bta.it Frontespizio Indice Rapido Cerca nel sito www.bta.it Ufficio Stampa Sali di un livello english
Dialogo a due  
Tania Lorandi
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 12 Giugno 2007, n. 460
http://www.bta.it/txt/a0/04/bta00460.html
Precedente
Successivo
Tutti
Area Interviste

Gli sguardi di Mauro Rea
raccolti a casa sua ad Avezzano (AQ)
da Tania Lorandi mercoledì 28 dicembre 2006.



TANIA LORANDI - Carissimo Mauro, stiamo per affrontare questo nostro dialogo un po' particolare ... Noi staremo discorrendo e ciò che diremo sarà letto tra non molto. È come sentirsi nella "Casa del Grande Fratello", con una telecamera puntata addosso. Vorrei sapere: questo influenzerà ciò che dirai e, nel caso, come lo modificherà ? Io la vedo così: quando parlo tento di plasmare il discorso in funzione di quello che, immagino, capirà chi mi ascolta.

MAURO REA - È come quando uno lavora, il pubblico non è che lo va a scegliere e l'opera non è che la sceglie il pubblico; è la stessa cosa ...


Beh, c'è una bella frase di Beuys, che dice: l'opera la fa chi guarda ...

È normale, la completa, no ? Perché è importante lasciare allo spettatore la possibilità di interpretarla, di inserirsi all'interno dell'opera: non è che fai un'opera bloccata ... non so, la pittura figurativa è una pittura che è molto statica e blocca il livello percettivo, l'immaginazione, mentre facendo un'opera diversa lasci al pubblico la possibilità di interagire, leggerla, percorrerla. Quello è bello, poi non è che tu stai a farti sempre il problema del pubblico: il pubblico alla fine c'è e non c'è.


Ma chi sta leggendo quello che stiamo dicendo però c'è ... ! Beh, se gli mancherà qualcosa lo può sempre aggiungere lui ...

In effetti, è molto difficile razionalizzare dei momenti creativi a parole, almeno io ho sempre trovato delle difficoltà. Come fai a spiegare un'opera d'arte, un lavoro, al pubblico ? Poi, a che pubblico lo devi spiegare ?


Peggio ancora se non sai cosa pensa chi legge; quindi eliminiamo la critica che facciamo prima ...

L'ermeneutica dell'arte ... Già, la parola, "ermeneutica", la dice lunga su 'sti critici: infatti, io non ci credo molto ai critici d'arte, penso più alla storia dell'arte, cioè a delle azioni che si fanno e che poi diventano storia col tempo. Anche in modo inconsapevole: uno fa delle cose e poi il tempo dà a queste una sistemazione, mette quasi dei cartelli giusti a quelle cose ...
Io quando ho cominciato a parlare della 'Patafisica non sapevo neanche cos' era, mi piaceva l'aspetto ludico, il gioco, l'ironia ... Col tempo, è chiaro, si diventa più consapevoli, vai anche a capire chi sono i patafisici ... Poi, c'è tutto un retroterra culturale importante, perché non è che le cose nascono a caso: per esempio la 'patafisica non è una cosa nata a caso. Jarry è stato quello che ha influenzato Marinetti. Marinetti era un grande intellettuale ma per fare il Futurismo, il Manifesto del Futurismo, ha preso da Jarry, dalle teorie filosofiche dell'epoca, dal teatro. Il Futurismo non è nato a caso ...


Oh, sai, per quello che penso io della storia, credo che il tempo non esiste, che non esiste né passato né futuro, che l'unica cosa che possiamo dare per certa è il presente ... Però ci vogliono far credere che il tempo esiste attraverso lo storicizzare ogni atto presente, cioè il presente di dieci minuti fa potrebbe stare lì dov'era, ma se lo riportiamo nel presente, evidenziandolo e dicendo: è esistito dieci minuti fa, lo ri-rendiamo presente, rilevando quei "dieci minuti fa". Dunque per me la storia la fa lo storico, la storia dell'arte la fa lo storico dell'arte.
Tra l'infinità d'atti posti e quelli che sono stati enunciati ci restano le opere, i dipinti, senza discriminazione alcuna: perchè loro sono sempre nell'eterno presente. Ma questo è un altro fatto. Si spegneranno, si sporcheranno, si sbricioleranno sempre in un presente, anche restaurarli significherebbe farli soppravivere a tutti i costi. Questo sì che è il grande respiro della vita.
Per me sono cose diverse, la storia dell'arte e l'oggetto pittorico ...

Io parlo di storia intesa come azione, azione nella contemporaneità. Uno fa delle cose senza andare a vedere che fine faranno queste esplosioni, questi input, questi ostacoli. E se li chiamo ostacoli è perché alla fine per me un lavoro è anche un ostacolo visivo, le persone ci devono sbattere davanti raggiungendolo a livello percettivo. L'opera d'arte diventa un ostacolo da vedere, da superare, da scavalcare, da sbatterci contro. Poi può diventare storia, può diventare una storia importante o meno, ma a noi questo non interessa ...


Perlopiù il problema dello storicizzare è legato alla soggettività dello storico, che di un oggetto importante ai suoi occhi ne vuole fare uno importante agli occhi degli altri. Dove e come stanno tutti gli oggetti "minori" ? Non voglio pensare che dormono mentre aspettano il critico o lo storico giusto. Questo a me fa paura nella "storia".

Io penso che la cosa sia più seria e a sua volta più funzionale ... perché la critica è fatta d'interpretazione, di giochi di parole, di ... volevo dire una parola volgare, però alla fine è così, è una cosa volgare: una gran menata ...


Abbiamo già detto della critica che tradiva perché converte in un altro linguaggio un linguaggio che esisteva prima.

Tradisce, oppure lo presenta sotto un'altra veste che non è la sua.


... E ora un po' di storia !
Ci siamo conosciuti nel 1988, ci siamo incontrati ad una tua mostra personale che facevi a Bergamo. Se ti chiedessi di parlare di ciò che poi è diventata la nostra amicizia, cosa diresti ?

Per me è stato un bell'incontro, è stata una bella cosa. Anche perché non è che ho conosciuto molta gente che ha saputo leggere il mio lavoro e alla quale è piaciuto; poi in effetti quei dipinti erano particolari, come il periodo nel quale sono stati fatti, avevo ripreso a lavorare da poco e si sentivano le atmosfere più nordiche, erano i primi tempi che io stavo lì e mi ha fatto piacere che almeno tu hai percepito quel lavoro e lo hai apprezzato ...


Me li ricordo ancora, ne parlavo ieri con il direttore del B.T.A. Stefano Colonna e glieli ho descritti come li ho visti: come il Metropolis di Fritz Lang. Tu l'hai visto ? Ovunque nel film ci sono queste città che sono delle scenografie dipinte ...

In effetti erano pitture strane, molto intime, ma anche esplosive, raccolte e dinamiche, avevano in sé tante contraddizioni, un po' come sono io e come lo è il mio lavoro, alla fine ...


Ciò che mi aveva colpito è che erano già grandi, perché erano lavori di almeno due metri per uno e mezzo, tutti dello stesso formato, ma che ancora uscivano dalla loro dimensione ...

Esplodevano, anche se erano quasi monocromatici, pochi colori, ma la pennellata era molto energica, erano lavori forti ...


Ho visto raramente dopo, lavori tuoi così forti; più intimisti, forse, più legati alle materie, ma con una forza così, non più. Una forza diretta, immediata ...

Sì, erano immediati, buttati giù con vitalità, quasi con velocità ... infatti le pennellate erano veloci, un po' all'impressionista, diciamo, pennellate con un tratto nervoso che alla fine dava un senso d'esplosione e di raccolta allo stesso tempo: c'erano questi due modi di leggere il lavoro. Erano interessanti, sì ... anche il nostro incontro lo è stato perché ci siamo visti, abbiamo cominciato a frequentarci. È stato per me un punto di partenza, ero nuovo nell'area bergamasca, non conoscevo nessuno ...


Per te è più importante la nostra relazione umana o la nostra collaborazione artistica ?

La risposta è ovvia: tutt'e due. A livello artistico mi hai dato tanto e mi stai dando tanto, anche coinvolgendomi nei progetti ... Poi c'è stato un periodo che c'invitavamo a vicenda, no ... Tu facevi delle cose e m'invitavi, anch'io facevo delle cose e t'invitavo; alla fine è nato veramente un sodalizio, un confronto vero, cosa che è difficile trovare tra artisti.
Io penso che il nostro incontro mi abbia dato tanto sia a livello umano sia culturale, di conoscenza dell'arte e del ...


Non si fa niente da soli, vero ?

Anche perché ha spessore il nostro confronto. Qui mi manca molto. Lo stare da solo, non avere una persona a cui fare vedere il lavoro, confrontarlo, anche litigare, tante volte ci siamo arrabbiati pure noi, anche quello è bello, non essere piatti, falsi ...


È il rapportarsi gli uni con gli altri, creare il dialogo: quello che affermavamo non era facile ottenere tra artisti. Forse per l'isolamento che ci crea attorno la nostra società, per com'è organizzata, il posto che si dà alla cultura attualmente ... l'artista è solo. Isolato e poco riconosciuto e questo gli procura un problema con l'ego. Se non si gonfia l'ego da se stesso e non accetta di farselo ogni tanto gonfiare finisce che la sua autostima si spegne... Anche se quello che penso dell'ego e che è antagonista al genio e che l'ego con tutti i suoi bisogni di riconoscimento è più d'impiccio che altro, implica i soliti pensieri: sono ciò che faccio, sono ciò che costruisco ... e per me non è vero ... perché saremmo in ogni caso.

Io per esempio mi porto addosso la mia inutilità, penso che per l'artista l'arte sia inutile. Sento come un peso quest'inutilità perché vorrei che l'arte fosse più coinvolgente, che desse una spinta nel sociale, nel politico, nei rapporti, che non fosse una cosa messa lì, ferma sul muro ...
Io le chiamo: opere stanche appoggiate sui muri. In effetti, è così, perché rimangono solo delle cose che in fin dei conti diventano degli oggetti da vendere, da commercializzare, e perdono quella forza dirompente che dovrebbero avere.


Quali sono state le tue più grandi delusioni artistiche ?

Non esistono delusioni o esaltazioni artistiche, si lavora ...


Né delusioni né illusioni allora ?

Sì, sì difatti, si lavora e già lo sai che vai incontro ad una situazione difficile, è un mestiere duro e un mestiere, come si diceva prima, inutile.
Penso in questo momento alla frase che tu hai scritto: «A noi non interessa l'arte come non interessano al carcerato i muri della sua prigione». Deve essere così, uno fa l'arte e basta, fa degli oggetti, fa delle azioni; io le chiamo "oper-azioni", che sono in divenire, come noi del resto.
In fondo, tutto il mondo dell'arte è una delusione, è talmente squallido ...


Allora qual è la tua più grande delusione artistica ? Il mondo dell'arte ...
Se io dovessi rispondere alla domanda, risponderei che mi delude la mia incapacità di fare l'arte come la immagino, perché ho sempre in testa qualcosa che dovrei fare, che vorrei fare e alla quale non arrivo mai.

Quello è il problema di tutti gli artisti che sentono l'arte come forma di comunicazione, come forma di coinvolgimento. Sembra sempre di non arrivare al punto di rottura oppure di costruzione vera. La testa va sempre più avanti della mano perché la testa viaggia a suo ritmo e la mano non riesce a seguirla. È brutta questa sensazione.
Anch'io ho tanti pensieri, progetti, li metto in campo, li vado a realizzare ma mi rendo conto che la testa è sempre più avanti di quello che faccio, il pensiero è libero, aperto, è infinito e racchiuderlo all'interno di una tela o di un oggetto, è molto limitativo. Riguardo al mio lavoro, se lo tocco, lo ritocco, c'intervengo centomila volte è proprio per cercare di affermare quell'attimo che dà una pienezza. Ma è difficile sentire quel momento dove si arriva a fare coincidere la mente con la mano.


Basterebbe, per non fare avvenire questa scissione, non riflettere mentre si sta lavorando. Infatti, la delusione della quale parlavo prima a me non succede all'interno dell'atto creativo ma fuori.

Un buon esempio è Boccioni, che dipingeva tantissimo e non era mai soddisfatto di ciò che faceva. Diceva appunto che la sua testa arrivava ad un certo grado di visione, di situazioni, di domande che la mano non riusciva a raggiungere; la mano non seguiva il suo modo di pensare. Ma questo un po' è il dramma di tutti i pittori, di tutti gli artisti che sentono le cose in modo serio, che non fanno una pittura semplicemente commerciale. Molti invece trovano il proprio codice, lo fanno a vita, per cinquant'anni seguono un cliché ma chi fa un lavoro sentito, non è mai contento, almeno penso io, non ci sono momenti in cui puoi dire: oh, sono soddisfatto in modo assoluto.
... Sto dicendo un sacco di cazzate, eh ...


... Questo lo metto o non lo metto ? Perché a me piacciono queste affermazioni, sono quelle che sconvolgono un po' il pubblico o il lettore che pensa sempre che l'artista sia una specie di genio con la lampada, che gli darà chissà quale risposta; invece l'artista è sempre nel dubbio. Il dubbio che dà le certezze.

Il dubbio è la contraddizione perenne ...


Ed è giusto che anche il lettore sappia questo. Queste affermazioni mi sollevano, mi alleggeriscono dal peso e dalla responsabilità etica che ogni tanto mi sento addosso.

È una cosa semplice e naturale che uno si senta di lavorare materie e colori, non c'è bisogno di costruirci sopra questi castelli, quest'aura di "opera d'arte". Uno ha lavorato perché aveva bisogno di lavorare, c'è questa necessità, è come il bisogno di drogarsi, uno ha il bisogno della droga e si droga, lo fa perché c'è il bisogno; la stessa cosa è il fare pittura o scultura. È come una droga, tu la devi fare e basta.


Allora, vediamo un po'. Sei entrato nel Collage de 'Pataphysique nel 1991 in occasione dello spettacolo multimediale alla Fabbrica di Bologna (centro sociale). Io amo sentirti dire quanto ti colpì l'energia del pubblico che era dietro di te mentre dipingevi e ritagliavi la monumentale opera su plastica che loro avrebbero attraversato per entrare nello spazio espositivo ...

È stata una cosa emozionante, veramente. Ogni volta che ci ripenso mi vengono i brividi, perché avere dietro tutte quelle persone, l'atmosfera che si era creata con la musica, le luci soffuse, questi attori che si vedevano e non si vedevano, le installazioni ... è stata bella come situazione. Avere dietro alle spalle tutta questa gente, che quasi spingeva per entrare, e io un po' alla volta davo loro da mangiare come se fossero affamati; un pezzettino per volta aprivo questo telo che tagliavo con una lama e quei tagli sembravano delle sciabolate di luce all'interno di questa grandissima opera. Era intensa la sensazione che si era creata. E poi gli attori e gli altri artisti che si affacciavano, con le mani entravano, apparivano e sparivano dal lavoro. È stato penso uno dei momenti più belli della mia vita anche perché io sono una persona timida e reggere un confronto del genere mi ha molto emozionato.


Poi c'è stato per entrambi un periodo di pausa ... chiamiamolo così ... riposo artistico ...

Beh, io mi sono sempre riposato, non sono un professionista dell'arte, non lavoro 12 ore al giorno tutti i giorni. Io lavoro così, quando me la sento, anzi ho più pause lunghe che momenti di lavoro vero e proprio. Una cosa che mi manca è la continuità. Anche perché a volte mi sembra di non crederci fino in fondo al fatto di dover produrre. A me piace anche mettermi in gioco.


Ma tu pensi che in questa "non continuità" influisca anche il fatto che le cose che facciamo sono diffuse male e dunque viste poco ?

Sì, appunto, non c'è neanche un confronto aperto, le cose rimangono circoscritte, poco viste, poco studiate ma è un po' anche nel mio carattere, io sono così, non sono costante nel lavoro, e può dispiacermi per il fatto che avrei tante cose da fare, tanti progetti ... Sì, sono anche poco stimolato, diciamo ...


Beh, in una chiacchierata come quella che stiamo facendo, quale pensi sia il messaggio più importante che debba arrivare al lettore ?

Di vivere, di prendere le cose in modo critico.


Anche lui ?

Anche lui, anche il lettore, di partecipare un po' al percorso che un pittore fa.


Ah, critico in quel senso ...

È importante anche incoraggiare le persone ad essere attive, ad entrare all'interno di un lavoro, perché diventino un elemento dell'opera, come lo spazio, la pittura, il colore: è allora che lo spettatore diventa essenziale, quando diventa l'anello di una catena.


La situazione dell'artista nel mondo, in Europa, in Italia ?

Io penso che non esista una situazione, cioè, c'è un bordello d'interventi che poi alla fine non hanno senso, c'è anche piattezza ... Non c'è un'arte nazionale, internazionale, artisti che lavorano uniti: è tutto un puttanaio.


Come se fossimo individui operanti persi ognuno nel nostro spazio ?

Ognuno nel suo orticello; però ormai non c'è un'arte che dia un senso al tempo attuale.


E se noi ci rimettessimo a stilare un po' di manifesti tra di noi ?

Beh, tu, per esempio, con la 'Patafisica hai creato delle situazioni che hanno fatto da collante, una colla che ha unito delle individualità. Questo è già importante, lo è per me, almeno. Hai creato un collage di personalità, d'interventi, d'operazioni che poi alla fine sono state messe insieme in modo non ufficiale.


Ci si può riunire sotto un "manifesto" per un momento più o meno lungo, pensando la stessa cosa, ma prima o poi per tornare degli individui creanti ci si deve ritrovare soli, nell'intimità ...

Può essere utile mettersi insieme in modo costruttivo anche per sperimentare la propria individualità, il proprio modo di pensare l'arte, la vita, la società e anche la politica; tanti pensano che l'artista sia uno che sta fuori del mondo, che non legge il pensiero politico ... ma non è per forza così.


Penso anch'io questo, penso che sia quella l'utilità maggiore dei manifesti.

Altrimenti che senso avrebbe l'artista nella società odierna ? Non basta che sia solo un creatore d'opere estetiche, d'oggetti che sono poi messi sul mercato. In più vi è chi ha fortuna e chi meno, chi arriva all'apice e chi no, può diventare un gioco e uno scambio di soldi. Tanti pittori fino a vent'anni fa valevano zero e adesso valgono due o trecento mila euro, queste sono operazioni commerciali, chiaramente. Ma l'arte non è quello, questi quando hanno cominciato non pensavano di vendere quadri a duecento mila euro, a trecento mila euro ...
Credo che l'arte ad un certo punto si sia come fermata, io almeno sono rimasto alle avanguardie perché sono state i momenti d'unione più veri. Qualcosa si è bloccato allo sciopero della Biennale del '68, cioè a quelle operazioni di rivolta, di presa di posizione collettiva, di consapevolezza dell'essere artista e uomo allo stesso tempo. Io penso che quello che manca è la coscienza di lotta. Oggi purtroppo non si ha più chiaro chi è il nemico. Adesso è tutto una piattezza, tutti sfoggiano maschere di perbenismo, tutti quanti a dire "vogliamoci bene", sono tolleranti, sono comprensivi e infine non c'è più neanche una presa di posizione da parte dell'artista. Chi sono gli artisti oggi che tengono un determinato discorso di lotta e d'impegno sociale ?


Anche in questo ci siamo trovati perché abbiamo sempre condiviso, manifestandola con gesti e fatti, la nostra disapprovazione nei confronti della mercificazione dell'arte (le famose "leggi del mercato"), dei sistemi di diffusione della cultura, dell'apparente facciata di buon gusto che si danno le istituzioni politiche promuovendo mostre per il grande pubblico, della lacuna che l'Italia porta nei confronti dell'arte "contemporanea" (che io più volentieri chiamo "moderna", per reazione alla parola "contemporanea"). Questo è il nostro impegno "politico". E tu come definisci la parola "politica" ?

La politica è una menzogna totale. Mancano personaggi che riescano ad attrarre le energie che sono nell'aria e a catapultarle per sconvolgere le cose.
E anche la politica nell'arte, non se ne parla più, sembra che sia tutto scomparso. Tanti problemi non sono affrontati, un po' per paura e un po' per non ostacolare le carriere: ognuno si tiene lontano da problemi che sono scottanti. Mentre l'arte deve essere anche quello: evidenziare situazioni che sono gravi, che sono sotto gli occhi di tutti ma nessuno dice niente. Per questo alla fine mi arrabbio ed anche per questo mi sento inutile.


In questo istante mi sono apparsi alcuni dipinti di Goya che, sconvolto dalla guerra, continuava a dipingere scene d'uomini che si facevano a pezzi, che si trucidavano ... tornando indietro nel tempo si possono vedere questi grandi esempi d'umanità e d'impegno politico.

Sì, ora la maggior parte degli artisti pensa piuttosto a creare un proprio entourage economico, sono diventati come degli agenti di borsa. Eh sì, hanno assistenti, a volte non sono più loro a lavorare e pensano solo a commercializzare l'opera. In più la politica non è solo descrivere un fatto ...


Allora mi capisci quando affermo che con questi artisti io non ci voglio lavorare.

Ti capisco benissimo.


Enrico Baj parlando dell'epoca in cui viveva a Parigi, erano gli anni Cinquanta, diceva: «In quel tempo avevamo il coraggio di sbattere il nostro immaginario sul tavolo ... » mi viene un po' di nostalgia ...

Sono finiti, ormai, artisti di questo spessore. Pensa dagli inizi del Novecento ad oggi quante personalità sono sparite; sono rimasti pittorucoli che non hanno né senso artistico né senso umano.


Come l'etica, vorrei dire "umanistica", nel senso dell'interesse per l'umano, influisce sull'estetica del tuo lavoro ?

Influisce tanto, l'etica, almeno se parli di presa di posizione, di coerenza intellettuale, è importante, anzi penso sia uno dei contenuti primari dell'operare.
Dicevi prima di Goya ma prendi per esempio anche Cagli, che a Buchenwald come soldato ha rappresentato tutti quelli orrori; sono documenti preziosi, dei diari, dei taccuini che rappresentano le atrocità che l'uomo può fare. Quelle sono le prese di posizione di un pittore che veramente lavora come primo attore.


Penso anche a Marat ucciso nella vasca, di David, opera fondamentale che segna un momento fondamentale del percorso umano. Ma questo, lo s'impara ? Quest'amore per il prossimo o lo si ha dentro oppure no.

Fortunatamente i maestri ci sono e loro ci possono guidare, prendi un altro esempio: l'opera di Bacon che con quel suo modo graffiante di deformare la figurazione ci lacera dentro. Ci sono stati dei momenti, in effetti, in cui la pittura è stata molto più incisiva. Oggi vedo troppe cose di superficie, che galleggiano, sono operazioni fatte per il mercato, penso ...


Ora una domanda che può sembrare banale. Tu sai quanto io tenga alla sopravvivenza del nostro pianeta, alle cure che non sappiamo dargli, alla distanza che si è creata tra l'uomo e la natura: la sua natura. Noi non sappiamo forse più ciò che vuol dire essere in rapporto stretto con la natura, perché la vita - ma soprattutto la nostra società - ce ne ha allontanato e possiamo solo, in piccola parte, immaginare di quanto ... Se ti chiedessi della tua natura originaria, del Mauro senza sovrastrutture, come lo definiresti ?

È una domanda difficile da spiegare così, in questo momento. Anche se è una bella domanda, perché il rapporto con la natura è importante, sentirsi parte di questo grande respiro.


Io ho un sogno abbastanza ricorrente. A volte immagino Tania senza sovrastrutture e mi proietto, anziana, molto vecchia, in una giungla, una foresta selvaggia, accanto ad un fuoco: sono una donna paleolitica. Quell'immagine mi dà tranquillità e anche speranza; da lì io traggo l'energia che a volte mi manca per andare avanti nella mia realtà come artista ma anche come mamma, come insegnante, come artigiana operaia ...

È una bella visione che mi hai dato, perché anch'io penso che l'uomo delle caverne lavorava solo per il bisogno di esprimere un suo stato d'animo, un suo modo di sentire la natura e anche le avversità ...


Lì nasce l'arte. Loro sì che erano in comunicazione completa con la natura del loro essere e questa cosa ce la siamo trasportata dall'inizio, il bisogno di rappresentare, di fare magia attraverso l'immagine, la figura, ma anche il segno ...

E quello che trovo autentico, è che alla fine il pittore delle caverne dipingeva perché aveva voglia di dipingere, non aveva voglia di arrivare prima di un altro, di essere il più bravo, di esporre alla Quadriennale o alla Biennale di Venezia. Dipingeva i muri delle caverne perché sentiva di dover fare così. Era solo un rituale magico.


Era uno sciamano-artista, insisto su quel termine, perché quando io dico: «Nel terzo millennio l'artista deve tornare sciamano, guarito al punto di poter guarire», è quell'uomo lì che intendo. Io non ho più voglia di vedere artisti malati, che si presentano con le loro sofferenze come se fossero le loro qualifiche, quel modo d'essere che ancora esalta l'io, dettato dal Romanticismo del secolo scorso. Penso che per quegli artisti non ci sia più scampo: sono troppo deboli, non sopravviveranno. Sono talmente convinta di ciò, che è per questo che tento di curarmi al massimo, per essere pronta a passare oltre qualsiasi cataclisma.

Una cosa che per me è importante è usare le mani e per forza farsi del male sbattendo contro le cose. Oggi non si dà più importanza alla manualità, o alla tecnica, invece è importante. È come un ritorno al "fare", al fare arte senza manuale.


La tecnica ! Termine da usare con parsimonia; parlare di tecnica, dopo il concettuale, è difficile, però bisogna. Quel periodo della fine del Novecento dove si è formulata una destrutturazione che era inevitabile, perché siamo andati fino a capire di che struttura era fatta la tela, deve servire soltanto per permetterci di ritesserla, di rimetterci su un fondo a base di caseina e di gesso morto e di saper di nuovo lavorare con l'olio e con le tecniche degli antichi maestri. Non abbiamo destrutturato per lasciare lì tutto a brandelli, ma per comprendere come meglio ristrutturare. Ecco perché parlare di tecnica non è tanto semplice.

Siamo troppo sommersi di computer, di tecnologia e questi ci hanno fatto perdere la bussola e anche la riflessione mentale, la capacità di saper usare le mani e di intervenire come persone, come oggetti fisici. È il pugno del quale parlavo prima, con un pugno colpisci la persona e ammazzi il nemico ... Inoltre per parlare delle mostre io vedo tutta una fotocopia della fotocopia, di tutti i gesti e di tutti gli artisti, perché alla fine diventa semplice lavorare così, senz'anima, come una macchina.


O allora lavorare con il concetto, come se da una parte ci fosse l'artista artigiano e dall'altra parte un produttore d'idee ... che sono due cose complementari.

Da mettere insieme, perché non esiste artista che lavori senza concetto. Vedi Munari: è stato un personaggio fantastico proprio perché ha messo insieme il contenuto e l'opera, ha lavorato molto sull'atto creativo, ha studiato tecniche che sviluppano la fantasia, l'immaginario. Ti ricordi dei laboratori che faceva con i bambini ?


Munari ha fatto anche tante applicazioni funzionali dell'arte: oggetti di design, cose utili ... Lui era un pratico, tutto sommato era nel suo temperamento. Penso che sia più che naturale che ognuno abbia la propria personalità, la propria inclinazione che non c'entra con l'estetica, perché quella è un'altra cosa.

Come Baj, perché Baj piace ? Io l'ho sempre ammirato, oltre ad essere un intellettuale dell'arte, non faceva le cose tanto per farle, ci lavorava sotto, sopra; poi prendeva delle posizioni nei confronti della politica, aveva il coraggio di esporsi. Il tutto poi chiaramente diventava l'opera, il lavoro è l'atto finale, il lavoro estetico è come un compimento.


Certo, è troppo importante la coerenza tra ciò che si pensa e i gesti che si fanno. Poi se sono gesti pittorici restano come immagine. Un'immagine importante può cambiare l'idea che l'uomo della strada ha della rappresentazione di un'idea. Questo è il percorso, il cammino: ogni emozione nuova cambia il modo di immaginare il mondo. Corot lo vedeva in un certo modo, ce lo ha spiegato attraverso le sue immagini; per gli impressionisti, per Cézanne era in un altro modo ancora: avevano tutti un'idea diversa del mondo, una visione diversa dell'umano e della natura e la rappresentavano come la vedevano.
Questa è la storia dell'immagine che trasporta il pittore attraverso la sua pittura, no ?

Io per esempio ho un'immagine del mio lavoro che a me piace molto: lo vedo come una ferita, una ferita che pian piano si rimargina. Proprio la ferita che ti fai fisicamente ... esce il sangue, poi diventa crosta e guarisce. La pittura è quello per me: ogni tela una ferita, momenti che butto giù, che metto lì, che poi s'impastano di situazioni e d'avvenimenti. È una ferita, una ferita che con pazienza, amore, vai a curare.


Sì, la vedo bene quest'immagine a proposito delle materie dei tuoi dipinti dei tagli che a volte dai alle superficie, potrebbero essere delle ferite ...

Infatti, le mie ferite se le vado a curare diventano materie che poi si seccano e ricreano superfici nuove, ma all'interno, sotto, il segno rimane. È un po' come gli abiti di Kafka che tu compri nuovi. Quando compri un vestito è bello, nuovo, senza una piega, te lo metti addosso e comincia a prendere le tue pieghe, perché ognuno ha le sue pieghe, il suo modo di mettersi in posizione; e cambia la struttura estetica di una cosa.
È attinente quest'immagine del segno che ti s'incolla addosso.


Io sono convinta che basta avere un'intenzione chiara perché questa si avveri.
Quali sono dunque le tue intenzioni per il tuo futuro, come ti vedi tra alcuni anni ?

Sempre più scoglionato mi vedo, sempre più fuori del mondo. Io non faccio la corsa per entrare nella corte ...


Non riesco a scindere l'aspetto "politico", etico, comportamentale dall'aspetto "spirituale". Anzi, penso che la mia spiritualità sia la prova del nove di tutti gli altri aspetti, o quanto meno giustifichi molti gesti e atti della mia vita. Non smetto di ripetere, purtroppo a volte ancora per convincermi, che la felicità, cioè la positività e l'amore per la vita che mettiamo in atto siano la dimostrazione che stiamo prendendo la strada giusta. Tu come intendi la parola "spiritualità" ?

Ma io principalmente la strada giusta non riesco mai a prenderla, non l'ho mai presa, ho sempre preso strade sbagliate. Anche se poi credo molto all'aspetto "spirituale" del fare e il mio lavoro è molto mistico. Corradini ha detto che sono un angelo e un demone. Ho queste due caratteristiche, questa contraddizione di fondo c'e l'ho, nei miei comportamenti, nel lavoro, nel mio modo di essere ... un fondo di pessimismo c'è, poi sono rompiscatole su tutti i campi ... Io penso che la nostra storia personale, dalla nostra nascita fino ad oggi, ci abbia in qualche modo segnato, chi in un modo chi in un altro, per esempio io sono stato segnato da tante situazioni, che mi sento dentro e che alla fine mi portano a vedere le cose in modo negativo. Non dico che ho fatto i campi di concentramento ma quasi perché essendo stato per 11 anni in collegio con i preti ... francamente tante cose mi hanno segnato. Quando parlo di ferite, le ferite sono queste qui, che poi si hanno dentro. Sì, si possono rimarginare, la pelle ridiventa bella ma dentro, il male che ti hanno fatto, resta. Come quando ti rompi un arto, certo che guarisci, ti mettono a posto, ti ristrutturano, ti ristuccano ... Ma dentro di te tutto questo comporta dolore e trauma che ti portano a leggere le cose in modo diverso.


Mauro, il messaggio più importante che un artista trasporta ?

La passione, perché nonostante tutto bisogna rimanere una persona passionale, che lotta contro i mulini a vento, tipo un Don Quichotte ...


Che rema controcorrente ...

Sì penso sia quello lì, nonostante tu sai che sei una persona inutile, ti metti lì e sei l'ultimo baluardo di una linea immaginaria, di difesa.


Ci vuole anche coraggio ...

Sì il coraggio di stare lì, poi.


E l'auto-ironia, invece ?

Quella serve, è importante, per non prendersi sul serio, perchè altrimenti pensi di essere un artista e pensi chi sa che ! Ah ... con questa grande A che diventa mitica, diventa un totem. Perché poi si pensa solo che l'arte fa bene, sì, fa bene nel momento in cui la stai facendo però poi rovina la vita perché è un tarlo, è un tarlo che hai dentro conficcato e ti corrode piano piano. E non sai se ti dà delle cose positive o negative. E un tarlo che sta lì e mangia, silenzioso, lavora ...


Cosa aggiungeresti, e secondo te cosa ho dimenticato di dire o chiedere ?

Niente di particolare perché già tanto ho detto. Per me è anche una cosa pesante rispondere a delle situazioni ...


Penso che l'atto creativo esiste in ogni secondo, millesimo di secondo di ogni cosa che si muove, anche le polveri che abbiamo intorno partecipano a questo atto creativo, perchè il mondo è stato creato partendo da una grande INTENZIONE e a partire da questa tutto si muove, si evolve.
Non sappiamo neanche dove sta il limite soggettivo della nostra visione, come è veramente la realtà noi non lo sappiamo. In più dobbiamo anche tenere conto dei condizionamenti sociali e culturali che ci abituano a credere che le cose stanno come le vediamo, e ricordarci continuamente che non è così.
L'atto creativo è l'amore stesso che spinge il mondo ad andare avanti, l'atto creativo è la foglia che uscirà dalla pianta a primavera. A questa fonte, che scorre e che è perennemente lì, non è però sempre così evidente attingere. Almeno io parlo per me e posso testimoniare che quando entro nel mio studio con l'intenzione di lavorare, devo confrontarmi con fogli bianchi, tele e spazi vuoti ... ed è sempre un salto nel nulla. Uguale è stato per questo nostro dialogo, abbiamo superato un vuoto, sapevamo che avremmo dovuto parlare di noi, che dovevamo esporci, che su fogli vuoti avremmo dovuto scrivere i nostri nomi. Avremmo dovuto fare un disegno, un autoritratto che ora è quasi finito. Tra poco sarà fermo per l'eternità.
Come quando si crea ad un certo punto ci si perde via, ma arriva sempre il momento della conclusione, il momento della separazione. Allora le cose vanno per conto loro, hanno la loro forma e non ci appartengono più ... Quando una cosa finisce c'è sempre un attimo di smarrimento.

Io continuo a pensare che il mio fare è come un grido, dopo 20 anni continuo a gridare. Un capovolgermi continuamente e gridare e tirare fuori delle cose. Poi a voltre vengono fuori delle voci strozzate, a volte un bel canto, altre volte non riesco nemmeno a parlare o a cantare o a gridare ...


Succederà anche che stai zitto, no ?

Anzi, il più delle volte, perchè parlo pochissimo, non mi piace molto parlare.


Dovevamo dare una coda a questo pesce, non sapevamo come farla e il pesce è finito ...

Il pesce è finito, l'abbiamo già mangiato !




 
 

Risali





BTA copyright MECENATI Mail to www@bta.it