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Sui costumi di scena di Coppelia nel Teatro alla Scala (1937)  

Simone Cassano
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 1 Ottobre 2014, n. 731
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Sono sempre stato molto attratto dalla performance, momento effimero e irripetibile, a tal punto da intraprendere un percorso di studi dedicato alle Arti e alle Scienze dello Spettacolo presso l’Università degli Studi di Roma “Sapienza”. E sono sempre stato molto attratto anche dall’abito, e in particolare dall’idea che esso possa dirci molto su chi lo indossa, dall’idea che esso non sia solo apparenza, ma anche e forse soprattutto essenza, sostanza, tanto da avvicinarmi al mondo della sartoria civile. Interessi, quelli per il teatro e per l’abito, che vanno armoniosamente a collidere in quello per il costume di scena, e che mi hanno spinto a frequentare il Corso di formazione per sarte/i dello spettacolo dell’ “Accademia del Teatro alla Scala” di Milano.

È soprattutto quest’ultima esperienza che ha sancito l’amore che provo per l’abito teatrale, permettendomi di vedere, di toccare con mano tutto il mondo che vi sta dietro, dalla fase di preparazione e confezione a quella di manutenzione e conservazione. Momento, quest’ultimo, approfondito durante un periodo di tirocinio formativo all’interno del Magazzino costumi del Teatro alla Scala, presso i Laboratori-atelier Ansaldo. Potete immaginare il mio stupore nel trovarmi di fronte a una quantità tale di armadi, tutti pieni di costumi per opera e balletto, ideati, creati e poi indossati da artisti di cui avevo tanto sentito parlare durante i miei studi. Non vedevo l’ora di aprire quegli armadi per interrogarli uno a uno. Sì, perché come mi ha insegnato Rita Citterio, Responsabile del Magazzino, nonché mia tutor durante quest’esperienza, i costumi conservati negli armadi hanno tanto da dire, basta saperli capire, parlare la loro stessa lingua. Testimonianza preziosa, quei costumi erano allora la porta di accesso a un mondo ormai scomparso, al mondo evanescente della performance, e Rita la persona che mi avrebbe potuto aiutare ad aprire quella porta …
E il progetto della mia Tesi di Laurea triennale, sviluppato sotto la supervisione della prof. Paola Quarenghi, nasce proprio durante questo periodo trascorso all’interno del Magazzino costumi del Teatro alla Scala di Milano, tra ottobre e novembre dell’anno appena trascorso.
Qui ho avuto modo di studiare da vicino tutto il patrimonio costumistico di cui dispone uno dei teatri più famosi al mondo: circa 60.000 costumi, custoditi in 1400 armadi e appartenenti in media a 280 allestimenti, dal 1911 a oggi, che il personale del Magazzino si occupa ogni giorno di conservare e catalogare.
Ed è stata proprio Rita Citterio a parlarmi di qualche decina di costumi da lei rinvenuta per caso, costumi mai catalogati, non identificati, come non identificata era la messa in scena per cui erano stati creati.
È così che è nata l’idea di cercare di raccogliere quante più informazioni possibili riguardo lo spettacolo per cui questi costumi erano stati confezionati, di tentare di riscostruire una messa in scena di cui poco o niente rimaneva, intervistando i costumi, in particolare attraverso un’operazione di catalogazione, svolta con l’aiuto di una documentazione che di questi costumi parlava.
Con tale scritto si è inteso in effetti dimostrare il prezioso contributo che porterebbe agli studi sulla performance l’analisi del costume per lo spettacolo, purtroppo ancora eccessivamente trascurato.
E nel primo capitolo, abbiamo voluto proprio affermare il valore comunicativo dell’abbigliamento, come dimostrato da diversi studi di psicologia della comunicazione (Sisson1 e Goffman2), mettendo poi in evidenza la scarsa considerazione di cui gode negli studi sulla performance il costume di scena, abito appositamente pensato per la trasmissione di informazioni allo spettatore, chiedendoci quanto possa essere raccontato da ciò che rimane di uno spettacolo, ossia da tutti quei materiali che assumono una vita autonoma dopo la fine di quest’ultimo. E, più precisamente, se il costume sia in grado di divenire testimonianza efficace di una messa in scena e, quindi, strumento utile al servizio degli studi sulla performance.
Prima di addentrarci nel vivo della ricerca sui costumi sconosciuti, si è fornito nel secondo capitolo una breve descrizione di quelle che sono le pratiche conservative di base valide per tutti i tipi di capi d’abbigliamento, e quindi anche per i costumi di scena, ricordando quelli che sono i principali fattori che possono danneggiare più o meno gravemente questo tipo di manufatti (luce, umidità, temperatura, parassiti e inquinamento atmosferico), per poi dare alcune informazioni generali circa il sistema di catalogazione attualmente in vigore per gli abiti antichi e moderni: abbiamo parlato quindi della scheda VeAC, sistema di catalogazione specifico per abiti e vestimenti antichi e moderni, recentemente introdotto nel sistema museale italiano, mettendone però in evidenza l’inadeguatezza ai fini della nostra analisi e presentando una scheda creata ex novo e poi utilizzata per la catalogazione dei costumi rinvenuti.
Se è vero infatti che la scheda VeAC ha permesso all’abito storico di entrare, finalmente, a far parte del patrimonio artistico e culturale del nostro Paese e di essere conservato come tale, abbiamo evidenziato come essa possa però funzionare solo nel caso specifico di un abito storico, creato tra il XVIII secolo e i giorni nostri, che verrà inserito nell’archivio ministeriale: catalogare con tale scheda un costume di scena significherebbe perdere informazioni importanti, in particolare quelle che lo legano a doppio filo con lo spettacolo per cui è stato ideato e confezionato.

A oggi quindi, non esiste ancora una vera e propria scheda per la catalogazione del costume di scena, né tantomeno ne esiste una per la catalogazione del costume di scena storico (ossia un costume di scena che, come nel nostro caso, abbia superato i 50 anni di vita, e che pertanto non sarà più utilizzato in scena), che sia riconosciuta dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e utilizzata dagli enti statali o privati, i quali ricorrono a schede create appunto ex novo per la catalogazione del loro patrimonio.

Nell’attesa che sia creata un’adeguata scheda di catalogazione del costume di scena, si è creduto allora fosse necessario ai fini della ricerca ideare una nostra scheda di catalogazione, un modello descrittivo che raccogliesse in modo molto semplice e organizzato le informazioni sul bene preso in esame e che presentiamo nelle pagine seguenti.





Parte 1: informazioni costume completo (tutto quello che ne rimane)



TIPO DI SPETTACOLO

Opera/Balletto

TITOLO

Titolo dello spettacolo

COMPOSITORE

Nome e Cognome del Compositore

ANNO/STAGIONE

Anno/Stagione dello Spettacolo

REGIA/COREOGRAFIA

Nome e Cognome del Regista/Coreografo

COSTUMI

Nome e Cognome del Costumista

SCENE

Nome e Cognome dello Scenografo

COMPONENTI A DISPOSIZIONE

Numero delle componenti



Foto costume completo davanti (tutto quello che ne rimane)

Foto costume completo dietro

(se necessario, ossia se ci sono ragioni per mostrare il retro del costume o di ciò che ne rimane)

Foto indicazioni di riconoscimento (Etichetta, Timbro, Numero, ecc.)

1 Foto Componente

(se le componenti disponibili sono più di una, si procederà nel medesimo modo)

PERSONAGGIO

Nome del personaggio

INTERPRETE

Nome e Cognome dell’interprete

ATTO/SCENA

Atto/Scena in cui compare il costume

REALIZZAZIONE

Nome della Sartoria che ha confezionato il costume

DESCRIZIONE COSTUME

Descrizione completa del costume o di ciò che ne rimane

GENERE

Genere Maschile o Femminile del costume

FONTI/DOCUMENTI DI RIFERIMENTO

Qualsiasi documentazione di riferimento riguardante il costume utile alla sua identificazione

STATO DI CONSERVAZIONE

Ottimo, Buono, Discreto, Pessimo

UBICAZIONE

Da definire

NOTE

Ulteriori informazioni utili sul costume





Parte 2: ulteriori informazioni sulle singole componenti del costume o altro



1 Foto Componente o Altro

(se le componenti interessate sono più di una, si procederà nel medesimo modo)

Foto indicazioni di riconoscimento (Etichetta, Timbro, Numero, ecc.) o Altro

Ulteriori informazioni utili sul singolo componente del costume o Altro




COMPILATORE

Nome e Cognome di chi ha compilato la scheda

DATA DELLA COMPILAZIONE

Giorno/Mese/Anno della compilazione


Come si vede, la scheda progettata risulta divisa in due parti: mentre la prima raccoglie informazioni riguardo il costume completo di ogni sua parte, la seconda raccoglie le eventuali ulteriori informazioni circa le singole componenti del costume e qualsiasi altra informazione utile. Si è scelto di operare questa divisione nel caso, in realtà molto più frequente di quanto ci si aspetti, che le informazioni relative alle singole parti del costume differiscano da quelle generali del costume completo e fosse necessaria la registrazione di ulteriori informazioni utili (si pensi per esempio a un costume con cappello: quest’ultimo presenterà quasi sicuramente un’etichetta diversa e quindi un differente confezionatore rispetto alle altri componenti del costume).
La prima parte della scheda risulta composta di quattro tabelle, due orizzontali da compilare in forma scritta e due, tra queste interposte, verticali, da riempire con documenti di tipo fotografico .
La prima tabella orizzontale va a raccogliere quelle che sono le generalità della messa in scena per cui è stato confezionato il costume che viene catalogato.
Le successive tabelle verticali raccolgono invece documenti fotografici riguardanti il costume. In particolare si inseriranno in quella di destra fotografie del costume completo davanti e dietro, e sotto di esse la foto di segni di riconoscimento interni al costume, come etichette, timbri, numeri; in quella di destra invece, dopo aver specificato il numero delle parti di cui si compone il costume, saranno inserite le fotografie delle singole componenti del costume.
L’ultima tabella della prima parte della scheda di catalogazione è dedicata alla raccolta di generalità riguardanti il costume.
Nella seconda parte si vanno invece a raccogliere eventuali ulteriori informazioni di qualsiasi sorta riguardo le singole componenti del costume o altre indicazioni generali.
Dopo aver presentato lo strumento con cui si è svolta la catalogazione dei costumi, abbiamo raccontato nei successivi capitoli come l’intervista ai costumi di scena si sia effettivamente sviluppata.
Tutto ha preso avvio controllando le etichette cucite al loro interno, le etichette originali. Diciamo originali perché ogni qual volta i costumi di uno spettacolo sono riutilizzati per nuove produzioni teatrali o per successive stagioni della stessa produzione, viene applicata su di essi una nuova etichetta. Un’etichetta per ogni stagione teatrale insomma. Nel caso di etichette successive, queste ultime vengono di solito sovrapposte a quelle originali, che non vengono quasi mai rimosse, in modo da poter sempre risalire alla primissima messa in scena, quella per cui quei costumi sono stati pensati e confezionati.

Le etichette originali sui costumi trovati da Rita ci hanno dato importanti informazioni e permesso di procedere nella ricerca: riportavano infatti il nome della sartoria che li aveva confezionati, un numero, il nome dello spettacolo, quello del personaggio, il quadro dello spettacolo in cui veniva indossato e, talvolta, anche il cognome dell’artista, almeno di quelli principali, come i solisti.
Quelle rimaste cucite sui costumi e ancora leggibili ci hanno rivelato che erano stati confezionati dalla “Casa d’arte Caramba” di Milano per il balletto Coppelia. E in effetti, consultando la cronologia degli spettacoli del Teatro alla Scala stilata dal Tintori3, una messa in scena del balletto Coppelia con costumi di Caramba c’è stata, e precisamente durante la stagione teatrale del 1936/37. Il numero, come suggerito da Rita, faceva invece riferimento a un elenco, un elenco di costumi posseduti dalla Scala e presenti nel Magazzino negli anni di quella messa in scena.

L’elenco in questione, organizzato per spettacolo, riportava il numero degli esemplari per ogni costume, il nome del personaggio/i che indossavano quel costume, il numero di riferimento appunto, una descrizione dettagliata del costume/i e, infine, ulteriori osservazioni utili riguardo il costume/i.
Attraverso le etichette originali cucite al loro interno è stato quindi possibile risalire alla messa in scena per la quale erano stati confezionati: si trattava della rappresentazione del balletto Coppelia, durante la stagione teatrale del 1936/37, come confermato dalla cronologia degli spettacoli scaligeri redatta dal Tintori. La consultazione di quest’ultima, insieme a quella della locandina dello spettacolo recuperata dall’Archivio del Museo teatrale alla Scala, ha reso poi possibile ricavare ulteriori informazioni circa la messa in scena in questione: il balletto seguiva la rappresentazione dell’opera L’amico Fritz, secondo l’abitudine di abbinare a un’opera un balletto; il ruolo di Swanilda (Coppelia), la protagonista del balletto, era interpretato da Nives Poli, coreografia e regia erano di Margherita Wallmann, le scenografie di Roberto Kautsky e dipinte da Nicola Benois, i costumi infine confezionati dalla Casa d’Arte Caramba, su bozzetti di Caramba, appunto, per la Ciarda, e Titina Rota per tutti gli altri.

L’elenco dei costumi si è invece rivelato utile per quanto riguarda quei costumi non identificati, ossia privi di etichetta originale. Consultando infatti le descrizioni riportate sull’elenco, è stato infatti possibile capire quali tra questi costumi facessero o meno parte del balletto.
Utili in tal senso anche i bozzetti originali dei costumi e alcune cartoline fotografiche d’epoca che ritraevano i protagonisti del balletto in costume.
Dopo la fase di catalogazione, svolta con la scheda presentata nelle pagine precedenti, attraverso cui è stato possibile riconoscere e analizzare ogni singolo costume rinvenuto, abbiamo potuto procedere con l’effettivo tentativo di ricostruzione della messa in scena in questione.
Tale tentativo si è svolto negli ultimi capitoli dello scritto, a partire dal confronto tra la versione originale del balletto, quella del 1870 e, appunto, la versione della Wallmann, di cui sono state rinvenute anche le foto delle scenografie dei tre quadri nel numero di gennaio-febbraio del 1937 della rivista bimestrale d’arte “Rassegna dell’Istruzione Artistica” .
Dopo aver riportato informazioni generali circa la versione ottocentesca e indicazioni sulle versioni scaligere successive, si sono innanzitutto messe in evidenza le principali differenze relative alla trama del balletto (con l’aiuto del libretto di sala originale dello spettacolo scaligero), allargando poi il discorso alla scansione delle danze in esso contenute (servendoci di nuovo delle indicazioni forniteci dal registro dei costumi del magazzino, già impiegato nella fase di catalogazione).


Per quanto riguarda la trama delle due versioni, si sono segnalate due differenze. Se nella versione originale, nel primo atto Swanilda porge a Frantz una spiga, simbolo di buon auspicio per le nozze, ma non ne sente il tintinnio, segno d’amore secondo la superstizione, nella versione della Wallmann Swanilda, per provare l’amore di Frantz, si pone invece a sfogliare una margherita (come Giselle), sempre con responso negativo. E ancora: se nell’epilogo della versione ottocentesca, insieme alle nozze di Swanilda e Frantz, si festeggia anche la nuova campana del villaggio, con un’ultima, breve apparizione di Coppelius, nella versione più recente non viene inaugurata nessuna campana e si festeggiano le nozze di ben cinque coppie di sposi (non solo quelle di Swnilda e Frantz), e Coppelius non solo compare, ma fa di più: pentitosi di aver cercato di far del male a Frantz, offre in dono ai due sposini un suo giocattolo meccanico.
Il libretto di sala della versione scaligera ci ha parlato quindi di una margherita, non di una spiga, e ci anche detto che la vicenda si conclude con i festeggiamenti per le nozze di cinque coppie di fidanzati, non con l’inaugurazione di una campana. Si tratta di constatazioni che ci hanno portato a ipotizzare soluzioni circa la struttura del balletto del 1937. Osservando la scansione delle danze originaria, abbiamo infatti supposto che lo spettacolo della Wallmann non comprendesse la Ballata della spiga al primo quadro, né tantomeno la Marcia della campana a conclusione del secondo. In linea con le versioni più recenti e rinnovate del balletto degli anni ’60 e ’70 alla Scala (Danilova e Martinez), che tagliano o sostituiscono le scene pantomimiche del primo atto, anche quella del 1937 omette, o meglio, sostituisce la scena della Ballata della spiga, nel nostro caso con quella della margherita, anticipando scelte coreografiche di molto successive.
Anche il registro dei costumi, già rivelatosi molto utile nella compilazione delle schede di catalogazione, ci ha fornito in questo senso preziose informazioni. Come già detto, nel registro erano elencati i costumi che dovevano comparire nello spettacolo scaligero.
Consultandolo durante la fase di catalogazione, ci siamo infatti resi conto di un importantissimo aspetto: i costumi erano elencati, e quindi numerati, in base al rispettivo quadro di appartenenza, tesi confermata dalle indicazioni riportate sulle etichette originali dei costumi catalogati. Venivano quindi prima riportati quei costumi che comparivano nel primo quadro (dal N.1 al N.133: gruppi di costumi per le danze collettive e costumi di singoli abitanti del villaggio), poi quelli del secondo quadro (dal N.134 al N.160: costumi per gli automi del laboratorio di Coppelius), e infine quelli del terzo (dal N.161 al N.233: costumi per la celebrazione del matrimonio finale). Si tratta di un aspetto che ci ha consentito di scoprire quali fossero i personaggi presenti nel balletto del 1937 e la loro collocazione nei rispettivi quadri all’interno dello spettacolo.
Il registro dei costumi ci ha poi detto di più, molto di più. La scansione originale del balletto del 1870 prevede un ultimo atto in cui la festa della campana si svolge in tutto con sette divertissements: il Valzer dello Ore, l’Aurora, la Preghiera, il Lavoro, l’Imeneo e ancora la Discordia, la Guerra e infine la Pace. Il tutto sfocia in una Danza di festa, che si conclude, come vuole la tradizione, col Galop finale. Ma il registro riportava soltanto i 24 costumi per il Valzer: quelli per le figure allegoriche non comparivano. Si è pertanto supposto che il terzo quadro del balletto della Wallmann fosse una versione ridotta del terzo atto originale, ipotesi confermata dal libretto di sala dello spettacolo, che non ci ha affatto parlato delle allegorie in questione, ma solo della festa danzante per il matrimonio dei due giovani. D’altronde, come già detto, molte delle coreografie successive a quella ottocentesca optano per l’eliminazione completa del terzo atto: non ci ha stupito quindi che la Wallmann, scegliendo di scandire il balletto in tre quadri, come l’originale, abbia però preferito farne una versione ridimensionata (non va dimenticato che il balletto, come da consuetudine al tempo, seguiva la rappresentazione di un’opera, in questo caso specifico L’Amico Fritz: la scelta di tagliare il terzo atto e quindi i tempi dello spettacolo potrebbe quindi essere stata motivata dalla necessità di non appesantire troppo la visione da parte del pubblico scaligero).
Dopo aver ricavato informazioni su quella che doveva essere la struttura della messa in scena, siamo passati a prendere in considerazione l’aspetto visivo dello spettacolo.
Le foto che riportiamo nella pagina seguente ci hanno detto circa le soluzioni scenografiche adottate nel balletto : esse ci hanno suggerito una possibile influenza subita da parte delle Avanguardie del Novecento, e in particolare dall’Espressionismo tedesco e dal Costruttivismo russo.


Fig. 2
Fig.1 - I quadro: la piazza del villaggio


Fig. 2
Fig.2 - II quadro: il laboratorio del dottor Coppelius


Fig. 2
Fig.3 - III quadro: la piazza davanti alla chiesa del villaggio

Per il primo quadro e il terzo, quello che si svolge nelle piazza del villaggio, la versione della Wallmann pare aver optato per stilemi espressionistici di matrice germanica, con scene che sembrano quasi fiabesche, uscite da un libro per bambini.
Le case del primo quadro, e in particolare quelle sul fondo, come anche la chiesa del terzo, caratterizzate da un certo verticalismo e da una pronunciata asimmetria, sembrano rispettare il principio deformante tipico della scenografia espressionista.
E d’altronde il soggetto del balletto Coppelia affonda le sue radici in uno dei più intriganti racconti del romantico E.T.A. Hoffmann (Der Sandmann) assai consono a un certo immaginario dei tempi, giacché l’espressionismo aveva largamente attinto al gusto romantico per l’animazione degli oggetti e in genere al dualismo tra la realtà e la sua copia perfetta, tra il vero e il verosimile, tra il soggetto e il suo doppio. Ma c’è di più. L’automa o la marionetta, l’uomo cioè ridotto a macchina, si prestava all’epoca a esercitare un grande fascino intellettuale, in quanto leggibile in modo contraddittorio. Se da un lato, infatti, la paura del mondo delle macchine, avvertito come disumano, freddo e dalle forze ormai minacciosamente soverchianti quelle dell’individuo, aveva dominato il primo espressionismo ed era stata poi ripresa e amplificata negli anni ’20 dal cinema; dall’altro lato, invece, una diversa temperie artistica, anch’essa assai diffusa nella Germania degli anni ’20 (si pensi al Bauhaus, ma anche a Hausmann e a Grosz), guardava positivamente alla macchina e alla marionetta, ispirata dai manichini di De Chirico e dagli stessi futuristi, unica avanguardia che idolatrò assai precocemente la macchina.
E sull’esempio delle costruzioni ritmiche e dinamiche futuriste, nacquero le applicazioni teatrali del costruttivismo, che ci sono sembrate invece aver influenzato in qualche modo la scenografia del secondo quadro di questa versione del balletto: sulla scena del secondo quadro della Wallmann compaiono pedane e piedistalli pieni di automi, una modernissima sfera al plasma a toccare quasi il soffitto, e un pendolo mosso da grandi ingranaggi.
Influenza che la Wallmann sembrerebbe non negare affatto, anzi:
I russi avevano invaso anche il mondo del teatro. Grazie alla conoscenza della loro lingua acquisita durante i corsi di danza, potei seguire il teatro intensamente espressivo, sebbene tradizionale, di Stanislavskij. Ma ciò che mi aveva maggiormente colpito e di cui oggi conservo il ricordo più vivo, era il teatro radicalmente rivoluzionario di Mejerchol’d, di Vachtangov e di Tairov, e la compagnia ebraica Habima col Dibbuk di An-Ski4.

Oltre ai russi, anche altri registi si allontanarono dal realismo per intraprendere percorsi originali verso la riteatralizzazione della scena. Uno di questi è l’austriaco Max Reinhardt, col quale la Wallmann collabora direttamente per la realizzazione di alcune opere al Festival di Salisburgo. Distaccandosi dalla poetica naturalista, Reinhardt cercò di riscoprire il versante ludico e gioioso della creazione artistica, restituendo alla recitazione il senso di finzione. Secondo la sua idea di teatro, l’attore ha il compito di trasportarci in una sfera fantastica di illusioni che non fingono di essere realtà, ma che della realtà rivelano la magica essenza. Sensibile all’immediatezza comunicativa del circo, come alla spettacolarità fastosa del teatro barocco, Reinhardt accentuò il lato spettacolare, gioioso e fantastico del teatro.
I costumi di Coppelia ci sono sembrati suggerire una messa in scena di questo tipo: giocosa, festosa, variopinta, fantasiosa, e allo stesso tempo finta, artificiosa, anti-illusionistica, riteatralizzante. Uno spettacolo che molto, come confermato dalla stessa Wallmann, molto deve aver risentito dell’influenza rinnovatrice delle avanguardie dell’inizio del Novecento.
Avanguardie che grazie alle suggestioni legate allo sviluppo delle arti visive propongono una visione innovativa del rapporto fra attore e personaggio: il corpo in scena diventa innanzitutto un insieme di volumetria e dinamismo, che si intrecciano e si combinano a formare il tessuto dello spettacolo. L’espressività si affranca così dal principio mimetico per divenire valore intrinseco, segno di libertà assoluta e non più di scelta di un repertorio codificato.
Si tratta di un percorso analogo a quello compiuto dalla danza moderna rispetto al balletto accademico. Non a caso, nei primi due decenni del Novecento assistiamo a fertili contaminazioni fra recitazione, danza e pantomima.
Pensiamo ai balletti russi di Diaghilev e a quelli svedesi di de Maré, che rinnovarono il linguaggio teatrale portando una fantasmagoria di colori, fantasiose geometrie e ritmi moderni, liberando la scena dall’aderenza alla realtà e dal principio della vero-somiglianza per schiudere un mondo fantastico di forme e suoni:

[…] Non per questo trascuravo la danza. Erano, quelle, le estreme stagioni della compagnia di Diaghilev, nel cui alveo erano sbocciati due nuovi astri: il giovane Serge Lifar e il coreografo George Balanchine. Però il mio entusiasmo fu suscitato soprattutto dai Balletti Svedesi, creati dal mecenate Rolf de Maré e diretti dal primo ballerino e coreografo Jean Börlin: presentavano creazioni su musiche contemporanee, con allestimenti di avanguardia. Vi affioravano i nomi di Debussy, Leger, Pirandello, Casella, Milhaud, Honegger, Erik Satie, Picabia, Cocteau, René Clair, Ingelbrecht, Bonnard, Steinlen, Foujita. Non mi lasciavo sfuggire una sola rappresentazione. Inconsciamente, subivo un’influenza che mi avrebbe accompagnata per sempre5.
E crediamo sia i balletti russi che quelli svedesi abbiano effettivamente influito sulla messa in scena di Coppelia. A dircelo, per quanto riguarda i balletti di Diaghilev, sono stati nuovamente i costumi: taglio, colori e decorazioni geometriche ci hanno parlato di quest’influenza. A dirci invece circa l’influsso dei balletti svedesi sono state le scenografie di Coppelia, e in particolare quelle del primo e terzo quadro, di stampo espressionistico come abbiamo detto. Perché l’arte scenica dei Ballets Suédois fu spesso fortemente simbolica ed espressionista, giungendo al culmine in opere come El Greco, Maison de fous e Skatin Rink. “Il balletto diventa sempre più espressivo6 spiegò in un’intervista Börlin, che con de Maré voleva qualcosa di più della pura danza e della padronanza tecnica: volevano dare espressione a un pensiero, a un’idea: cercavano di interpretare la profondità dell’anima umana, spesso trascurando l’azione esteriore. Quello che si sforzavano di fare era raccontare storie attraverso la danza e la mimica, esattamente come fanno gli attori in teatro con parole e gesti. Tutto doveva trasmettere un senso, ogni movimento, ogni fraseggio musicale, ogni immagine scenica … tutto doveva contribuire a creare la stessa espressività del teatro parlato. Un tipo di ballo come quello di Mary Wigman, considerata appunto la fondatrice della danza moderna ed espressionistica, di cui la Wallmann diventa a Dresda una delle principali allieve e cui probabilmente la danza dei balletti svedesi si ispirava. Non fa meraviglia che qualche critico rimproverasse ai balletti svedesi che la danza in sé fosse così poco rappresentata. “Le loro produzioni sono qualcosa tra il balletto, la pantomima e una serie di tableaux vivants”, spiegò uno di loro sulle pagine dello “Spectator” dopo il debutto della compagnia nel dicembre del 1920 a Londra. A tal proposito, alcuni lamentavano che troppo spesso i ballerini erano costretti da camicie di forza di costumi non funzionali alla danza. E in effetti anche i costumi di Coppelia non devono sicuramente essere stati pensati per un balletto tradizionale: il peso importante della maggior di essi li rende senza dubbio più adatti a un tipo di danza dove prevalgono i valori mimici rispetto a quelli ritmici, decisamente più appropriati a una pantomima che non a un balletto tradizionale. Tant’è che la locandina originale dello spettacolo, come anche la cronologia del Tintori, definisce lo spettacolo “Azione Coreografica” e non balletto, come è invece definita invece la maggior parte delle versioni di Coppelia. Definizione che crediamo sarebbe stata apprezzata da de Maré, che affermava: “Se solo riuscissimo a trovare una parola da sostituire a ‘balletto’ saremmo molto più soddisfatti. La parola ‘balletto’ non è abbastanza esauriente per il lavoro che stiamo facendo7.

Ne viene fuori l’immagine di una messa in scena tutto sommato innovativa, una versione della Coppelia rinnovata rispetto alla tradizione, in cui agli influssi delle avanguardie russe di inizio secolo, si intrecciano quelli dell’appena nata danza moderna dei balletti svedesi e della Wigman. Non va infatti dimenticato che la Wallmann era stata chiamata a Milano nel 1937, anno della messa in scena di Coppelia, proprio per portare il balletto verso nuove esperienze coreografiche. E sono gli anni questi, in cui dalla Mitteleuropa della danza libera ed espressionista giungono alla Scala anche Max Tarpis, e soprattutto Aurel Milloss, anche lui alle prese con lo stesso balletto nel 1946 (chissà che non abbia riutilizzato proprio alcuni costumi della Coppelia della Wallmann).

Versione rinnovata, ma pensiamo anche tradizionale. Tradizionale come le danze folcloristiche del primo quadro, con costumi tradizionali appunto. Tradizionale perché prima della Wigman, la Wallmann riceve un’educazione alla danza di tipo accademico, da étoiles del balletto dei grandi teatri zaristi, come la Nicholaieva e Madame Eduardova, che eccelleva proprio nelle danze di carattere.
Coppelia come contaminazione tra danza accademica e danza moderna quindi. Una contaminazione che la Wallmann conserverà anche nella sua scuola, e che, come lei stessa racconta, porterà all’allontanamento artistico con la Wigman:

Preoccupata di tutelare l’integrità della sua arte, Mary Wigman non poté accettare a lungo questi ‘compromessi sacrileghi’, anche se, molto tempo dopo, avrebbe riconosciuto che le mie vedute erano motivate. Così, sotto il profilo artistico, giungemmo alla separazione8.

E chi meglio di Caramba e Titina Rota potevano soddisfare l’esigenza della Wallmann di unire tradizione e innovazione? La regista e coreografa li sceglie consapevole della loro esperienza. Sceglie Caramba per i costumi della Ciarda, una danza di carattere, in abiti tradizionali appunto, come tradizionali sono quelli che disegna e confeziona per La Filanda magiara (stagione scaligera del 1932/33), conservati anche questi negli armadi del Magazzino dei costumi del Teatro alla Scala. Coloratissimi, più ricamati che dipinti, ricordano molto quelli per la Coppelia.

E sceglie Titina Rota per la sua ventata di novità e leggerezza e per il suo modo di leggere la tradizione senza dissacrarla. Lei che, prima della Coppelia, ha collaborato proprio con Reinhardt, come la Wallmann, nelle sue memorabili rappresentazioni shakespeariane (Sogno di una notte di mezza estate del 1933 e Il mercante di Venezia dell’anno successivo).
Pochi giorni prima della fine del mio periodo di stage nel Magazzino dei costumi del Teatro alla Scala, ho deciso di recarmi presso la Biblioteca Comunale di Milano, in cerca di qualche quotidiano dell’epoca, con la speranza di trovare articoli di critica teatrale sulla Coppelia, che potesse dirmi qualcosa in più riguardo la messa in scena.
Dal “Corriere dei Teatri” nel “Corriere della Sera” del 15 gennaio 1937, l’edizione del giorno successivo alla prima messa in scena del balletto, si legge:

[…] Il non facile assunto di presentare rimodernato ed aggiornato al pubblico della Scala il ballo Coppelia era, più che d’altri, cura e fatica della coreografa e regista Margherita Wallmann. La Wallmann, […], è in possesso d’un arte e d’un mestiere scaltriti ed atti a tener buone le due parti in cui si divide, ormai pacificamente, il pubblico di oggi. Crediamo che nessun altro coreografo simuli con tanto garbo il dovuto ossequio alla tradizione, e la persuada poi con maniere come queste a saltar fossi.
Basta pensare alla disinvoltura con cui la Wallmann, nei primi quadri, quello della piazza del villaggio in Galizia, scioglie una sequenza di figure e di scene tipicamente ottocentesche, dalla Mazurca alla Ciarda, in una sorta di inebriata, e labile, anzi sfuggente fantasia, dove fioriscono, con non infrequenti reminiscenze di Reinhardt, alcune delle meno viete formule dell’operetta viennese e del balletto russo. Non negheremo, peraltro, che questa tendenza all’asintassi coreografica generi di tanto in tanto almeno un divertito sospetto di confusione: e che tale sospetto prenda un po’ corpo quando, in pieno terzo ed ultimo quadro - non rappresentato mai, crediamo, in Italia, e di raro all’estero - la Wallmann introduce la pur amena macchina del teatrino degli automi. Ma pare che un attimo di disorientamento possa far anch’esso giuoco, in questa coreografia da birichinate commesse in sogno. Poiché il vecchio ballo francese ha subito, su questo palcoscenico, una trasformazione quasi radicale: prevalendovi ora i valori mimici ai valori ritmici propri della danza, di ballo è diventato pantomima: forse non senza soddisfazione del pubblico, che abbiamo sorpreso a divertirsi soprattutto dinanzi alle bambole, agli automi, ai ruotismi e alle magie di orologeria del secondo quadro. […]9
Si tratta di una critica dello spettacolo che sembra confermare quanto suggerito dai costumi e ipotizzato nello scritto e qui raccontato. Una critica che ci parla di una messa in scena rimodernata e aggiornata del balletto, ma allo stesso tempo tradizionale: una messa in scena influenzata da Reinhardt e dal balletto russo, più pantomima che ballo vero e proprio.
E scopriamo anche che il dono che Coppelius offre alla coppia di sposini nell’ultimo quadro è un teatrino di automi. Una macchina che allora diventa la rappresentazione simbolica di tutta la messa in scena. La conferma di quella volontà riteatralizzante suggerita dai costumi. Perché quel teatrino crediamo sia la metafora dell’artificio teatrale, il dietro dell’orologio. Come se la Wallmann avesse voluto ricordare allo spettatore di trovarsi a teatro, come se lo avesse voluto svegliare alla fine di un sogno fantastico. E allora quel teatrino racchiude la morale ultima del balletto: niente è come sembra, l’apparenza inganna, come Coppelia.
Prima di iniziare la ricerca sui costumi di Coppelia ci siamo chiesti quanto potesse dirci quello che rimane di uno spettacolo e, soprattutto, quanto potesse testimoniare il costume, a che scopo conservarlo e catalogarlo, e se infine potesse rappresentare uno strumento utile a servizio degli studi sul teatro.

Siamo convinti che le pagine dello scritto forniscano la risposta a queste domande: i costumi di Coppelia e tutti i documenti a essi relativi ci hanno infatti rivelato molto.
Costumi dimenticati, destinati a scomparire e trovati per caso, ci hanno raccontato di una messa in scena di cui praticamente nulla rimane. Hanno consentito in qualche modo di salvare quella messa in scena.
La paziente ricerca nel Magazzino costumi del Teatro alla Scala è avvenuta con la consapevolezza che ogni costume è stato parte di un tutto: si sono così recuperati preziosi e curiosi documenti, come il registro dei costumi, il libretto di sala, alcune foto di scena, figurini, cantanti ripresi in posa, etichette originali dei costumi.
E siamo partiti proprio leggendo questo piccolo pezzo di stoffa sbiadito cucito all’interno dei costumi: l’etichetta originale. Le informazioni scritte su di essa ci hanno parlato di uno spettacolo vecchio di ottant’anni, del balletto Coppelia andato in scena nel 1937. Con l’aiuto dei documenti a nostra disposizione, abbiamo quindi catalogato i costumi, trovandone una collocazione all’interno della messa in scena. Attraverso un confronto con la versione originale del balletto, è stato poi possibile ricavare indicazioni circa la struttura delle danze dello spettacolo scaligero, di cui si sono descritte anche le scenografie. Una ricerca che ci ha condotto alla formulazione di un’ipotesi di ricostruzione della messa in scena del balletto, che ha trovato infine conferme in un articolo di critica teatrale sullo spettacolo.
Testimonianza concreta di un momento effimero, sfuggente, irripetibile come quello della performance teatrale, il costume di scena non vive allora solo sul palcoscenico, durante quel momento, ma anche dopo, una volta che tale momento si è esaurito, spento. Porta con sé molte storie, la primigenia è quella dei personaggi ai quali danno vita sulla scena, e per i quali sono nati, ma molte altre sono le storie che essi possono narrare, testimonianza d’arte e di vita. Si pensi alla storia di chi li ha progettati, disegnati, di chi li ha tagliati, cuciti, dipinti, decorati, alla storia di chi li ha indossati, di chi li ha lavati, conservati.
Il costume che sopravvive allo spettacolo è come un reperto archeologico: inestimabile fonte di interpretazioni, di informazioni su un mondo ormai scomparso, che può essere solo immaginato. È la chiave di un preziosissimo scrigno, la porta di un sogno che al mattino si è già dimenticato.
E allora siamo certi che esso rappresenti assolutamente uno strumento utile agli studi di teatro, che invece continuano a sottovalutare, ancora troppo inconsapevoli dell’importantissimo contributo che il costume darebbe alla ricerca sulla performance: un ricchissimo patrimonio di costumi non aspetta altro di essere intervistato, di fornire la propria testimonianza, di dire la sua.
Anni di silenzio e buio, di stanze polverose possono fare dimenticare splendori inimmaginabili, esempi di grande arte e di piccole manifestazioni quotidiane, fino a che qualcuno, la maggior parte delle volte per caso, le “scopre”.
E allora conservare per salvaguardare, catalogare per studiare e conservare qualcosa destinato a scomparire col tempo.
Per non perdere quella chiave, per tener aperta la porta di quel sogno e non dimenticare.






NOTE

1 Cfr. M. SISSON, Social class and nonverbal behaviour, D101 Course Notes, The open university press, London 1978.

2 Cfr. E. GOFFMAN, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1997.

3 Cfr. G. TINTORI, Cronologia completa degli spettacoli e dei concerti, Ricordi, Milano 1964.

4 in: M. WALLMANN, Balconate del cielo, a cura di R. Mainardi, Garzanti, Milano 1976, pp. 224-225.

5 in: M. WALLMANN, Balconate del cielo, a cura di R. Mainardi, Garzanti, Milano 1976, p. 231.

6 in: “The Minneapolis Tribune”, 22 maggio 1930.

7 in: “New York Telegraph”, 17 Novembre 1923.

8 in: M. WALLMANN, Balconate del cielo, a cura di R. Mainardi, Garzanti, Milano 1976, p. 24.

9 in: “Corriere dei Teatri”, in “Corriere della sera”, 15 gennaio 1937.








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