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Lo spettatore spett-attore al museo e le conseguenze del Metodo Abramovic  
Mercedes Auteri
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 5 Luglio 2012, n. 655
http://www.bta.it/txt/a0/06/bta00655.html
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Area Interviste

Milano 2012, Padiglione d’Arte Contemporanea, fiumi di gente per assistere e-o partecipare al Metodo Abramović, prenotazioni esaurite da mesi, televisioni e stampa ne parlano un giorno si e l’altro pure. L’artista fa la sua comparsa in mostra di presenza o in video per tre mesi ogni giorno, da marzo a giugno. Le sale del PAC allestite con schermi, sedie, tavole-letto di varie dimensioni, minerali e magneti. Due opzioni di visita dello spazio, da attore o da spettatore.

L’attore segue le indicazioni dell’artista guru: respira, rilassati, immagina, senti il legno, le superfici, la pietra, le energie, lo spazio e, soprattutto, prenditi tempo e vivi pienamente il tuo tempo in relazione con te stesso e con ciò che ti circonda (cose, luoghi, esseri). Lo spettatore: un voyeur che osserva al cannocchiale ogni piccolo gesto dell’attore e si pone in un confronto critico, osmotico, partecipativo o indifferente con ciò che accade. Il suo ruolo è ripensato radicalmente, la sua partecipazione è una condizione necessaria per dare senso e compimento all’opera. I video al piano superiore, fonte documentaria e artistica delle azioni più famose della lunga carriera di Abramović, il corredo alla visita. L’arte fuori di sé che crea “spazio altro dentro di sé” l’hanno definita Andrea Balzola e Paolo Rosa, redigendo un manifesto per l’età post-tecnologica (l’artista riproduce un frammento della ritualità sociale senza dispositivi tecnologici o facendone un uso puramente rappresentativo, non si limita a coinvolgere lo spettatore nell’opera ma gli offre la possibilità di sperimentare nuove esperienze percettive e differenti modalità di relazione).

A pochi giorni dalla sua conclusione qualcuno dice che è la mostra dell’anno (per interesse e clamore suscitato), altri dicono che mostra non è (perché non ci sono “opere d’arte”). Tutto e il contrario di tutto, ancora dopo mezzo secolo dalla sua comparsa, suscita la performance art. Eppure, sulla scia di altri artisti magneti che hanno fatto del corpo il mezzo della loro espressione (da Pollock a Kaprow, da Klein a Beuys o, per linea femminile, da Cahun a Schneemann, da Yoko Ono a Yayoi Kusama, da Ana Mendieta alla José Galindo o a Lygia Clark), stravolgendo l’allestimento delle maggiori gallerie e musei del mondo (da Belgrado a New york, da Londra a Venezia), quando non si esibisce in luoghi pubblici (dal deserto australiano alla muraglia cinese, da Maiorca ai vulcani delle Eolie), da mezzo secolo ormai, Marina c’è.

L’artista, il suo pensiero, è l’opera d’arte; lo spett-attore è l’oggetto estetico in mostra che produce relazioni; il dialogo che si apre è quello che Marcel Duchamp chiamava “coefficiente d’arte” e che Nicolas Bourriaud chiama “forma di negoziazione interumana che é un processo temporale che si gioca qui ed ora”. Il tempo l’ultima vera conquista della pioniera Abramović che, nelle sue azioni, lo ha reso sempre più protagonista, superando limiti fisici e rendendolo il senso delle sue e delle nostre riflessioni. Sociale e zen, materiale e spirituale, energica come le pietre allestite al PAC, l’artista è presente anche quando non è presente. Come dichiarò nel 1971, la prima volta che riusciva a fare qualcosa di diverso da un dipinto, dopo il Drangularium nelle sale dello Studentski Kulturni Centar, ciò che conta non è l’oggetto ma l’atmosfera. E, adesso, sta pensando alla sua eredità. Ad una scuola (il Marina Abramović Institute progettato dallo studio OMA di Rem Koolhaasa ad Hudson, New York) insieme palestra, accademia e il più grande museo di performance art esistente che ne tramandi gesti, senso, contenuti.

“La resistenza e la messa in mostra del dolore che essa implicava era una provocazione che modificava la coscienza dell’artista più che quella del pubblico e, come i suoi colleghi degli anni settanta avevano scoperto, non era facile da perseguire per tutta la carriera, e men che meno oltre. Ma la durata, nei termini in cui la propone Abramović, può creare un’esperienza condivisa, sovraccaricare uno spazio di irresistibile empatia e far emergere un presente perfettamente sospeso, che si può persino afferrare. Lavorando con la durata, Abramović può catturare l’unica cosa che avrà sempre, almeno fino alla morte: il tempo” (James Westcott, Quando Marina Abramović morirà, 2011). Le conseguenze di questa mostra ? Una maggiore consapevolezza dei linguaggi dell’arte, una visione più relazionale dello spazio museo, uno sguardo sociale sul tempo (sulle distrazioni che ce lo portano via e sull’importanza delle “attenzioni” di cui l’arte è costante monito). Ne ho chiacchierato con il curatore della mostra, Diego Sileo.

 

 

 

 

 

Intervista di Mercedes Auteri a Diego Sileo

 

Marina Abramović ha dichiarato che “l'arte deve essere l'ossigeno della società” e che “gli artisti hanno la responsabilità di portare dei valori e devono prevedere il futuro”, quali valori e quale futuro, secondo te, ha previsto questa mostra ?

Marina sostiene che il tempo ha sempre più valore perché ce n’è sempre meno. E io aggiungerei che siamo sempre meno disposti a fermarci a pensare al poco tempo a nostra disposizione. Una performance di lunga durata, come quella che si è ripetuta al PAC per tre mesi, ha il potere di creare una trasformazione mentale e fisica sia per il pubblico, che qui è diventato performer, sia per lo spettatore, che come in uno specchio poteva riflettersi nei lenti movimenti dei partecipanti alla performance. Marina ha voluto dare al pubblico l’opportunità di sperimentare e riflettere sulla vacuità, il tempo, lo spazio, la luminosità e il vuoto. Diventando parte del suo lavoro, il pubblico ha avuto la possibilità di allontanarsi dalla quotidianità, cui inevitabilmente è soggetto, per provare a ridare la giusta importanza a quei valori che di fatto costituiscono la base della nostra esistenza e quindi anche del nostro stesso futuro.

 

 

In cosa consiste il Metodo Abramović, come cambia la visione dell’arte rispetto alle azioni performative che, a loro volta, già nel Novecento, avevano stravolto la fruizione delle opere e degli spazi ?

The Abramović Method nasce da una riflessione che Marina Abramović ha sviluppato partendo dalle sue ultime tre performance: The House With the Ocean View (2002), Seven Easy Pieces (2005) e The Artist is Present (2010), esperienze che hanno segnato profondamente il suo modo di percepire il proprio lavoro in rapporto al pubblico. “Nella mia esperienza, maturata in quaranta anni di carriera, sono arrivata alla conclusione che il pubblico gioca un ruolo molto importante, direi cruciale, nella performance”, ha dichiarato Marina. “Senza il pubblico, la performance non ha alcun senso perché, come sosteneva Duchamp, è il pubblico a completare l’opera d’arte. Nel caso della performance, direi che pubblico e performer non sono solo complementari, ma quasi inseparabili”. Con The Abramović Method è stato proprio il pubblico, guidato e motivato dall’artista, a vivere e sperimentare le sue “installazioni interattive”. Le sue nuove opere - impreziosite da vari minerali e pietre preziose, quali il quarzo, la selenite e la crisocolla – hanno trasformato gli spazi del PAC in un’esperienza fatta di buio e luce, assenza e presenza, percezioni spazio-temporali alterate. Un percorso dove le persone hanno potuto espandere i propri sensi, osservare, imparare ad ascoltare e ad ascoltarsi.

 

 

Rispetto alle precedenti performance, legate al corpo, al sangue, ai limiti della fisicità, questa nuova sfida della Abramović è legata alla mente, alle reazioni dello spettatore, all’intimità che si crea con l’osservatore in modo totalizzante. Come hanno reagito i visitatori, sia “partecipanti” che “spettatori” ? Qual’è il bilancio dei curatori, quantità e qualità degli ingressi in mostra, a una settimana dalla chiusura ? Quali sono state le considerazioni dell’artista a conclusione di questo nuovo esperimento ?

Ottima risposta, con più di 20.000 visitatori, di cui oltre la metà partecipanti alla performance. Un risultato ben al di sopra della nostra media di affluenza alle mostre. Abbiamo registrato una sorprendente voglia di osare, di mettersi in discussione, di provare a riaffermare se stessi nel proprio tempo. Marina è molto soddisfatta del risultato, soprattutto perché si è resa conto che il suo metodo, sperimentato su se stessa in anni di dedizione e ferreo autocontrollo, può essere lasciato in eredità a un pubblico sempre più vasto e riproposto attivamente dalle future generazioni.









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The Abramovic Method

Fig. 1
The Abramovic Method, a cura di Diego Sileo ed Eugenio Viola
PAC, Milano (21 marzo - 10 giugno 2012).

The Abramovic Method

Fig. 2
The Abramovic Method, a cura di Diego Sileo ed Eugenio Viola
PAC, Milano (21 marzo - 10 giugno 2012).

The Abramovic Method

Fig. 3
The Abramovic Method, a cura di Diego Sileo ed Eugenio Viola
PAC, Milano (21 marzo - 10 giugno 2012).

The Abramovic Method

Fig. 4
The Abramovic Method, a cura di Diego Sileo ed Eugenio Viola
PAC, Milano (21 marzo - 10 giugno 2012).

The Abramovic Method

Fig. 5
The Abramovic Method, a cura di Diego Sileo ed Eugenio Viola
PAC, Milano (21 marzo - 10 giugno 2012).

Foto cortesia Mercedes Auteri

Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

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