi troppo al modo in cui la scena era descritta nelle varie fonti[107], ma sviluppandola in modo consono alle sue esigenze[108], con giusto gli elementi principali capaci di rendere l’episodio riconoscibile (e nel caso di una lunetta neanche questo).

Perfino la scelta della parte iniziale e terminale della galleria probabilmente non furono decise da Milani, poiché esse si inseriscono bene nel resto del programma iconografico. Infatti le quattro parti del mondo (incentrate sull’Italia) possono alludere al fatto che grazie ad Eracle, antenato dei Pamphili, e al buon governo dei Pamphili, tutto il mondo è stato civilizzato e la virtus ha trionfato. Le Arti, invece, indicano che, grazie alla protezione e al mecenatismo dei Pamphili, in questo caso di Camillo il Giovane, tutte le arti prosperano ed in questo modo Camillo si pone come degno continuatore non solo del mecenatismo del nonno Camillo, ma anche di quello dello zio Benedetto, dal quale aveva appreso l’importanza di questa attività.

Se oggi quindi la figura di Camillo il Giovane non appare molto studiata (non è presente nel Dizionario Biografico degli Italiani), questo imponente ciclo di affreschi resta una delle testimonianze principali delle sue ambizioni e della sua politica culturale.

 







APPENDICE

 

Con la pnte.[109], da valere come fosse publico, e giurato destro Io Sotto.s.tto mi obligo di dipingere la Volta del Braccio della Galleria del Palazzo al Colleggio Romano dell’Ecc.mo Sig. Prpe.[110] D. Camillo Pamphilj Ald.ni[111] Facchinetti verso il Corso principiando dal muro accanto il Fenestrone verso la Chiesa di S. Maria in Via Lata sino al muro doppo il Fenestrone sopra il Portone di mezzo, verso il Corso, con Istoria grande nel mezzo Rappresentante la caduta de Giganti, con cornice attorno dipinta, o’ pure di Rilievo di Stucco, come più comportarà la Sudetta Pittura, et a compiacimento di detta Ecc.za; e nel restante di detta Volta, cioè dà capo, e dà piedi al detto Quadro di mezzo, quattro Istorie, due per parte Rappresentanti li fatti di Ercole con ornamenti attorno di Cornici simili alla Sudetta, ornati con putti, e figure nude in conformità delli disegni dà me fatti, e sottoscritti da S. Ecc.za Pne. li quali doveri in appresso consegnare in mano di detta Ecc.za per giustificazione della mio Opera, et in oltre mi obligo similm.e di dipingere tutte le lunette, archi delle Fenestre, Fenestroni, et altri Vani in detta Galleria, come anche gli Sguinci delle Fenestre, altezza de Parapetti delle medeme, Zoccolo attorno tutto detto braccio di Galleria all’altezza di detti parapetti di Fenestra, facciate di muro dalla Volta sino abbasso, nelle due Teste di detta Galleria, una dove è la Porta che esce alla loggia scoperta verso la Chiesa, e l’altra incontro, e tutti detti Siti dipingerli con Requadri, Cartelle, Festoni, Cornici, Pilastrini, et altri ornamenti necessarj, e corrispondenti alla Pittura della Volta et à compiacim.to di S. E. Prone. et il tutto dipinto con vaghezza di colori, sì le carnaggioni, che i Panni dippinti à buon fresco, e la Cornice, et ornamenti, che necessariam.e andranno lumegiati d’Oro, debbano lumegiarsi a d’Oro buono, e non falso, e tutte le S.udette Pitture farle à tutte mie Spese robbe, e Fatture per il prezzo di Scudi Cinquecentocinquanta senza poter pretendere augm.to di sorte alcuna per qualsiasi lavoro, che possa farsi per compim.to di detta opera dovendo andare tutto à mie Spese, intendendo adesso per sempre di restar sodisfatto di detta Somma per tutta la Sudetta opera, anche fosse stimata doppo finita in maggior Somma obligandomi di dare compita tutta dett’opera nel termine di un anno da principiarsi à contare dal giorno d’oggi, che S. Ecc.za benignam.te mi venga somministrando in tempo, che dipingo qualche somma di denaro, si per il p.zo di Colori, che per mio mantenimento, con questo però che per sicurezza debba restare in mano di S. Ecc.za parte della Somma che importaranno le mie operazioni, et alfine dell’Opera pagarmi il Residuo, e non terminando il tutto nel tempo Sudetto sia Padrone S. Ecc.za di prendere altri Pittori à tutte mie Spese, e far terminare detta Opera anche importasse Maggior Somma obbligando perciò me stesso beni, et Eredi nella più ampla for[ma?] della N.  fam. Aplica in fede questo dì 6 Dec.re[112] 1732.

In oltre sono Io Infratto convenuto con l’Ecc.mo Pnpe. Pamphilj Sopra detto, che nonostante, che di sopra si sia detto di dipingere tutte le Sopra dette Pitture à buon fresco, debbino le medeme essere dipinte à fresco, o tempra a d’uso di buona Pittura, à compiacim.to però sempre di S. Ecc. Prone. come anche sia detto di sopra di terminare la Sudetta opera nel termine di un anno da dover principiare il giorno della data del Sopra dett’Obligo, questo pure siamo convenuti che debba principiare il primo di Gennaro prossimo 1733. Io Aureliano Milani mi obligo quanto sopra m.[113].

Io Nicola Can.co Rolani fu’ pnte., e viddi fare la Sud.a Sottoscrizione. Io Filippo Costantini fui pnte., e viddi fare la Sud.ta Sottoscrizione.[114].

 

Ringraziamenti

Si desidera esprimere un profondo ringraziamento alla famiglia Doria Pamphilj e alla dottoressa Alessandra Mercantini, direttrice dell’Archivio Doria Pamphilj, per aver permesso l’accesso all’archivio di famiglia e per aver rilasciato l’autorizzazione alla pubblicazione delle immagini qui presenti. Si esprime un sincero ringraziamento anche al professore Marco Ruffini, professore associato di Storia della Critica dell’Arte all’Università di Roma “La Sapienza”, per il prezioso aiuto fornito; al professore Stefano Pierguidi, professore associato di Museologia e Critica all’Università di Roma “La Sapienza”, per gli utili consigli; al professore Stefano Colonna, ricercatore di Museologia e Critica all’Università di Roma “La Sapienza”, e al BTA per aver accolto con favore questo articolo.









NOTE

[1] Su Aureliano Milani si veda: Zanotti 1739 b, lib. III, pp. 158–167; Crespi 1769, pp. 140 e 146–150; Voss 1958, pp. 53–58; Roli 1960, pp. 189–192; Roli 1964, pp. 341–348; Roli 1977, pp. 57–58, 115–116, 188–189, 277; Rudolph 1983, p. 789; Sestieri 1994, pp. 129–130; Pierguidi 2010, p. 426; Buitoni 2015, pp. 39–56.

[2] Zanotti 1739 b, lib. III, p. 161.

[3] Ibidem, p. 166.

[4] Voss 1958, p. 55; Roli 1964, pp. 341–342; Pierguidi 2010, pp. 427–429.

[5] Voss 1958, pp. 55–58; Roli 1964, p. 342.

[6] Zanotti 1739 b, lib. III, pp. 162–163.

[7] Tutte le citazioni sono riprese da Zanotti 1739 b, lib. III, p. 165. Sulla bravura di Milani come disegnatore, Crespi 1769, p. 147 ‹‹Ha disegnato moltissimo, e veramente i suoi disegni, possono andar del pari con quelli di qualunque gran maestro, pel carattere, per la prontezza, per la grandiosità, e per la disinvoltura, con la quale sono toccati, lumeggiati, e macchiati›› (ibidem per il giudizio sui suoi colori).

[8] Zanotti 1739 a, lib. I, pp. 61 e 68. Lo scrittore traccia di A. Milani il ritratto di un καλός καί ἀγαθός, Zanotti 1739 b, lib. III, p. 163.

[9] Zanotti 1739 b, lib. III, p. 164 scrive che si trasferì nel 1718. Il ben informato Crespi 1769, p. 148, afferma invece che si trasferì a Roma nel giugno del 1719. Dai documenti sappiamo che nel dicembre del 1718 si trovava ancora in Emilia, mentre nel luglio del 1719 scrive una lettera da Roma. Ha quindi ragione Crespi e non Zanotti. Roli 1960, p. 191, nota 7; Pierguidi 2010, p. 428.

[10] Giovan Battista Pamphili era il figlio primogenito di Camillo Pamphili e Olimpia Aldobrandini.

[11] Carandente 1975, pp. 184–194 e 242. Alla morte di C. Bizzaccheri nel 1720, Benedetto Pamphili nominò primo architetto della famiglia Pamphili Domenico Antonio de Santis e non Valvassori, con la conseguenza che quest’ultimo continuò ad essere l’architetto alle dipendenze del primo architetto. Infatti fino alla morte del cardinale Benedetto, gli interventi di Valvassori per le dimore dei Pamphili sono limitati. Con la morte di Benedetto nel 1730, grazie alla piena stima che Camillo il giovane aveva di lui, Valvassori divenne il primo architetto della famiglia e progettò e diresse numerosi interventi nelle varie dimore dei Pamphili, almeno fino al 1739, quando Paolo Ameli gli succedette improvvisamente come primo architetto di famiglia, a causa di una rottura tra Valvassori e Camillo Pamphili.

[12] Sulla storia del palazzo: Rava 1934, p. 396 nota 15; Faldi 1957, pp. 5–11; Golzio 1971, pp. 103–111.

[13] Rava 1934, p. 390; Carandente 1975,  pp. 192–242. La maggior parte dei lavori si data tra il 1731–1734. Nel 1735 i lavori riguardarono le decorazioni degli interni di questi nuovi ambienti, Carandente 1975, pp. 192–193.

[14] Zanotti 1739 b, lib. III, p. 165.

[15] Abilità questa sempre stimata nei committenti del tempo e nella quale Milani era un maestro.

[16] Milani sarebbe morto dieci anni dopo la pubblicazione dell’opera di Zanotti.

[17] Crespi 1769, p. 149.

[18] Tonci 1794, pp. 68 e 124.

[19] Loret 1933, pp. 428–429.

[20] Virg. Aen. VII, 154 (si veda la nota al verso, p. 648 dell’ed. crit. a cura di L. Canali-E. Paratore, Milano 2016); Ripa 1625, voci: Pace (p. 494), Sapienza (p. 582); Cartari 1608, p. 338.

[21] Wrede 2000, p. 11.

[22] Batorska 1975, p. 26 nota 7 e pp. 41 e 45.

[23] Platina et al. 1715, p. 752; Wrede 2000, p. 11.

[24] Loret 1933, p. 429; Roli 1964, pp. 345-346; Roli 1977, pp. 57–58 e 116.

[25] Ripa 1625, pp. 437–439. La spiegazione è ripresa da Ripa, sebbene ci siano delle differenze rispetto al nostro affresco. Il colore delle vesti è simile a quelle indossate dall’Europa in una piccola tela di Francesco Trevisani. Questa tela, insieme a quelle con l’Africa, l’Asia e l’America (1709 ca., Roma, Galleria Nazionale di Palazzo Barberini), erano i modelli che Trevisani sottopose al papa Clemente XI Albani per la decorazione musiva dei pennacchi della Cappella del Battesimo nella basilica di S. Pietro. Ovviamente Milani, più che i bozzetti, poteva conoscere i mosaici dei pennacchi della Cappella del Battesimo, eseguiti tra il 1724 ed il 1726 sulla base dei cartoni che Trevisani aveva realizzato tra il 1713 ed il 1723 (sui mosaici si veda DiFederico 1970, pp. 157–159, i documenti sono riportati nelle pp. 164–166; DiFederico 1977, pp. 66–67). Oltre a questi mosaici, Milani poteva conoscere, e quindi confrontarsi, anche con quello che era stato il modello per Trevisani (si veda Capretti 2002, p. 295), ovvero le personificazioni delle quattro parti del mondo presenti nel celebre affresco di Andrea Pozzo nella volta della chiesa romana di S. Ignazio (1691–1694). Le differenze tra l’iconografia adottata da Milani per queste quattro figure e quella usata da Trevisani e Pozzo, che seguono piuttosto da vicino le indicazioni di Ripa, rivelano bene come Milani si concedesse delle libertà iconografiche volte, normalmente, ad assecondare la sua ricerca di complesse soluzioni anatomico–prospettiche.

[26] Nel testo di Ripa gli attributi dell’Asia sono invece totalmente diversi, Ripa 1625, pp. 439–441. Si veda la differenza con l’analoga figura di Trevisani, che segue in maniera piuttosto stretta il testo di Ripa.

[27] L’Africa presenta solo alcune analogie con il testo di Ripa, Ripa 1625, pp. 441–442.

[28] Ripa 1625, pp. 442–443 le assegna una grande lucertola a denotare che in America vivono grossi animali pericolosi. L’America qui rappresentata presenta comunque diverse differenze rispetto al testo di Ripa, a differenza di quella di Trevisani sopra menzionata che è molto più fedele all’opera di Ripa.

[29] Si vedano le voci di Ripa menzionate nelle due note precedenti. Nei quadri di Trevisani e nei mosaici dei pennacchi realizzati sui suoi cartoni (la cui iconografia è sostanzialmente analoga a quella dei quadri preparatori), l’America presenta un seno scoperto (e siamo a S. Pietro), come l’analoga figura di Pozzo a S. Ignazio. L’Africa di Pozzo è invece vestita, mentre quella di Trevisani cela le nudità mediante la torsione del busto.

[30] Ov. Met. IX, 4–88; de’ Bonsignori 2001, IX, III e Allegorie A e B (pp. 423–424); degli Agostini 1522, (s. p.) Di Deianira et Hercule e le allegorie di Hercule et Iuno e di Acheloo e del corno della Copia; Dolce 1553, XVIII, pp. 189–191; dell’Anguillara 1584, IX, ott. 1–35, pp. 169–172 e 352; Cartari 1608, pp. 248–250; Ripa 1625, p. 248.

[31] Una figura umana con volto di toro compare in un’incisione in Cartari 1608, p. 246, vicino a dove si parla di Acheloo ed Ercole.

[32] Il modo in cui lo sguardo e la lingua esprimono la resa ricordano espressioni analoghe che si ritrovano nei fumetti in personaggi che devono esprimere la sconfitta.

[33] Roli 1964, pp. 342 e 346; Pierguidi 2010, p. 428.

[34] de’ Bonsignori 2001, IX, Allegorie A e B (p. 424); degli Agostini 1522, (s. p.) le allegorie di Hercule et Iuno e di Acheloo e del corno della Copia.

[35] Apoll. Bibl. II, 5, 4; Ov. Met. IX, 191–192; dell’Anguillara 1584, IX, ott. 80, p. 321.

[36] Ripa 1625, pp. 636 e 722.

[37] Cartari 1608, pp. 321–322.

[38] de’ Bonsignori 2001, IX, cap. XVIII e Allegoria M (pp. 434–435).

[39] Apoll. Bibl. II, 5, 11; Ig. Astr. II, 3 e Fab. 30.

[40] Ginzburg 2008, pp. 280–281. Sull’attribuzione del riquadro gli studiosi oscillano tra Sisto Badalocchio e Antonio Solari.

[41] Ripa 1625, pp. 721–722; Cartari 1608, p. 322; de’ Bonsignori 2001, IX, cap. XVI e Allegoria J (p. 433).

[42] In esse è ben evidente la tendenza moraleggiante che porta a coprire le parti intime.

[43] Zanker – Ewald 2008, p. 233.

[44] Apoll. Bibl. II, 5, 2; Ov. Met. IX, 67–76 e 192–193; de’ Bonsignori 2001, IX, cap. II e XIX e Allegoria N (pp. 423 e 435); degli Agostini 1522, (s. p.) Della pugnia di Hercole con Acheloo e Lamento di Hercule; Dolce 1553, XVIII, p. 191; dell’Anguillara 1584, IX, ott. 24–27; Cartari 1608, p. 321; Ripa 1625, p. 446.

[45] Batorska 1975, pp. 35–36.

[46] Ginzburg 2008, pp. 124–127 e 136–137.

[47] Apollodoro ne riporta nove; Ovidio, Dolce, Giovanni Andrea Dell’Anguillara cento; il numero è però vicino a quello di Nicolò degli Agostini che ne annoverava sette.

[48] Ripa 1625, p. 446.

[49] Ripa 1625, pp. 534 e 721–722; Cartari 1608, p. 315.

[50] Il giovane è ispirato all’ignudo della Galleria Farnese riprodotto in Ginzburg 2008, pp. 206–207.

[51] In realtà è tutto dipinto.

[52] Un breve riepilogo in Grimal 2009, pp. 307–309, fonti p. 692, s. v. Giganti.

[53] Apoll. Bibl. I, 6,1–3; Ov. Met. I, 151–162; de’ Bonsignori 2001, I, capp. XIII–XVI e Allegoria D (pp. 109–112); degli Agostini 1522, (s. p.) Delli Giganti fulminati et mutati in scimie; Dolce 1553, I, pp. 6–7; dell’Anguillara 1584, I, ott. 43–45; Cartari 1608, pp. 355–356.

[54] Guthmüller 1997, p. 296.

[55] Sul sarcofago con la Caduta di Fetonte, Zanker – Ewald 2008, pp. 19–20.

[56] Ginzburg 2008, pp. 222–225.

[57] I massi fuoriescono dallo spazio della finta cornice e invadono quello dello spettatore, coinvolgendolo così nell’opera.

[58] Guthmüller 1997, pp. 291–307.

[59] Le gote gonfiate e la conchiglia in cui soffiano sono tipici attributi dei venti (Ripa 1625, pp. 700–702), così come i puttini, con le gote gonfie intenti a soffiare, che di norma accompagnano le personificazioni dei venti (e usualmente di loro si rappresenta solo il volto).

[60] Guthmüller 1997, pp. 291–307.

[61] Ibidem, pp. 300–301.

[62] Cartari 1608, pp. 355–356.

[63] Per fare solo un esempio, nell’Odissea i re sono definiti ‹‹διοτρεφέες βασιλῆες›› ‹‹i re prole di Zeus›› (Od. III, 480); o ‹‹γένοςδιοτρεφέων βασιλήων σκηπτούχων›› ‹‹stirpe di re che portano lo scettro, prole di Zeus›› (Od. IV, 63–64), il testo e la traduzione sono ripresi dall’ ed. crit. Odissea, a cura di V. Di Benedetto, Milano 2010.

[64] In entrambi i casi fu infatti un andare contro coloro che detenevano legittimamente il potere.

[65] Giusta perché basata sulla Δίκη.

[66] Guthmüller 1997, pp. 300–307.

[67] Si pensi alla Gigantomachia affrescata da Giulio Romano a Palazzo Te di Mantova per Federico Gonzaga, o a quella eseguita da Perin del Vaga per Andrea Doria nel Palazzo di Andrea Doria a Genova; si veda Guthmüller 1997, pp. 303–307.

[68] Guthmüller 1997, p. 302.

[69] Apoll. Bibl., II, 5, 11; Ov. Met. IX, 183–184.

[70] Batorska 1975, p. 33.

[71] Ripa 1625, pp. 104–105 (s. v. Combattimento); Galetto 2018, pp. 184–186.

[72] Apoll. Bibl. II, 7, 6; Ov. Met. IX, 98–133; de’ Bonsignori 2001, IX, cap. V, Allegoria C (pp. 425–426 e 428–429); degli Agostini 1522, (s. p.) Di Nesso Centauro e l’Allegoria corrispondente; Dolce 1553, XVIII, pp. 191–192; dell’Anguillara 1584, IX, ott. 40–51 e Annotationi p. 352.

[73] In Ovidio Eracle lo colpisce invece alla schiena.

[74] La scena compare anche nei menzionati rilievi di Algardi, Batorska 1975, pp. 38–39.

[75] Apoll. Bibl. II, 5, 1.

[76] Cartari 1608, p. 321; Ripa 1625, p. 721.

[77] de’ Bonsignori 2001, IX, cap. XIV e Allegorie H (pp. 431–432).

[78] Apoll. Bibl. II, 5, 7. Nel mito Eracle catturò (e non uccise) il toro e lo portò ad Euristeo. Se si vuole interpretare la testa come di mucca invece che di toro, allora si alluderebbe alla decima impresa, la cattura delle vacche di Gerione (II, 5, 10). de’ Bonsignori 2001, IX, cap. XI e Allegorie E (pp. 429–430).

[79] Sposò una donna nobile, Teresa del Grillo, che però non amava e dalla quale viveva separato, Rava 1934, p. 396 nota 14.

[80] Le vesti cangianti indicano la varietas come componente propria della pittura, Ripa 1625, Pittura p. 517.

[81] La spiegazione della Pittura, e quelle della Scultura e dell’Architettura che seguono, sono riprese da Ripa 1625, Pittura (pp. 516–517); Scoltura (p. 592); Architetura (pp. 43–44).

[82] Ripa 1625, Mathematica (pp. 410–411); Poesia (p. 519).

[83] Igino 2000, p. 285 nota 316; anche i generici accenni di Apollodoro (Bibl. I, 9, 15) e della favola 51 di Igino possono suggerire questa variante. Eur. Alc. 837–860 e 1136–1142.

[84] Plat. Simp. 179 a–d; Ficino, Sopra lo Amore I, cap. III (pp. 26–27 dell’ed. crit. a cura di G. Rensi, Milano 2003).

[85] Cartari 1608, pp. 260–261; Ripa 1625, p. 446.

[86] Batorska 1975, pp. 33–34.

[87] Virg. Aen. VIII, 185–275; Livio Hist. I, 7; Ov. Fast. I, 543–586; de’ Bonsignori 2001, IX, cap. XXI e Allegoria P (pp. 436–437).

[88] Virg. Aen. VIII, 204.

[89] I due autori latini lo definiscono un mostro, ma questo soprattutto perché capace di riversare fumo e fiamme dalla bocca e poiché era muscoloso, possente e dal corpo immane.

[90] Tantillo 2000, p. 336.

[91] Anche Domenichino ambienta la scena all’aperto, ma a rigore egli rappresenta il momento successivo, quando Eracle trascina Caco morto.

[92] Lattanzio Inst. I, 20, 36; Servio Ad Aen. VIII, 190.

[93] per esempio viene citata da Gyraldi nel suo trattato, Gyraldi, Historiae Deorum, Syntagma I, p. 41 (ed. Lugduni [Lione]1565).

[94] Sulla sala, Capriotti 2018, pp. 349–351, p. 338 per la datazione.

[95] Capriotti 2018, pp. 338–339, in generale si leggano con attenzione le pp. 336–340.

[96] Capriotti 2018, p. 366, fig. 17.

[97] Ig. Fab. 32.

[98] Sulla fortuna manoscritta dell’Hercules furens e delle altre tragedie di Seneca fin dal Trecento, si veda  Monti – Pasut 1999, in particolare p. 515. Sull’interesse verso questa tragedia di Seneca nella letteratura italiana, si consideri che Ariosto si ispirò probabilmente all’Hercules furens di Seneca per il titolo dell’Orlando furioso; si tenga presente anche il commento e la traduzione–rielaborazione che di questa e delle altre tragedie di Seneca fece Lodovico Dolce (L. Dolce, Le tragedie di Seneca tradotte da M. Lodovico Dolce, Venezia 1560).

[99] Escludiamo le miniature che accompagnano i codici trecenteschi per le quali si rinvia a Monti – Pasut 1999, p. 536, dove si nota che nelle miniature presenti in questi codici manoscritti (molti di ambito proprio bolognese, p. 542), la follia di Eracle era un tema spesso rappresentato.

[100] Apoll. Bibl. II, 6, 1 e II 7, 7; Ig. Fab. 35 (note 256–257, pp. 260–261 dell’ed. cit. in bibl. Igino 2000). Si veda anche la magnifica tragedia di Sofocle Trachinie, per es. vv. 248–290 e 335–386.

[101] Ovvero curare ogni figura in modo tale che ognuna esprima i propri moti dell’animo attraverso i moti del corpo (gesti, movimenti, espressioni) e facendo sì che esse siano concatenate tra loro attraverso gesti e sguardi.

[102] Apoll. Bibl. II, 5, 5. Diversa versione in Ig. Fab. 33.

[103] Cartari 1608, pp. 261, 313–315, 321–322, 341; Ripa 1625, Combattimento (pp. 103–104), Ingegno (p. 318), Merito (p. 417), Splendore del Nome (p. 636), Virtù heroica e Virtù dell’animo (pp. 721–722); de’ Bonsignori 2001, IX, Allegoria A (p. 424).

[104] Ovvero la garanzia del Paradiso.

[105] Batorska 1975, pp. 23–25.

[106] Batorska 1975; Benedettucci 2005, pp. 91 e 96–98.

[107] In particolare nelle fonti che poteva leggere, vale a dire i trattati in volgare, come quello di Cartari, e i volgarizzamenti dei testi antichi.

[108] Soprattutto mostrare le sue capacità anatomiche.

[109] Presente.

[110] Prpe.; Pne.; Pnpe.; sono varie abbreviazioni che qui si ritrovano per il titolo “Principe”.

[111] Aldobrandini.

[112] Dicembre.

[113] Mostrato.

[114] Archivio Doria Pamphilj, Filza dei Mandati 1733, doc. 89. In parte riprodotto in Rava 1934, p. 396 nota 19. Si coglie l’occasione per ringraziare l’Archivio Doria Pamhilj di Roma per aver accordato all’autore la possibilità di poter consultare e riportare la trascrizione di tale documento.







BIBLIOGRAFIA

BATORSKA 1975

Danuta BATORSKA, Additional Comments on the Iconography of the Sala di Ercole at Villa Doria Pamphili in Rome, in “Paragone”, XXVI, 1975, 303, pp. 22–54.

 

BENEDETTUCCI 2005

Fabio BENEDETTUCCI, Algardi e i suoi. Decorazioni secentesche nel casino del Bel Respiro, in Villa Doria Pamphilj, a cura di Carla BENOCCI, Roma, Roma: Art Color Printing, 2005, pp. 91–99.

 

BUITONI 2015

Antonio BUITONI, “A pubblicarlo un nuovo Carracci”: gli inizi di Aureliano Milani e altri dipinti sconosciuti del Seicento e Settecento, in “Strenna Storica Bolognese”, LXV, 2015, pp. 39–56.

 

CAPRETTI 2002

Elena CAPRETTI, Scheda n. 92 Francesco Trevisani. Le quattro parti del mondo: Europa, Asia, Africa e America, in Il mito di Europa da fanciulla rapita a continente, catalogo della mostra (Firenze, Galleria degli Uffizi, 11 giugno 2002 – 06 gennaio 2003), a cura di Cristina ACIDINI LUCHINAT, Firenze, Giunti, 2002, p. 295.

 

CAPRIOTTI 2018

Giuseppe CAPRIOTTI, Prima dell’Eneide. Bacco ed Ercole nella decorazione delle stanze di Palazzo Buonaccorsi, in “Il Capitale culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage”, Supplementi 08/2018 La Galleria dell’Eneide di Palazzo Buonaccorsi a Macerata. Nuove letture e prospettive di ricerca per il Settecento europeo, a cura di Giuseppe CAPRIOTTI – Francesca COLTRINARI – Patrizia DRAGONI – Susanne Adina MEYER – Massimiliano ROSSI, Supplementi 08, 2018, pp. 335–367.

 

CARANDENTE 1975

Giovanni CARANDENTE, Il Palazzo Doria Pamphilj, Milano, Electa Editrice, 1975.

 

CARTARI 1608

Vincenzo CARTARI, Le Imagini Degli Dei degli Antichi, Padova, Pietro Paulo Tozzi libraro, 1608.

 

CRESPI 1769

Luigi CRESPI, Vite de’ Pittori Bolognesi non descritte nella Felsina Pittrice, vol. III, Roma, Stamperia di Marco Pagliarini, 1769.

 

DE’ BONSIGNORI 2001

Giovanni DE’ BONSIGNORI, Ovidio Metamorphoseos Vulgare, a cura di Erminia ARDISSINO, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2001.

 

DEGLI AGOSTINI 1522

Nicolò DEGLI AGOSTINI, Tutti gli libri de Ovidio Metamorphoseos tradutti dal litteral in verso vulgar con le sue Allegorie in prosa con grazia e privilegio, Venezia, Stampato in Venetia per Iacomo da Leco a instantia de Nicolò Zoppino e Vicentio di Pollo, 1522.

 

DELL’ANGUILLARA 1584

Giovanni Andrea DELL’ANGUILLARA, Le Metamorfosi di Ovidio ridotte da Gio. Andrea dell’Anguillara in ottava rima, con le Annotazioni di M. Gioseppe Horologgi, e gli Argomenti e Postille di M Francesco Turchi, Venezia, Giunti, 1584.

 

DIFEDERICO 1970

Frank R. DIFEDERICO, Documentation for Francesco Trevisani’s Decoration for the Vestibule of the Baptisimal Chapel in Saint Peter’s, in “Storia dell’Arte”, 6, 1970, pp. 155–174.

 

DIFEDERICO 1977

ID., Francesco Trevisani. Eighteenth-Century Painter in Rome a Catalogue Raisonné, Washington, Decatur House press, 1977.

 

DOLCE 1553

Lodovico DOLCE, Trasformationi, Venezia, Gabriele Giolito, 1553.

 

FALDI 1957

Italo FALDI (a cura di), Palazzo Pamphilj al Collegio Romano, Roma, Associazione aziende ordinarie di credito, 1957.

 

GALETTO 2018

Guido GALETTO, La villa medicea di Poggio a Caiano. Tra l’Atene degli Acciaiuoli ed il Granducato della Baciocchi, Roma, Gangemi Editore, 2018.

 

GINZBURG 2008

Silvia GINZBURG, La Galleria Farnese, Milano, Electa Editrice, 2008.

 

GOLZIO 1971

Vincenzo GOLZIO, Palazzi romani dalla Rinascita al Neoclassico, Bologna, Cappelli Editore, 1971.

 

GRIMAL 2009

Pierre GRIMAL, Mitologia, Milano, Garzanti Editore, 2009.

 

GUTHMÜLLER 1997

Bodo GUTHMÜLLER, Mito, Poesia, Arte. Saggi sulla tradizione ovidiana nel Rinascimento, Roma, Bulzoni Editore, 1997.

 

IGINO 2000

IGINO, Miti, a cura di Giulio GUIDORIZZI, Milano, Adelphi Edizioni, 2000.

 

LORET 1933

Mattia LORET, La decorazione della Galleria e l’Architettura del Palazzo Doria Pamphili, in “L’Illustrazione Vaticana”, IV, 11, 1933, pp. 428–429.

 

MONTI – PASUT 1999

Carla Maria MONTI – Francesca PASUT, Episodi della fortuna di Seneca tragico nel Trecento, in “Aevum. Vita e Pensiero – Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore”, 73, 2, 1999, pp. 513–547.

 

PIERGUIDI 2010

Stefano PIERGUIDI, Milani, Aureliano, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, LXXIV, 2010, pp. 426–430.

 

PLATINA et alii 1715

Bartolomeo PLATINA – Onofrio PANVINIO – Giovanni STRINGA – Antonio CICARELLI – Abraamo BZOVIO – Antonio BAGATTA – Girolamo BRUSONI, Le Vite de’ Pontefici Bartolomeo Platina cremonese, dal Salvator Nostro fino a Clemente Undecimo, Venezia, Appresso Steffano Monti, 1715.

 

RAVA 1934

Arnaldo RAVA, Gabrielle Valvassori architetto romano (1683–1761), in “Capitolium”, X, 8, 1934, pp. 385–398.

 

RIPA 1625

Cesare RIPA, Iconologia, Padova, Pietro Paolo Tozzi, 1625.

 

ROLI 1960

Renato ROLI, Qualche appunto per Aureliano Milani, in “Arte Antica e Moderna”, 10, 1960, pp. 189–192.

 

ROLI 1964

ID., Per l’attività romana di Aureliano Milani, in “Arte Antica e Moderna”, 27, 1964, pp. 341–348.

 

ROLI 1977

ID., Pittura Bolognese 1650-1800: dal Cignani ai Gandolfi, Bologna, Alfa, 1977.

 

RUDOLPH 1983

Stella RUDOLPH, La pittura del ’700 a Roma, Milano, Longanesi, 1983.

 

SAFARIK – TORSELLI 1982

Eduard A. SAFARIK – Giorgio TORSELLI, La Galleria Doria Pamphilj a Roma, Roma, Palombi Editore, 1982.

 

SESTIERI 1994

Giancarlo SESTIERI, Repertorio della pittura romana dalla fine del Seicento e del Settecento, vol. I, Torino, Umberto Allemandi & C., 1994.

 

TANTILLO 2000

Almamaria TANTILLO, Schede 11.1 Paesaggio con Ercole e Acheloo. 11.2 Paesaggio con Ercole e Caco, in L’idea del Bello. Viaggio per Roma nel Seicento con Giovan Pietro Bellori, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 29 marzo – 26 giugno 2000), a cura di Evelina BORA – Carlo GASPARRI, Roma, Edizioni De Luca, 2000, pp. 335–337.

 

TONCI 1794

Salvadore TONCI, Descrizione ragionata della Galleria Doria, Roma, Presso Luigi Perego Salvioni, 1794.

 

VOSS 1958

Hermann VOSS, Alcuni inediti di Aureliano Milani, in “Paragone”, IX, 97, 1958, pp. 53–58.

 

WREDE 2000

Henning WREDE, L’antico nel Seicento, in L’idea del Bello. Viaggio per Roma nel Seicento con Giovan Pietro Bellori, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 29 marzo – 26 giugno 2000), a cura di Evelina BORA – Carlo GASPARRI, Roma, Edizioni De Luca, 2000, pp. 7–15.

 

ZANKER – EWALD 2008

Paul ZANKER – Björn Christian EWALD, Vivere con i miti. L’iconografia dei sarcofagi romani, Torino, Bollati Boringhieri, 2008 (= Mit Mythen leben. Die Bilderwelt der römischen Sarkophage, München 2004).

 

ZANOTTI 1739 a

Giampietro ZANOTTI, Storia dell’Accademia Clementina di Bologna, vol. I, Bologna, Lelio dalla Volpe, 1739.

 

ZANOTTI 1739 b

ID., Storia dell’Accademia Clementina di Bologna, vol. II, Bologna, Lelio dalla Volpe, 1739.

 



PDF

Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

Risali

BTA copyright MECENATI Mail to www@bta.it