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Costruzioni e visioni: Roma e il mecenatismo spirituale alla metà del '400  
Ettore Janulardo
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 29 Luglio 2011, n. 616
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Area Didattica

Costruir visioni: intrecciare restaurazione politica e metamorfosi spirituale; riorientamento della sede papale in Roma e rimodellamento dei rapporti con la cittadinanza; edificare percorsi e demolire opposizioni; far mecenatismo e scontrarsi col reale.

Negli otto anni di pontificato di Niccolò V, dal 1447 al 1455, a Roma si delineano le basi di una metamorfosi architettonico-urbanistica che si fa prospettiva culturale. Superando le conseguenze del trasferimento del papato ad Avignone e del Grande Scisma d’Occidente, Martino V – a cui si deve un atteggiamento “rivoluzionario” nei confronti dell’antico, visto come modello estetico-culturale da recuperare [1] – ed Eugenio IV recuperano la sede romana. Ma è con Niccolò V che – ricomposto il Piccolo Scisma d’Occidente e sottomessosi l’antipapa Felice V – si delineano dei percorsi politico-spirituali all’origine dei secoli di massimo splendore della Roma pontificia.

Le concessioni ai principi tedeschi, laici ed ecclesiastici, e il Concordato di Vienna del 1448 sono la contropartita, in Europa, di scelte umanistiche e religiose che ridefiniscono la centralità di Roma come “città del Papa”. Prossimo a sofisticati ambienti culturali, Niccolò V pratica del mecenatismo spirituale:

-         si operano costruzioni, restaurando e rinnovando ponti, acquedotti e chiese;

-         si procede al riassestamento delle mura vaticane e delle fortificazioni di Castel S. Angelo;

-         si determinano visioni delle articolazioni territoriali e delle relazioni tra i gruppi sociali nell’Urbe: vecchia e nuova nobiltà, strati mercantili, ripartizioni dei poteri all’ombra del pontificato, in un percorso che è di confronto politico ma anche di dialettica spaziale, tesa ed “illuminata”, lineare ed accidentata, segnata da successi e da drammi.

Ritrovare definitivamente Roma – tanto da incoronarvi nel 1452, per l’ultima volta, un imperatore: Federico III – è per il pontefice anche un riorientamento dell’asse artistico-spirituale della città: dal Laterano all’area vaticana, dall’ideale continuità con la dimensione imperiale alla possibile raffigurazione in termini di moderno principato, coesistente con gli altri Stati italiani e collegato ad essi nella Lega Italica. La macrostoria dell’Urbe si sostanzia anche di percorsi intra muros, lungo l’asse sud-est/nord-ovest: da San Giovanni in Laterano al Colosseo e al Campidoglio, prima di giungere alla “cesura” del fiume, al Ponte e al Castel S. Angelo – mole-fortezza di veglia militare che si fa segno spirituale – e al Borgo, protetto e diretto dalla Basilica di San Pietro. E’ in quest’asse che si delinea la prospettiva politico-mecenatistica di Niccolò V.

Sul tessuto intellettuale del confronto con l’immagine della città, momento fondante è la Descriptio Urbis Romae di Leon Battista Alberti: riappropriazione fisica e mentale, ricostruzione matematica che s’intreccia alla memoria storica, visita che si fa visitazione, topografia come rifondazione dello spirito, “in teoria una pianta della città di Roma, ma in pratica una lista di coordinate polari che permettono al lettore di ridisegnare l’immagine della pianta di Roma nella scala desiderata a partire dalle coordinate di 175 punti salienti” [2] . L’incipit albertiano ritraccia il contesto ed esplicita il progetto: “Ho rilevato quanto più diligentemente possibile, con l’ausilio di mezzi matematici, il contorno delle mura della città di Roma, il percorso del fiume e delle strade, il luogo e la collocazione dei templi, delle opere pubbliche, delle porte e dei monumenti commemorativi e le delimitazioni dei colli ed anche l’area che è occupata dalle abitazioni, così come li conosciamo in questo nostro tempo. Ho inoltre escogitato un metodo per cui chiunque […] possa con precisione e con facilità disegnarli su una superficie grande quanto si voglia” [3] .

Continuatore della tradizione di Vitruvio, con il De Architectura pervenutoci privo di illustrazioni, della Geografia di Strabone – i cui diciassette libri delineano una cosmografia dell’antichità senza rappresentare alcun disegno –, l’Alberti, abbreviatore apostolico dal 1432, riconosce negli spazi e nei resti della classicità l’antitesi di un Trecento che a Roma è stato a-pontificio, senza configurarsi come costruzione di un’identità altra. La Descriptio riprende la metodica della Geografia di Tolomeo – fornire ad ogni studioso i mezzi matematici per costruire una mappa –, passando dalla dimensione globale (oltre 8.000 punti sono individuati dalle coordinate tolemaiche) al perimetro urbano: evidenziata dall’Alberti, l’identità dell’Urbe comincia a ritrovare dignità spaziale, sebbene in forma semplificata e parziale.

Riprendendo le conclusioni di Carpo – “L’Alberti può già creare, ma non può ancora comunicare immagini moderne” [4] – giungiamo al possibile inverarsi della prospettiva topografica albertiana nel reticolo urbano di Roma, per il tramite del mecenatismo spirituale niccolino: dall’esame archeologico si addiviene alla ristrutturazione di Santa Maria Maggiore, al restauro di S. Stefano Rotondo, a tracce di interventi sul Campidoglio e a Palazzo Venezia; culmine trattatistico di questa stagione è il De re aedificatoria, presentato a Niccolò V.

Le elaborazioni politico-diplomatiche, le riflessioni umanistiche e le urgenze di governo si sostanziano di un’attività mecenatistica papale che è costruzione di un’immagine spirituale da proporre al pubblico nella condivisione di prospettive artistiche. Lontano dalle grandi famiglie della conflittuale nobiltà romana, Niccolò V, per origine “di sì vile nazione che non aveva arma e fece per arma la chiave” – come nota il coevo cronista Paolo dello Mastro –, trasforma l’assenza di un segno particolare in presenza di un simbolo universale per la cristianità: le chiavi decussate.

Scrive Paschini: “In questo programma di pacificazione e di restaurazione universale propostosi dal grande Pontefice, il Giubileo aveva una parte notevolissima ed egli vi attese con grande fervore. Lo indisse solennemente il 29 gennaio 1449 per il Natale seguente […]” [5] . Sull’apertura della porta santa di San Giovanni in Laterano osserva nella sua relazione il mecenate-pellegrino Giovanni Rucellai, a Roma per la ricorrenza: “ve ne è una che del continuo sta murata eccetto che l’anno del Giubileo ed è tanta la divozione che le persone hanno ne’ mattoni e calcinacci, che subito come è smurata, a furia di popolo sono portati via, e gli oltramontani se ne gli portavano a casa come reliquie sante […]” [6] .

Il Giubileo del 1450, di cui resta ampia documentazione, proporzionata all’afflusso di romei dall’Italia e dall’estero, conclude la prima parte del pontificato di Niccolò V. L’afflusso di pellegrini in cerca di un ricetto esaspera la problematica degli alloggi precari o abusivi [7] , che non possono non interferire con un ideale disegno di ridefinizione della città papale. Scrive Paolo dello Mastro: “Nella via che va a Sancto Pietro, lì presso le mura, erano fatte molte casette da quelli poveri, ove già s’era fatta grandissima congregazione di gaglioffi, et facevasi di molto male. El papa fecie mettere fuoco in quelle case, tutte furono arse”. L’anno santo introduce anche l’elemento tragico. “In primo luogo la peste che, nei mesi caldi, si riaffacciò anche a Roma. Narra il cronista […] che ‘morì molta gente e molti di questi romieri; e morivano talmente che tutti gli ospedali, chiese, ogni casa era pieno tra malati e morti; e cascavano morti per le strade come cani, tra l’aria che era infetta ed essi che venivano a grande disagio, bruciati dalla calla e dalla polvere. Ce ne morirono tanti che fu un abisso [disastro] […]’ (Cronache romane, 20). Per sfuggire il contagio, molti uscirono dalla città, fra cui Niccolò V che si rifugiò a Fabriano, non prima però di aver canonizzato san Bernardino” [8] – morto all’Aquila nel 1444 –, il 24 maggio 1450.  Mesi più tardi, il 19 dicembre 1450, la calca di pellegrini nelle opposte direzioni provoca oltre centosettanta vittime, annegate o schiacciate al Ponte S. Angelo [9] .

Scrive Vespasiano da Bisticci che “col Giubileo, venne alla sedia apostolica grandissimo numero di denari, per questo cominciò il papa ad edificare in più luoghi” [10] . “Già in in vista del giubileo papa Parentucelli, con la consulenza di  Leon Battista Alberti, aveva  dato inizio alla revisione urbanistica di Roma e dintorni e i lavori proseguirono anche dopo” [11] .

Ecco dunque gli interventi sulla paleocristiana basilica di S. Stefano Rotondo al Celio. Voluta probabilmente da Leone I, la costruzione originaria sembra risalire agli anni 455-460; dall’articolata pianta circolare, costituita inizialmente da tre cerchi concentrici, la struttura è rimaneggiata e più volte trasformata nei secoli, sino a perdere a tal punto leggibilità e funzione da esser definita, verso il 1420, basilica disrupta. Scrive Rucellai nella sua Relazione: “La chiesa di sancto Stefano ritondo tempio d’idoli tondo in su 20 colonne con architravi aperto per tutto et da torno uno andito con tetto serrato di mattoni con una cappella antica dallato con musaico et con tavolette et tondi di porfido et serpentino et con fogliami di nacchere et grappoli d’uve et tarsie et altre gentilezze” [12] .

Niccolò V ne affida il cantiere all’allievo dell’Alberti, Bernardo Rossellino, che sovrintende al restauro delle coperture e al rifacimento del pavimento, di cui viene innalzato il livello: al centro dell’edificio, a ridosso del muro trasversale aperto da tre arcate eretto nel XII secolo per rafforzare la struttura, è posto un altare marmoreo [13] . Nell’articolata planimetria della Roma niccolina, il restauro della basilica rappresenta la riappropriazione al papato di un edificio lontano dalle sedi politico-decisionali e la sua reintegrazione nell’orizzonte classico-cristiano dell’Urbe: la mappa della città ritrova così uno dei suoi punti di riferimento, mentre il mecenatismo spirituale del pontefice si mostra nella capacità di ri-significare i luoghi per farne ambiente pubblico.

Collegata al Giubileo è anche la “costruzione immateriale” della Biblioteca Apostolica Vaticana. Il grande flusso di denari che si riversa in Roma a seguito dell’afflusso di pellegrini consente allo stato pontificio d’incamerare fiorini corrispondenti a trenta volte l’ammontare di un anno normale. Invia dunque Niccolò V legati in Europa alla ricerca di codici e manoscritti; scrive, con esagerazione, Vespasiano: “Congregò grandissima quantità di libri in ogni facultà, così greci come latini, in numero di volumi cinquemilia. Così nella fine sua si trovò per inventario, che da Tolomeo in qua non si vene mai alla metà di tanta copia di libri, d’ogni facultà” [14] . In verità, i volumi raccolti erano un migliaio, conservati in dodici armadi, ma il progetto papale sembra evidente: “Intentione di papa Nicola era di fare una libraria in Sancto Piero, per comune uso di tutta la corte di Roma, che sarebe suta cosa mirabile, se si poteva conducere, ma prevento dalla morte non si potè finire” [15] . Pier Candido Decembrio osserva che Niccolò V meditava di costruire una biblioteca in grado di rivaleggiare, per dimensioni e qualità dei testi, con quelle di Pergamo e di Alessandria. Con una lettera del 1451 ad Enoch di Ascoli, il pontefice incarica l’umanista di ricercare nelle biblioteche dei monasteri tedeschi testi che “culpa superiorum temporum sunt deperditi”: si delinea il progetto di una biblioteca, con testi greci e latini, ad uso dei dotti nonché attenta alle esigenze di rappresentanza della Santa Sede [16] .

         Niccolò e il successore Sisto IV – che con la bolla “Ad decorem militantis ecclesiae”, nel 1475, istituzionalizza il ruolo dell’Apostolica Vaticana –, concepiscono la biblioteca come uno spazio pubblico [17] , aperto agli studiosi e alla meditata utilizzazione dei materiali raccolti, con un approccio sostanzialmente diverso da quello “riservato” della Biblioteca Medicea nel Convento di San Marco o da quello estetico-cortese della Biblioteca Estense a Ferrara, destinata a includere selettivamente solo gli autori migliori: è in questa accezione che si delinea uno degli snodi che lega il mecenatismo papale ad una dimensione potenzialmente fruibile. Nella seconda metà del ‘400 Roma diviene il centro principale di studi e diffusione di testi della classicità: Valla dedica a Niccolò V, nel 1452, la traduzione latina della Storia delle guerre del Peleponneso di Tucidide. Scrive la Vircillo Franklin: “Valla e il copista […] firmano la copia con dedica per attestare la correttezza della traduzione e della trascrizione e la depositano nella biblioteca papale affinché serva da matrice, riferimento normativo, testo corretto al quale tutte le copie future dovrebbero  attenersi” [18] . E’ in quest’esemplare che il termine “archetipo” compare per la prima volta nell’accezione umanistica di “esemplare ufficiale”, conservato in una pubblica biblioteca: il mecenatismo niccolino vuole andare incontro al proprio pubblico.

         In direzione opposta, alla ricerca di un’intimità di preghiera in scrigno decorativo quattrocentesco, si pone la celebrazione del mecenatismo spirituale del pontefice nella Cappella Niccolina. Spazio privato all’interno della Torre d’Innocenzo III, nella parte più antica del Palazzo Apostolico, la cappella ha pareti decorate dal Beato Angelico e da Benozzo Gozzoli con scene delle vita di due santi: il registro superiore è consacrato ad episodi della vita di Santo Stefano protomartire, mentre quello inferiore è dedicato a San Lorenzo. La volta a crociera, dallo sfondo di cielo stellato, ospita le immagini dei Quattro evangelisti, mentre i pilastri e gli arconi di fondo presentano otto Dottori della Chiesa [19] .

         Il pontefice rinnova all’Angelicus pictor la stima già manifestatagli da Eugenio IV ed è ricambiato dal frescante con la sua raffigurazione nelle sembianze di Sisto II nell’atto di consacrare Lorenzo diacono e nel momento in cui gli vengono consegnati i tesori della Chiesa: il papa umanista e bibliofilo è così innanzitutto celebrato come protagonista della storia ecclesiastica e fonte di carità.

         Le scene di Santo Stefano seguono lo schema della Legenda Aurea, mentre quelle di San Lorenzo riprendono l’antico modello del ciclo di San Lorenzo fuori le Mura. Gli affreschi evidenziano parallelismi nelle vite dei due santi – entrambi diaconi, benefattori dei poveri, martiri per la fede – mostrando inoltre legami tra la chiesa di Gerusalemmeequella di Roma [20] .

         Ricchi di dettagli architettonici, gli affreschi alludono anche al desiderio del pontefice di ricostruire e ridefinire Roma come capitale della cristianità. Le mura del Martirio di Santo Stefano alludono al restauro delle mura di Roma, mentre le divisioni nella comunità ebraica di Gerusalemme possono compararsi allo scisma cristiano di cui è stato testimone Niccolò V.

         La prospettiva di pacificazione della penisola e la ricostruzione dell’immagine di Roma all’insegna dell’umanesimo spirituale lasciano scoperto il fronte interno: nella città papale – troppo recentemente recuperata all’autorità pontificia – e nell’alveo della cultura quattrocentesca, memore di una percezione anti-monarchica e repubblicana della storia antica. Osserva il Machiavelli delle Istorie fiorentine: “Il Pontefice intra queste guerre non si travagliava, se non in quanto egli credeva potere mettere accordo infra le parti; e benché e’ si astenessi dalla guerra di fuori, fu per trovarla più pericolosa in casa. Viveva in quelli tempi un messer Stefano Porcari, cittadino romano, per sangue e per dottrina, ma molto più per eccellenza di animo, nobile. Desiderava costui, secondo il costume degli uomini che appetiscono gloria, o fare, o tentare almeno, qualche cosa degna di memoria; e giudicò non potere tentare altro, che vedere se potesse trarre la patria sua delle mani de’ prelati e ridurla nello antico vivere, sperando per questo, quando gli riuscisse, essere chiamato nuovo fondatore e secondo padre di quella città. Facevagli sperare di questa impresa felice fine i malvagi costumi de’ prelati e la mala contentezza de’ baroni e popolo romano; ma sopra tutto gliene davano speranza quelli versi del Petrarca, nella canzona che comincia: ‘Spirto gentil che quelle membra reggi’, dove dice: Sopra il monte Tarpeio, canzon, vedrai / Un cavalier che Italia tutta onora, / Pensoso più d’altrui che di se stesso” [21] .

         Nella ricostruzione di Machiavelli scorgiamo l’altra valenza dell’immagine culturale quattrocentesca, che ambisce a farsi storia risorgendo dalla prospettiva lirica petrarchesca, con l’inquieto spirito del Porcari rifiutare il mecenatismo niccolino in nome di diverse letture dei tempi, ove si confrontano il passato che ammaestri il futuro e un presente su cui intervenire: “Sapeva messere Stefano i poeti molte volte essere di spirito divino e profetico ripieni; tal che giudicava dovere ad ogni modo intervenire quella cosa che il Petrarca in quella canzona profetizzava, ed essere egli quello che dovesse essere di sì gloriosa impresa esecutore; […] Venne la cosa a notizia al Pontefice la notte […] Comunque si fusse, il Papa […] fece prendere messere Stefano con la maggior parte de’ compagni, e di poi, secondo che meritavano i falli loro, morire. Cotal fine ebbe questo suo disegno. E veramente puote essere da qualcuno la costui intenzione lodata, ma da ciascuno sarà sempre il giudicio biasimato; perché simili imprese, se le hanno in sé, nel pensarle, alcuna ombra di gloria, hanno, nello esequirle, quasi sempre certissimo danno” [22] .

         Insieme ai complici Battista Sciarra e Angiolo Ronconi, Stefano Porcari è processato e condannato a morte, esposto ad un bastione di quel Castel S. Angelo dalla rinnovata centralità all’interno del perimetro urbano di Roma [23] . Nel De Porcaria conjuratione, dopo aver definito l’artefice della congiura “Homo impatiens l’Alberti chiosa: “Coepit enim veterem Urbis gloriam deperditam deplorare, et temporum injurias detestari […]” [24] .

         La morte del Porcari segna un punto di svolta nell’ambito delle interpretazioni della classicità nella Roma quattrocentesca, contraddistinta da diversi tipi di classicismo:

-    un umanesimo curiale, rappresentato dai papi umanisti come Niccolò V e i suoi più illuminati successori;

-    un “platonismo romano”, legato ad ambienti ove antichi precetti teologici incontrano il cristianesimo attraverso la mediazione del neoplatonismo, sulla scia di Niccolò Cusano e del cardinal Bessarione;

-    un umanesimo prossimo all’interpretazione curiale e a quella platonizzante, ma destinato ad accentuare tanto la propria tendenza paganeggiante da spingere papa Paolo II a sciogliere, nel 1468, l’Accademia romana;

-    un classicismo, infine, “mosso da esigenze ideologiche rapportabili all’eredità della tradizione municipale […] [in] un diverso rapporto con l’antichità classica romana che tende a sottrarre alla Curia l’egemonia di questa tradizione”. Tale linea, che risale a Cola di Rienzo, trova un primo momento di riattivazione nella rivendicazione di una romana libertas e un successivo congiurare in nome di una Respublica ad opera del Porcari, per il quale la romanità è “un patrimonio esclusivo di cui i Romani sono gli unici eredi diretti, un insieme di valori non solo aventi […] una validità universale, ma anche perennemente attuali non in nome di questa universalità ma in nome di una trasmissione quasi biologica: sempre potenzialmente attivi nei Romani, appunto in quanto Romani, basta richiamarli alla coscienza perché diventino operanti” [25] .

 

         Punto di avvio di un processo di metamorfosi del potere nell’Urbe, da entità tardo-medievale a nucleo di principato rinascimentale, nel “periodo tra il 1447 e il 1527, che è parso essere la fase della riqualificazione di Roma non solo come capitale, ma anche come ‘centro di un sistema di relazioni che si infittiscono e si consolidano’ [26] a livello italiano ed europeo, gli obiettivi e le contraddizioni del processo di costruzione della sovranità pontificia sembrano materializzarsi nella grandiosità e nelle incoerenze dei progetti di ristrutturazione dello spazio urbano” [27] , mentre il mecenatismo spirituale di Niccolò V mostra anche il suo volto spietato, nella logica di un potere che, turbato dalla congiura e addolorato dalla caduta di Costantinopoli, non recupererà andamento né sereno né aperto, concludendo la propria parabola nel 1455.

 



NOTE

Comunicazione presentata al Convegno Mecenatismo, artisti, pubblico nel Rinascimento organizzato a Chianciano Terme e Pienza nel 2009 dall'Istituto Studi Umanistici "Francesco Petrarca"


[1]   Cfr. C. Strinati – M. Bussagli, Il Quattrocento a Roma. La rinascita delle arti da Donatello a Perugino, Skira, Roma, 2008.

[2]   M. Carpo – F. Furlan, Riproducibilità e trasmissione dell’immagine tecnico-scientifica nell’opera dell’Alberti e nelle sue fonti, Introduzione a L. B. Alberti, Descriptio Urbis Romae, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2005.

[3]   L. B. Alberti, Descriptio Urbis Romae, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2005.

[4]   Ibid.

[5]   P. Paschini, I Giubilei del secolo XV, in C. Bandini et alii, Gli anni santi, Società Editrice Internazionale, Torino, 1934.

[6]   G. Rucellai, Il Giubileo dell’anno 1450 secondo una Relazione di Giovanni Rucellai, in “Archivio della Società romana di Storia patria”, IV, 4, 1881.

[7]   Cfr M. Sensi (a cura di), Il Giubileo viaggio nella storia - Gli Anni Santi del 1423 e 1450 http://www.vatican.va. Osserva Rucellai, nella sua Relazione: “Erano in Roma questo anno del giubileo hosterie milleventidue che tengono insegna di fuori. Et sanza insegna anche uno grande numero”.

[8]   M. Sensi, op. cit.

[9]   Leggiamo nel Diario di Stefano Infessura che “nel sabbato 19 dicembre 1450, tornando il popolo da S. Pietro, dove si era mostrato il Sudario, e data la benedizione da papa Niccolò V, avvenne la terribile sciagura, che per la calca si ruppero le sponde del ponte e 172 persone perirono, in parte soffocate sul ponte stesso, in parte annegate nel fiume; onde quel papa all’ingresso del ponte fece erigere due picciole cappelle rotonde dedicate a S. Maria Maddalena e ai SS. Innocenti; poi restaurò il ponte e perciò il suo nome N[iccolò] P[ontefice] M[assimo] V si legge sopra uno de’ piloni nella faccia rivolta al Vaticano”.

[10] V. da Bisticci, Vite degli uomini illustri del secolo XV.

[11] M. Sensi, op. cit.

[12] G. Rucellai, op. cit.

[13] Un’iscrizione sulla trabeazione d’ingresso ricorda la ricostruzione: “ECCLESIAM HANC PROTOMARTYRIS STEPHANI DIV ANTE COLLAPSAM / NICOLAVS V PONT MAX EX INTEGRO INSTAVRAVIT MCCCCLIII”.

[14] V. da Bisticci, op. cit.

[15] Ibid.

[16] “Ut pro communi doctorum virorum comodo habeamus librorum omnium tum latinorum tum grecorum bibliothecam condecentem pontificis et sedis apostolicae dignitati.”

[17] Cfr. C. Vircillo Franklin, “Pro communi doctorum virorum comodo”: The Vatican Library and Its Service to Scholarship, The American Philosophical Society, Vol. 146, NO. 4, December 2002.

[18] Ibid.

[19] La Deposizione di Cristo dipinta dall’Angelico sulla parete di fondo, dietro l’altare, andata persa, è stata sostituita dalla Lapidazione di Santo Stefano del Vasari.

[20] La Basilica di San Lorenzo è stata sede del Patriarca Latino di Gerusalemme.

[21] N. Machiavelli, Istorie fiorentine, ed. elettronica www.liberliber.it.

[22] Ibid.

[23] Alla tragica conclusione della congiura e al clima di tensione diffusosi in città è legata una sarcastica pasquinata: “Da quando è Niccolò papa e assassino/abbonda a Roma il sangue e scarso è il vino” (C. Rendina, I papi, Newton & Compton Editori, Roma, 1996).

[24] L. B. Alberti, De Porcaria conjuratione, ed. elettronica http://www.bibliotecaitaliana.it.

[25] V. De Caprio, Roma, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Storia e geografia, vol. II: L’età moderna I, Einaudi, Torino, 1988, pp. 327-472.

[26] G. Chittolini, Alcune ragioni per un convegno, in S. Gensini (a cura di), Roma capitale (1447-1527), Pacini, Pisa, 1994.

[27] M. A. Visceglia, Identità urbana, rituali civici e spazio pubblico a Roma tra Rinascimento e Controriforma, relazione tenuta al convegno “Urbs: Concepts and realities of public space / Concetti e realtà dello spazio pubblico”, tenutosi presso l’Istituto Olandese di Roma il 2-4 aprile 2003.
















 

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