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Fonti e simboli per il Satiro “scandagliatore” di Agostino Carracci  
Gloria de Liberali
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 13 Maggio 2013, n. 677
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Il Satiro “scandagliatore” (Fig. 1) è una nota incisione di Agostino Carracci (Bologna, 1557 – Parma, 1602) eseguita probabilmente intorno al 1595, che in passato il Bodmer includeva nella serie delle cosiddette Lascivie, le stampe di soggetto biblico o mitologico a carattere erotico che il bolognese iniziò a pubblicare forse a Venezia già a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta del Cinquecento [1] .

Louis Dunand [2] notò invece come l'incisione in questione (insieme ad un'altra, più o meno coeva, nota come Ogni cosa vince l'oro o Il Vecchio e la Cortigiana, Fig. 2), fosse di formato maggiore (mm 201x134) e di soggetto diverso rispetto alla serie, considerandola giustamente un'opera autonoma, il cui contenuto è però rimasto a lungo senza una convincente interpretazione.

Solo recentemente infatti è stato possibile rintracciare la principale fonte iconografica di Agostino, che derivò l'oscuro soggetto da un'incisione moraleggiante stampata nel 1578 dall'olandese Hieronymus Wierix (Antwerpen, 1553 – 1619) su invenzione di Willem van Haecht (Antwerpen, 1525 circa – 1583) e disegno di Ambrosius Francken (Herenthals, 1544 – Antwerpen, 1618), intitolata “Vanitas Vanitatvm et Omnia Vanitas”, conservata presso la Herzog August Bibliothek (Fig. 3), il cui tema è appunto la vanità intesa come caducità dei piaceri terreni [3] . Al centro sta infatti Vanitas, una donna nuda distesa su un letto a baldacchino, mentre su di lei si sporge un satiro, identificato da un'iscrizione come Impudicitia, che con la mano sinistra solleva il lenzuolo per scoprirla, e con la destra dirige un piombino (o scandaglio) sopra il pube della giovane impassibile, come a misurare la profondità della sua lussuria. Sotto i piedi della donna giacciono ormai dimenticati armi (una spada e uno scudo) e libri, strumenti che alludono alla “vita attiva” e “contemplativa”, entrambe abbandonate per seguire le passioni più sfrenate, mentre da sotto il cuscino del letto scivolano via gli oggetti simbolo della ricchezza e del potere terreni (Terrena Maiestas) che sprofondano in un buco nel pavimento: corone reali, una tiara papale, una mitria vescovile, una corona di alloro, denaro, coppe e suppellettili. A destra del gruppo sta una donna seminuda con il capo ornato di spighe identificata come Caro, personificazione del desiderio carnale, che con la mano destra indica la scritta che sopra di lei recita «Omnis Caro Fænum. Esa. 40.» (“Ogni carne è come l'erba”, Isaia 40,6), e con la sinistra stringe una corda collegata al chiavistello di una botola nel pavimento sulla quale si trova ignaro l'Homo Mundanus all'estremità opposta della composizione, minacciato così di precipitare nel vuoto da un momento all'altro. Egli infatti, distratto e visibilmente eccitato dalla caduca Voluptas, che di spalle lo ammalia suonando uno strumento a corde, e dalla Letitia transitoria con i seni scoperti che gli offre un calice di vino dal banchetto imbandito davanti a loro, non si accorge del pericolo che sta correndo (Milla Pericula). Altre allusioni ai piaceri mondani e alle forme sessuali sono le roselline selvatiche sparse sul pavimento della stanza e la coppa di turgidi frutti dalla quale sporgono in particolare una pera e un grappolo d'uva, con un frutto tagliato a metà.

Il titolo dell'illustrazione è una citazione dall'Ecclesiaste del Vecchio Testamento, ed in particolare dal libro di Qohélet che più volte nel testo ribadisce il celebre motto  Vanità delle Vanità, Tutto è Vanità”, demolendo nelle sue riflessioni le pretese di eternità degli uomini e riaffermando la fede in Dio come unica via di salvezza. Un'altra citazione biblica, quasi un sottotitolo, compare al centro della composizione al di sopra del baldacchino e recita “Meritrix Abissus Imus. / Pro. 23.”, riferendosi al Proverbio 23:27 (“Una fossa profonda è la meretrice, e un pozzo stretto la straniera”), rafforzando così il significato moraleggiante della scena, non privo di una certa ironia ed evidentemente rivolto ad una ristretta cerchia di pubblico di fede protestante. Infine il messaggio è ribadito nella didascalia sottostante tradotta nelle tre lingue olandese, francese e tedesco che suona come un ulteriore avvertimento:

“L'uomo non sondi mai il cuore di una donna senza pudore;

Slealtà senza fede predilige questa codarda,

Trasformando il saggio ed il forte in un melanconico;

Invece dell'oro e dell'onore, l'ira di Dio ci procura.

Diffida dunque mondano di cieca persona,

(Anche se la carne così forte a lei ti attira)

Altrimenti a mille pericoli il tuo corpo abbandoni;

E per poco piacere in grande disgrazia cadi.”

Tuttavia ciò che ci interessa maggiormente e che è rimasto per molto tempo di difficile interpretazione è in particolare la presenza ed il fine del piombino (o “scandaglio”) utilizzato dal satiro, che Agostino Carracci riprese nell'incisione di cui ci stiamo occupando.

In proposito mi sembra utile citare un passo dall'Antico Testamento, che abbiamo già visto essere il testo fondamentale per la comprensione della scena allegorica ideata da van Haecht, ed in particolare dal profeta Amos che così descrive una delle sue visioni: «Ecco ciò che mi fece vedere il Signore Dio: il Signore stava sopra un muro tirato a piombo e con un piombino in mano. Il Signore mi disse: “Che cosa vedi Amos?”. Io risposi: “Un piombino”. Il Signore mi disse: “Io pongo un piombino in mezzo al mio popolo, Israele; non gli perdonerò più. Saranno demolite le alture di Isacco e i santuari d'Israele saranno ridotti in rovine, quando io mi leverò con la spada contro la casa di Geroboàmo”» (Amos 7, 7-9). Dunque il piombino, strumento impiegato fin dall'antichità per verificare la verticalità di una costruzione, diventa qui simbolo di un giudizio irrevocabile che valuta la rettitudine del popolo d'Israele.

L'uso simbolico di questo strumento matematico in arte ci può forse essere chiarito meglio dalla lettura del Mondo Simbolico dell'abate Filippo Picinelli del 1635, un repertorio enciclopedico compilato a quasi un secolo di distanza dalle opere che stiamo qui esaminando, ma che certamente attinge ad un bagaglio di nozioni e credenze consolidate da molto più tempo. Alle voce “piombino”, nel capitolo dedicato agli strumenti matematici nel XXI libro, lo studioso individua ben quattro significati simbolici del piccolo oggetto: quello di esame di coscienza, “strumento efficace d'ogni nostra rettitudine”; di travaglio utile (“quando a piombino sta pendente dal filo, così il travaglio quando reca al nostro spirito qualche po poco d'aggravio, ci dispone all'acquisto dell'interna rettitudine, e della vera, ed esatta posizione.”); di timor di Dio (“Il timor d'Iddio, col suo peso serve all'edificio spirituale delle virtù, non permettendo obliquità veruna”); ed infine di prudenza (“Quando nel più alto dei mari si trovano i naviganti, col piombino calato giù nel profondo dell'onde, conoscono, così la qualità, come la distanza del fondo, al quale nell'atto d'immergersi nel pelago, fù chi diede”). Conclude infine il Picinelli, “Così l'uomo sapiente, e versato nelle sacre scritture, arriva ad attingere la profondità degli arcani divini, ed ivi trova, e conosce i reconditi segreti della predestinazione, della reprovazione, del giudizio finale” [4] .

Certamente van Haecht aveva presente le parole del profeta Amos, e raffigurando il piombino nelle mani della lussuriosa creatura intendeva alludere alla ricerca di giudizio e rettitudine nella condotta degli uomini, che è poi il significato ultimo della complessa allegoria incisa da Wierix.

Agostino Carracci, i cui debiti nei confronti delle fonti fiamminghe sono ben noti [5] , deve aver conosciuto questa stampa e vi trovò certamente ispirazione per la sua incisione del Satiro “scandagliatore”, in cui ripropone soltanto il gruppo centrale escludendo tutti gli altri personaggi ed apportando diverse modifiche alla scena. La composizione si sviluppa ora in senso verticale e le figure sono invertite rispetto all'originale olandese: a destra un satiro ritto sulle zampe caprine è intento a calare un piombino sul pube scoperto di una giovane completamente nuda e languidamente distesa su di un talamo, mentre dietro i due un amorino scosta la pesante tenda del baldacchino per assistere alla scena con grande interesse. Con un braccio la donna solleva un lenzuolo dal quale sbuca sotto il letto un gatto dormiente (noto simbolo di pigrizia e cupidigia) ed in alto a destra si apre una finestra con delle suppellettili e una gabbietta per uccelli.

È evidente come l'impianto allegorico progettato da van Haecht per dissuadere gli uomini dal cedere alle tentazioni della carne abbia perso, nell'interpretazione di Agostino, ogni intento moraleggiante, e come anzi, l'iconografia sia stata sfruttata per dare vita ad un'insolita scena dalla forte connotazione erotica: il satiro conserva il ghigno grottesco che sempre lo caratterizza, ma il grembiule che indossa per cercare di nascondere il proprio animalesco desiderio tradisce le sue intenzioni. Anche la fanciulla, che nel prototipo olandese giaceva impassibile e disinteressata come la personificazione di un concetto astratto, qui è invece molto concreta e partecipa con lo sguardo al gioco sessuale in cui la coinvolge la vigorosa creatura mitologica. Inoltre la presenza dell'amorino, introdotto liberamente da Agostino come osservatore esterno e passivo, sembrerebbe accentuare quel carattere voyeuristico che avrebbe fatto sentire il fruitore della stampa più coinvolto in una scena tanto intima. È certo infatti che questo tipo di materiale fosse destinato ad un tipo di collezionismo molto privato, e che dovette godere di grande successo e vastissima diffusione anche in epoca di Controriforma nonostante siano pochissimi gli originale pervenuti fino a noi, specialmente per scene così esplicite.

Se fin qui ci siamo occupati delle fonti iconografiche utilizzate da Agostino, ci sarà utile, per meglio comprendere la sua opera, prendere in considerazioni anche le fonti stilistiche alle quali evidentemente egli si ispirò.

Già Marzia Faietti ha rilevato come l'incisione dell'Ogni cosa vince l'oro presupponga ad esempio la conoscenza dell'Amore che fabbrica l'arco del Parmigianino, o degli Ignudi michelangioleschi [6] , modelli che il colto bolognese non doveva necessariamente aver visto di persona ma che certamente circolavano all'epoca sotto forma di stampe o riproduzioni. Nel caso del Satiro “scandagliatore” il confronto più convincente mi sembra sia quello con alcune scene incise da Gian Giacomo Caraglio (Verona, 1500 circa – Parma, 1565) sulla base dei disegni di Perin del Vaga (Firenze, 1501 – Roma. 1547) e Rosso Fiorentino (Firenze, 1494 – Parigi, 1540), raccolte nella fortunata serie nota come gli Amori degli dei, commissionata nel 1527 dallo stampatore Baviero de' Carocci detto il Baviera. Le venti incisioni fin'ora note illustrano episodi tratti dalle Metamorfosi di Ovidio, tuttavia la loro vera natura è evidentemente quella di scene erotiche che hanno per protagonisti non più uomini ma soltanto dèi, nel tentativo di evitare così la terribile censura alla quale non erano invece sfuggiti i Modi di Marcantonio Raimondi (opera conosciuta anche come Le sedici posizioni), pubblicati nel 1524 e subito fatti bruciare per ordine di papa Clemente VII.

In particolare nella scena di Giove e Io (Fig. 4) la figura femminile è nella stessa posa della nostra fanciulla, con l'unica differenza che quella del Caraglio è vista frontalmente e ha la testa reclinata all'indietro, mentre quella di Agostino è raffigurata lateralmente e guarda in avanti per seguire le operazioni del satiro. Questa posizione della protagonista femminile, con il braccio sinistro portato dietro la testa e la gamba sinistra sollevata a cui fanno riscontro il braccio e la gamba destri abbandonati verso il basso, è riecheggiata anche in un altro gruppo della stessa serie, quello con Mercurio ed Erse (Fig. 5), ma era stata già utilizzata dal Raimondi nei sopracitati Modi (Fig. 6) ed era evidentemente molto apprezzata nella raffigurazione di incontri amorosi tanto da essere ripresa a più anni di distanza. Anche l'ambientazione, che rievoca le alcove dove si svolgevano gli incontri con le cortigiane, è comune alle precedenti raffigurazioni del Caraglio e del Raimondi, con letti a baldacchino avvolti da ampi tendaggi, lenzuola disfatte e morbidi cuscini con le nappe. Il fatto che Agostino abbia quindi tratto ispirazione da una scena allegorica nata con intenti moraleggianti, e l'abbia poi spogliata dei suoi attributi simbolici e calata in un linguaggio che era quello utilizzato con successo dagli incisori di immagini pornografiche, mi pare abbastanza eloquente sullo scopo che questa stampa, come il resto delle Lascivie, doveva avere [7] .

All'incisione di cui ci siamo appena occupati si collega pure una delle poche opere a noi note uscite dal pennello del maggiore dei fratelli Carracci: si tratta di un piccolo dipinto ovale (olio su tavola, cm. 46x33, Fig. 7) in cui già Andrea Emiliani ed Emilio Negro hanno riconosciuto lo stile raffinato di Agostino, collocandolo però negli ultimi anni della sua vita, quelli del soggiorno parmense presso la corte di Ranuccio Farnese tra il luglio del 1600 e il febbraio del 1602 (anno della sua morte).

È difficile stabilire con sicurezza se il dipinto abbia preceduto la stampa o viceversa, certo è che rispetto a questa esso presenta alcune variazioni compositive, anche se il numero delle figure e l'uso dello scandaglio sono rimasti invariati. Sono scomparsi invece sia la gabbietta con le suppellettili sulla finestra sia il gatto dormiente sotto il letto, sebbene la giovane donna compia ancora il gesto di sollevare il lenzuolo rosso scoprendo una piccola piattaforma lignea rimasta vuota (le radiografie hanno però rivelato la presenza di un disegno sottostante che testimonia forse un ripensamento dell'artista). Il suo corpo morbido e delicato non può non ricordarci gli incarnati levigatissimi delle dee affrescate sulla volta della Galleria Farnese dal fratello Annibale (Fig. 8-9), a cui rimandano certamente anche il tema dell'incontro amoroso e la presenza scherzosa di un amorino.

Anche il satiro è una figura ricorrente nella Galleria, e nonostante conservi il suo aspetto animalesco il suo volto è molto diverso da come ce l'aspetteremmo: se infatti il satiro dell'incisione è la creatura grottesca e quasi caricaturale dal grosso naso e dal ghigno beffardo della mitologia classica, qui esso ha un profilo più delicato, una barba lunga e grigia, la fronte ampia e la testa canuta, come se nelle sue fattezze fosse stato intenzionalmente ritratto un personaggio dell'epoca (forse un Farnese?).

L'ipotesi non deve sembrarci così irreale se consideriamo che la fanciulla bionda qui raffigurata è la stessa modella che Agostino utilizzò per tutte le scene delle Lascivie, e anche nell'Ogni cosa vince l'oro, dove essa è stata identificata come Isabella, la cortigiana veneziana che il Carracci portò con se a Roma e dalla quale ebbe un figlio, Antonio, anch'egli pittore. Proprio in quest'ultima incisione le due figure in secondo piano, quella maschile affacciata al balcone di spalle e il bambino nel girello che si sporge verso la mela in terra, sono stati identificati come Agostino ed il piccolo Antonio [8] , la cui discussa data di nascita è stata recentemente fissata da Negro tra il 1592-93 [9] .

Se così fosse troverebbe ulteriore conferma la proposta della De Grazia di collocare l'incisione del Vecchio e la Cortigiana intorno al 1595 [10] , quando il bambino doveva avere due o tre anni, ma è chiaro che l'ambientazione non sarà più Venezia, come si è sempre sostenuto, bensì Roma, dove Agostino raggiunse il fratello Annibale chiamato dal cardinale Odoardo Farnese per decorare prima la sua camera da letto ed in seguito la celebre Galleria. Ed è proprio dentro Palazzo Farnese che sembra ambientato l'episodio della cortigiana conquistata dalle ricchezze del vecchio, in una delle stanze che danno sull'ampio balcone nel retro dell'edificio, dal quale si può scorgere infatti il campanile romanico di Santa Maria in Trastevere e persino una piccola, simbolica porzione di uno dei colli romani.

Altre ragioni, oltre a quelle stilistiche, ci fanno pensare che anche il Satiro “scandagliatore” sia stato concepito negli anni a ridosso dell'ideazione del programma della Galleria Farnese (tra il 1595 e il 1597), i cui disegni si devono per la maggior parte proprio ad invenzioni di Agostino. Sappiamo infatti che il giovane Odoardo Farnese, committente del ciclo, prediligeva i soggetti erotici e conduceva uno stile di vita in linea con le sue attitudini: recenti studi hanno fatto luce sulla sua abitudine di uscire per Roma di notte in abiti civili in cerca di avventure, e sull'ammirazione che egli rivolse ad una nobildonna romana dalla proverbiale bellezza, tale Laura Maccarani [11] . Ci sembra dunque che entrambe le incisioni e l'inedito dipinto si collochino bene nel periodo del soggiorno romano di Agostino sia per il soggetto amoroso molto esplicito, sia per il tono scherzoso e non privo di ironia legato alla presenza del satiro e dell'amorino, temi dominanti anche nella splendida Galleria voluta da Odoardo.

 

 




 

NOTE

[1]     H. Bodmer, Die Entwicklung der Stechkunst des Agostino Carracci II., in “Die Graphischen Künste”, neue folge, 5, 1940, p. 47.

[2]     L. Dunand, A propos d'une estampe rare du Musée des Beaux-Arts de Lyon appartenent à la suite du 'Lascivie' d'Augustin Carrache, in Bulletin des Musées Lyonnais, 1957.

[3]     Già nel 1957 Louis Dunand aveva indicato la fonte di Agostino nella stampa qui considerata, ma per via del difficile accesso all'opera essa è diventata oggetto di studio soltanto in anni recenti, senza tuttavia essere mai stata pubblicata. Dunand 1957, pp. 8-9 nota 11. Per i contributi più recenti vedi: H. Leeflang, Willem van Haecht en Agostino Carracci. Of de lotgevallen van een obscene inventie, in Kunstlicht 27 (2006), pp. 12-16; P. Simons, Agostino Carracci's wit in two lascivious prints, in Studies in Iconography 30 (2009), pp. 201-206.

[4]     F. Picinelli, Mondo Simbolico formato d'imprese scelte, spiegate, ed illustrate...studiosi diporti dell'abbate D. Filippo Picinelli milanese, seconda impressione veneta, corretta, e arricchita di molte imprese, 1678, p. 595.

[5]     Sulla formazione di Agostino Carracci come incisore e sull'influenza del Goltzius e del Cort vedi D. De Grazia, Le stampe dei Carracci con i disegni, le incisioni, le copie e i dipinti connessi. Catalogo critico, edizione italiana riveduta, aumentata e tradotta a cura di Antonio Boschetto, Bologna 1984, pp. 44-49.

[6]     I suoi studi sulle stampe erotiche di Agostino Carracci sono stati pubblicati in: M. Faietti, Rebus d'Artista. Agostino Carracci e “La carta dell'Ogni cosa vince l'oro”, in “Artibus et Historiae”, vol. 28, n. 55, 2007, pp. 155-171; M. Faietti, Carte lascivie e disoneste di Agostino Carracci, in L'arte erotica del Rinascimento: atti del Colloquio Internazionale, a cura di Michiaki Koshikawa, Tokio 2008, pp. 81-99; M. Faietti, “...carte belle più che oneste...”, in Mythologica et Erotica: arte e cultura dall'antichità al XVIII secolo, a cura di O. Casazza e R. Gennaioli, 2005, pp. 98-103.

[7]     Una diversa lettura può venire dalla proposta di Stefano Colonna di leggere nella serie degli Amori de' Carracci un recondito significato moralistico legato alla presenza delle figure di Eros e Anteros. S. Colonna, Pomponio Torelli, Annibale e Agostino Carracci e la teoria degli affetti nella Galleria Farnese. Il rapporto tra le corti farnesiane di Parma e Roma, in Il debito delle lettere. Pomponio Torelli e la cultura farnesiana di fine Cinquecento (Parole allo Specchio / Studi e Testi, 26), a cura di A. Bianchi, N. Catelli, A. Torre, Parma, Unicopli, 2012, pp. 131-152.

[8]     Il Dax dà quest'interpretazione sulla base della notizia del Malvasia che parla del legame di Agostino con la cortigiana Isabella. Dax-de Butler, Augustin Carrache, pp. 44-45.

[9]     E. Negro, M. Pirondini, N. Roio, Antonio Carracci, 2007, p. 65-82.

[10]   De Grazia 1984.

[11]   Si veda in proposito L. Sickel, Laura Maccarani. Una dama ammirata dal cardinal Odoardo Farnese e il suo ritratto rubato commissionato da Melchiorre Crescenzi, in “Mélanges de l'école française de Rome. Italie et Méditerranée”,117, 2005, pp. 331-350. L'autore rintraccia una serie di documenti dai quali emerge l'attenzione di cui fu oggetto la «bella Maccarana» da parte non solo di Odoardo, ma di altri illustri esponenti della nobiltà romana e non, come il giovane Melchiorre Crescenzi, che giunse a commissionarne un “ritratto rubato”.






Fig. 1
Agostino CARRACCI, Satiro “scandagliatore”, incisione.

Fig. 2
AGOSTINO CARRACCI, Ogni Cosa Vince l'Oro, o Il Vecchio e la Cortigiana, incisione.

Fig. 3
H. WIERIX, Vanitas Vanitatum et Omnia Vanitas, 1578, incisione

Fig. 4
GIAN GIACOMO CARAGLIO, Giove e Io, incisione.

Fig. 5
GIAN GIACOMO CARAGLIO, Mercurio ed Erse, incisione.

Fig. 6
MARCANTONIO RAIMONDI, I modi o Le Sedici Posizioni, incisione.

Fig. 7
AGOSTINO CARRACCI, Satiro “scandagliatore”, collezione privata

Fig. 8
ANNIBALE CARRACCI, Ercole e Iole, Galleria Farnese, Roma.

Fig. 9
ANNIBALE CARRACCI, Venere e Anchise, Galleria Farnese, Roma.

Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

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