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Jamais Plus  
Alessandra Maria Maturi
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 23 dicembre 2000, n. 242
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Area Mostre

Certamente sono cupe, secche come un colpo di fucile, pietrificanti col loro sguardo meduseo di silente dramma incarnato.

Immagini di Volti, per lo più, e di Sguardi.

I colori che saltano agli occhi sono il nero, le gamme dei grigi, le terre, il rosso di Siena; le pennellate sono larghe, robuste e decise nella loro definizione veloce, di getto.

Occhi, tanti occhi, tutti “aperti” sia che sostengano lo sguardo in avanti, sia che lo volgano in basso, sia che si perdano “nel Vuoto”, ma in ogni caso, sempre, occhi, visi e aperti.

Un busto, poco più che un volto, di donna statuaria e plasmata di terra e cenere, calva, con al petto un bambino grigio, inespressivo o forse già consapevole…...

Subito oltre, l’attenzione è catturata da segni veloci, essenziali pennellate diluite a tracciare e scolpire un volto, più luminoso degli altri; la veloce traccia del disegno si muta in “espressione”; dal fondo del foglio, pagina riciclata di un qualche documento in data di Savona e dal costo di lire 5, spiccano i tratti di giovane, arco sopracciliare robusto e, in una diluizione tonale di giallo senape, i neri segni marcati di un occhio fermo ben aperto e lo sguardo assorto affatto trattenuto dalle fluide pennellate che con ductus lo “inquadrano” e lo sovrastano come “sbarre”.

Ma ancora, un poco più avanti, dal lato nero a sinistra del foglio, emerge azzurro nell’azzurro, un’altra testa rasata e colta di tre-quarti.

Questo azzurro non è cielo, non comunica incanto naturale o poetico ma luce e freddo, invade e intride di sé l’osservatore come il cranio che vi è immerso e ne impregna gli occhi illuminando l’incarnato.

E’ immagine che toccata dal luttuoso nero è già trapassata in un’immersione di luce algida, meta-fisica, non nella radiosa emanazione divina ma in una proiezione, in una dimensione altra, “extraterrestre”. Eppure non si tratta nemmeno di fantasiose speculazioni extragalattiche ma di una glaciale e drammatica immobilità, alienata oltre che aliena; extraterrestre e meta-fisica poiché, nella tragedia che questo volto emana, si coglie tutto il senso di un vissuto alieno, poiché certamente altro rispetto all’Umanità che dovrebbe esprimere.

Quanto mai opportuna qui l’etichetta storiografica di definizione stilistica “pennellata espressionista”. Il tratto nero, continuo del pennello segna-disegna, costruisce questa testa-volto tutta occhi, setto nasale e zigomi.

Altre immagini, altre figure di questa esposizione, pur sempre intense e “personalizzate”, trovano facili rimandi e “sinonimie” a figure dell’Espressionismo europeo, per tipologie fisionomiche, per scelte coloristiche, per ductus pittorico e per soggetti tematici.

In questa occasione Georges de Canino è pittore “espressionista”, di quell’Espressionismo del Dolore che ha percorso dall’inizio il XX secolo e che trova parentele di segno e di senso nell’umanità offesa di Ernest Barlach come in quella di Kathe Kollwitz o anche nel sottoproletariato di Lorenzo Viani.

Molte delle circa cento opere esposte in questa mostra, si distinguono per forza di carattere rispetto ad altre di pur intensa qualità artistica ma che si propongono come immagine-manifesto: opere su carta definite da gesto pittorico veloce, breve, incisivo ed efficacissimo per figurazione “schizzata”, d’ "abbozzo” ma eloquente e lapidaria quanto le Parole che quasi sempre accompagnano l’immagine a completarne il senso.

I testi si uniscono alle figurazioni, spesso intimi e sinceramente commoventi come un verso poetico o una stringata citazione biblica può essere, divengono, in altre opere, dei veri e propri proclami che subordinano la figura ergendosi, in piena consapevolezza, quali moniti morali.

Questo è il cuore pulsante e la motivazione intima e ufficiale della vasta personale di Georges de Canino presso il Museo del Risorgimento, nell’ambito dell’iniziativa di commemorazione intitolata “GIORNI della MEMORIA e della SHOAH” che si è svolta a Roma dal 20 novembre 2000, con il patrocinio della Provincia di Roma e la collaborazione di numerose Associazioni, e la presentazione presso il Cinema Nuovo Olimpia di una rassegna di film il cui tema storico era variamente e “artisticamente” presentato.

Il titolo della mostra – a cura di F. Pietracci – è “JAMAIS PLUS!” e raccoglie circa cento opere, dagli anni ’70 ad oggi, dell’artista Georges de Canino il quale riflette su questo tema e se lo propone non certo a fini apologetici e/o propagandistici ma in quanto componente intima del suo essere Uomo e Artista.

De Canino nato negli anni ’50 ha assorbito attraverso esperienze indirette le “memorie” delle conseguenze delle leggi razziali – altresì dette leggi della vergogna – emanate nel 1938 e applicate in Italia dal 1939, fino alle spaventose conseguenze della deportazione, sistematicamente applicata nel nostro “ghetto” romano il 16 ottobre 1943.

Come cicatrici – nell’animo – personali di Georges de Canino hanno lasciato segni visibili nel suo percorso artistico che, articolato fra pittura e scrittura, intende proporsi e proporre la necessità della Memoria come dimensione qualificante per il cammino dell’Uomo.

Le indefinibili vicende vissute dal popolo ebraico e da tutta la comunità umana che si opponeva alle follie del totalitarismo devono rimanere quale monito per le Generazioni; gli ebrei e gli attivisti della Resistenza, di diverse etnie ed ideologie d’appartenenza non possono essere dimenticate per il carico di disumanità subita e per essere divenuti simbolo della “caduta” nel delirio d’onnipotenza dell’umanità stessa.

Questa esposizione pur qualificandosi come monumentum-memento non trasuda apologetica, né enfasi propagandistica, se non in poche figurazioni che propongono quei codici visivi altrimenti utilizzati a scopo di “manifesto”, ma comunica – forte – il senso dello sgomento unito alla energia di un urlo silenzioso, di una sorda e potente eco di catastrofe.

In un gruppo di disegni a china caratterizzati, qui, da un segno sottile e nervoso, troviamo forse il punto più intenso dell’intimo artistico di de Canino poiché vi trasferisce il suo segno grafico in parole e figure: dalla superficie bianca del foglio poche, sottili e vibranti pennellate tracciano essenziali figurette-sagoma e la memoria corre repentinamente ai disegni di Giacometti.

Alberto Giacometti, tormentato, tormentava il pezzo di carta che gli si offriva alle mani con segni sottili, reiterati, sovrapposti, inquisitori a scoprire e disegnare il mistero della forma che si allontana tanto più quanto più l’artista tentava di definirla; Georges de Canino non è Giacometti e non prova questo “sentimento” formale, eppure sembra esprimere lo stesso stupore e sgomento per quella “figura” umana che si sottrae alla visione: li unisce quindi – Giacometti come Canino – un’affinità, la tensione ad afferrare l’essenza dell’immagine-Uomo quale forma e presenza vivente prima che venga meno, prima che sia risucchiata dal Vuoto; entrambe, seppur in modo diverso, percepiscono il problema della soglia di un baratro nel quale l’Essere rischia di diventare Nulla e tentano di trattenerne il “segno”.

Per de Canino il Vuoto è rappresentato dalla Perdita della Memoria dell’abominio degli anni 1938-45, il quale non è che il sintomo estremo dell’Umanità che si allontana dall’essere se stessa. La Memoria allora va rintracciata anche attraverso singole ricostruzioni d’esperienze vissute (di qui le opere dedicate agli “eroi” della Resistenza italiana), va curata, alimentata, ravvivata, come un ossessione di cui non ci si può liberare, per renderla viva e vitale essenza “umana”.

Due altri poeti hanno, con Parola differentemente versificata, “lapidato” il nostro Novecento:

“LA TRADIZIONE DEGLI OPPRESSI CI INSEGNA CHE LO ‘STATO DI EMERGENZA’ IN CUI VIVIAMO E’ LA REGOLA.

DOBBIAMO GIUNGERE AD UN CONCETTO DI STORIA CHE CORRISPONDA A QUESTO FATTO.”

Walter Benjamin, Angelus Novus.


„Forse non è mai stato più forte il tentativo dell’uomo di proporsi come un fine a se stesso. E il nodo del problema è tutto qui. Milioni di esseri umani aspirano all’amore, ma la parola non viene pronunciata che nelle più sconce sedi della pubblicistica.

Giornali e libri, dépliants e almanacchi, visioni accampate su tela o su vetro, suoni messi insieme per darci un’impressione fisica motrice, dinamica, notizie e nozioni gettate su noi a piene mani costituiscono un vociferante abracadabra che dovrebbe dire all’uomo solo: Ci siamo anche noi, non sei solo.

Oggi gli individui – un’infinità – chiedono di rappresentarsi, di esistere, di esplodere individualmente, chiedono di vivere la propria vita sul piano che ad essi è possibile: quello delle emozioni e delle sensazioni. E su questo piano non sono possibili deleghe privilegiate: l’uomo qualunque ha gli stessi diritti dell’uomo di eccezione e può persino illudersi che la sua trivellazione della couche vitale sia più autentica di quella dell’uomo di studio. Ma all’uomo-massa corrisponde il male di massa, al quale nessuno di noi sfugge.

E il lato più pericoloso della vita attuale è il dissolversi del sentimento della responsabilità individuale. La solitudine di massa ha reso vana ogni differenza tra il dentro e il fuori.

Poiché il nostro tempo ha sostituito l’eccitazione alla contemplazione e il numero non è più il segreto delle leggi divine, bensì l’oggetto della statistica, non vedo perché non si debbano trarre le debite conclusioni dalle mutate condizioni di vita dell’uomo che fu detto sapiens e faber (e poi ludens ed ora è destruens) a vantaggio dell’immenso tutti-nessuno che stiamo avvicinandoci a formare.

Quel che avviene nel mondo cosiddetto civile a partire dalla fine dell’Illuminismo (ma ora in sempre più rapida escalation) è totale disinteresse per il senso della vita. Ciò non contrasta con il darsi da fare, anzi. Si riempie il vuoto con l’inutile. L’uomo non ha più molto interesse per l’umanità. L’uomo si annoia spaventosamente.”

Eugenio Montale, Nel nostro tempo.

E’ per tutto questo e per il rumoroso anno delle “celebrazioni giubilari”, delle questioni millenaristiche, dell’”età dell’Informazione”, che l’appello di affetto alla Memoria, in questa esposizione, assume e propone senso.



 
 

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