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“Frontiere” danubiane: per un'archeologia della destrutturazione fluida  

Ettore Janulardo
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 12 Maggio 2015, n. 772
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Area Architettura
Il fiume ha molti nomi. Presso vari popoli, Danubio e Istro
indicavano rispettivamente il corso superiore e quello inferiore
ma talora anche quello intero: Plinio, Strabone e Tolomeo
si chiedevano dove finisse l’uno e iniziasse l’altro, forse in Illiria o alle Porte di Ferro.
Il fiume «bisnominis», come lo chiamava Ovidio, trascina la civiltà tedesca,
col suo sogno dell’odissea dello spirito che torna a casa, verso oriente e la mescola ad altre civiltà, in tante meticce metamorfosi nelle quali la sua storia trova il suo compimento e la sua caduta.

Magris, Danubio


«Vi do qui notizie del vastissimo e gloriosissimo paese di Maghrebinia. Inutilmente lo cercherete sulla carta. Non è segnato in alcun atlante, né si rintraccia su alcun mappamondo. Alcuni sostengono che si trovi a sud-est, o persino che con esso s’intende il sud-est per antonomasia. Ma cos’è poi il sud-est, per piacere? Per dirla nella lingua corrotta dell’ovest: un concetto estremamente relativo nel sistema copernicano».1

È l’incipit con il quale von Rezzori destruttura le frontiere di un immaginario e metaforico territorio sud-orientale, tendenzialmente – e tendenziosamente – austro-ungarico, nel libro di aneddoti e storie sulla Maghrebinia pubblicato nel 1953.

Silloge d’immagini e di scene dall’Oriente europeo e dall’Austria fin-de-siècle, omaggio alla tradizione di una continuità e molteplicità culturale sentita già lontana, geografia della percezione e della rappresentazione – il volume è illustrato da disegni dello scrittore –, la fantasmagoria di Rezzori accompagna il tempo della storia e il corso del fiume, come se riprendesse – a somiglianza del Maradagál di Gadda – uno spazio della scrittura che allude, senza aderirvi necessariamente, alla complessa frammentaria varietà delle terre danubiane: del passato e del secolo scorso. Tabucchi parla in proposito, anziché dell’«autonomia del personaggio» attribuita alla finzione narrativa, dell’«autonomia del luogo», in relazione all’uso di una metafora che, coincidendo con il reale, «crea un doppio identico a se stesso»:2 definendo alla potenza siti ove la memoria non è perduta ma perdura.

Sono pagine che si pongono come limes, limaccioso o mobile, in cui lo sguardo divergente dell’autore trasforma il paesaggio storico-culturale in frammentismo per una narrazione mimeticamente barocca, secondo la tipologia centro-europea. Scrive von Rezzori: «Lo scampanìo echeggiante dei campanili a cipolla delle chiese (veramente non sono campanili a cipolla, bensì ad aglio […] ), lo scampanìo polifonico dunque, echeggiante dai campanili ad aglio delle chiese nelle province settentrionali ed occidentali, s’imbatte nei richiami prolungati dei muezzin3 provenienti dai puntuti minareti delle numerose moschee delle province meridionali ed orientali […]».

In un processo di accumulo e giustapposizione cromatico-linguistica, la percezione dello scrittore-disegnatore trasforma la visione frontale, o da lontano, secondo assi di rifrazione che potrebbero connettere sottosuolo e colline, reperti archeologici e alzati delle costruzioni, musicalità della parola e campiture della pittura. E i campanili «ad aglio» possono ricordare raffigurazioni pittoriche di Egon Schiele, come la Chiesa di Stein sul Danubio, del 1913: qui, lo spazio di superficie, contratto e teso tra il piano orizzontale e quello verticale, si struttura intorno alla massa liquida centrale che campeggia come elemento costruttivo di una percezione bidimensionale. Verrebbe da ritornare, per il piccolo agglomerato di Stein, alle parole di Rezzori che, dopo aver ricordato «Vastissima è la Maghrebinia», aggiunge: «È un paese in cui si parlano cento lingue e soltanto un linguaggio: quello carico di discernimento di cuori saggi, saturi d’aglio».4 Altre due raffigurazioni di Schiele riprendono, nel 1913, le medesime caratteristiche cromatiche, rendendo il campanile elemento strutturante la composizione e diluendo l’elemento fluviale nella sofferta volumetria del paesaggio. Differente è invece la visione di Stein sul Danubio vista da sud, ove, accanto all’alto campanile della chiesa, ne compare un altro – effettivamente ad aglio, secondo la definizione di Rezzori –, che costituisce il centro dell’immagine con una tonalità di rosso complementare alle orizzontali stesure di verde. E, nelle Storie di Maghrebinia, lo scrittore della Bucovina presenta, tra piccole notazioni grottesche, un’osservazione paradossale sulla manutenzione delle strade come possibile alternativa alla loro costruzione: sorta, anche, d’indiretta demistificazione della ricerca archeologica: «La cultura del paese è antica. Qualche anno fa, per esempio, fu deciso di lastricare la più importante arteria di traffico della capitale Metropolsk […]. Squadre di operai rimossero la melma. Così risultò che quella strada era già stata lastricata in precedenza».5

Immagini verbali che, nel loro giustapporsi in modo apparentemente destrutturato, fanno pensare – come Tragedia civile, ovvero il muro ricoperto d’oro in fogli esposto per la prima volta nel 1975 da Jannis Kounellis con voluti riferimenti al mondo asburgico-viennese – agli elementi “musivi” delle raffigurazioni klimtiane: tessere, lamine, «fessure incise come lame nelle quinte del teatro quotidiano»,6 osserva Magris ne L’infinito viaggiare. Viaggi non solo nello spazio – «pure i viaggiatori danubiani amano il mare e forse, come quelli del mio Danubio, attraversano le grandi pianure della Mitteleuropa sotto cieli pesanti soprattutto per raggiungere il mare»,7 ricorda lo scrittore triestino –, ma attraverso il tempo, le memorie, le mobili frontiere di lente trasformazioni.

E lo snodarsi del fiume fra terre e città definisce contrapposizioni ed incontri, come quello – nel nome della fusione urbana – tra Buda e Pest, rese stabilmente comunicanti dal Ponte delle Catene, inaugurato nel 1849.8 La progressiva definizione di un nuovo assetto urbanistico – con la capitale magiara che ingloba nel suo tessuto metropolitano il Danubio – elabora in chiave ottocentesca il tema antico dell’incrocio frontaliero e del limes, ripreso anche, con una diversa caratterizzazione fluida, da Orhan Pamuk, ove la dimensione acquatica può non solo corrispondere alla modulazione delle rive asiatica ed europea, ma anche a un salto all’indietro nel tempo:

«Vidi delle scale di legno dalla parte del Corno d’Oro e scesi giù. Qui scorsi un piccolo battello delle Linee marittime della città che stava per partire. Il capitano, il macchinista e l’ormeggiatore erano tutti raggruppati dove era ancorato il battello, e sembravano accogliere i pochi viaggiatori come l’equipaggio di una nave passeggeri, bevendo il tè e chiacchierando tra loro. Salii sul battello [...] facendomi catturare da questa atmosfera, e mi parve di conoscere da molto tempo i passeggeri stanchi con i loro cappotti, berretti, sciarpe e borse per la spesa [...]. Quando l’imbarcazione partì silenziosamente, questo sentimento di comunità, la sensazione di appartenere al cuore di Istanbul mi strinse in un abbraccio così forte che fui colto da un’altra idea folgorante: mentre sopra si viveva un pomeriggio di marzo del 1972, [...] noi giù eravamo in un’epoca molto più vecchia, più larga e pesante. Scendendo dalle scale che avevo visto per caso, fino allo scalo del Corno d’Oro, mi sembrò di essere tornato indietro di trent’anni, nei giorni in cui la città era più isolata, più povera e triste».9

Sul versante delle cesure, di terra, d’acqua o dell’immaginario, ecco allora Magris sottolineare che «Non c’è viaggio senza che si attraversino frontiere – politiche, linguistiche, sociali, culturali, psicologiche, anche quelle invisibili che separano un quartiere da un altro nella stessa città, quelle tra le persone […]» e aggiungere un’osservazione essenziale, presente anche in Pamuk: «Viaggiare non vuol dire soltanto andare dall’altra parte della frontiera, ma anche scoprire di essere sempre pure dall’altra parte».10

La mostra dell’estate 2013 alla GNAM di Roma, «Il Tempo della modernità. Pittura ungherese 1905-1925»,11 ha sottolineato aspetti molteplici della sensibilità artistica del primo Novecento magiaro, sospeso fra tradizione e innovazione: come quando si evidenzia in Ungheria una certa attenzione per il Futurismo italiano, fino ad ospitare nella capitale, nel 1913, capolavori del movimento (La risata, 1911, di Umberto Boccioni; La rivolta, 1911, di Luigi Russolo; I funerali dell’anarchico Galli, 1910-1911, di Carlo Carrà).

Aperture verso il nuovo portano in Francia József Rippl-Rónai (1861-1927), dal 1889 a Pont-Aven in contatto col gruppo dei Nabis. Alternando soggiorni all’estero e in patria – ove gli viene dedicata una grande esposizione a Budapest –, momenti di vivacità ed altri di ripiegamento, diviene egli stesso l’emblema di un Paese che entra nel XX secolo senza rinnegare le proprie caratteristiche: in un sentire condiviso che si propone, anche attraverso le composizioni e le ricerche di Béla Bartók – ammiratore degli Impressionisti durante il suo primo soggiorno parigino nel 1905 –, di riprendere l’emblematico fluire del fiume, come nel suo Corso del Danubio (A Duna folyása) per violino e pianoforte.

E, prima di una sorta di rappel à l’ordre presente negli anni Venti in Ungheria come in Italia, ricerche pittoriche svolte a Nagybánya, area di grandi risorse minerarie, si focalizzano in chiave locale sul confronto con il paesaggio, rappresentato con ricchezza coloristica: drammaticamente rovesciata, questa visione della natura, il 30 gennaio del 2000 dal riversarsi di tonnellate di cianuro da una miniera d’oro nel fiume Someş e, da quest’ultimo, nel Danubio. A proposito di quest’area, racconta Tabucchi di un suo peregrinare tra chiese dagli alti campanili sottili, segnate da periodi e tecniche differenti, ma accomunate dalla funzione costruttivo-strutturale dell’architettura in legno:

«Nel distretto di Maramureş, la zona carpatica della Romania del Nord-ovest, sorgono le antiche chiese dichiarate patrimonio universale dall’Unesco. Più austere dei monasteri della Bucovina […], caratterizzate da straordinari affreschi nelle pareti esterne, sono costruite in legno, con campanili aguzzi e tetti a pagoda […] Nella remota regione di Maramureş, di stretto rito ortodosso, […], si trova il monastero di legno di fondazione più antica (1393) di tutta la Romania […]».12

Se, come scrive Calvino ne Le città invisibili, «I fiumi in piena hanno trascinato foreste di travi destinate a sostenere tetti […]» e si «contempla un impero ricoperto di città che pesano sulla terra e sugli uomini, stipato di ricchezze e d’ingorghi, stracarico d’ornamenti e d’incombenze, complicato di meccanismi e di gerarchie, gonfio, teso, greve»,13 possiamo ancora seguire il corso del Danubio tra queste terre in un gioco di riflessi, ove fluire e proseguire verso il sud-est può anche significare guardare a nord-ovest.

Nel primo volume della sua trilogia autobiografica, La lingua salvata, Elias Canetti (1905-1944) ripercorre l’ambiente della città natale – l’odierna Ruse sulla sponda bulgara del Danubio – descrivendo un piccolo universo solcato da incroci e torsioni. Al di là delle molteplici caratterizzazioni biografiche dell’autore, è il topos – in senso geografico – ad assumere rilevanza nell’ottica delle terre e delle province attraversate dal grande fiume: di fronte alla località rumena di Giurgiu, e a duecento kilometri dal Mar Nero, il luogo d’infanzia e di prima formazione di Canetti diviene immagine di fondo di tempi lontani, ove la modernità e le trasformazioni possono intuirsi, ma sono comunque altrove, oltre questo babelico microcosmo con caratterizzazioni fantastiche:

«Rustschuk, sul basso Danubio, dove sono venuto al mondo, era per un bambino una città meravigliosa, e quando dico che si trova in Bulgaria ne do un’immagine insufficiente, perché nella stessa Rustschuk vivevano persone di origine diversissima, in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue».14

Spinte verso la modernità liberale o retaggi generazionali condensati dal Talmud divengono per il giovane Canetti anche tensioni che risalgono, alla lettera, il corso fluviale: e dall’atmosfera ferma, talvolta letteralmente congelata del sito d’infanzia – «In qualche raro inverno il Danubio gelava e a questo proposito si narravano storie straordinarie. In gioventù la mamma era andata più volte con la slitta fino in Romania»,15 – si guarda alla lontana, luminosa modernità di Vienna, da raggiungere in quattro giorni di navigazione fluviale:

«Tutto ciò che ho provato e vissuto in seguito era sempre già accaduto a Rustschuk. Laggiù il resto del mondo si chiamava Europa e, quando qualcuno risaliva il Danubio fino a Vienna, si diceva che andava in Europa. L’Europa cominciava là dove un tempo finiva l’impero ottomano».16

Limes liquido, separatore ed unificatore, traccia naturale fra terre drammaticamente aderenti alla propria storia, se si giunge alla foce del fiume - al Mar Nero e ad altre fluide transizioni -, possiamo osservare che le raggelate «storie straordinarie» dell’infanzia di Canetti trovano un’eco perfettamente rispondente nelle pagine memoriali di Orhan Pamuk, che scrive:

«Un’altra delle meraviglie meteorologiche di questo tipo, che io ricordo dalla mia infanzia e che unì la comunità, fu l’arrivo di blocchi di ghiaccio dal Danubio al Mar Nero, blocchi che scendendo da nord erano entrati nel Bosforo. C’era gente che raccontava ancora, a distanza di anni, questo fenomeno, che aveva spaventato e meravigliato l’intera Istanbul […] e allo stesso tempo, essendo un ricordo indimenticabile, l’aveva rallegrata».17






NOTE

1Gregor von Rezzori, Storie di Maghrebinia, 1953, ediz. ital. Pordenone, Studio Tesi, 1990, p. 7.
2Cfr. Antonio Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, Milano, Feltrinelli, 2010, pp. 220-221.
3Gregor von Rezzori, op. cit., p. 7.
4Ivi, p. 9.
5Ibidem.
6Claudio Magris, L’infinito viaggiare, Milano, Mondadori, 2005, p. 5 versione digitale.
7Ivi, p. 7.
8Costruito da William Tierney Clark (1783-1952) sul modello del Marlow Bridge di Londra (1832).
9Orhan Pamuk, Istanbul, 2003, ediz. ital. Torino, Einaudi, 2006, p. 140 versione digitale.
10Claudio Magris, op. cit., p. 4.
11Mostra a cura di Mariann Gergely e di György Szücs, curatore anche del catalogo; Commissario interno della mostra romana Martina De Luca, della Galleria Nazionale di Arte Moderna: cfr. http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Eventi/visualizza_asset.html_1487810113.html
12Antonio Tabucchi, op. cit., p. 63.
13Italo Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972, p. 33.
14Elias Canetti, La lingua salvata, 1977, ediz. ital. Milano, Adelphi, 1980, p. 2 versione digitale.
15Ivi, p. 5.
16Ivi, p. 3.
17Orhan Pamuk, op. cit., p. 18.






BIBLIOGRAFIA

CALVINO 1972
Italo Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972.

CANETTI 1977
Elias Canetti, La lingua salvata, 1977, ediz. ital. Milano, Adelphi, 1980.

MAGRIS 2005
Claudio Magris, L’infinito viaggiare, Milano, Mondadori, 2005.

PAMUK 2003
Orhan Pamuk, Istanbul, 2003, ediz. ital. Torino, Einaudi, 2006.

TABUCCHI 2010
Antonio Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, Milano, Feltrinelli, 2010.

VON REZZORI 1953
Gregor von Rezzori, Storie di Maghrebinia, 1953, ediz. ital. Pordenone, Studio Tesi, 1990.









Vedi anche nel BTA: USCITE DI ARCHITETTURA LIQUIDA









Fig. 1
EGON SCHIELE, Chiesa di Stein sul Danubio, 1913,
olio su tavola,
collezione privata

Fig. 2
EGON SCHIELE, Stein sul Danubio vista da Kreuzberg, 1913,
olio su tela, 90.4 x 90.4 cm.,
Vienna, Leopold Museum

Fig. 3
EGON SCHIELE, Stein sul Danubio vista da sud, 1913,
89.8 x 89.6 cm.,
collezione privata

Fig. 4
JANNIS KOUNELLIS, Senza titolo (Tragedia civile), 1975,
oro in fogli, attaccapanni, cappello, cappotto, lampada a petrolio,
Napoli, Galleria Lucio Amelio (prima presentazione)

Fig. 5
JÓZSEF RIPPL-RÓNAI, Alberi di visciole in fiore, 1909,
olio su cartone, 68 x 90 cm.,
Kaposvár, Rippl-Rónai Museum





Foto cortesia di Ettore Janulardo

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