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Jiroft vista da Susa  

Enrico Ascalone
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 11 Giugno 2019, n. 870
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Area Archeologia

1. Susa nella seconda metà del III millennio a.C.

Le straordinarie scoperte fatte lungo la valle del fiume Halil con le campagne di scavo svolte da Y. Madjidzadeh hanno radicalmente cambiato la nostra comprensione sulle dinamiche di sviluppo e inviluppo culturale dell’altopiano iranico durante l’intero III millennio a.C.[1]. La convinzione, ben radicata per tutti gli anni Sessanta del XX secolo, che Susa ed Anshan fossero i due maggiori centri, perlopiù isolati, della cultura elamita ovvero iraniana dell’Età del Bronzo era stata già incrinata con i pioneristici scavi di Shahr-i Sokhta e Tepe Yahya che misero in crisi il modello diffusionista che attribuiva al solo Fars e alla Susiana la crescita (proto)urbana dei maggiori centri del III millennio a.C. Con le nuove ricerche lungo il fiume Halil questo modello venne definitivamente superato permettendo il riconoscimento di poli di sviluppo alternativo a quelli tradizionali, restituendo un quadro certo più complesso della storia dell’altopiano iranico.

In questo contributo, gli orizzonti culturali di Susa IV e V saranno discussi in relazione al materiale scavato nel centro maggiore del Khuzistan e, sulla base delle nuove evidenze provenienti da Konar Sandal, la storica Markhashi[2], si proverà, quando possibile, a ipotizzare le modalità interattive tra l’Iran sud-orientale, l’Elam e la Mesopotamia meridionale con le sue appendici orientali (Khuzistan)[3].

 

1.1. Susa IVA ca. 2600-2350 a.C. (Ville Royale 12-9; Acropole 4-3)

Susa IVA è ampiamente attestato presso la Ville Royale negli scavi svolti tra il 1929 e il 1933 da R. de Mecquenem[4] e nei livelli 12-9 dei più tardi interventi di E. Carter[5]. Questo periodo è anche conosciuto nei livelli 4-3 della Acropole, indagata da M.-J. Stéve e H. Gasche[6], e nelle sequenze tipologiche di Susa Db-Dd individuate da L. Le Breton[7]. I due maggiori stili decorativi (la ceramica policroma e monocroma), conosciuti in Susa IVA, mostrano forti assonanze con i principali centri del Luristan e dei passi pedemontani degli Zagros; ceramica policroma simile fu rinvenuta a Tepe Mussian[8] e in centri dell’Hamrin[9]. Allo stesso modo, la ceramica monocroma trova nuovi confronti nelle necropoli del Luristan occidentale, in particolare presso Qabr Nahi[10], dove legami sembrano accertati con il Protodinastico II e III di Mesopotamia.

 

1.2. Susa IVB ca. 2350-2150 a.C. (Ville Royale 8-7; Acropole 2-1)

Susa IVB è conosciuta nei livelli 8-7 della Ville Royale, indagata da E. Carter[11], negli scavi svolti da M.-J, Stéve e H. Gasche presso l’Acropole (livelli 2-1) e in Susa De, seguendo le classi tipologiche stabilite da L. Le Breton[12], mentre nuovi confronti sono da cercare anche in Kalleh Nisar A2 (Luristan) e Yahya IVB. L’orizzonte culturale complessivo rimane fortemente condizionato dalla pressione politica e verosimilmente militare esercitata dalla dinastia sargonide che arrivò a controllare Susa per un periodo approssimativo di quasi duecento anni; la scomparsa della ceramica dipinta, i forti richiami al patrimonio iconografico mesopotamico e l’utilizzo d’iscrizioni in lingua accadica permettono, infatti, di accertare una chiara influenza proveniente dalle attigue aree alluvionali mesopotamiche su tutta la piana del Khuzistan.

Le fasi archeologiche successive (Ur III e Simashki) sono state individuate nei livelli 6-3 della Ville Royale scavati da E. Carter[13], presso le tombe dell’Apadana approssimativamente datate al “XXIII et XX siècle” da R. de Mecquenem[14], nel chantier 1 (con iscrizione di Shu-Sin)[15], nel chantier 2 (dove tavolette iscritte con il nome di Ebarat, in associazione archeologica con più arcaiche tipologie ceramiche, furono rinvenute)[16] e presso la necropoli di Donjon (dove le tombe furono rinvenute tra -5 e -8 m al di sotto della superficie assieme a mattoni recanti le iscrizioni reali di Attahushu, sovrano Sukkalmah)[17]. La fine di questo periodo (Simashki) è altresì conosciuta nella porzione settentrionale della Ville Royale scavata da R. Ghirshman[18] presso l’area B, periodi VII-VI[19], quando la città dovette passare sotto il controllo dei sovrani di Ur, prima, e della città di Isin, dopo, come peraltro anche supposto a seguito del rinvenimento di un’impronta di sigillo con l’iscrizione della regina Mekubi, sposa di Tan-Ruhuratir (re di Simashki) e sorella di Bilalama, re di Eshnunna (ca. 1980 a.C.)[20].

 

1.3. Susa V ca. 2150-1900 a.C. (Ville Royale 6-3)

L’orizzonte culturale di Susa V si deve circoscrivere alla fine del III e all’inizio del II millennio a.C., periodo in cui ampia presenza di materiale elamita e del Golfo Persico è documentata nelle sequenze culturali del centro, ora meno condizionato dai fervori culturali conosciuti in Mesopotamia, nonostante alcune analogie specifiche con tipologie ceramiche rintracciate da S. Gasche sulla Acropole[21], nella coroplastica[22] e nell’arte glittica[23].

In questo periodo, per la prima volta dopo le esperienze protoelamite, si sviluppa una nuova arte visuale propriamente elamita[24], in cui nuovi percorsi autonomi sembrano manifestarsi all’interno di un più ampio serbatoio culturale da cercare sull’altopiano iranico[25]. Aumenta la presenza di materiale importato dalle regioni più orientali, tra cui il vasellame in steatite della cosiddetta “série récente[26], i sigilli a stampo dilmuniti[27], tre sigilli pseudo-harappani[28], un peso cubico[29], etched beads di tipo harappano[30], una statua alabastrina verosimilmente prodotta ovvero influenzata dagli artigiani della valle dello Zhob (Mundigak IV-1 e IV-2)[31] e, infine, non sporadici vasi importati dalla Battriana[32].

 

2. Materiale dell’Iran sud-orientale a Susa

Come ampiamente dimostrato da Pierre Amiet[33], le evidenze materiali dell’Iran sud-orientale a Susa sono numerose e permettono di comprendere appieno il ruolo svolto dal centro del Khuzistan all’interno delle dinamiche storiche relative ai processi di trasmissione e d’integrazione culturale tra aree distanti tra loro[34]. Le importazioni a Susa di materiale appartenente ai percorsi culturali legati alla valle del fiume Halil sono documentate, in estrema sintesi, in un sigillo a cilindro, due impronte di sigillo, una statua in steatite, un’ascia zoomorfa, un’ascia con lama decorata, tre asce a lama piatta (di cui una a sezione orizzontale), numerosi vasi in steatite e due vasi in alabastro.

 

2.1. Materiali rinvenuti a Susa con connessione con la civilizzazione del fiume Halil

E. Porada fu la prima ad identificare uno stile glittico dell’Iran sud-orientale che fu genericamente associato al periodo Accadico[35] sulla base di serrati confronti stilistici[36]. Pochi anni dopo, P. Amiet fu in grado di pubblicare nuovi sigilli dell’Iran orientale riconoscendone un valore comune, espressione di una omogenea Trans-Elamite art[37]. Questi primi tentativi mirati a definire appieno caratteristiche iconografiche e stilistiche di un primo lotto di sigilli fuori dalle convenzioni artistiche mesopotamiche, furono seguiti dalle prime indagini sul campo svolte a Tepe Yayha[38] e Shahdad[39] che permisero di associare stratigraficamente la produzione glittica dell’Iran sud-orientale alla produzione dei vasi in steatite appartenenti alla cosiddetta “serie ancienne”, generalmente datata tra il 2400 e il 2200 a.C., forse da far risalire fino al Protodinastico II-III[40], cronologicamente in linea con quanto conosciuto anche in aree periferiche, come peraltro documentato anche a Mari, lungo il medio corso dell’Eufrate[41].

Le impronte di sigillo di Susa (Figg. 1-2), entrambe custodite presso il Louvre (Sb 6680 e 6707), furono rinvenute durante gli scavi di J. De Morgan. La prima impronta (Sb. 6680), con iscrizione, misura 3,8 cm in altezza, e mostra forti assonanze di stile e forma con la più antica tradizione glittica dell’Iran sud-orientale, verosimilmente da circoscrivere alla metà del III millennio a.C.[42]. La seconda impronta, “provennient des même couches de terrain que le vases peints des Ier et IIe styles[43], misura 2,7 cm in altezza e sembra potersi ascrivere all’inizio del quarto quarto del III millennio a.C.[44]. Infine, il sigillo (Fig. 3), ora custodito presso il Museo Archeologico Nazionale d’Iran (NMI 624/46), intagliato nella steatite e parzialmente eroso, le cui dimensioni sono di 2,8 cm in altezza e 1,1 cm di diametro, riproduce una figura composita alata mentre viene ricevuta da un personaggio indefinito, verosimilmente una divinità per la presenza di corna sul capo, davanti ad un altare decorato con motivi geometrici[45]. L’impianto iconografico complessivo mostra forti richiami alle produzioni di Jiroft (Tepe Yahya) e della piana di Takab (Shahdad) e sembra avere puntuali confronti figurativi con un sigillo proveniente dalla tomba 193 del Cimitero A di Shahdad[46], in cui un medesimo essere alato è stante dietro a una divinità seduta su di una piattaforma.

 

Fig. 1: impronta da sigillo da Susa (Amiet 1986: fig. 71).
Fig. 2: impronta di sigillo da Susa (Amiet 1994: fig. 3).


 

Fig. 3: sigillo in steatite da Susa (Ascalone 2006: fig. 3c-d).


 

Come per le due impronte e per il sigillo, anche una statuetta in steatite (Fig. 4) deve considerarsi un’importazione dall’Iran sud-orientale[47] sulla base del materiale, dello stile e della postura complessiva del personaggio, ampiamente conosciuta in primis nei sigilli di Tepe Yahya[48]. Confronti adeguati si hanno con le sculture di Shahdad[49], con la testa di uno spillone in bronzo ora custodito al Louvre[50] e con dischi in lapislazzuli provenienti da scavi clandestini e ora conservati nei principali musei della Repubblica Islamica dell’Iran[51].

 

Fig. 4: statuetta in steatite da Susa (Amiet 1986: fig. 108).


 

Un altro oggetto di origini orientali, forse battriane piuttosto che della provincia di Kerman, deve considerarsi un’ascia con lama decorata (Fig. 5); l’esemplare fu pubblicato per la prima volta da R. de Mecquenem che propose inizialmente una datazione al “XXV siècle[52], con una correzione successiva al ca. 2600 a.C.[53]. Questa tipologie di asce è unica nel suo genere a Susa, mentre mostra grande diffusione in Iran orientale e in Asia Centrale[54]. I confronti più stretti si hanno con l’esemplare di Khinaman[55] e quello di Shahdad[56], mentre altre analogie si hanno con asce, prive di certi contesti archeologici, provenienti dalla Battriana[57]. La presenza di questa tipologia su un sigillo datato al regno di Idadu (ca. 2000 a.C.) permette di ipotizzare una loro datazione approssimativa da circoscrivere tra la fine del III e l’inizio del II millennio a.C.

 

Fig. 5: ascia con lama decorata da Susa (Tallon 1987: fig. 6a-b).


 

Due ulteriori asce dalla lama piatta provenienti da Susa devono considerarsi chiare evidenze dei rapporti intercorsi tra l’alluvio del Khuzistan e le alte terre iraniane (Fig. 6)[58]; entrambe hanno decisi confronti con esemplari rinvenuti nel Lut[59], presso Damin[60], Shahi Tump[61], Chanhu-daro[62] e, curiosamente, Saqqiz in Azerbaijan[63], permettendo, grazie alla ricostruzione delle singole sequenze stratigrafiche, una loro datazione all’ultimo quarto del III millennio a.C. Allo stesso modo, una quarta tipologia di asce rinvenuta a Susa, con lama verticale, sembra potersi riconoscere in una produzione ampiamente diffusa lungo la valle del fiume Halil (Fig. 7)[64], i cui confronti sono da cercare perlopiù in numerosi esemplari provenienti da attività clandestine di scavo svolte in tutta la valle[65], più sporadici appaiono i confronti tipologici con Mundigak[66] e Maikop[67].

 

Fig. 6: ascia con lama piatta da Susa (Amiet 1986: fig. 120).


Fig. 7: ascia con lama piatta verticale da Susa (Tallon 1987: n. 532).


 

Infine, due vasi in alabastro devono altresì considerarsi delle importazioni dell’Iran sud-orientale[68], soprattutto per i confronti con il materiale proveniente da Jiroft e recentemente pubblicato (Fig. 8)[69]. I due vasi, che mostrano avere un’alta quantità di carbonato di calcio sconosciuta alla produzione indigena di formazione perlopiù gessosa, furono rinvenuti nel “Vase à la Cachette” che viene datato, sulla base della sua morfologia e decorazione dipinta, alla metà del III millennio a.C.[70].

 

Fig. 8: vasellame in alabastro da Susa (Amiet 1986: fig. 96: 8).


 

3. Conclusioni

L’abbondante presenza di materiale proveniente dall’Iran sud-orientale a Susa permette di ricostruire un articolato sistema di scambio tra le regioni alluvionali e quelle dell’altopiano[71]. Le relazioni appaiono ininterrotte dalla metà del III fino ai primi due secoli del II millennio a.C. quando una diffusa crisi sembra coinvolgere tutto l’Iran orientale e le regioni più orientali (Oxus e valle dell’Indo). La diffusione del vasellame in steatite appare particolarmente significativa per ricostruire modalità e dinamiche a lungo raggio che coinvolsero anche il centro di Susa, le stesse copie indigene in bitume (materiale locale), appaiono significative per comprendere appieno l’articolazione dei processi d’integrazione e d’interazione tra la piana Susiana e i centri maggiori dell’Halil.

Sembra verosimile poter riconoscere a Susa un ruolo di rielaborazione del prodotto orientale per un mercato interno e per una sua successiva distribuzione verso i contesti alluvionali di Mesopotamia. In particolare, Susa sembra avere svolto un molteplice ruolo nelle dinamiche d’interazione culturale e di relazione commerciale, non solo filtro verso l’altopiano (da ovest) ovvero la piana mesopotamica (da est), ma centro elastico, liquido, in cui diverse esperienze artistiche si manifestarono per poi essere assimilate, copiate, rielaborate e nuovamente distribuite, modificandone valore e significato secondo le proprie appartenenze culturali. Questo difforme ruolo di Susa à altresì confermato dal numeroso materiale proveniente da altri contesti regionali rappresentati dall’Oxus, il Golfo Persico e la valle del fiume Indo da cui dovettero provenire numerosi sigilli a compartimenti[72], un pendente a forma di aquila[73], una statuetta in calcare[74], dischi in alabastro e colonne miniaturistiche dall’Oxus[75]; quattro sigilli a stampo dilmuniti, due impronte di sigillo[76] e numerosi vasi omaniti[77] dal Golfo Persico; un peso cubico[78], una testa di statua in alabastro[79] e perle in corniola[80] dall’Indo.

Susa non fu solo un centro in grado di sviluppare un commercio a lunga distanza, ma anche una città in cui molteplici aspetti culturali s’integrarono e si rielaborarono ibridandosi tra loro. Un centro in cui le interferenze culturali diedero origine a un’arte difforme, originale e frutto di percorsi culturali dissimili come ampiamente attestato nelle iconografie dei vasi in steatite (alcune di esse sconosciute al centro di prima produzione come, ad esempio, l’aquila leontocefala), in sei copie locali di sigilli a stampo dilmuniti[81], in due sigilli cilindrici di matrice dilmunita[82], in un sigillo cilindrico con iconografie dell’Indo[83] e in un sigillo circolare a stampo di matrice Harappana[84].





NOTE

[1] Madjidzadeh 2003; 2008; Piran 2013; anche Vidale - Desset 2013.

[2] Steinkeller 1982.

[3] Ascalone 2006: 113-125.

[4] De Mecquenem 1934: 211-215.

[5] Carter 1974.

[6] Stéve - Gasche 1971.

[7] Le Breton 1957: pl. XXVI, 8.11.

[8] Wright 1981: 111-125.

[9] Killick - Roaf 1979: 540.

[10] Vanden Berghe 1973: 28.

[11] Carter 1974.

[12] Le Breton 1957.

[13] Carter 1974; 1976; 1978; 1979; 1980.

[14] de Mecquenem 1922: 134-137; 1924: 110-113; 1934; 1943.

[15] de Mecquenem 1934: 209-211.

[16] de Mecquenem 1934: 221.

[17] de Mecquenem 1934: 227-234; 1943. Si veda anche Malbran-Labat 1995.

[18] Ghirshman 1965; 1966a; 1966b; 1967a; 1967b; 1968a; 1970.

[19] Ghirshman 1968b: 7.

[20] Ghirshman 1968b: 4-7.

[21] Gasche 1973: tipologie 1-3, 5-6, 12, 15-16, 18, 21, 23.

[22] de Mecquenem 1934: fig. 85: 1-10; Spycket 1992: 36-83, nn. 127-429.

[23] Amiet 1972: 189-223, nn. 1, 473-730.

[24] Ascalone 2016 e 2018.

[25] Amiet 1972: 210-211 e Ascalone 2011.

[26] de Miroschedji 1973.

[27] Amiet 1972: 221-222, nn. 1, 716-719; 1974: 109; 1986: fig. 92: 1-10.

[28] Amiet 1986: 143, 148 e 177, fig. 94.

[29] Amiet 1986: 143, fig. 93; Ascalone - Peyronel 2003.

[30] Amiet 1986: 144, 148, fig. 92.

[31] Amiet 1966: fig. 112; cfr. Gouin 1969: 47, fig. 2.

[32] Amiet 1977: 98-99, figs. 7.4 e 8a-b; 1979: 154, fig. 2. Si veda anche D.T. Potts 1999.

[33] Amiet 1986.

[34] Ascalone 2006: 79-85.

[35] Porada 1964; 1965: 41, fig. 16; Amiet 1973: 26.

[36] Porada 1975: 367, fig. 283.

[37] Amiet 1973; 1974; 1986: 165-69, fig. 132; 1994; 1997. Vedi anche Porada 1982, 1988; Winkelmann 1997 e Ascalone 2008; 2011: 331-360.

[38] Pittman 2001: 232-240.

[39] Hakemi 1997a: 661.

[40] Ascalone 2007: tab. 1.

[41] Parrot 1956: 113, pl. XLVI-LI; 1967: 180-182, figs. 226-228, pl. LXXI; 1974: 42-43, figs. 11-12.

[42] Delaporte 1920: 57, tab. 45: 11-12, S.462; Porada 1962: 33, fig. 13; Amiet 1980a: n. 1363; 1986: 128, 167, 197, fig. 71; Winkelmann 1997: tab. 1h; 2000: fig. 2; Ascalone 2005b: fig. 18i; 2006: fig. 17b; 2008: fig. 8c 2011: n. 4A.15; Pittman 2002.

[43] Legrain 1921: 1.

[44] Legrain 1921: n. 279; Amiet 1994: 4, fig. 3; 1997: fig. 6; Winkelmann 1997: fig. 1g; 2000: fig. 25; Ascalone 2005b: fig. 18c.

[45] Ascalone 2005b: fig. 20; 2006: fig. 17c-d.

[46] Hakemi 1997a: 255, obj. n. 2263.

[47] Pottier 1913: pl. XLIV:1-2; Amiet 1966: fig. 134; 1986: 202, figs. 97: 1, 108.

[48] Si veda anche il cosiddetto “Stendardo di Shahdad” in Amiet 1974: 103, fig. 7; Hakemi 1972: n. 300; 1997a: 649, obj. n. 1049.

[49] Hakemi 1997a: 444, obj. n. 3322 and 353, obj. n. 2229.

[50] Amiet 1986: 169, fig. 127.

[51] Madjidzadeh 2003: 170-171.

[52] de Mecquenem 1934: 214, fig. 58.

[53] de Mecquenem 1946: 78.

[54] Tallon 1987: fig. 6a-b.

[55] Calmeyer 1969: 182, figs. 151-152; Curtis 1988.

[56] Hakemi 1972: pl. XX; 1973b: 66; 1997a: 638, Gp. 8; Amiet 1973: 27.

[57] Amiet 1976b: 21, n. 29; 1977: pl. V; M.H. Pottier 1984: nn. 53-67, 69-71; Sarianidi 1977a: figs. 64-65; 1977b: 138, fig. 2.

[58] Amiet 1986: 163-164, fig. 96: 4-5e cfr. Tosi 1970: 36, fig. 17 e Hakemi 1973b: 26; Tallon 1987: 95-96, nn. 72-77.

[59] Amiet 1973: 26; 1976a: fig. 7.

[60] Tosi 1970: 46-47, fig. 17a.

[61] Deshayes 1960: n. 1,548.

[62] Deshayes 1960: n. 1,554.

[63] Deshayes 1960: n. 3,105.

[64] Tallon 1987: 174, n. 532.

[65] Madjidzadeh 2003: 158.

[66] Casal 1961: 249, fig. 139: 9.

[67] Deshayes 1960: n. 1.847.

[68] Amiet 1966: fig. 152: a-b; 1986: 125-126, fig. 96: 7-9.

[69] Madjidzadeh 2003: 144, 146.

[70] de Mecquenem 1934: 189, fig. 21; Le Breton 1957: 117-118, figs. 39-40; Amiet 1966: figs. 151-153.

[71] Potts 2002: 345-351; si veda veda anche Steinkeller 2013; 2014; 2016.

[72] Amiet 1974: 97; Tallon 1987: nn. 1, 249-250.

[73] de Mecquenem 1934: 210, fig. 53: 3; 1946: 85; Amiet 1966: 260, fig. 189; 1986: 147, 201, figs. 97, 106 e cfr. 199.

[74] Amiet 1966: 156, fig. 112; 1986: 148, fig. 98; Spycket 1981: 124, pl. 87.

[75] Amiet 1986: 147-148, figs. 97: 4, 101-102.

[76] Amiet 1972: nn. 240, 1, 716-818; 1974: fig. 16.

[77] Amiet 1986: 146-147, 149, 176, fig. 89.

[78] Amiet 1986: 143, fig. 93; Ascalone - Peyronel 1999: 366; 2003: 358-359.

[79] Amiet 1986: 144, 148, fig. 95.

[80] de Mecquenem 1943: fig. 84: 7; Amiet 1986: 144, 147-149, figs. 92, 100.

[81] Amiet 1972: nn. 1720, 1722-1726.

[82] Per il primo sigillo (Sb 1383) si veda Rutten 1950: 175, pl. 5, n. 39; Amiet 1972: n. 2,021; 1986: tab. 90, fig. 6; Collon 1996: fig. 31b; Peyronel 2000: 204-206, 229, n. 6.1, fig. 6.3. Il secondo (NMI 653) è in Amiet 1972: n. 1,975; Amiet 1986: tab. 90, fig. 7; Amiet 1986c: 266, fig. 91; Collon 1996: fig. 31C; Peyronel 2000: 204-206, 229-30, n. 6.2.

[83] Scheil 1900: 129.

[84] Scheil 1916: 22.




BIBLIOGRAFIA

 

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