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Le figure ultime in Freud e Wittgenstein: dalla strega all'enigma
Maria Letizia Proietti
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 12 Aprile 2006, n. 427
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Ma ha oggi una seria consistenza intellettuale
chinarsi di nuovo su quel che tanto Wittgenstein
quanto Freud hanno messo radicalmente e
analogamente in questione: quell'ideale
cartesianesimo tanto tenace quanto insostenibile ?
1

Dall'ultimo Wittgenstein, dal Big Typscript, un dattiloscritto di 768 pagine ricavato, come si sa, dalle migliaia di osservazioni trascritte in dieci volumi nel corso del suo ritorno a Cambridge, ripartiva una ricerca che, non per caso, si riallacciava all'andamento dei quaderni preparatori del Tractatus: sviluppare il tema che interessa e poi, passando ad altro che vi si associa, alternare osservazioni su questi materiali, con continue riprese di argomenti già trattati, da angolature differenti.
Frammenti, ancora, come nel Tractatus, tra loro variamente interconnettibili per far intendere la tesa continuità della sua querelle verso ogni idealismo e - accanto all'inaudita complessità del linguaggio e dell'immagine e delle convenzioni correlate al loro uso - soprattutto il loro confinarsi che, se disconosciuto, li rende tutti inefficaci.
Da queste innumerevoli scorribande, apparentemente senza inizio e senza conclusione, analoghe, nel suo vissuto, all'impossile restare in un luogo o in una relazione, era nata, come nelle sue parole, una raccolta di schizzi paesistici e, in definitiva, "soltanto un album".

Chinarsi di nuovo, ora, su un tale materiale - quale contributo metodologico eminente ed imprescindibile - ha richiesto un analogo andamento ed esito: un altro piccolo schizzo che si è composto sotto i miei occhi, guardando ancora e da quell'oltre che per Wittgenstein alberga nel movimento di ogni evidenza e, anzi, a causa di essa.
Come anche per Freud, sia pure con stile differente.

Non a caso, questo stile differente verso la condivisa istanza, sin dall'inizio, dell'enigma e/o del reale - Wittgenstein: «l'enigma non esiste» ( Tr. 1926 ); Freud: «Quelle che noi chiamiamo cose (Dinge) sono residui che si sottraggono al giudizio» (Progetto di una psicologia, 1896, p. 237 ) - si mette in scena, lungo il proseguire delle loro ricerche, proprio e soprattutto attraverso quella che, con Freud, ho chiamato "la strega".

Di lei, Freud riconosce esplicitamente la salvifica necessità nel momento in cui i materiali interrogati non rispondono più e l'intendimento si arresta a fronte di un'opacità.
Chiamare in soccorso la strega, considerandola con ironico affetto teoretico, l'ultima risorsa - «E allora dobbiamo dirci non c'è che la strega. Questa strega, si sa, è la Metapsicologia» 2 - per avvertire subito, di seguito che, però, le informazioni che dà non sono né perspicue né dettagliate e che proprio in questo consiste il suo esser risorsa; non possiede, certo, la difesa tonalità emotiva di fondo con cui Wittgenstein reiteratamente avverte di non lasciarsi stregare (Behexen): alla lettera, "farsi ingannare e sedurre dalla strega (Hexe)", quali che siano i suoi diabolici prestigi.
Ma chi o che è, allora, per Wittgenstein, la strega ?

Nel suo pensare e sperimentare sembra, infatti, averne operato un rifacimento entro cui, il corpo e il sangue della strega - non ho detto la strega in carne ed ossa - siano stati imbrigliati abbastanza da esser resi irriconoscibili ma non, per questo, meno conflittuali.
Così la sua filosofia era stata, e avrebbe dovuto essere, l'arma efficace contro ogni incantamento (Verhexung=stregamento) dell'intelletto ad opera del linguaggio 3.
Contro di esso s'era mobilitato fino alla fine e, seppure entro un riguardo lontano, ancora ci traspariva l'affetto che aveva mosso la diffida alla strega.

Come quando precisava che le difficoltà del linguaggio e dell'occhio verso le cose ultime che sopravanzano al movimento del dire/immaginare non sono difficoltà intellettuali del tipo in cui s'imbattono le scienze, bensì le difficoltà di una conversione 4 entro cui dover vincere le resistenze della volontà.
Non nel senso di vietarsi qualcosa, ma di abbandonare una certa usata ma ormai inefficace combinazione di parole.
Una rinunzia, sì, ma non dell'intelletto, piuttosto del sentire perchè ormai, nella sua episteme, il lavoro del pensare - come quello del costruire in architetture - era divenuto più propriamente un lavoro su se stessi, «sulla propria concezione. Su come si vedono le cose. (E su cosa si pretende da esse)» 5.
Sulle proprie "preferenze" avrebbe detto e sottoscritto Freud.
Un lavoro non facile, che proprio in questo sbarrerebbe a molti il passo tanto verso le filosofie che le psicoanalisi, perchè può risultare impossibile non continuare ad usare un'espressione, tanto quanto «trattenere uno sfogo dell'ira / della rabbia» 6.

Vincere lo stregamento consiste nel poter depositare o sospendere le abitudini anche mentali (o le preferenze inadeguate) nelle quali si è immersi e la «tendenza a pensare così» 7; perché l'immensa rete del linguaggio ha riservato trappole per tutti e false vie in buono stato e facilmente praticabili.
E così «li vediamo percorrere l'uno dopo l'altro le stesse strade e sappiamo già dove svolteranno; quando proseguiranno diritto senza notare la biforcazione, ecc.». Tuttavia il "dissolvimento dall'incantesimo" va bene soltanto per coloro che vivono in una rivolta istintiva contro/ insoddisfazione istintiva per/ il linguaggio. Non va bene per coloro che ... vivono nel gregge che ha prodotto questo linguaggio come loro vera e propria ( eigentlichen) espressione [/espressione d'appartenenza/ gergo]." 8

Verso la strega, la necessità del disincanto brandita come un motto e/o una mèta, fa sembrarne persino più conciliata l'accoglienza, e destinale e teoretica, da parte di Freud, per il quale è per la strega che l'intelletto, lontano dall'esser siderato o sviato, può consistere dei/nei suoi limiti efficaci.

Wittgenstein invece, non aveva mai potuto ricavarne, fino alla fine, lo stesso genere di prestigi, se non nel rimetterne all'atto incantesimi e seduzioni, non solo teoretiche, delle quali poi si vergognava e doleva.
Come quando, ancora nel '46, dopo aver parlato ad una riunione del Moral Science Club: «Devo ancora continuare ad insegnare ?» si chiedeva, disgustato dal modo vanitoso e sprezzante in cui, per l'ennesima volta, si era proposto e che, fin dai tempi degli Julian Bell 9, suscitava la disapprovazione dei suoi colleghi filosofi che, come nelle parole di Ryle, erano disturbati da una venerazione per Wittgenstein così sfrenata, che «bastava nominare un filosofo per essere prontamente sbeffeggiati». 10

Un simile disprezzo per qualsiasi pensiero che non fosse quello di Wittgenstein appariva a Ryle pedagogicamente disastroso per gli studenti e nient'affatto salutare per lo stesso Wittgenstein, soprattutto quando dava l'impressione e di vantarsi di non aver studiato le opere degli altri filosofi e di credere che a studiarle fossero solo gli accademici, ossia i filosofi di professione.
Su tale argomento Wittgenstein aveva annotato, da parte sua, che, per quanto poco volesse aver letto di filosofia aveva letto anche troppo e che tutte le volte che l'aveva fatto aveva potuto toccar con mano che non migliorava per nulla il suo pensiero ma lo peggiorava. 11
E che era stato un bene non essersi mai lasciato influenzare.

Come lo aveva annunciato M. Keynes in una lettera a Lydia Lopokova, nel 1929 12, Dio era arrivato a Cambridge e lo aveva incontrato sul treno delle cinque e un quarto.
Mentre ci aveva preso assieme un tè, si era ripromesso di non lasciarsi stregare da lui per più di due o tre ore al giorno, ribadendo l'attrazione e la "fatica" a sottrarsi a quell'attrazione che Wittgenstein non avrebbe, per eccellenza, voluto né subire, né esercitare, come, sin da bambino gli accadeva.
Per il garbo ineccepibile nei confronti degli altri e per la determinazione nell'accattivarseli 13.

Questo sembra un nodo cruciale del pensiero di Wittgenstein sulla disonestà, consistente per lui, nel dire o fare qualcosa che gli altri si aspettano - anche se per me non corrisponde al vero - e per il timore della loro disapprovazione e sotto la pressione delle loro aspettative.
Perché i dilemmi che questo tema gli prospettò, sin dal drammatico teatro della sua splendida ma infelice infanzia, continuò a percepirli come indebite intrusioni che lo assalivano e lo tenevano prigioniero, rendendogli impossibile la vita quotidiana finché non avesse potuto trovarne una soluzione soddisfacente.

Viene da chiedersi se il suo metodo estremamente rigoroso e affatto disposto al compromesso e allo scambio, all'influenza e, soprattutto, alla seduzione, non fosse sorto forse proprio dalla remissività dell'infanzia, dal desiderio di piacere, dalla necessità di sottomettersi, pena ... la vita ?
Com'era accaduto per tre dei suoi fratelli, Hans, Rudolf e Kurt, che percepiva, in questo, così diversi da lui, così ribelli e, tutti e tre, in tempi successivi ma vicini, suicidi ?
Si è parlato a questo proposito della disastrosa determinazione paterna di vederli succedere alla propria attività economica, mentre sarebbero stati, a lasciarli vivere, degli autentici genî della musica.
Ma Wittgenstein non aveva terrore di suo padre, dal quale insieme a Paul era scampato; e non aveva mai smesso di amarlo, fino alla fine.

Mentre non si potrebbe dire lo stesso del suo amore per la musica e dell'intolleranza verso un modo di suonare meno che perfetto e dell'ansia che gli aveva impedito di accostarsi ad uno strumento musicale prima dei trent'anni e dell'immensa rilevanza che aveva nel suo vissuto tanto che, ripetutamente nel suo pensare, comprendere una frase è molto più affine a comprendere un tema musicale di quanto non si creda.

Ancora tra le annotazioni di Rosro del 1948, pubblicate dopo la sua morte da von Wright in Culture and Value, ci era tornato sù in modo esteso e dal quale finalmente risultava che comprendere la musica - come comprendere l'umorismo - era per lui il movimento della comprensione filosofica stessa: poter cogliere, accogliere, condividere entro un'analoga forma di vita - posizione psichica, appartenenza - eventi che solo in essa possono sussistere.
Senza questo, come si farebbe a "spiegare" che cosa vuol dire "suonare con espressione", "non avere ritmo" ?

E, così, «se ascolto una melodia e la capisco, in me non accade forse qualcosa di particolare - qualcosa che non accade se la sento senza capirla ? E che cosa ? Non trovo risposta: oppure quello che mi viene in mente è insulso».
Analogamente, «che cosa succede quando due persone non hanno lo stesso senso dell'umorismo ? Reagiscono tra loro in modo sbagliato. È come se tra certe persone ci fosse l'uso di lanciarsi la palla: uno la lancia, l'altro la rimanda. Ma ci sono alcuni che non la rimandano e, invece, se la mettono in tasca».

La difficoltà non è di ordine filosofico, non dipende da opinioni filosofiche errate o insufficienti, ma dalla propria kultur, dal mondo/modo in cui si è nati e cresciuti e dagli affetti/effetti che hanno disegnato posizione psichica, preferenze, modo di vedere, tradizione.
E tradizione «non è nulla di ciò che uno possa imparare, non è un filo che uno possa riprendere a suo piacimento; come non è possibile scegliersi a piacimento i propri antenati».

Così, la seduzione e lo stregamento non furono mai esercitati nè subiti da Wittgenstein in relazione a figure femminili. Anzi, come nella testimonianza di Frances Partridge 14, Wittgenstein sembrava incapace o non interessato a discutere di argomenti impegnativi quando erano presenti.
Persino nell'atmosfera di Bloomsbury o durante le cene con gli Apostoli in casa di Keynes, la sua conversazione si manteneva per lo più a livelli banalissimi e la infiorettava con battutine striminzite cui seguivano sorrisetti un tantino forzati.

Persino con Virginia Woolf, con la quale, reciprocamente, non legarono, ma della cui morte per suicidio aveva poi detto a Rusch Rhees, quasi come se parlasse di se stesso, «è cresciuta in una famiglia in cui la misura del valore della persona era basato sulla capacità di distinguersi nello scrivere, oppure nella musica, nella scienza, nella politica; sicché non deve essersi mai chiesta se, per caso, fosse possibile realizzarsi in altri modi». 15

Altrove, Wittgenstein non si sarebbe limitato a parlare persino di quelle cose di cui continuava a sostenere che bisognava tacere, ma avrebbe monopolizzato ogni discorso, come nell'ironico ritratto di Julian Bell del quale le persone più delicate avevano riso di cuore scaricando tensioni accumulate, risentimenti e persino timori, perché nessuno riusciva mai a rifarsi su Wittgenstein ripagandolo con la stessa moneta.

Infatti:
«...
Qualsiasi compagnia fa tacere con le sue urla
E ferma le nostre frasi borbottando le sue;
Incessante argomenta, severo, iroso, vociferante,
Certo d'aver ragione e della sua ragione fiero,
È una colpa comune, condivisa un po' da ogni parte,
Ma Wittgenstein del pontificare fa la sua Arte». 16

L'istantanea di J. Bell è conforme al maggior numero di impressioni e testimonianze, e ricordi lasciati nel tempo, agli/dagli interlocutori evocati da Wittgenstein, e analoga a quella che, quasi vent'anni dopo, un altro giovane a caso 17, tracciava di lui in un suo diario, mentre era ospite dei Suoi, nel Sussex:
« ... è un tipo impossibile che tutte le volte che dici qualcosa, dice: 'No, non è questo il punto'. Forse non sarà il suo punto ma è il nostro. Anche pesante da ascoltare».
Come nelle parole del filosofo musicista W. E. Johnson, che pure gli era stato amico, Wittgenstein era uno praticamente incapace di sostenere una discussione, nel senso di confrontarsi con il discorso dell'altro.
Però, dallo stregamento e dalla seduzione esercitati con una certa arroganza - con spietatezza, aveva scritto Russel 18 - gli derivava, alla fine, la "grande tristezza" di non poter trovare un punto fermo ... come se ci fosse ancora qualcosa di cui non si era reso conto.

Da Pinsent a Ben Richards, dall'inizio alla fine e passando persino da Marguerite Respinger ed Elizabeth Anscombe che peraltro chiamava "mon vieu", l'inquietudine di non potersi fermare in nessun luogo o di esserne cacciato in prossimità di ogni possibile coinvolgimento da reciprocare era, ogni volta, del tipo di quella suscitata da Piero Sraffa che nel maggio del 1946, aveva deciso d'interrompere le sue conversazioni con lui che duravano dal 1929.
Non aveva più tempo e attenzione da dedicare agli argomenti che Wittgenstein gli imponeva e con lui, che cercava di convincerlo a continuare, dichiarandogli d'esser disposto a parlare di qualunque cosa, Sraffa aveva chiuso dicendo «Si, ma alla sua maniera». 19
Il duro colpo, ma non il primo né l'ultimo, di vedersi privato della possibilità di dialogare, stavo per dire monologare, con uno dei rari studiosi per cui nutriva un grande rispetto, lo aveva indotto a pensare, come di solito gli succedeva in analoghe circostanze, di dimettersi dall'insegnamento e di andarsene da Cambridge, dalla "sfatta e putrescente civiltà inglese", dai filosofi di professione contro cui che avrebbe mai potuto fare un uomo da solo ?

Non solitudine, ma isolamento: il sentimento dominante evocato da Wittgenstein nel proprio vissuto, anche quando, per poco, s'imbatteva in affinità elettive, a che rimanda ?
A che rimanda un-uomo-da-solo che, come se non avesse dimora, esige ed ottiene esplicitamente o implicitamente e fino alla fine di farsi ospitare e adottare "in cambio" della sua filosofia e riuscendo puntualmente a ricacciarsi o a farsi ricacciare nell'isolamento ?

Leopoldine Kalmus (Poldy): era dotata di un temperamento musicale assolutamente eccezionale e la musica fu per lei la più importante.
Grazie a lei Palazzo Wittgenstein sulla Alleegasse era diventato, come si sa, un centro musicale di estrema raffinatezza: Brahms, Mahler e Bruno Walter erano, tra gli altri, di casa.
Ma Poldy aveva uno spirito critico particolarmente severo.
Così se il più piccolo, Ludwig, non presentò sintomi evidenti dell'autodistruttività che aveva colpito i suoi figli maggiori, neanche si mostrava dotato del loro straordinario talento musicale e di nessun talento in nessun campo e aveva iniziato a parlare a quattro anni.
Dell'infelicità della propria infanzia e adolescenza, trascorsa in una grande casa dove si alternavano fino a venticinque precettori - e quindi lontano ma obbligato al/dal suono seducente ma severo e critico della madre/musica - Wittgenstein avrà segnalato poi più volte l'intensità.

Finché Leopoldine fu viva, all'avvicinarsi del Natale, Wittgenstein, dovunque si trovasse, era travolto da angoscia e depressione, per il fatto di dover tornare senza scampo a Vienna.
Come aveva scritto, a questo proposito a Russel, spesso pensava di impazzire, ma il fatto era che sua madre voleva anche lui, a tal punto che si sarebbe sentita "gravemente offesa" se non ci fosse andato. Consentendo al richiamo, non si sa quanto immaginario piuttosto che semplicemente formulato così da sua madre, Wittgenstein sembra scendere ad un compromesso del tutto insostenibile e paralizzante che gli impediva di pensare e di vivere, come egli stesso ne scriveva:

«... Conseguenza del mio soggiorno viennese. Sono stato quotidianamente in preda di un'Angst spaventevole che s'alternava alla depressione, sicché, anche nei rari intervalli, ero a tal punto esausto che non potevo neppure immaginare di mettermi al lavoro. Il livello terrificante raggiungibile dal tormento mentale è al di là di ogni possibile descrizione ! Solo da un paio di giorni ho potuto udire la voce della ragione oltre agli urli della dannazione e ho ripreso a lavorare: e forse starò un po' meglio se sarò in grado di produrre qualcosa di decente». 20

Scampava, fino al prossimo Natale, fuggendo lontano da casa e fasciandosi di un isolamento totale, possibilmente in luoghi freddi - dei quali non conosceva la lingua né poteva impararla non essendoci nessuno con cui parlare - ed entro cui cercava di fare i conti con se stesso, «la cosa di gran lunga più importante». Così come una volta ne aveva scritto anche a Russel: «Forse riterrà che questo mio modo di pensare me stesso non sia altro che una perdita di tempo: ma come potrò mai essere un logico prima di essere un umano ?» 21

Quale grado di disumanizzazione gli evocava la prossimità e la praesentia (Ausserung) di Leopoldine ?
Quale fraseggio musicale non rigettabile ma insopportabile se, come appare, assordante ?
Per sottrarsene, non era bastato rinunciare ad ogni concreta e cospicua e anche teoretica eredità, non godere di nessun privilegio correlato, mettersi nella concreta impossibilità di farlo, mille volte volendo esser «rassicurato che non c'era più possibilità alcuna che qualsiasi somma di denaro gli appartenesse a qualsiasi titolo ... a costo di esasperare il notaio ...» 22

Dopo la morte della madre, nel giugno del 1926, il suo atteggiamento nei confronti delle feste di Natale era radicalmente mutato.
Narrano le biografie che, depositate le angosce e le fobie e i sentimenti di estraniamento, che almeno dall'anno della morte del padre, nel 1913, lo avevano tormentato, Wittgenstein tornava a Vienna per partecipare con entusiasmo al rito natalizio con tanto di pranzi, canti e regali per tutti, senza la minima preoccupazione che potesse recar pregiudizio alla sua integrità.
Ma per ripartire presto ogni volta e senza mai considerarsi a casa, neppure per venirci a morire.
L'ansia di disintegrazione, se non più associata al rito natalizio del ritorno a Vienna, restava tuttavia nell'immutata strategia della/nella relazione impossibile e dello strenuo, difensivo e talora violento controllo da esercitare su uomini, pensieri, luoghi ed eventi di/per tutta la vita.

Soprattutto verso chi, come Freud, continuava ad affascinarlo, come si legge, ancora, in una lettera a Malcolm del 1945: «... Lui è straordinario. Certo, è pieno d'idee che non sono chiare e distinte e il suo fascino e il fascino dei suoi argomenti sono talmente grandi che si può facilmente restarne ingannati». 23
Armato della sua filosofia, per non lasciarsi stregare - leggi disintegrare - aveva continuato a girargli attorno dal 1919, ritenendolo uno dei rari autori degni d'esser meditati e si definiva volentieri suo discepolo o suo adepto. Il che costituisce un'eccezione.

Dall'astuzia (geistreich) di Freud - quasi come dalla propria - si era difeso tenendosi ad una distanza che mai gli avrebbe permesso di accedere ad un'analisi, pur essendo tentato dal divenire lui stesso psichiatra.
Come lo scriveva Drury, nel 1936: «Pensava che, se avesse acquisito i titoli necessari per essere medico, lui ed io avremmo potuto praticare insieme come psichiatri. Sentiva di avere uno speciale talento per questa branca della medicina». 24
Ma, quando più tardi ne riparlarono, disse di non voler sottoporsi ad un'analisi didattica perchè non riteneva che fosse una buona cosa rivelare tutti i suoi pensieri ad un estraneo.

La stessa sirena/strega che rendeva Wittgenstein tanto esigente quanto spietato verso sé, era quella che a questo prezzo aveva reso doni e risorse intellettuali straordinarie ?
Come mettere a rischio un tale patto ?

Così i biografi 25 si chiedono inutilmente se il potersi concedere un'analisi lo avrebbe aiutato ad abbandonare il perfezionismo distruttivo e l'impossibilità di coinvolgersi persino con chi accettasse totalmente il suo pensiero e il suo modo di essere.

Ma, come nelle parole di Fania Pascal, Wittgenstein potè comportarsi «così cavallerescamente verso Freud ... solo a patto di potersi dire di non aver alcun bisogno di lui». 26
Come faceva, dunque, con chi attraendolo lo minacciava di "dissoluzione", aveva accettato e rigettato Freud in ugual misura, con la stessa ambivalenza che in qualche modo gli aveva permesso di sussistere e che esercitava prima di tutto verso sé, come quando scriveva che la filosofia è uno strumento utile solo contro i filosofi e contro il filosofo che è in noi.

Ne temeva, la ricchezza dell'immaginazione e l'arte di sfruttare o inventare analogie omologanti e seducenti: teorie. Temeva, in particolare, di risultare "astuto" (clever/geistreich) e temeva che venissero alle sue lezioni per questo, perché anche "loro volevano diventare "astuti".
Ma, come diceva ancora verso la fine 27, non era questo l'importante: di divenire un funambolo del pensiero e mostrare come si fa.

Come si vede, il tema della strega non è dunque uno tra i tanti.

Che, chi era dunque la strega? Chi, che non l'aveva, a tempo debito, corrisposto di una risposta empatica, congrua e compassionevole, ma fascinato di un terrore indicibile e inestinguibile che gli impediva persino di trovar risorse nella preghiera, così come l'aveva scritto da ultimo:
«Non posso inginocchiarmi per pregare perché ho, per così dire, le ginocchia rigide. Avrei paura della dissoluzione (della mia dissoluzione) se mi ammorbidissi». 28

Per rispondere, se mai sia possibile, non si corra alla madre, anche lei sofferente - nelle/delle proiezioni del figlio - nel fantasma.






NOTE

1 «Parrebbe proprio di sì, se si guarda all'apparente convergenza delle ricerche di psicologi cognitivisti, linguisti, filosofi analitici e studiosi di intelligenza artificiale, su quello che viene definito un nuovo mentalismo: e resti in buona anche se ridotta compagnia chi continua a non ritenere che lo psichismo appartenga al dominio dei fatti/oggetti, ma ne sia piuttosto la condizione di senso». In: R. De Monticelli, Bemerkungen über die Philosophie der Psychologie, ed. it., Milano, Adelphi, 1990, p. 527.

2 S. Freud, Analisi terminabile e interminabile, (1937), in Opere, Boringhieri, Torino, vol.XI. Freud si era comunque sempre interessato alle credenze e ai comportamenti collegati alle figure del diavolo e delle streghe. Ve n'è una traccia già nella sua corrispondenza con Fliess (1897) e, anche prima, mentre seguiva i Corsi di Charcot a Parigi, nella sua Relazione sui miei viaggi di studio a Parigi e a Berlino (1886). Cfr. poi anche soprattutto: Psicopatologia della vita quotidiana (1901); Al di là del principio di piacere (1920); Una nevrosi demoniaca del XVII secolo (1922); Costruzioni nell'analisi (1937).

3 L. Wittgenstein, Philosophiche Untersuchungen, ed. it. Torino, Einaudi, 1967.

4 L. Wittgenstein, The Big Typescript, ed. it. Torino, Einaudi, 2002, p. 407.

5 L. Wittgenstein, ibidem.

6 L. Wittgenstein, ibidem.

7 L. Wittgenstein, ibidem, p. 422.

8 L. Wittgenstein, ibidem.

9 J. Bell era nipote di Virginia Woolf e, secondo la zia, lo studente di maggior rilievo al Kings. Wittgenstein chiamò poi sprezzantemente "quegli Julian Bell" gli studenti dall'analoga appartenenza e comportamento.

10 In R. Monk, Ludwig Wittgenstein, The duty of genius, ed. it, Milano, Bompiani, 1991, p. 487. L'atteggiamento e l'eloquio di Wittgenstein suscitavano una notevole suggestione sugli uditori e sono stati fermati, non so quanto ironicamente, in una poesia di I. A. Richards, The Strayed Poet (1931): «La sua voce e lui ascoltai in queste non-lezioni/ sedie amache sparpagliavano gente tutt'intorno/ Moore in poltrona piegato a scrivere tutto/ ciascuno ansioso di ogni sua parola.// Pochi resistevano alla sua selvatica bellezza/ Labbra disdegnose, occhioni risplendenti disprezzo/ Fronte solcata, sorriso franco, figlio della tristezza/ Devozione che abbandona il mondo per il proprio dovere// ... ». I.A. Richards, Internal Colloquies, London, Routledge, 1972, pp. 183 - 86. Richards aveva scritto assieme a C. K. Ogden quel The Meaning of Meaning (London, Keagan Paul, 1923) con cui riteneva di aver fornito una soluzione al problema del senso posto da Wittgenstein nel suo Tractatus. Wittgenstein invece lo considerava un libro di scarso rilievo e aveva scritto ad Ogden: «Penso di doverle confessare francamente che lei non ha afferrato il problema che affrontavo nel mio libro (al di là del fatto se ne abbia o meno fornita una soluzione corretta)» (marzo 1923) e a Bertrand Russell: «Poco tempo fa ho ricevuto Meaning of Meaning. Sarà certo stato inviato anche a lei. Non lo trova un libro miserrimo ! ? La filosofia non è così facilona ! Com'è facile scrivere un libro spesso. La cosa peggiore è l'introduzione del Professor Postgate ... Raramente ho letto qualcosa di altrettanto delirante» (7 aprile 1923).

11 Ms. 135, 27 luglio 1947 in R. Monk, cit., p. 487.

12 J. M. Keynes a Lydia Lopokova, 8 gennaio 1929 in R. Monk, cit., p. 256.

13 In R. Monk, cit., p. 20.

14 Freud Partridge, Memories, Robin Clark, 1982, p.160.

15 In R. Monk, cit., p. 256.

16 In Freud Weismann, Wittgenstein und Wiener Kreis, ed. it., Firenze, La Nuova Italia, 1975, p. 56.

17 Anthony Ryle, il figlio di John che aveva accolto la richiesta di Wittgenstein di dare un aiuto, in vista degli attacchi aerei tedeschi, al Guy's Hospital, dal settembre 1941. In R. Monk, cit., p. 430.

18 Così Bertrand Russel in una lettera del 13 dicembre 1911 a Lady Ottoline Morrell: «Il mio spietato tedesco si presenta subito dopo la lezione e comincia a espormi le sue argomentazioni. Non c'è dubbio che sia corazzato sugli assalti di qualsiasi argomentazione altrui. Parlare con lui è pura perdita di tempo» In R. Monk, cit., p. 47.

19 R. Rhees a R. Monk, cit., p. 481, n.40.

20 L. Wittgenstein a B. Russel, dicembre 1913 o gennaio 1914, in Letters to Russel, Keynes and Moore, ed. it., Milano, Il Saggiatore, 1990.

21 L. Wittgenstein a B. Russel, gennaio 1914, ibidem.

22 Hermine Wittgenstein, Familienerinnerungen, inedito, cit. in R. Monk, p. 177; cfr. Anche la lettera di Freud Ramsey a J. M. Keynes, del 24 marzo 1924: «Sembra trattarsi delle conseguenze di un'educazione terribilmente rigida. Tre suoi fratelli si sono suicidati, il padre aveva preteso troppo da loro. C'è stato un periodo in cui gli otto figli avevano ventisei istitutori privati e la madre non s'interessava di loro». in M. Nedo, M. Ranchetti, Wittgenstein: sein Leben in Bildern und Texten, Frankfurt am Mein, Surkamp, 1983, p. 191.

23 Lettera a N. Malcolm del 1945, in J. Bouveresse, Philosophie, mythologie et pseudo-science. Wittgenstein lecteur de Freud, Paris, Ed. de L'Éclat, 1991, p. 11.

24 Lettera a Drury, del 1936 in J. Bouveresse, cit., p. 15.

25 Cfr. soprattutto S. Toulmin, The unappeased Sceptic, in The Time's Literary Supplement, 2-8 sept. 1988, pp. 947-48.

26 F. Pascal, L. Wittgenstein. A personal Memory, in J. Bouveresse, cit., p. 19.

27 È questo un genere di critica che Wittgenstein formulava spesso contro sé, quella d'essere seduttivo o astuto, eppure, come in una lettera a P. Engelmann del 1925, «Je sais qu'avoir de l'esprit (Geistreichtum) ne représente pas le bien, et pourtant je voudrais en ce moment pouvoir mourir dans un moment d'esprit (in einem geistreichen Augenblick)». In P. Engelmann, Letters from L. Wittgenstein, With a Memoir, Oxford, B. Blackwell, 1967, p.56.

28 L. Wittgenstein, Culture and value, ed it., Pensieri diversi, Milano, Adelphi, 1980, p. 99.





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