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Vasco Pratolini tra letteratura e cinema  
Gianluca Schiavo
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 3 Luglio 2009, n. 529
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   Il cinema è sempre stato, con la letteratura, la passione più grande di Vasco Pratolini. Tale interesse affonda le sue radici nella stessa adolescenza del futuro scrittore, che per sbarcare il lunario fu costretto a fare i mestieri più disparati, tra cui proprio quello di venditore di bibite in alcune sale cinematografiche di Firenze. Egli stesso ce ne parla in una breve ma interessante intervista rilasciata a Repubblica nel 1989, nella quale aggiunge molti altri dettagli:

 

Abitando prima in via de’ Magazzini, dopo in via del Corno seguivo da vicino gli avvenimenti di richiamo che accadevano nella zona. Come l’inaugurazione del Supercinema, quando per la prima nazionale della Bisbetica domata arrivarono Mary Pickford e Douglas Fairbanks. Con gli altri ragazzi ci si arrampicava sulle cantonate per vedere in persona quei divi importanti. […] Il Garibaldi era un cinema popolare in via Pietrapiana. Quando da ragazzo vi andavo insieme ad altri amici, con qualche marchingegno si cercava sempre di entrare di straforo, senza pagare. Ci piaceva Tom Mix e lì vidi anche i film della serie Gennarello di cui non s’è più parlato e che per il suo realismo varrebbe la pena ricercare. [1]

 

   Scorrendo le sue opere, la sua passione emerge in molte forme. Innanzitutto sono molto frequenti i passi in cui il cinema (come arte o come luogo) è direttamente menzionato, essi attraversano l’intero corpus pratoliniano, dal Tappeto verde al Mannello di Natascia, passando per la trilogia Una storia italiana. Lo scrittore stesso ne ricorda alcuni nell’intervista menzionata.

   Spesso troviamo citazioni molto precise di film e attori, come in Cronache di poveri amanti (a nostro avviso con Metello il grande capolavoro pratoliniano), in cui il maniscalco Corrado, detto Maciste, “ha visto ieri sera la sua immagine nel cinematografo dove si proiettava Maciste all’inferno”. [2]

   Nelle Ragazze di Sanfrediano ha un’origine cinematografica persino il soprannome con cui è conosciuto Aldo, il protagonista: “come le nonne avevano sospirato per Armando Duval in persona, e diventato mito, le madri lo avevano successivamente identificato in Rodolfo Valentino chiamando Valentino i loro belli, così le giovani di Sanfrediano […] scoprirono in Robert Taylor il loro ideale di mascolinità. E Aldo Sernesi gli sembrò Bob. Fu Bob”. [3]

   Anche nello Scialo troviamo numerose citazioni. Ad esempio quando incontriamo Bice, “sempre più ‘Mae Murray in Circe la maga’, come da qualche tempo le si diceva: e non a caso Bice si era tirata i capelli sulle tempie, spartendosi il suo oro botticelliano a metà della testa”. [4] Si potrebbe andare avanti ancora a lungo.

 

   La quasi totalità delle opere pratoliniane è stata portata sullo schermo, il che ha notevolmente contribuito alla sua diffusione presso il grande pubblico. Nel 1953 Carlo Lizzani diresse la versione di Cronache di poveri amanti, prodotta da una cooperativa che il regista costituì ad hoc e di cui lo scrittore stesso faceva parte. Nel cast c’erano, tra gli altri, Marcello Mastroianni e Antonella Lualdi (dato il pregevole carattere corale del romanzo, risulta un po’ difficile parlare di ‘protagonisti’).  Durante le riprese, molti cittadini fiorentini assistettero con grande partecipazione emotiva: non molti anni prima essi avevano vissuto nella realtà le scene di squadrismo fascista che gli attori stavano interpretando. Anche Pratolini era presente alle riprese e ci ha lasciato un’interessante testimonianza:

 

si avvicinarono alla macchina due uomini sui cinquant’anni, chiesero di Lizzani e di me. Uno portava occhiali neri […] “Mentre gli attori recitavano, mi venivano i bordoni” (i brividi) disse uno dei due. L’altro, quello che portava gli occhiali, annuì. Poi disse: “Sono cose di cui, senza odio, ma nessuno se le dovrebbe mai dimenticare”. E aggiunse: “Io chissà se arriverò a vedere il film. Mi è cascata anche quest’altra cataratta”. Così sapemmo perché portava gli occhiali neri. Era stato bastonato a sangue e ferito, più volte, “a’ tempi de’ tempi”, come disse, “a questi tempi qui”, e accennò attorno alla scena, si portò la mano agli occhiali: “e queste sono le conseguenze”, concluse. [5]

 

   L’anno successivo la pellicola partecipò con successo alla settima edizione del Festival di Cannes, dove fu premiata dalla giuria con il Prix international. Negli anni precedenti anche Luchino Visconti aveva lungamente lavorato al progetto di portare sul grande schermo le Cronache, avvalendosi anche della collaborazione del giovane Zeffirelli per la sceneggiatura. Il lavoro, supervisionato dallo stesso Pratolini, non era però andato a buon fine a causa di difficoltà con i finanziamenti.

   Il 1954 fu un anno importante nel rapporto tra Pratolini e il cinema. Nel giro di pochi mesi uscirono infatti varie pellicole ispirate a suoi testi, a partire da Le ragazze di Sanfrediano, prodotto dalla Lux e diretto da Valerio Zurlini, che era al suo primo lungometraggio. Il ruolo di Bob fu interpretato da Antonio Cifariello, tra le interpreti femminili Giovanna Ralli e Rossana Podestà. Il film ricevette una buona accoglienza sia da parte della critica sia del pubblico, ma non soddisfò pienamente lo scrittore, che ne spiegò i motivi in un colloquio del 1988 con Luciano Luisi: Zurlini a suo avviso trasgredì “tutto quello che io penso – e che lui stesso pensava – e cioè l’idea che un regista deve essere fedelissimo al testo, al significato del testo, ma non ai suoi contenuti, ovvio. E quando io vidi il film mi arrabbiai terribilmente perché aveva fatto il film cercando di dimostrare il contrario di quello che io volevo dimostrare con il mio romanzo”. [6] In realtà in un primo momento lo stesso Pratolini aveva collaborato alla sceneggiatura, ma i risultati non avevano pienamente soddisfatto la casa produttrice che aveva preferito affidarsi a Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi.

   Nello stesso anno Anton Giulio Majano portò sul grande schermo La domenica della buona gente, radiodramma di successo scritto da Pratolini due anni prima in collaborazione con Gian Domenico Giagni. Tre storie private si sviluppano in un pomeriggio domenicale, con lo sfondo di una partita del campionato di calcio. Al film parteciparono anche Sophia Loren e Nino Manfredi, rispettivamente nei ruoli di Ines e Lello.

    Il 1954 è anche l’anno in cui Alessandro Blasetti diresse il film a episodi Tempi nostri, un capitolo del quale è ispirato a Mara, uno dei racconti che costituivano la raccolta Le amiche del 1943. Blasetti affidò a Yves Montand il ruolo dell’alter ego dell’autore. E’ interessante notare che Pratolini collaborò come sceneggiatore alla realizzazione degli ultimi due film, cosa che molto raramente accadrà negli anni successivi.

   Nel 1959 Sergio Capogna, anche lui al suo primo lungometraggio, lavorò alla versione cinematografica di Un eroe del nostro tempo, con Marina Berti e Massimo Tonna. Il film, presentato in quello stesso anno al Festival di Venezia, fu subito giudicato abbastanza scadente dalla critica e fu distribuito nelle sale, con scarso successo, solo due anni dopo. E’ da menzionare anche una riduzione televisiva del romanzo, diretta nel 1982 da Piero Schivazappa, con Scilla Gabel e Gianni Garko.

   Il 1962 è l’anno in cui finalmente, dopo lunga gestazione, uscì con grande successo Cronaca familiare, ancora con la direzione di Valerio Zurlini. Da almeno una decina di anni il regista stava cercando invano di ottenere dall’autore i diritti del testo. Nei primi anni i motivi della ritrosia di Pratolini erano molto intimi e sono spiegati dallo scrittore stesso nella già citata conversazione con Luisi: “per quanto fossero passati un paio d’anni sentivo ancora cocente il dolore per la scomparsa di mio fratello, e pensare di fare un film dove io sarei stato il coprotagonista, proprio non me la sentivo”. [7]

   Negli anni successivi i periodici tentativi del regista diventarono ancora più complicati, a causa dello scarso gradimento che, per i motivi già visti, Le ragazze di Sanfrediano aveva avuto da parte dello scrittore:

 

E ogni volta che doveva fare un film tornava da me a chiedermi se era arrivata l’ora… E io sempre no, finchè venne il giorno che dissi sì: “sì, a un patto, e il patto è questo: mettiamoci tu ed io nelle vesti immodestamente di Bresson e di Bernanos. Se tu fai una riduzione di Cronaca familiare come Bresson ha fatto la riduzione del Diario di un parroco di campagna di Bernanos, e cioè restando fedelissimo al testo, ma dandogli la tua versione cinematografica, voglio dire fedeltà al testo ma con una lettura personale del testo, allora io sono d’accordo. Perché nel testo non puoi inventare né aggiungere qualcosa”. Zurlini accettò questa condizione e con Missiroli fece a Firenze la sceneggiatura. [8]

 

   Anche Pratolini diede un piccolo contributo alla sceneggiatura del lavoro, scrivendo una scena che non era stata inserita nel romanzo e che risulta oggi tra le più felici della pellicola. Il film di Zurlini, in cui Marcello Mastroianni e  Jacques Perrin ricoprivano i due ruoli principali, ebbe un enorme successo, ottenendo il Leone d’oro a Venezia.

   Tre anni dopo Pasquale Festa Campanile portò sullo schermo La costanza della ragione, che Pratolini aveva dato alle stampe due anni prima. Come protagonisti furono scelti Catherine Deneuve e Sami Frey. Nel cast anche Enrico Maria Salerno nel ruolo di Millo, il ‘secondo padre’ di Bruno.

   Il 1970 fu l’anno della versione cinematografica di Metello, l’altro grande capolavoro della narrativa pratoliniana insieme alle Cronache. Il film fu realizzato dopo una lunga gestazione, resa ancora più complicata da incomprensioni di natura politica che erano sorte tra Pratolini e Pietro Germi, che in un primo momento avrebbe dovuto dirigere il film. Il regista desiderava ‘ammorbidire’ il taglio politico molto radicale del romanzo, come Pratolini stesso rievoca: “[Germi] Scosse la testa, stette a riflettere ‘Ah, no, se ti aspetti questo, io questo servizio al partito comunista non lo faccio!’. ‘Fare il servizio al partito comunista’ era quello che i nemici dicevano di Metello e anche i comunisti lo stroncavano per conto loro. Allora puoi capire cosa ci si disse, ci si disse cose feroci, crudeli”. [9]

    Alla fine il produttore Gianni Hecht Lucari scelse come regista Mauro Bolognini, che fu artefice di uno dei più grandi successi cinematografici di quegli anni. I due ruoli principali furono affidati a Massimo Ranieri e a Ottavia Piccolo, la colonna sonora fu firmata da Ennio Morricone. Il film ottenne il David di Donatello e la Piccolo fu premiata a Cannes come migliore attrice protagonista.

   Particolarmente lunga e complessa fu anche la vicenda relativa allo Scialo. Già negli anni successivi all’uscita del romanzo Zurlini iniziò a lavorare a un ambizioso progetto che avrebbe dovuto portare sia a un ampio sceneggiato televisivo sia a una riduzione cinematografica. Il lavoro si protrasse però per molti anni a causa di molteplici difficoltà presentatesi, dall’abnorme vastità del romanzo di riferimento alla centralità in esso di scene sessuali piuttosto morbose, dalla precaria salute di Zurlini a problemi con i produttori. Pratolini collaborò a una delle sceneggiature che negli anni si succedettero. Dopo la morte di Zurlini si optò per la sola versione televisiva e il lavoro fu portato a termine da Franco Rossi. Come protagonisti furono scelti Massimo Ranieri ed Eleonora Giorgi nella parte dei coniugi Corsini e Marisa Barenson nel non semplice ruolo di Ninì. Pratolini apprezzò profondamente il risultato, in particolar modo la performance delle due protagoniste femminili. La RAI ha mandato in onda il lavoro nel 1986, in quattro puntate da novanta minuti l’una. [10]

 

   Un altro importante aspetto del rapporto tra Pratolini e il cinema è la collaborazione, in qualità di soggettista e di sceneggiatore, con alcuni tra i più importanti registi italiani del dopoguerra, a partire dai padri del neorealismo. La prima delle collaborazioni è anche forse la più importante in assoluto: egli fu uno degli autori (tra di essi anche un giovane Fellini) che nel 1946 contribuirono alla sceneggiatura di Paisà di Roberto Rossellini:

 

   Ero a Napoli – mi ricordo come fosse ora – e stavo lavorando alle Cronache di poveri amanti e una mattina, condotto da Massimo Mida Puccini, venne a trovarmi Roberto Rossellini per chiedermi di collaborare alla sceneggiatura di Paisà, cominciando con l’episodio napoletano che poi ebbe come teatro Minori. Dopo quello io avrei continuato, ma ero tutto dentro le Cronache, e mi scusai e li abbandonai. Però avevo nel frattempo scritto il soggetto per l’episodio di Firenze. [11]

      

   Alcuni anni dopo, ripensando all’opera, si esprimerà in termini entusiastici sul neorealismo rosselliniano: “La sua cronaca, da nient’altro levitata che dal suo occhio fotografico, travalicava il documento per diventare immediatamente poesia, tanto rivoluzionario eppure tanto semplice e fedele alla natura delle cose era stato il suo intervento”. [12]

   I primi anni Sessanta fecero registrare molte altre collaborazioni di grande prestigio. Nel 1960, prendendo ispirazione dal Ponte della Ghisolfa di Testori, scrisse con Suso Cecchi d’Amico il soggetto che Luchino Visconti svilupperà nel suo Rocco e i suoi fratelli, drammatica storia di una famiglia meridionale emigrata a Milano. Il film, con Alain Delon, Renato Salvatori e Annie Girardot nei ruoli principali, ottenne uno straordinario successo di pubblico e di critica, ma ebbe come noto gravi problemi con la censura che lo vietò ai minori.

   L’anno successivo firmò con Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa la sceneggiatura della Viaccia di Mauro Bolognini, tratto dal romanzo L’eredità che Mario Pratesi aveva pubblicato nel 1889. Proprio su sua iniziativa la vicenda fu ambientata nella Firenze di fine secolo e non nella Siena di cinquant’anni prima come Pratesi aveva fatto. Lo stesso titolo fu proposto da Pratolini, che si rifece al nome di una fattoria dove era stato ospite da ragazzo. Il film ebbe un’accoglienza molto positiva, anche grazie alle valide interpretazioni di Jean Paul Belmondo e Claudia Cardinale. Si tratta dell’unica pellicola sceneggiata da Pratolini ad avere un’ambientazione ottocentesca.   

   Al 1962 risale la collaborazione con Nanni Loy. Pratolini, ancora con Festa Campanile e Franciosa, curò l’ampio soggetto originale delle Quattro giornate di Napoli, sul celebre episodio di resistenza popolare antinazista. Dopo aver sposato una ragazza napoletana, egli aveva vissuto a lungo nella città campana e aveva ascoltato molti racconti diretti su quei giorni. Il soggetto presentava quel carattere corale che è tipico della migliore narrativa pratoliniana. Il film fu accolto con grande favore e candidato all’Oscar come migliore opera straniera.

  Gli anni della seconda guerra mondiale erano una cornice a lui molto cara. Nel 1955 aveva anche collaborato con Citto Maselli alla realizzazione della sua opera prima Gli sbandati, una drammatica storia di amore e guerra ambientata nella Lombardia dei giorni successivi all’8 settembre 1943. Pregevole l’interpretazione di Lucia Bosè. I nomi di Pratolini e di Suso Cecchi D’Amico non compaiono tra gli sceneggiatori avendo essi ritirato la firma a causa di dissapori con il regista.

   Nella sua carriera di soggettista e sceneggiatore sono da menzionare anche altri lavori che riscossero minore successo. Nel 1952 collaborò con Mario Sequi alla realizzazione di Cronaca di un delitto, drammatica storia di un ingegnere accusato su base indiziaria dell’omicidio del direttore dell’azienda in cui lavora. Agli anni Cinquanta risale anche la collaborazione con Luciano Emmer. Innanzitutto nel 1953, per il film Terza liceo, sulla vita di un gruppo di adolescenti nell’anno della maturità. In un primo momento pensarono di inserire nella storia anche il tema dell’aborto, all’epoca non facile, ma poi ritennero più prudente soprassedere. La collaborazione si rinnovò nel 1957 con Il momento più bello, in cui era trattato il tema del parto indolore, anch’esso piuttosto audace in quegli anni. Il film non ebbe grande fortuna, nonostante nel cast figurassero nomi che avrebbero poi assunto un certo peso nel cinema italiano, da Marcello Mastroianni a Giovanna Ralli ed Ernesto Calindri.

   Più recente è la collaborazione con Nelo Risi, per il quale nel 1966 firmò il soggetto di Andremo in città, tratto dall’omonimo romanzo di Edith Bruck, moglie del regista. Nell’opera è trattato il tema della Shoah attraverso la descrizione del viaggio verso la morte compiuto da una ragazza ebrea jugoslava (Geraldine Chaplin) e dal suo fratellino cieco a cui lei cerca, con grande amore, di nascondere la verità. Alla pellicola fu rimproverato quell’eccesso di lirismo da cui non è esente ampia parte della narrativa pratoliniana. Lo stesso Risi diresse nel 1972 La colonna infame, ispirato al testo manzoniano. La mano del Pratolini sceneggiatore è evidente soprattutto nella seconda parte del film, caratterizzata da un intenso sentimento di pietà verso quegli umili che erano vittime spesso incolpevoli della ‘giustizia’ seicentesca.

 

   Nel 1948 Bianco e nero, rivista del Centro sperimentale di cinematografia, pubblicò un articolo nel quale Pratolini faceva alcune interessanti riflessioni sul rapporto tra letteratura e cinema, tema che negli anni del neorealismo era dibattuto con grande interesse. Egli rimase sempre molto affezionato al testo, che dava in lettura a tutti i registi che si apprestavano a portare sullo schermo le sue opere.

   Il cinema, esordisce lo scrittore, è l’unica arte a possedere un grande dono, la “possibilità non più (o non soltanto) di trasfigurare o simboleggiare o imitare la natura, ma di rappresentarla fisicamente. La cinematografia è dunque la sola arte in grado di possedere totalmente la vita dell’uomo nella sua dimensione di spazio, di tempo e di luogo e nella sua immediatezza di gesto, di sguardo, di emozione”. [13]

  Prima che il cinema nascesse, la letteratura era la sola arte in grado di rappresentare la realtà nel suo dinamismo. La pittura e la scultura, per quanto sublimi, inquadrano un frammento di realtà, lo rappresentano e lo immortalano. La letteratura invece è sempre riuscita ad andare oltre:

 

i poemi cavallereschi, le novelle, i romanzi hanno via via rappresentato lo specchio più accessibile che l’uomo – la infinita maggioranza dell’umanità – si è dato per accompagnare la propria immagine nello spazio e nel tempo dai quali si sente assediato e ai quali sa di essere fatalmente condizionato. Il cinema gli ha completato la nozione della propria figura umana e insieme gli ha permesso di acquisire il senso tangibile (visivo) del suo lungo viaggio. [14]

 

   La letteratura ha sempre stimolato nel lettore un lavoro di elaborazione mentale delle immagini descritte:

 

Acquisita che abbiamo la ragione, accompagnare i personaggi nel corso delle loro vicende romanzesche significa riscattare con le loro gesta la nostra inerzia di lettori. Prima ancora di accettare o di respingere il giudizio che lo scrittore ci suggerisce, è alla successione dei loro atti, alla loro cronaca che noi badiamo, nostro malgrado perfino. Diamo a quei personaggi una faccia, costruiamo di volta in volta gli ambienti che li circondano, gli oggetti ch’essi toccano; ci ripetiamo mentalmente le loro parole. Li identifichiamo comunque in una realtà in movimento, desumendola da quella che è la nostra personale realtà […] Il racconto, orale o scritto che sia stato, è sempre pervenuto alla conoscenza dell’uomo attraverso un’operazione dell’intelletto che è ormai proprio definire cinematografica. [15]

 

   Ecco perché, in seguito alla nascita dell’arte cinematografica, è naturale che tra essa e la letteratura si crei un’importante relazione, perché è “incontestabile che tra film e romanzo esista un rapporto di solidarietà, o per meglio dire, un’affinità elettiva”. [16] Ferma restando la netta distinzione tra le due sfere artistiche, perché “è utile tanto per l’una quanto per l’altra che giungano a capirsi e a parteciparsi i loro pensieri, ma la loro intimità sarebbe innaturale, un atto peccaminoso da cui uscirebbero entrambe diminuite. Una raffinatezza, nel migliore dei casi; sterile, comunque”. [17]

   Quasi tutti i commentatori della narrativa pratoliniana hanno appunto riconosciuto allo scrittore una non comune capacità di descrivere scene che vanno a stimolare efficacemente l’immaginazione visiva dei lettori. Già a partire dal Quartiere egli inizia a regalarci alcune pagine in cui dipinge dei suggestivi quadri di vita quotidiana nei quartieri popolari di Firenze. Come in alcuni momenti di cinema neorealista, egli in quelle pagine non racconta nessun evento particolare, si limita ad ‘accendere la sua cinepresa’ e lascia che sia il quartiere stesso a parlare, con le sue immagini, i suoi rumori, quasi persino con i suoi odori.

   Nelle Cronache troviamo molti passi in cui questa tecnica è adoperata con risultati estremamente pregevoli. Una domenica mattina in via del Corno:

 

Ma la domenica le sveglie si riposano, e i cornacchiai le mettono apposta sul ferme nel coricarsi per poter dormire un po’ più del consueto. La strada è a lungo deserta, e il sole vi si è già accomodato quando le donne appaiono sulle soglie e alle finestre. Escono per prime Clorinda e Armanda che si recano alla messa delle sette. Questa domenica Luisa non sarà con loro: è trattenuta in casa dovendo accudire al nipotino. Provvisoriamente, al posto suo, ci va Fidalma a fare le pulizie in casa della Signora. Poi c’è Maria Carresi che spazza le scale, ed idem Clara, ma un poco più in ritardo. Quindi le altre che si recano per la spesa. Ma già lo Staderini mette il naso al suo belvedere, scambia con Nanni due parole. Maciste si affaccia a torso nudo come per dare una voce al suo cavallo e dirgli: “Fra qualche minuto scendo”. Nemmeno Gemma è andata in chiesa stamattina: ha promesso al genero un dolce di sua specialità. Vi è attorno indaffarata perché Milena la sollecita.

   Sono le nove quando Maciste striglia il suo cavallo, Giordano e Gigi saltano gli scalini e Semira pettina al davanzale la piccola Piccarda alla quale ha lavato i capelli. Musetta e Adele si incontrano dal carbonaio di via Mosca, ed al ritorno fanno la strada insieme. [18]  

 

   Talvolta ad essere presentate con ‘taglio cinematografico’ sono scene ben più movimentate, come l’arresto del Nesi, reso ancora più drammatico da un grave malore che lo colpisce mentre gli agenti lo portano via:

 

   Gigi Lucatelli, che insieme agli altri curiosi aveva seguito la triste processione, riappare come un razzo in via del Corno, grida: “Gli è preso un accidente! Stanno chiamando la Croce d’Oro!” E riparte correndo.

   Ora in via del Corno ci rimane chi non si fida sulle gambe.

   Anche la Croce d’Oro è appiedata e alla buona. Arriva la lettiga sulle ruote, spinta dai militi in uniforme azzurra. Il caporale fa pè-pè con la tromba a mano. Fendendo la calca, caricano il Nesi ch’è irrigidito come una statua, con un occhio aperto e uno chiuso. E il respiro fitto dell’agonia. I militi riabbassano la cappotta della lettiga, lasciando sollevato un lembo dalle due parti perché circoli l’aria; e impugnati i manubri laterali, partono alla bersagliera. Il caposquadra è in testa con la tromba, chiude la marcia il più giovane dei due agenti che può permettersi la strapazzata. Li seguono i più prestanti e i più curiosi fra gli spettatori; ed i ragazzi, per i quali è una festa non compresa nel programma della giornata. [19]

 

   Fa notare Mirko Bevilacqua:

 

Pratolini scopre che l’unico modo valido di registrare i movimenti popolari di una strada  - la dialettica che esprime nel via vai delle azioni e degli affetti – è quello di mettersi lì pronti per una lunga ripresa fissa: inventa, letterariamente, il piano-sequenza. La via del Corno delle Cronache cos’è se non il montaggio di alcune lunghe e bellissime sequenze dove la dialettica del movimento è soltanto ciò che la registrazione del campo permette: un continuo e nevrotico succedere delle cose in una semplice strada-laboratorio? [20]

 

   Anche Metello ci offre un buon numero di passi altrettanto godibili. Il capitolo XXII si apre con la descrizione di un lunedì mattina qualunque, in cui come sempre centinaia di lavoratori arrivano in città dal contado, per iniziare una nuova settimana di lavoro. Il passo è molto lungo, ne estraiamo un brano di grande intensità su un piano visivo, acustico e persino ‘olfattivo’:

 

La città gli viene incontro con le botteghe odorose di vino, di polenta fritta, di trippa scodellata, di schiacciata all’olio, di pandiramerino. Escono di casa le beghine, è un’effluvio d’incenso. E’ buono anche l’odore degli stallaggi, e di tutti quei fiori sotto le Logge. Essi scoprono sempre qualcosa di nuovo, entrando in città, all’inizio della settimana, con la ruota del pane nel fazzoletto colorato, e indosso la biancheria pulita. Cosa? Non lo saprebbero dire, è una speranza, l’aria sembra far loro delle promesse. Gli piace la ragazza che scuote i lenzuoli al davanzale, il cane randagio che per un po’ gli si mette dietro. Vicino ai cantieri si incontrano coi compagni di lavoro che abitano in città e più spesso leggono il giornale. [21]

 

   Ovviamente non possiamo non citare quella che probabilmente è la scena più nota del romanzo (e naturalmente, non a caso, della sua trasposizione cinematografica). La rievochiamo con le parole di Emilio Cecchi, secondo il quale

 

nessuno avrà dimenticato la scena, così robusta e quasi direi elettrizzante, delle popolane che, dal cortile della prigione, ad una ad una chiamano a nome e dicono addio ai mariti, ai fidanzati e ai figliuoli che si preparano a partire per il domicilio coatto. Una scena, che nella mente del lettore s’imprime indelebilmente con una straziante esattezza fonica, come se egli stesso avesse sentito echeggiare quelle voci su nel camerone dei carcerati. [22]

 

   Concludiamo con Lo scialo, che attesta una profonda evoluzione della narrativa pratoliniana: con le sue smisurate dimensioni, i tortuosi percorsi nella psiche malata di Ninì e i suoi interminabili monologhi sul “licitte” di Giovanni, il romanzo fa registrare una notevole flessione qualitativa rispetto alle prove precedenti. In alcune pagine però l’autore riesce ancora a collocare la sua ‘cinepresa’ di fronte ad alcune immagini molto suggestive della vecchia Firenze, come la mescita del Chiti:

 

Era un’apertura nel muro, tra un incisore, un fabbricante di timbri e un riparatore di ombrelli, sistemati in terranei ugualmente minuscoli, a capo di via de’ Cimatori. Al di sopra della soglia, un’insegna a cassettone, in lettere rosse ma eleganti, diciamo bodoniane, su un fondo verde prato:

                                                    MESCITA DI VINI

                                                        prop. L. Chiti

                                                              1875

Nell’interno, la parete centrale era ricoperta da uno specchio spartito in tre mensole su cui poggiavano, riflettendovisi più volte, le bottiglie dei vini originali, e i vermouth, i rosoli. La loro disposizione e com’erano alternate secondo la foggia del vetro, il colore del contenuto, l’arabesco e la tonalità delle etichette, testimoniava di per sé della fantasia del loro ordinatore e del suo senso delle proporzioni. Il banco, col suo piano di marmo nella lunghezza della parete, quasi si affacciava sulla strada: restava quel mezzo metro e nemmeno, dal banco alla soglia, sufficiente per poter accedere nell’interno e per consentire al Chiti di chiamare il suo stambugio, un locale. [23]

 

 



NOTE

[1] L’intervista fu pubblicata sulle pagine fiorentine di Repubblica il 18 febbraio 1989 e oggi è inclusa nell’interessante volume curato da Andrea Vannini Vasco Pratolini e il cinema, Firenze: La bottega del cinema, 1999, pp.21-22.

[2] Vasco Pratolini, Cronache di poveri amanti (1947), Milano: Mondadori, 1996, p. 30. Il film, diretto da Guido Brignone, uscì nelle sale appunto nel 1925. La lettura del carteggio tra Pratolini e Alessandro Parronchi (Vasco Pratolini, Lettere a Sandro, a cura di Alessandro Parronchi, Firenze: Polistampa, 1992) è una testimonianza molto significativa della grande cura con cui lo scrittore, anche consultando ripetutamente i suoi amici, verificava che ogni dettaglio dei suoi testi fosse cronologicamente corretto.

[3] Vasco Pratolini, Le ragazze di Sanfrediano (1949), Milano: Mondadori, 1970, p.18.

[4] Vasco Pratolini, Lo scialo (1960), Milano: Mondadori, 1995, p.1110. Il film, diretto da Robert Leonard, uscì nel 1924.

[5] in Cinema nuovo, n.20, 1 ottobre 1953.

[6] Luciano Luisi (a cura di), Vasco Pratolini, Taranto: Mandese, 1988, pp. 67-68. A proposito delle Ragazze di Sanfrediano, è da ricordare la recentissima versione televisiva, trasmessa nel 2007 dalla RAI in due puntate, con la regia di Vittorio Sindoni. Il ruolo di Bob è stato affidato a Giampaolo Morelli. Tra le interpreti femminili Martina Stella e Vittoria Puccini.

[7] Luciano Luisi, op. cit., p. 67.

[8] Ivi, p. 68.

[9] La testimonianza, raccolta da Andrea Vannini, è inclusa nel già citato Vasco Pratolini e il cinema, alle pp. 63-64.

[10] Il produttore fu Turi Vasile, che rievocò le varie fasi della vicenda nel 1988, in occasione della consegna a Pratolini del Premio Pirandello per la narrativa. Il contributo di Vasile, ricco di informazioni sul rapporto tra lo scrittore toscano e il cinema, è incluso in AA.VV., Vasco Pratolini. Lo scrittore e i suoi testi, Roma: La Nuova Italia Scientifica, 1989, pp. 55-67.

[11] Luciano Luisi, op.cit.,p.69.

[12] in Abc, n.1, 12 giugno 1960. Gli scritti di argomento cinematografico rappresentano ovviamente un altro importante segmento del rapporto tra Pratolini e il cinema.

[13] Vasco Pratolini, “Per un saggio sui rapporti fra letteratura e cinema”, Bianco e nero, n. 4, luglio 1948, p. 14. 

[14] Ivi, pp. 15-16.

[15] Ivi, p. 16.

[16] Ivi, p. 17.

[17] Ibidem.

[18] Vasco Pratolini, Cronache di poveri amanti, cit., pp. 126-127.

[19] Ivi, pp. 108-109.

[20] Mirko Bevilacqua, “Il romanzo tra ‘engagement’ e dissidenza” in Id. (a cura di), Il caso Pratolini. Ideologia e romanzo nella letteratura degli anni Cinquanta, Bologna: Cappelli, 1982, p. 12.

[21] Vasco Pratolini, Metello (1955), Milano: Mondadori, 1966, p. 319.

[22] Emilio Cecchi, “Un romanzo inflazionista”, Il Corriere della sera, 22 giugno 1960. Ovviamente il giudizio negativo che già il titolo preannuncia è riferito allo Scialo, di cui l’articolo è una poco entusiastica recensione, non certamente a Metello.

[23] Vasco Pratolini, Lo scialo, cit., pp. 433-434.




 

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