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Vulcano, tra il dio e la montagna: il passaggio linguistico dal mito alla scienza  

Graziella Becatti
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 20 Febbraio 2010, n. 553
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Nella lingua moderna il termine vulcano viene usato correntemente per designare un monte ignivomo. Tuttavia, esso non ha sempre avuto il suo contenuto semantico odierno, tant’è vero che, ancora oggi, usiamo la stessa parola per evocare il dio Vulcano, l’antica divinità romana.

I dizionari etimologici danno un quadro molto generico del problema. Angelico Prati nel suo Vocabolario etimologico italiano riferisce: “s.m. scient., monte che da un’apertura getta lava e gas infiammati. Ant. Volcano. Testi toscani ant. ànno bocano, bolgano. Da Vulcanus lat. Vulcano, dio del fuoco. Dal dio Vulcano fu tratto pure il termine scient. vulcanizzazione […]” [1] . Nel dizionario di Pianigiani, invece, la parola vulcano non viene nemmeno menzionata. Più preciso appare il Dizionario etimologico Italiano di Battisti e Alessio, che, in merito alle origini del nome, risale a riferimenti legati alla lingua etrusca: “Vulcanus, divinità mediterranea, cfr. l’etrusco Velchans, il retico Velchanu e il cretese Welchanos (soprannome di Giove) conservato nell’antico genovese borchia, inferno […] port. bulcão, nuvola tempestosa; fr. boucan, provens. bolcan […]. Vulcano: (bolcan, -ane, a. 1596, Acosta-Gallucci; volcano, Oudin) m. monte ignivomo […]. Prest. dal  lat. Vulcanus. La voce si è diffusa probabilmente in Spagna e Portogallo (Bottari) 1733: Montagne gettanti fuoco, che prima dà naviganti portoghesi, e poi comunemente da tutti Vulcani s’appellarono [2] .

Per comprendere come si è arrivati alla nascita del termine in senso moderno vale la pena soffermarsi prima sull’origine antica del vocabolo.  Il Lessico Italiano della Treccani, oltre ad una dettagliatissima descrizione scientifica del fenomeno, riferisce a proposito della figura mitologica di Vulcano quanto segue: “Il nome sembra riportare all’Etruria; secondo Varrone il culto di Vulcano fu introdotto a Roma da Tito Tazio; secondo un’altra tradizione il suo primo tempio è attribuito a Romolo. Comunque feste in suo onore, Vulcanalie, sono tra le più antiche feste romane. In età storica appare già identificato con Efesto […]” [3] . In riferimento al dio pagano, l’Enciclopedia dell’arte classica appare ancor più precisa: “Divinità romana del fuoco, identificata ufficialmente in seguito con il dio Efesto. Il nome viene ritenuto d’impronta etrusca, per quanto il suo corrispondente nel mondo etrusco non sia l’oscuro Velchans ma il dio Sethlans. […] non sembra di poter stabilire alcun rapporto con il dio cretese della vegetazione Velchanos […]. Vulcano appartiene indubbiamente allo strato più antico della religione romana […]. Non ci sono pervenute immagini del dio che dovettero esistere e come attestate nella tradizione ma è raffigurato con gli elementi caratteristici di Efesto, un berretto conico e delle tenaglie. […] Vulcano appartiene al numero delle grandi divinità dei Selecti di Varrone” [4] . Per quanto ci è dato sapere dunque, in epoca antica, il termine vulcano pare si associ solamente alla divinità [5] , anche se non si conosce bene il significato della parola etrusca dalla quale deriverebbe il termine latino. Il passaggio intermedio tra le due culture italiche ci è, per ora, ignoto; sappiamo, in compenso, che il dio dei Greci, Efesto, era identificato dagli Etruschi con un personaggio diverso da quello dal quale deriva Vulcano. Sembrerebbe, pertanto, che questo termine sia, all’apparenza, servito unicamente a designare il nome della divinità. Si può ipotizzare che tra l’antico dio etrusco e l’originario dio del fuoco latino, Vulcano, si sia verificato un fenomeno di identificazione. Successivamente, in contatto con la cultura greca, Efesto ha contribuito ad arricchire la divinità locale. Non si potrebbe escludere, quindi, un processo di assimilazione tra vecchie potenze italiche e nuovi apporti esterni come già successo nel caso delle divinità della triade capitolina [6] .

Il fatto che non siano conosciute attestazioni antiche per designare il vulcano, data la scarsità di testi di cui disponiamo della letteratura latina, non esclude l’esistenza di un termine specifico. Rimane ora da capire come, nella lingua italiana, dal nome proprio di una divinità, si è arrivati al nome comune che designa il monte ignivomo. Riprendiamo in merito la testimonianza di Battisti e Alessio nel loro dizionario etimologico che, per altro, viene riferita anche dal Tommaseo: “La voce si è diffusa probabilmente dalla Spagna e il Portogallo, G. Bottari, 1733. Montagne gettanti fuoco, che prima dà naviganti portoghesi, e poi comunemente da tutti Vulcani s’appellarono [7] . Secondo questa attestazione, dunque, il termine in senso comune sarebbe nato nell’uso quotidiano tra il XVII ed il XVIII secolo. Tuttavia la situazione sembra profilarsi in maniera più complessa.

Fin dall’antichità gli autori latini e greci dimostrano di avere coscienza del fenomeno naturale del vulcanismo. Si dimostra prezioso in merito lo studio compiuto di Alessandro Pagliara che ha raccolto una antologia di testi antichi ed arabi inerenti la storia scientifica e mitologica delle Isole Eolie e della Sicilia [8] . Mettendo insieme i testi sull’argomento pare evidente che il fenomeno scientifico sia stato costante oggetto di attenzione: dal De Mundo di Aristotele, a Polibio, Strabone, Diodoro Siculo, Plinio il Vecchio, persino Virgilio, che tratta l’argomento in poesia nel Aetna, e tutti coloro di cui ci è giunta notizia dalla lontana antichità. Colpisce tuttavia il fatto che, nonostante si descrivano i fenomeni vulcanici con un’attenta precisione non si usi mai un termine specifico per indicare il vulcano, (per quanto riguarda il funzionamento del vulcanismo si rimane, nella maggior parte dei casi, ancorati alla falsa idea di un vento sotterraneo che alimenta del fuoco in superficie). Ricorrono per designare il fenomeno i termini fuoco, eruzioni, fiamme, incendi, crateri, ma per l’insieme, non si va oltre la denominazione generica di monte di cui l’Etna è preso come l’esemplificazione per eccellenza. Ma se è vero che il monte siciliano ha avuto anche il diritto di godere di una vera e propria storia poetica personificandosi nel Ciclope che minaccia Ulisse, il Mongibello non è l’unico vulcano che viene preso in considerazione. Infatti, sia Stromboli che Vulcano sono citati a più riprese. Quest’ultimo in particolare è oggetto di molta attenzione; si dice dell’isola che è sacra al dio Vulcano e che da esso ha ripreso il nome. E’ qui che si deve cercare la forma embrionale del nostro termine moderno anche se, al suo stadio antico, non si è ancora svegliato dal suo sonno mitologico.

Parrebbe che il passaggio ulteriore verso le lingue romanze moderne avvenga nella cultura araba. La Sicilia è oggetto di conquista e può contemporaneamente usufruire del sapere antico unito a quello dei saraceni.  L’antologia di Pagliara che permette ancora di compiere passi supplementari per la nostra questione riferendosi alla Biblioteca Arabo-Sicula, una raccolta di testi arabi curata da Michele Amari nel XIX secolo [9] . Gli scritti cui si fa riferimento sono resoconti di viaggio ma anche lavori di natura scientifica dove, ovviamente, non può essere mancata una descrizione del fenomeno vulcanico. Il primo che viene citato è Abu ’al Hasan Ali ’ibn ’al Usayn ’al Masudi, autore di Bagdad vissuto nella prima metà del X secolo. Secondo la traduzione di Amari nello scritto Prati e gemme troviamo una consonanza con l’uso moderno della parola vulcano:

[…] L’isola che si addimanda ‘al Burkan è L’atimah (cratere) che erutta de’ corpi ignei rassomiglianti ad uomini senza testa […] Questo <vulcano> si addimanda atimah della Sicilia; in esso perì il filosofo Porfirio. [10] (episodio di Empedocle riferito da Strabone)

Il termine arabo Burkan sembra riferirsi al monte ignivomo il che rende gli Arabi un anello fondamentale per l’evoluzione verso l’uso di vulcano nel senso a noi più comune. Tuttavia anche gli scrittori del mondo arabo non mostrano sempre di avere idee chiare in merito. Così Abulfeda riferisce la nuova nomenclatura specificamente a luoghi siciliani e non al fenomeno in senso lato:

[…] Rimpetto a Roma <s’innalzano> dal mare due alte montagne, nelle quali perennemente apparisce fumo giorno e notte. Il nome della prima è Burkan, e quel dell’altra  Istanbri (Stromboli); i quali due vocaboli significano tuono e lampo. Ma secondo lo Sarif ‘al ‘Idrisi (Ebdrisi), Burkan, è il nome di due montagne; l’una delle quali in un’isola staccata <presso la costa> settentrionale della Sicilia, che non si conosce al mondo  <luogo > più terribile d’aspetto. Il secondo Burkan è proprio nell’Isola di Sicilia[…] [11]

Sebbene non si faccia più riferimento qui al dio pagano, il termine pare associarsi ad alcune componenti specificamente geografiche del fenomeno senza coprire un significato complessivo. Persiste quasi un rapporto di sinonimia tra il monte ed il Burkan.

E’ particolarmente interessante poi notare come gli Arabi leghino il termine Burkan all’isola di Vulcano:

Rhalat  ‘al Kinani  nel  Viaggio del Kinani riferisce:
A man dritta si vedevan in mare nove isolette [le Eolie][…] due delle quali[Vulcano e Vulcanello] mandan fuoco perennemente. […] Questo è il noto <fenomeno del> vulcano […] [12]

Muhtasir Gigrafiah nel Compendio di geografia:
In Sicilia è il celebre vulcano, in un isolotto delle parti di Messina[…] [13]

Nihayat ‘al ‘arib ne Il sommo sforzo di chi conosce le varie parti dell’erudizione (seconda metà del XII sec.):
In quest’isola, e, secondo alcuni, in un’isola adiacente ad essa, è il vulcano, ossia il cratere dal quale escono dei corpi simili a quello dell’uomo, ma senza testa umana (pietra pomice) […] [14]

Masalik ‘al ‘arib in Escursioni della vista su i reami e le capitali  (XIV sec):
Isola di Burkan (Vulcano). Essa non è grande. Avvi un monte, nel quale a volte arde un gran fuoco, e vi si sente a quando a quando un rombo come di tuono che mugghi. [15]

Sembrerebbe pertanto che gli Arabi, avendo incontrato sul loro cammino l’isola di Vulcano, abbiano determinato un accavallamento di significati rendendo l’isola l’antonomasia del fenomeno naturale e trasformandolo in un secondo momento in un termine dal significato più generale.
La derivazione araba del termine Burkan dal latino Vulcano sembra chiara con un noto fenomeno di sostituzione della consonante B alla semiconsonante V.

 Rimane ora da stabilire qual è stato il momento in cui il nome vulcano ha rivestito i suoi panni moderni nell’idioma italiano e quali sono stati i passaggi ad esso connessi.

Ricordiamo che uno dei primi scritti della letteratura italiana in volgare è proprio un testo scientifico; si tratta infatti di Della composizione del Mondo di Restoro d’Arezzo datata attorno al 1282. Basandosi su conoscenze antiche ed osservazioni naturalistiche annesse, l’autore illustra la creazione del mondo in lingua volgare facendo uso di forme dialettali tipicamente aretine [16] . Nei problemi affrontati da Restoro non manca la spiegazione di fenomeni vulcanici che determinano il fuoco sotterraneo, ma, pur essendo il fenomeno descritto secondo la migliore tradizione, il termine vulcano non viene mai utilizzato.

Torniamo ora ad una parte della definizione del Dizionario Etimologico di Battisti e Alessio che citano: “il retico Velchanu e il cretese Welchanos (soprannome di Giove) conservato nell’antico genovese borchia, inferno […] port. bulcão, nuvola tempestosa; fr. boucan, provens. bolcan […]. Vulcano: (bolcan, -ane, a. 1596, Acosta-Gallucci; volcano, Oudin) m. monte ignivomo […].” [17] . Sembrerebbe che il genovese ed il provenzale abbiano subito l’influenza dell’uso arabo anche se troviamo una variazione nell’uso della liquida L al posto della palatale R. Stesso discorso si può fare per i termini bocano o bolgano del toscano antico. Il significato tuttavia continua ad essere molteplice e si connette ad immagini suggestive quale può essere quella dell’inferno. Nella Historia natural y moral de las Indias, Acosta e Gallucci nel 1596 si mostrano ancora pienamente connessi alla naturale interpenetrazione culturale che la penisola iberica ha avuto col mondo arabo.

Lo studioso Michel Bastiaensen ha ritenuto che fosse possibile risalire ad un documento, che equivarrebbe ad un vero e proprio atto di nascita della parola vulcano in senso moderno nelle lingue romanze, precedente a quest’ultimo riferimento. “Volcan est un de ces rares mots à avoir la chance de posséder un acte de naissance: dans son sens moderne, il apparaît le 28 juillet 1524 sous la plume de Pedro de Alvaredo, dans un rapport adressé du Guatémala. D’autre part, s’il est vrai qu’il est utilisé comme nom commun, sans aucune explication ni comparaison par d’autres espagnols et plus tard les italiens du XVI siècle, il ne s’imposera toutefois de manière plus ou moins définitive dans les langues européennes qu’à partir de 1650 environ, grâce à l’ouvrage de Varenius” [18] . Questo resoconto di viaggio segnerebbe la fine dell’ambiguità linguistica. Eppure in Italia si può rintracciare, a mio avviso, un uso del termine vulcano in senso comune in uno scritto ancora precedente: l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna. Pubblicata nel 1499, quest’opera letteraria mette in scena un viaggio allegorico ed una storia d’amore tra il giovane Poliphilo e la sua amata Polia. Si tratta di un testo denso di descrizioni con costanti riferimenti ad un materiale erudito e raffinato ovvero il risultato di una cultura legata ad un ambiente estremamente complesso e sapiente dell’Umanesimo italiano maturo. Ed è proprio fra queste pagine che ritroviamo un passaggio chiave per l’oggetto del nostro studio:

Amore, nel mio contaminato infecto et inquinatissimo core delle sue morbide qualitate essendo disconsciamente salito invasore, più urente dispiacevolecia usoe che non il meridionale Ethon di Phoebo agli freschi floruli et mollicule piante et herbule, il quale immoderatamente più lo arde che lo insaziabile vulcano Ethna. [19]

Secondo quanto emerge dal testo, sembra che l’autore utilizzi già il termine vulcano in senso moderno. Marco Ariani e Mino Gabriele in un’introduzione al testo del Poliphilo sottolineano significativamente la molteplicità dei riferimenti dell’autore e la sua conoscenza di informazioni arabe : “Da uno scavo delle fonti […] emerge[…] una cultura umanistica raffinata, plurilinguistica (latino, volgare letterario, greco, lingue artificiali, come il polifilesco e i geroglifici, qualche non banale nozione di arabo e di ebraico), in gran parte di prima mano per quanto riguarda le fonti filosofiche e sapienziali, ma non solo […] [20] ”.

In altre parti dell’opera, il nome Vulcano in senso mitologico viene citato più volte, come pure il nome proprio dell’Etna; pertanto, l’autore mostrerebbe di essere già cosciente della nuova varietà semantica della parola. Da questa testimonianza è possibile desumere che, in Italia, anche prima del resoconto di Pedro de Alvaredo, in ambiente erudito e colto, si applicava già l’accezione modificata del termine di cui qui si rintraccerebbe uno dei primi usi nella lingua romanza. L’italiano usato da Colonna sembra voler superare la base popolare del volgare; esso è reso più aulico attraverso una lingua che si compiace di riferimenti eruditi. Pertanto il vocabolo arabo Burkan sembra lasciato da parte per far riferimento invece alla matrice latina vulcano secondo una nuova accezione tutta moderna. Il Quattrocento, anche se nelle sue ultime propaggini, porta con se il bagaglio denso ed estremamente erudito dell’Umanesimo, intriso di riferimenti all’antico ma anche proiettato verso nuovi modi di riferirsi alla realtà naturale e di celebrarla. Parrebbe proprio questo il momento della nascita del nome vulcano nella sua accezione comune.

            E’ senz’altro interessante inquadrare questo fenomeno nel contesto di quanto viene scritto prima, e durante lo stesso periodo, in riferimento all’uso dell’immagine del vulcano e della sua conseguente nomenclatura. A questo scopo, prendiamo in esame l’opera di tre autori: Francesco Petrarca, Pietro Bembo e Francesco Colonna. La scelta di questo trio è dettata dal particolare interesse che ricaviamo accostando alcuni dei loro scritti dal punto di vista dell’evoluzione semantica del termine vulcano. E’ altresì utile al nostro studio affrontare l’aspetto tematico associato al monte ignivomo per ogni caso preso in considerazione. Tracciando un rapido riferimento all’aspetto immaginifico dello sfruttamento letterario del vulcano sarà più semplice avere una visione sinottica paragonando gli stessi testi dal punto di vista esclusivamente linguistico.

            Cominciando cronologicamente prendiamo in esame alcune liriche del Canzoniere di Petrarca redatto tra il 1335 e la morte del poeta nel 1374. I sonetti, incentrati sulla figura della donna amata, Laura, mostrano anche il tormento di un’anima strattonata tra la sua profonda attrazione per la realtà terrena e l’anelito verso la dimensione celeste. La prospettiva dello sfruttamento del vulcano in Petrarca  è ancora prettamente mitologica. Riprende perciò l’immagine del dio Vulcano, pur non nominandolo sempre direttamente. Ci si affida qui alla consuetudine letteraria che usa la figura del fabbro divino nascosto in Mongibello, ovvero l’Etna. Senza nessuna innovazione particolare, il vulcano è la personificazione della divinità così come l’immagine del luogo specifico, ossia la fucina dove si forgiano le armi di Giove.

XLII

Ma poi che ‘l dolce riso umile e pieno
Più non asconde sue bellezze nove,
Le braccia a la fucina indarno move
L’antiquissimo fabbro ciciliano;

Ch’a Giove tolte son l’arme di mano
Temprate in Mogibello a tutte prove

[…] [21]

Il tema che spinge Petrarca a servirsi dei procedimenti quali la personificazione ed il simbolo associati al fenomeno naturale non è altri che quello erotico. Di fronte all’essere amato tutte le forze più violente della natura rimangono impotenti, paralizzate. L’invocazione dello stupore e dell’immobilità dovute alla forza d’amore, sono potenziate dall’utilizzo della figura divina. La bellezza e la passione che la donna amata inspira sono capaci persino di fermare gli dei.

Nel sonetto XLI la figura di Vulcano viene esplicitamente menzionata.

 

XLI

Quando dal proprio sito si rimove
L’arbor ch’amò già Phebo in corpo umano,
Sospira e suda a l’opera Vulcano
Per rinfrescar l’aspre saette a Giove;

Il qual or ton, or nevica, e or piove,
Senza onorar più Cesare che Giano;
La terra piange, e l’sol ci sta lontano,
Ché la sua cara amica ved’altrove.

[…]

Sembra interessante citare in questo frangente anche un passaggio del Trionfo della Fama di Petrarca dove il riferimento al vulcano fa eco alla tradizione che descrive Plinio vittima della sua curiosità [22] :

Mentr’io mirava, subito hebbi scorto
Quel Plinio Veronese suo vicino,
A scriver, a morir poco accorto.

Il monte ignivomo, qui il Vesuvio in particolare, si collega, per l’autore, alla figura di antichi intelletti che si spinsero troppo oltre nella loro osservazione del fenomeno fino ad andare incontro alla morte. In qualche modo il poeta è affascinato da quella che Bachelard [23] ha descritto come sindrome di Empedocle: la ricerca dell’oblio e della purificazione attraverso il fuoco del vulcano.

            Con Pietro Bembo siamo nella seconda metà del XV secolo. Il suo De Aetna data del 1496 ed è uno scritto profondamente legato alla tradizione del Quattrocento. Sotto forma di dialogo, il poeta racconta al padre la sua ascesa del monte Etna durante un viaggio in Sicilia. E’ un esercizio di bella prosa latina, con riferimento a Poliziano e a Plinio, che propone una narrazione scientifica con spirito enciclopedico ed erudito. La descrizione del vulcano è esatta e precisa, il che include questo testo in un genere che potremmo definire più propriamente scientifico che poetico. Bembo, dunque, evoca il monte ignivomo senza il mezzo della personificazione, è un esempio di letteratura che si riferisce al luogo in quanto tale. Tuttavia, evocando la sua esperienza legata all’Etna, l’autore fa una cronaca che assume anche le sembianze di un’allegoria: il viaggio attraverso un cammino difficile che porta ad una maturazione interiore.

            L’Hypnerotomachia Poliphili, pubblicata nel 1499, è anch’essa profondamente ancorata allo spirito quattrocentesco e vi si ritrova l’accezione del termine vulcano con riferimento alla figura mitologica del dio pagano.

Et facta sei, omé infoelice, indebitamente contra me crudele et più irritabile expultrice di omni mio bene, quale se fosti da me nocivamente laesa, come Iunone agli Troiani cum magna irascientia perseguente, più noxiamente a mi infesta che gli britannici lapilli alle mellificante ape, et più pugnace contraria et più indifferente dal mio volere che la infesta Thetis a Vulcano […] [24]

L’immagine del monte di fuoco si associa qui anche all’idea dell’Averno che peraltro ricorda anche Dante. Altrove nel testo, poi, Colonna descrive i luoghi infernali servendosi di rappresentazioni quali crateri colmi di lava o fiumi incandescenti.

Oltre questi pendicei et putrei saxi, per quella divisione tra uno et l’altro si dimostrava intro essere tutto ardescente loco di foco pieno di ignite et volante scintille et cane faville cadente, quali densissimi atomi negli radii solari crepitanti per le fiammem fincto solertemente et uno ignito laco bulliente, et molti spiramenti extuarii per li saxi apparendo; […] [25]

Queste figurazioni vulcaniche sono perciò associate all’Inferno ed alle sue orride visioni di fuoco e lava anche se, più amenamente, questa immagine si connette anche al classico tormento amoroso che abbiamo già trovato in Petrarca. La fenomenologia erotica si copre del velo della metafora servendosi della focosa attività vulcanica.

Et il conquassato et contaminato pecto mio più cum frequentato et importuno palpitato era percosso dal vivace et terriculato core che il solicito Vulcano gli tremendi fulguri dil tonitruale et fulminatore Iove fabbricante percute, dure et di lungi pili, qual siloni. […] [26]

E’ evidente che Colonna si riferisce all’uso letterario tradizionale che si collega, attraverso tutta una rete tematica e simbolica, alla figura del monte ignivomo. Tuttavia è proprio nell’Hypnerotomachia che sembra compiersi il passo semantico assente nelle opere che le sono temporalmente vicine. Per quanto riguarda il Canzoniere, esso include l’immagine del vulcano secondo varie accezioni ma il vocabolo, come abbiamo visto, rimane legato solo alla tradizione mitologica. In Petrarca, perciò, non viene ancora compiuto quel passaggio che farà diventare “vulcano” un nome comune. Trattandosi di poesia, possiamo concedere alla necessità lirica l’uso della parola in senso classico dando all’autore il beneficio del dubbio della conoscenza del termine in senso moderno anche se il tempo è precoce e, nelle sue opere, non sembra ve ne sia traccia.

            Il De Aetna di Bembo è molto utile per aiutarci a comprendere il modo in cui veniva affrontato l’argomento del monte di fuoco nell’idioma antico. Pur tenendo presente che il latino rinascimentale è stato oggetto di una revisione, nel tentativo di tornare ad una purezza ed una forma degne di Cicerone, incappando in errori e false etimologie, possiamo considerare questo testo attento alla tradizione terminologica dell’antichità. Eppure, leggendolo, ci accorgiamo che, in nessun caso, appare un vocabolo specifico volto a designare il monte ignivomo seppure siano frequenti descrizioni estremamente scrupolose, quasi “scientifiche”.

[…] sed alvum sibi intus paulatim astringere altenus, quo ad in medio ad evomenda montis incrementa satis amplo ore foraminatur; tum esse in summa montis corona parvum tramitem, ubi pedes firmentur; es eo si qui declina viri, aut in craterem, obrui, aut e monte deturbari; stetisse tamen se ibi tam diu, quo in barathrum exploraret; eructasse tum montem magno strepore incendia caliginosa et perurentes petra supra os quantum sagitta quis mitteret, velo e ampius insurgentes; atque eum, veluti corpus vivens, non perflasse semper, sede missa semel anima cessasse diutule, dum respiraret; tum se copiam intuendi habuisse quae vellet; mox eiectasse iterum at que iterum pari intervallo usquequaque; interea ingemere intus cavernas auditas, itremere etiam intruis montem pedibus magno et formidoloso iis, qui aderent horrore […] [27]

Bembo non sembra possedere, per lo meno in latino, una parola specifica per designare il vulcano. Esso, pertanto, sarà evocato tramite sineddoche con termini come craterem o verticem, con vocaboli generici come mons, o ancora, per antonomasia, tramite la figura dell’Etna.

            Il latino “conservatore” della fine del Quattrocento, ovviamente, non attribuisce alla parola vulcano un senso moderno. Per quanto riguarda la lingua volgare, non possiamo sapere come fosse la situazione nell’uso parlato, ma quel che possiamo supporre è che nasca in questo periodo storico la coscienza della nuova accezione del termine che si estenderà più tardi alla maggioranza dei soggetti parlanti di uno stesso gruppo [28] .

            Torniamo così all’Hypnerotomachia Poliphili di Colonna dove si mischiano i vari significati della parola Vulcano. Abbiamo, infatti, visto come l’autore la impieghi non solo per nominare il dio della mitologia classica ma anche specificamente il monte ignivomo, mostrandosi cosciente del nuovo senso del termine che viene associato all’Etna.

[…]l’ardente monte Etna […] [29]
[…]lo insaziabile vulcano Ethna […] [30]
[…]contraria e più differente dal mio volere che la infesta Thetis a Vulcano […] [31]

In questo momento sembra già avvenuto il fenomeno di Traslazione, ossia il mutamento semantico dovuto a traslazioni di significato [32] . Secondo Migliorini, infatti, “ […] il processo è sempre il medesimo: l’innovazione parte da uno, o più, talvolta da alcuni individui singoli, i quali parlando si rivolgono ad un gruppo più o meno ristretto di persone, da cui sanno di poter essere intesi; questo gruppo imita dapprima (per un tempo che può essere breve o lungo) l’innovazione, ripetendo più o meno consciamente il processo psicologico per cui nacque; e poi da questo primo gruppo l’innovazione passa ad un gruppo maggiore, che se ne impadronisce affatto ignaro di quel processo” [33] . Sembrerebbe proprio che, nel caso del termine che ci interessa, questo fenomeno si sia verificato alla fine del Quattrocento. E’ altresì importante notare che l’Hypnerotomachia si rivolge ad un pubblico, sicuramente selezionato e ridotto, ma comunque un gruppo fruitore dell’opera. Lo stesso Migliorini si sofferma specificamente sul caso dell’evoluzione proprio del termine vulcano: “Vulcanus. In Sicilia e nelle isolette vicine le bocche vulcaniche si credevano spiragli dell’inferno: olle Vulcani, sono chiamate nella Chronografia di Segeberto Gemblacense, ad a. 998. Di qui specificamente il nome dell’isola Vulcano […] e i nomi di vulcano, volcan ecc. (nota già in provenzale antico si ha alun de volcan, de bolcan, de bolca, Thomas, Mélanges ling. P.34-35). Da questo significato già anticamente derivarono quello di inferno nel gen. ant. Borcàn (Parodi; Rom. XXVII, p. 233-234) e quello del port. Bulcão. [34] . Gli spostamenti di significato [35] che hanno determinato la nascita di nuovi termini hanno coinvolto il nostro vulcano che entra così a far parte dei nomi propri che hanno subìto una nominazione ed una personificazione [36] di “tipo A” che, per Migliorini, corrisponde ad un’allusione a un’individualità determinata, cioè il caso in cui il nome viene scelto per il significato che ha potuto assumere in quanto attribuito ad un certo individuo.

E’ questo il modo in cui potrebbe essere avvenuto il passaggio dalla nomenclatura del dio al termine comune, tuttavia, potremmo dire che questa parola ha subìto un curioso itinerario semantico. Infatti, se consideriamo che il mito di Vulcano nasce per definire un fenomeno che si giudica così straordinario tanto da commentarlo attraverso la sovrapposizione di un potere divino, assistiamo, nel Rinascimento, ad un ridimensionamento linguistico del fatto naturale attraverso l’apporto esterno dell’arabo. Possiamo dire che il nostro vocabolo è passato da uno stadio embrionale di semplice manifestazione fisica ad una struttura immaginifica complessa per poi sdoppiarsi e riprendere anche il significato asciutto di monte ignivomo. In un certo senso, l’evoluzione linguistica del termine “vulcano” esemplifica lo specchio del cambiamento dello spirito e della conoscenza dell’umanità attraverso la storia.

 

  

 

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  •   MALATO E., Bibliografia generale della lingua e della letteratura italiana, Salerno editrice, Roma, 1991-1997.
  • MARCHESE A., Storia intertestuale della letteratura italiana. Il Duecento, il Trecento e il Quattrocento dal Medioevo all’Umanesimo, G. D’Anna, Messina-Firenze, 1992.
  • MIGLIORINI B., Dal nome proprio al nome comune, LEO S. OBLONSKI editore, Firenze, 1968.
  •   MONTANARI E., Roma. Momenti di una presa di coscienza, Bulzoni editore, Roma, 1976.
  • MOTTANA A., Oggetti e concetti inerenti le scienze mineralogiche ne della Composizione del mondo e le sue Cascioni di Restoro d’Arezzo, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 1999.
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  • PARIBENI E., Vulcano in Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale, vol VII, Treccani, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1966, p.1207-1208.
  • PETRARCA F., Le rime di Francesco Petrarca, a cura di Nicola Zingarelli, Zanichelli, Bologna, 1963.
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  •  Restoro d’Arezzo, uno scienziato del duecento, Angelo Tafi, azienda di promozione turistica Arezzo, 1991.
  • TOMMASEO, BELLINI, Dizionario italiano, Dalla società l’unione tipografico-editrice torinese, Torino, 1874.

          



NOTE

[1] PRATI A., Vocabolario etimologico italiano, Garzanti, Milano, 1970.

[2] BATTISTI C., ALESSIO G., Dizionario etimologico italiano, G. Barbèra editore, Firenze, 1975, s.v. Vulcano

[3] Lessico universale italiano, Treccani, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1981, s.v. Vulcano.

[4] PARIBENI E., Vulcano in Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale, vol VII, Treccani, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1966, p.1207-1208.

[5] HORNBLOWER S., SPAWFORTH A., The Oxford Classical dictionary, third edition, Oxford University Press, 1996. s.v. Volcanus, Fire.

[6] MONTANARI E., Roma. Momenti di una presa di coscienza, Bulzoni editore, Roma, 1976.

[7] BATTISTI C., ALESSIO G., Op. cit.

[8] PAGLIARA A., Meligunis Lipara vol VIII in “Gli Eoli e l’inizio dell’età del bronzo nelle isole Eolie e nell’Italia meridionale. Archeologia e leggende”, Luigi Bernabò Brea, Istituto Universitario Orientale Dipartimento del mondo classico e del mediterraneo antico, Napoli, 1985. Tengo in particolar modo a ringraziare per la segnalazione di questo prezioso riferimento il professor Giovanni Colonna che, attraverso l’intermediazione del professor Stefano Colonna ha avuto la gentilezza di leggere questo lavoro.

[9] AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, Vol 1 e 2, Arnaldo Forni Editore, Bologna 1880, 1881

[10] PAGLIARO A. Op. cit. p.26

[11] Ibidem p.26

[12] Ibidem, p.27

[13] Ibidem, p.29

[14] Ibidem, p. 29

[15] Ibidem, p. 29

[16] MOTTANA A., Oggetti e concetti inerenti le scienze mineralogiche ne della Composizione del mondo e le sue cascioni di Restoro d’Arezzo, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 1999.

[17] BATTISTI C., ALESSIO G., Op. cit.

[18] BASTIAENSEN M., Voyageurs de la Renaissance et phénomènes volcaniques en Italie in Annali d’italianistica n. 14, edited by Luigi Monga, 1996, p. 365.

[19] COLONNA F., Hypnerotomachia Polyphili, edizione critica e commento a cura di Giovanni Pozzi e Lucia A. Ciapponi, Editrice Antenore, Padova, 1980, p. 431.

[20] COLONNA F., Hypnerotomachia Poliphili, a cura di Ariani M e Gabriele M., Adelphi, Milano, 1998, p. 86-87

[21] PETRARCA F., Canzoniere  in Rime di Francesco Petrarca  a cura di Nicola Zingarelli, Zanichelli, Bologna, 1963, p. 443.

[22] BASTIAENSEN M., Volcan écrit et volcan décrit: le Vésuve chez Pighius et Schottus, in Figurations du volcan à la Renaissance, actes du colloque International du Centre d’Etudes sur les Réformes, l’Humanisme et l’Age classique de l’Université Blaise Pascal par Dominique Bertand, Honoré Champion Editeur, 2001, p. 6-7.

[23] BACHELARD G., La psychanalyse du feu, Gallimard, Paris, 1965.

[24] COLONNA F., Op. cit., p. 447.

[25] Ibidem, p. 243.

[26] Ibidem, p. 402.

[27] BEMBO P., De Aetna a cura di Marcello Caparezza e Leonardo Sciascia, traduzione Vittorio Enzo, Selleria, Palermo, 1981.

[28] MIGLIORINI B., Dal nome proprio al nome comune, LEO S. OLSKI editore, Firenze, 1968.

[29] COLONNA F., Op. cit., p. 266.

[30] Ibidem, p. 431.

[31] Ibidem, p. 447.

[32] MIGLIORINI B., Op. cit., p. 86.

[33] Ibidem, p. 75.

[34] Ibidem, p. 316.

[35] Ibidem.

[36] Ibidem.

 
 
 
 

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