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Il ritratto romano di età imperiale  
Mariangela Ettari
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 14 Ottobre 2004, n. 376
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Area Archeologia

«Nisi utile est quod facimus, stulta est gloria». La famosa massima latina rivela la mentalità dei Romani, che diverge in molti aspetti da quella greca. Ed invero l'attività artistica degna di un cittadino romano doveva unire il decor e l'utilitas. E mentre Filodemo di Gadara, aderendo al pensiero epicureo, superava il fine utilitario dell'arte rivendicando la virtù poetica, perché tutto è vero, purchè efficacemente rappresentato, Orazio seguiva le teorie peripatetiche e stoiche vicine a quelle di Neottolemo di Pario, per cui l'arte doveva riprodurre il vero e il verosimile. E Plinio il vecchio ammirava la ritrattistica romana che sapeva fissare l'immagine della Gens e faceva conoscere il volto degli uomini celebri 1.

F. Wickhoff, storico dell'arte austriaco, nel saggio introduttivo alla Genesi di Vienna, ripubblicato in seguito separatamente in più lingue e in italiano col titolo L'Arte Romana, nello studiare l'arte dei Romani da Augusto a Costantino, ne riconosceva la originalità nel ritratto realistico, nella concezione spaziale e prospettica, nella narrazione continua.

Procedendo grossolanamente sulla via aperta da Wickhoff, l'indagine critica arriva all'esaltazione nazionalistica del ritratto romano e alla sua contrapposizione al ritratto greco 2. In diversi tempi sono state avanzate tre ipotesi sulla formazione del ritratto romano: a) origine autonoma dalla maschera funeraria usata nelle imagines maiorum, b) influenza della ritrattistica etrusca e sviluppo di essa, c) influenza del ritratto egiziano e tardo ellenistico.

Tutte queste ipotesi, oggi, appaiono superate dagli ultimi studi che portano a concludere per una formazione avvenuta in diretto contatto con la forma artistica ellenistica, ricevuta da una spontanea capacità espressiva ed elaborata variamente secondo le esigenze particolari della società romana 3.

L'uso di onorare i cittadini illustri con statue ritratto si diffonde a Roma a partire dal VI sec. a. C. Esse, talvolta, venivano innalzate su colonne a significare l'eminenza del personaggio. Improntata ad un rude realismo, la statua onoraria risponde all'esigenza, propria dello spirito romano, di fissare nella sua forma reale la figura del personaggio, darle valore storico e tramandare ai posteri la memoria anche dei tratti somatici.

Per quanto attiene alla tipologia, l'elemento tradizionale locale si può riconoscere nella tendenza a limitare il ritratto alla sola testa o al busto o all'erma ritratto; il ritratto intero è una assunzione dalla cultura greca. Non rimangono, purtroppo, esempi di questa prima statuaria ad eccezione di opere etrusche di epoca tarda, come l'Arringatore e il Bruto, che ritraggono personalità politiche del tempo. Da esse si comprende come le statue onorarie originariamente in bronzo, ragione questa della loro totale scomparsa (essendo il bronzo distrutto dalla fame dei metalli, successiva al crollo dell'economia ellenistico-romanica) e fino ad epoca tarda opera di artisti etruschi, anche se attivi a Roma.

Nei secoli seguenti il numero delle statue si moltiplica enormemente perché accanto alle immagini dei personaggi storici, le famiglie patrizie vogliono porre anche quelle dei loro capostipiti. Con la conquista della Magna Grecia (III sec. a. C) e ancora di più della stessa Grecia e degli Stati ellenistici dell'Asia Minore (II sec. a. C) e il conseguente afflusso dei capolavori originali e di artisti greci, inizia la lenta evoluzione del gusto e della cultura romana verso un sempre più ampio apprezzamento dei prodotti artistici di quella civiltà.

Il primo effetto del contatto diretto di Roma con la Grecia si manifesta proprio nel tentativo di adeguarsi ai modelli della scultura greca del periodo classico. Nasce, così, il tipo di statua che ritrae nel volto le fattezze reali del personaggio e nel corpo nudo la figura ideale di un atleta olimpico. Di tale ibrida combinazione, a lungo sfruttata nella statuaria romana, resta un tipico esempio della seconda metà del I sec. a. C. nella Statua eroica con la testa di personaggio romano ritrovata a Delo 4.

In genere, tuttavia, la statuaria onoraria pubblica conserva i caratteri iconografici tradizionali della figura togata (con veste prima corta, poi lunga ed ampia) e, a partire dal primo sec. a. C., anche coricata, vestita cioè con costume militare romano. L'impostazione libera e le proporzioni armoniose richiamano i modelli greci.

Contemporaneamente al diffondersi della cultura e dell'arte greco-ellenistica, si hanno a Roma nel I sec. a. C. le prime espressioni di un'arte locale che da un lato si può riallacciare alla tradizione etrusca, dall'altro presenta caratteri originali di schietta impronta romana.

Essa si manifesta soprattutto nella scultura funeraria, nella ritrattistica, nelle figure di divinità domestiche: stele e cippi in pietra, peperino o travertino recano scolpita in altorilievo, entro apposita nicchia, la figura del defunto, in genere tagliata a mezzo busto. Spesso sono rappresentati insieme due fratelli o due coniugi come ad esempio Catone e Porcia, talvolta con il figlioletto al centro.

Le figure avvolte in rigida toga e rappresentate in perfetta frontalità, appaiono piuttosto schematiche e rozze, ma i volti ritraggono le fattezze del defunto con una straordinaria immediatezza e un realismo che non tralascia neanche i difetti somatici del soggetto. Per tale precisa caratterizzazione si è pensato che gli artisti si servissero, come modello, delle maschere funerarie che i romani usavano conservare, ma, specie nel caso di ritratti di coppie o gruppi, è più logico pensare che essi venissero eseguiti quando i personaggi erano ancora in vita.

Questo rude realismo, tipico dello spirito popolare romano, si trova nelle teste di alcune statue onorarie e busti della prima metà del I sec. a. C., come quelli di Pompeo o di Cicerone, dove tuttavia l'accurata esecuzione e le delicata modellazione plastica rivelano un'arte più colta e vicina alla ritrattistica greco- ellenistica.

Anche la monetazione, primo originale prodotto romano, nasce con caratteri stilistici e iconografici greco - ellenistici. Alcune tra le più belle serie di monete, come quella capuana del III sec. a. C., vengono addirittura coniate fuori Roma.

Nelle monete del II sec. a.C., i tradizionali emblemi e le figure mitologiche greche si sostituiscono con soggetti tolti dal repertorio storico - leggendario romano, con simboli militari (spade, elmi, aquile) o con emblemi della gens che provvede alla emissione.

Nel I sec. a. C., oltre che nelle figurazioni, l'accento romano si avverte nello stile disegnativo rozzo e ingenuo, realistico ed espressivo.

In periodo augusteo, con il pieno accoglimento, da parte dello stesso ambiente ufficiale, della cultura artistica greca, soprattutto della ellenistica neo-attica, la scultura romana assimila perfettamente le forme e l'ideale estetico ellenistici. Nei numerosissimi busti e statue dei personaggi dell'epoca il carattere eroico, idealizzato, il vivo risalto plastico e la finezza del modellato, mostrano una costante ispirazione a modelli classici.

Augusto viene rappresentato in tre tipi della statuaria onoraria: con il corpo nudo, togato, e coricato (Augusto di Prima Porta). In questo ultimo è evidente la ricerca di una corrispondenza compositiva tra la posa composta e misurata del Doriforo di Policleto e l'atteggiamento enfatico del generale romano nel gesto dell'adlocutio. Gesto che, seppure con finalità diverse, ritroviamo nei santi Pietro e Paolo decorati sia nel fondo di coppa che si trova al Museo Nazionale Fiorentino 5, sia in quello della coppa del Museo Sacro della Città del Vaticano, raffigurante i Santi coronati da Cristo. Si tratta dei preziosi vetri colorati, risalenti in gran parte al III, IV sec. d.C., e, per il gruppo fiorentino, anche al VI sec., che rappresentano ritratti, scene familiari, immagini e simboli sacri 6.

Nell'Augusto di Prima Porta serpeggia un gusto tutto ellenistico per la ricercatezza e finitezza del particolare che trapela dai sottili rilievi della superba lorica rappresentanti simboli ed allegorie del potere universale.

Augusto è assimilato a Dio in quanto messaggero di prosperità e di pace secondo la volontà divina: lo stesso evento temporale della restituzione dei vessilli di Crasso, adombrato nel gesto del barbaro orientale che consegna a un guerriero romano un'insegna legionaria, perde il suo valore cronachistico e diventa simbolo dell'aurea aetas 7.

Via, via nel corso del I sec. d. C., si nota un lento affrancamento dai canoni del classicismo augusteo e un progressivo affermarsi della tendenza realistica ed espressionistica. Tale tendenza, ancora latente sotto Tiberio, si rivela già chiaramente nella tendenza ritrattistica imperiale di Caligola e Claudio. Nei ritratti di quest'ultimo imperatore, alla raffigurazione dei tratti somatici, si aggiunge anche la ricerca dell'espressione psicologica: è il pieno sviluppo del ritratto fisiognomico 8.

L'espressività però, si esaurisce nel volto come dimostra la statua dello stesso Claudio in veste di dio Sole. Più patetici ed eroici appaiono i ritratti di Nerone.

I ritratti femminili, per una giustificabile ricerca di bellezza esteriore, conservano più a lungo quelle forme armoniose e quella regolarità dei tratti proprie dell'ideale estetico classico, come nella Statua di giovinetta nelle vesti di Artemide.

Un accentuato realismo è presente nei ritratti ufficiali  di Età flavia, come quelli di Vespasiano e di Tito. Nei rapidi e netti passaggi di piano e nei solchi profondi delle rughe, che creano vivi contrasti chiaroscurali, è palese una ricerca di animazione che si traduce in un ricco motivo decorativo nelle folte e ricche capigliature e nelle complicate acconciature femminili lavorate al trapano come nella Donna flavia.

Dal felice incontro tra la forma di rappresentazione accademica (idealizzazione e plasticismo) e quella più sentitamente romana (realismo e colorismo) trae vita la ritrattistica imperiale d'Età traianea ( per es. la testa di Traiano), mentre la seconda tendenza continua a prevalere nei ritratti di personaggi minori, politici e militari, per i quali si diffonde l'uso dell' imago clipeata, cioè del busto inserito in una fascia marginale di scudo. Ma la migliore documentazione della scultura traianea è nei rilievi posti ad ornamento delle sue architetture monumentali innanzitutto quelli della Colonna Traianea.

In età adrianea si verifica un ritorno all'ideale classicistico augusteo. Sotto il governo di Adriano vengono infatti chiamati a Roma artisti greci, si intensifica l'attività delle officine neoattiche e di Afrodisia nella produzione di copie di statue antiche e di sculture d'ispirazione classica, ma di gusto eclettico, il cui maggiore pregio resta quello di una esecuzione tecnica di eccezionale maestria.

Testimone della copiosa produzione statuaria del periodo è la grandiosa villa dell'imperatore presso Tivoli. Di tale nuovo clima, più politico che culturale, risentono soprattutto la ritrattistica e la scultura ufficiali. Una serie di ritratti di Adriano rivela il ritorno ad una forma idealizzata e ad un atteggiamento eroico che raramente lasciano trapelare il vero carattere fisico e psicologico del soggetto.

Con l'avvento degli Antonini i ritratti conservano ancora nella regolarità dei tratti e nella finezza del modellato i caratteri del classicismo adrianeo, ma nel volto, più vivo e animato, si fissa una espressione nuova, patetica, caratterizzata dall'uso di segnare con un profondo foro l'iride della pupilla rivolta verso l'alto. Il plasticismo ancora intenso nei volti pieni e tesi dei ritratti di Antonino Pio, di Marco Aurelio, o di Faustina si perde in quelli più tardi dove prevale l'effetto coloristico, ottenuto mediante un più marcato disegno di lineamenti e un'accurata lavorazione a trapano delle folte capigliature. Molto frequenti sono in questo periodo i busti-ritratto policromo.

Questa predilezione per il colore ed il contrasto chiaroscurale che danno vita all'immagine, appare ancora più evidente nei ritratti di Comodo in cui la figura dell'imperatore, eroicizzata ed idealizzata iconograficamente (si compiaceva farsi ritrarre con gli attributi di Ercole), viene invece modellata con analitica minuzia. Dalla matrice del ritratto antoniano  scaturisce e si afferma nel III sec., un nuovo modo di rappresentazione imperiale che prelude a quella costantiniana e teodosiana: il ritratto tipologico.

Il processo è correlato a nuove forme di auto-rappresentazione dell'imperatore che da primis inter pares, soffuso tuttavia di una aurea divina, si trasforma in un energico soldato e infine in autocrate, detentore di un potere, che gli deriva direttamente da Dio e unico motore dell'impero 9.

Le forme plastiche e tridimensionali della più pura tradizione greca, lasciano il campo a forme lineari, appiattite, con chiaroscuro di forte effetto ottico.
A preannunziare le soluzioni linguistiche della ritrattistica tardo-antica sono le statue colossali dedicate ai principi divinizzati dopo la morte: la statua dell'imperatore ormai collocato al rango degli dei, presenta volto frontale, fortemente geometrizzato, più simile ad una maschera atemporale che non ad un ritratto, occhi spalancati e grandi oltre misura, sopracciglia ben evidenziate ad arco slargato e bordi taglienti.

Tali caratteri fisionomici sono presenti in una serie di ritratti giganti, da Augusto Livia, a Tiberio e Adriano, che sembrano ispirarsi ad acroliti raffiguranti divinità di età tardo-ellenistica e primo imperiale e mantengono un carattere di imperturbabile estraneità.

Le teste colossali di Augusto e Livia, rinvenute a Leptis Magna, appaiono remote e assenti: tale effetto straniante raggiunge massimi livelli nella testa colossale di M. Aurelio da Bulla Regia: l'uomo lascia spazio al suo ruolo, le fattezze reali diventano contingenti, l'immagine diventa iconica, ossia metafora del potere 10.

Gli occhi assumono un ruolo egemonico entro la cornice del volto: stanno ad evidenziare lo splendore, lo sfoggio di lusso, che pone il sovrano al rango degli dei.

Ed invero in questo periodo il modo di rappresentare gli occhi può essere duplice: da un lato lo sguardo penetra nello spettatore e va oltre dando l'impressione di creare un rapporto tra  imperatore e suddito, il quale  ultimo è sottomesso e vinto. L'altra soluzione spesso adottata è quella dello sguardo rivolto verso l'alto, creando un dialogo tra l'imperatore e Dio, dal quale rimane escluso lo spettatore.

Il trasferimento di alcuni elementi del linguaggio figurativo adottato per le statue di culto nella ritrattistica dei sovrani greci e imperatori romani, non è uguale dappertutto: ad esempio nei ritratti colossali nord-africani, come ha rivelato P. Zaniker, l'adeguamento all'immagine divina è maggiore rispetto alla situazione documentata altrove: testimonianza ne è il ritratto colossale di Settimio Severo divinizzato, proveniente dal tempio dei Severi a Djemila 11.

Già i ritratti di Filippo l'Arabo, Valeriano, Claudio Gotico, Aureliano, ancorché vincolati alle regole di un naturalismo classico, rispondono allo schema dell'imperatore soldato e il Ritratto capitolino più grande del reale, degli avvenimenti fisionomici stretti entro le maglie di una griglia geometrica, rappresenta il passaggio alla vera forma iconica con lo sguardo fisso, proiettato verso una realtà ultraterrena.

Non dobbiamo, comunque, pensare che le forme iconografiche classiche siano assolutamente abbandonate. Fermo restando il punto che tutto il periodo relativo al III sec. e al tardo-antico mostra una continua oscillazione tra forme naturalistiche e forme geometrizzate, tra forme plastiche e forme chiaroscurate, cerchiamo di risalire alle cause della variazione stilistica che inizia dall'età antoniana e predomina dall'età severiana in poi.

Bianchi Bandinelli collega il mutamento con lo sfaldamento delle istituzioni e con l'emergere di nuove forze sociali, quindi con la crisi sociale. Ma il III secolo non è un periodo di crisi totale o perlomeno, non lo è più di altre fasi della storia nelle quali emergono in modo altrettanto appariscente le contraddizioni di una struttura sociale che vuole e richiede un nuovo ordine 12.

Così Crasco Ruggini sintetizza questa travagliata fase storica: «Lasciate alle spalle sia le concettualizzazioni catastrofiche dello sfacelo (di matrice classicistica) sia i miti (nazionalistici da due opposti versanti) della grande tragedia o della palingenesi del mondo, rifiutate tutte le forme univoche di assoluzione o di condanna, l'attenzione si è spostata dalla fenomenologia dei sintomi e delle cause di agonia (il termine è di Theodor Mommsen) alla comprensione dei modi con i quali la trasformazione ha avuto luogo, della pluralità dei fenomeni e delle forze che, interagendo, hanno caratterizzato la transizione metabolizzando tutto un patrimonio di tradizioni eterogenee e determinando questo affascinante processo di mutazione o "pseudomorfosi"»13.

Si rinnova la classe dirigente, si rinnova l'esercito, si rinnova il rapporto tra città e campagna con l'affiancamento al personale schiavile di una manodopera servile che prelude alla servitù della gleba medievale. Muta il sistema di tassazione con la pressione tributaria che non aveva avuto eguali e che sarà vista come iniqua e oppressiva.

Avviene una crisi dell'apparato produttivo di proporzioni ingenti; un fenomeno che va di pari passo con il crollo del sistema economico basato sul denario, sostituito dal solidus, una moneta d'oro assai più forte, che sarà un altro strumento per imporre la supremazia della classe senatoria e alto-borghese sulle classi medio-basse e che, naturalmente, avrà come conseguenza un arricchimento ulteriore dei ceti privilegiati a danno dei più poveri. Eppure l'impero regge alle trasformazioni.

Piuttosto, si accentua il sentimento della decadenza, del tramonto di un mondo invecchiato e privo di energie vitali. Con il mutamento sociale complessivo entra in crisi anche il sistema delle composizioni delle immagini imperiali. Si osserva lungo l'arco del III un passaggio ad una società rigidamente impostata secondo una logica piramidale che fruisce dell'immagine carismatica dell'imperatore come un'arma culturale per imporre un assoluto dominio sulle classi inferiori.

È la vittoria di una società pienamente gerarchizzata a spingere alla costruzione di una immagine fortemente simbolica.

La soluzione fino allora adottata, di raffigurare l'imperatore nello stesso tempo come uomo e come dio, non era più soddisfacente.

A fianco delle iconografie ormai codificate, nascono nuovi modi di rappresentazione. Il filosofo pensoso lascia sempre più spazio al soldato cosciente e attento alle responsabilità che gli sono assegnate dall'esercito, e poi, al principe ispirato dagli dei o, meglio come degli dei.

E se, a partire dall'età di Comodo, compaiono emissioni monetali nelle quali l'effigie del principe è accompagnata da quella di una divinità, prevalentemente Ercole o, come nel caso di Costantino, Sol, assumono maggiore consistenza visiva raffigurazioni nelle quali l'imperatore è concretamente, ed ancora in vita, assimilato a un dio 14.

L'immagine carismatica e distanziata, come documentano anche le monete, predomina in età costantiniana e, ancor di più, in età teodosiana 15.

Costantino, nel quale è accentuato il fulgor oculorum, è presentato con una bellezza sovrumana e forza giovanile simile ad Alessandro Magno: immagine atemporale, dai lineamenti semplificati che rasentano l'astrazione. Anche nella statua di marmo della basilica di Massenzio non c'è l'imperatore cristiano, ma la trasposizione eroica del tipo Giove assiso, seminudo, con il mantello che ricade sulla spalla sinistra e intorno ai fianchi.

È probabile che la statua sia stata ricavata da pezzi di statue acrolite, ad esclusione della testa: è un'immagine che equipara l'imperatore a dio 16. Ed anche nelle monete d'oro coniate nel 325 d. C., l'anno del ventennale del principato, Costantino, raffigurato con lo sguardo rivolto verso il cielo, le braccia tese verso dio, non rappresenta, come dice Eusebio nella Vita di Costantino, l'imperatore cristiano, ispirato da dio: d'altronde Delbruck  e Alfoldi avevano evidenziato che il volto con gli occhi rivolti al cielo, è segno di religiosità pagana: risale al ritratto di A. Magno. Quella di Alessandro, però, è una contemplazione carica di energia trattenuta a stento: l'immagine eroica dei sovrani di età greco-ellenistica. Muta il sistema di tassazione con una pressione tributaria che non aveva avuto eguali e che sarà vista come iniqua e oppressiva.

A questa immagine si sarà richiamato Costantino e ciò è evidente anche nell'uso del diadema e della benda gemmata. E Polibio definisce sovrani «presi da divina ispirazione» quelli che si richiamano ad Alessandro Magno e si proclamavano soteres, salvatori cioè dell'umanità che mettono in atto i piani divini e per questo rivolgono gli occhi verso gli dei 17.

L'età teodosiana, riprendendo moduli dell'età di Costantino, conduce alle estreme conseguenze la logica di asciugare l'immagine da cadenze naturalistiche.

Autentico capolavoro è il ritratto detto di Arcadio (ma per l'età potrebbe essere anche Teodosio II) a Istanbul, nel quale appare ancora in modo più compiuto quel senso di tranquillo distacco che domina nel ritratto imperiale dell'epoca.

La geometria compositiva, malgrado l'ingrandimento e l'arrotondamento stilizzato degli occhi, dei quali è stata intensificata l'espressività eliminando la trattazione separata dell'iride e realizzando la pupilla con un incavo a scodella, non comprime totalmente l'organicità naturale del volto, meglio visibile nelle labbra e nel mento: ed è in questo equilibrio la più straordinaria acquisizione di questo eccezionale momento artistico dove, meglio che altrove, si può capire il definitivo abbandono della struttura classica 18.

L'ultima statuaria romana presenta caratteri riscontrabili nella numerosa serie (c. a. 600) dei ritratti del Fayum, così chiamata dal nome dell'isola presso il Basso Nilo ove vennero trovati, databili dal I al IV sec. Sono ritratti dipinti su tavolette di legno, che venivano fissati sull'involucro delle mummie. Presentano varie tendenze stilistiche, dal realismo iniziale a una forma di stilizzazione delle ultime pitture.

Caratteristiche comuni sono l'intensa espressività dei volti concentrata nello sguardo quasi allucinato dei grandi occhi sbarrati. La ritrattistica romana è pure ricollegabile ai preziosi esemplari di vetri decorati di età cristiana in cui i volti delle figure presentano straordinaria intensità espressiva e fine modellato plastico.

Il gruppo fiorentino si trova al Museo Nazionale, proveniente dalla Galleria degli Uffizi, è composto da ventuno pezzi: sei appartengono alla classe di quei medaglioncini in vetro scuro che erano adoperati pure come gemme o venivano appesi al collo entro cerchietti d'oro o disposti ad ornare le patene di vetro; gli altri quindici sono del tipo più consueto tra quelli cristiani cioè fondi di coppe in cui appaiono applicati in foglie d'oro i vari elementi della raffigurazione. La parte decorata corrisponde al piede della coppa, su cui veniva saldato il corpo del vaso in modo che nel fondo di questo venissero a trasparire le figure.

Nulla di certo si sa sulla provenienza di questi vetri all'infuori di tre di essi pubblicati dal Bosio come trovati nel cimitero di Priscilla, e di pochi altri per i quali è presumibile una provenienza romana 19.

Famosi sono i vetri fiorentini che raffigurano i santi Pietro e Paolo, così come i vetri dorati del Museo Sacro della Città del Vaticano che ripetono lo stesso motivo.

Tra i medaglioni è d'obbligo ricordare quello con triplice ritratto sul fondo azzurro, incastonato in una croce argentea forse di fattura ellenistica orientale, oggi al Civico Museo Cristiano di Brescia: i volti delle figure, di straordinaria espressività, ricordano gli analoghi ritratti di Fayum.




NOTE

1 G. Becatti, L'arte dell'età classica, Milano 1995, p. 361.

2 R. Paribeni, Il ritratto nell'arte antica, Milano 1934.

3 R. Bianchi Bandinelli, L'arte classica, Roma 1984, p. 266.

4 F. Negri Arnoldi, Storia dell'arte, vol. I, Milano 1997, p. 258.

5 F. Rossi, Vetri dorati cristiani nel Museo Nazionale di Firenze in Miscellanea di una Storia dell'Arte, Firenze 1933, p. 10.

6 Toesca, Storia dell'Arte italiana, vol. I, Torino 1927, p. 65.

7 E. la Rocca, Divina ispirazione - L'affermazione dell'immagine del "Dominus et Deus" in "Aurea Roma", Roma 2000, p. 9.

8 R. Bianchi Bandinelli, L'arte ..., cit., p. 225.

9 E. La Rocca, Divina ..., cit., pp. 15, 16.

10 E. La Rocca, Divina ..., cit., pp. 9, 10, 11.

11 Ibid., pp. 13, 14.

12 E. La Rocca, Divina ..., cit., p. 17.

13 L. Cracco Ruggini, Il Tardoantico: per una tipologia dei punti critici in Storia di Roma, vol. III, Torino 1993, p. XXXVIII.

14 E. La Rocca, Divina ..., cit., p. 18.

15 E. La Rocca, Divina ..., cit., pp. 24, 25.

16 Ibid., pp. 24, 25.

17 E. La Rocca, Divina ..., cit., p. 2.

18 Ibid., pp. 28, 29.

19 F. Rossi, Vetri ..., cit., pp. 1, 2.





BIBLIOGRAFIA

G. Becatti, L'arte dell'età classica, Milano 1995.

R. Bianchi Bandinelli, L'arte classica, Roma 1984.

L. Cracco Ruggini, Il Tardoantico: per una tipologia dei punti critici in Storia di Roma, vol. III, Torino 1993, p. XXXVIII.

E. la Rocca, Divina ispirazione - L'affermazione dell'immagine del "Dominus et Deus", in "Aurea Roma", Roma 2000.

F. Negri Arnoldi, Storia dell'arte, vol. I, Milano 1997.

R. Paribeni, Il ritratto nell'arte antica, Milano 1934.

F. Rossi, Vetri dorati cristiani nel Museo Nazionale di Firenze in Miscellanea di una Storia dell'Arte, Firenze 1933.

Toesca, Storia dell'Arte italiana, vol. I, Torino 1927.






 
 

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