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L'Astrattismo e Pasquale Prencipe  
Alessandro Tempi
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 11 luglio 2000, n. 168 (27 marzo 1999)
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Area Artisti

Di recente ho riletto un vecchio libro di Louis Pauwels e Jacques Bergier che risale al 1960 dal titolo Le matin du magiciens. Si tratta di un'opera che ha fatto epoca, che ha affascinato e scandalizzato ad un tempo i suoi lettori, giacché pone sullo stesso piano scienza e ciò che spesso non siamo disposti a ritenere tale, vale a dire la magia, l'occultismo, le tradizioni esoteriche ed iniziatiche. Questo libro ci invita candidamente ad ammettere che il progresso dell'umanità non sia una mera questione di acquisizioni razionali alla conoscenza, ma che la conoscenza sia stata e sia ancora un intreccio bizzarro di razionale e non-razionale, di dato positivo e di percezione fantastica, in una parola di logos e di mitos. Argomentando le proprie asserzioni, ad un certo punto Pauwels e Bergier dicono di sentirsi come quegli artisti moderni - gli Impressionisti, Cezanne, Van Gogh, Manet, Gauguin, Ernst, Picabia, Dalì - che hanno provato l'esigenza di ammettere nella propria pittura il non-conforme ed il non-convenzionale, insomma ciò che oltrepassava i canoni visivi dominanti nel loro tempo. Ammettere il non-conforme. Qui abbiamo una teoria dell'arte moderna ridotta ai minimi termini.

Ho citato questo libro perché mi sembra che riesca a dire l'essenziale su un aspetto dell'esperienza dell'arte moderna molto meglio che tanti accademici manuali di storia dell'arte, che ci danno spiegazioni sulla modernità che potremmo definire endogene, vale a dire tutte interne al suo sviluppo, come se l'esperienza artistica fosse un organismo avulso dal mondo, che vivesse di una vita propria e quindi con propri ritmi di evoluzione ; come se, insomma, le ragioni dell'arte si spiegassero solo tautologicamente.

Non mi sento di condividere questa concezione. Credo al contrario che l'arte avvenga nel mondo e proprio perché avviene nel mondo e non in un empireo di puri spiriti essa non può fare a meno di entrare in rapporto con esso ; da qui nasce quella che per molti secoli è stata la sua caratteristica primaria : rappresentazione dei saperi attraverso i suoi codici multipli. In altre parole :spiegare il mondo.

Ora io credo che a noi siano rimasti due tipi di spiegazioni : abbiamo quelle che ammettono solo il dato empiricamente conforme, sperimentalmente provato, scientificamente attendibile e che io chiamo spiegazioni rappresentative, perché ci vogliono spiegare il mondo descrivendocelo ; ma abbiamo anche spiegazioni che ammettono ciò che in quel preciso momento è ancora lontano da essere accettato, spiegazioni che non sono conformi al consueto ed al convenzionale. Chiamo queste spiegazioni creative, perché fanno qualcosa di più che rappresentare o descrivere : esse creano.

Per molto tempo, tuttavia, rappresentazione e creazione hanno storicamente coinciso l'una con l'altra (penso ad esempio a Villard de Honnecourt, trattatista ed architetto vissuto nel XIII secolo, convinto del carattere prevalentemente matematico-scientifico delle arti figurative, alle leggi della prospettiva, elaborate da Leon Battista Alberti nel Quattrocento, secolo in cui arte e scienza sembravano essere la stessa cosa, ma anche a Leonardo da Vinci, assertore di una pittura che fosse imitazione razionale - e quindi scientifica - della natura), essendo accomunate dall'idea o dall'istanza di rispecchiare la natura, ma anche dal fatto che sussisteva ancora una sostanziale compatibilità intellettuale fra gli strumenti teoretici della conoscenza speculativa e gli strumenti espressivi-figurativi della creazione artistica, insomma fra il modo in cui il mondo veniva descritto dalle arti visive e quello in cui veniva descritto tramite il ragionamento.

Ad un certo punto, però, le strade della rappresentazione e della creazione hanno preso a separarsi sempre di più e ciò non è avvenuto unicamente per ragioni interne all'arte o per un'autodeterminazione della coscienza artistica. E' che a partire dal Seicento, gli strumenti della rappresentazione si sono fatti più appuntiti, più razionali e la rappresentazione è diventata sempre meno una questione di talento individuale e sempre più di metodo oggettivo. Il razionalismo moderno, che si dispiega con la rivoluzione filosofico-scientifica dei Seicento, con la Querelle des Anciens et des Modernes ratifica il divorzio fra arte e scienza, fra creazione e rappresentazione, assegnando a ciascuna prerogative e procedure differenti : da un lato il genio individuale, dall'altro il metodo oggettivo, dall'uno la fantasia, dall'altro la ragione. Nasce quindi l'estetica quale territorio concettuale che delimita quel mondo a parte che è diventato l'arte. Nasce il museo quale luogo ove si raccolgono i prodotti dell'arte. Nasce l'artista quale creatore di cose belle - come avrebbe detto Oscar Wilde più tardi. Nascono le belle arti, che nella prima teoria sistematica proposta da Charles Batteux nel 1746 troneggiano su tutte quelle che invece sono volte a soddisfare i bisogni materiali dell'uomo.

Ma ciò che indurrà l'arte ad isolarsi ancor di più nel suo universo creazionale arriverà più tardi, nel corso del XIX secolo, con conseguenze prima impercettibili, poi sempre più chiare ed irreversibili. Mi limito a citare due date : il 1839, anno in cui viene messa a punto una nuova invenzione, la fotografia (alla quale pervengono simultaneamente, ma da percorsi diversi, i francesi Niepce e Daguerre e l'inglese Fox Talbot) ed 1895, anno in cui i fratelli Lumière presentano un apparecchio capace di proiettare immagini in movimento, il cinematografo. Non si tratta ovviamente solo di ennesime invenzioni frutto di un secolo che ne elargisce a piene mani, non si tratta solo di progressi di tecniche particolari di riproduzione dell'immagine. Si tratta semmai di qualcosa di enormemente più significativo e gravido di conseguenze, e non solo per l'arte. Questa media infatti costituiscono il primo raggiungimento che segna indelebilmente l'epoca in cui noi ancora oggi viviamo, quella che il filosofo Heidegger ha chiamato die Zeit des Weltbildes, l'epoca dell'immagine del mondo, in cui la tecnica - vera e propria essenza dell'epoca moderna - consegna alla scienza la certezza del rappresentare, assicurandole così la validità universale del suo operato.

Non mette conto qui addentrarsi in questioni di filosofia della tecnica che pure hanno rappresentato uno dei temi fondanti del pensiero del XX secolo. Basterà, per quanto ci riguarda, richiamare l'attenzione sul fatto che dopo l'invenzione della fotografia e dopo quella del cinema, la pittura e le arti visive in generale non saranno più le stesse. Basterà ricordare che, per una delle tante coincidenze della storia, il 1839 è anche l'anno di nascita di Paul Cézanne, il padre di tutta la pittura moderna. Basterà ricordare che la diffusione della fotografia e poi del cinema nella società coincide con il processo storico di defigurazione o di distruzione dell'immagine nelle arti visive, che prende avvio con l'Impressionismo e, tramite Cèzanne appunto, culmina nel Cubismo e da qui arriva all'Astrattismo ed all'Informale del secondo dopoguerra.

Con gli avanzamenti della scienza e con i media comunicazionali, l'arte viene gradualmente ma inesorabilmente estromessa dall'universo della rappresentazione, con cui non può più, per ovvie ragioni, competere ; perde insomma la sua funzione storica di rappresentare saperi diversi (religiosi, mitologici, naturali, letterari, morali) e di essere lo specchio della natura e del mondo, per scoprirsi ed assegnarsi nuove intenzionalità e finalità del tutto autonome da un mero rapporto di specularità col mondo. Dagli Impressionisti in poi, le arti visive si vanno concentrando su se stesse, sull'analisi dei propri linguaggi espressivi, producendo un poderoso sforzo autoanalitico teso a ridefinire i propri domini, il proprio significato, la propria stessa essenza estetica. Riprendendo la profezia hegeliana del destino estetico dell'arte moderna, l'arte tenderà sempre più a pensarsi e definirsi come sapere autonomo, come forma specifica e consapevole di conoscenza.

Con la pittura astratta e più tardi con quella informale, l'arte realizza una sorta di definitiva emancipazione dal mondo della rappresentazione, per diventare un sapere autoreferenziale che assume come proprio oggetto l'atto creativo stesso. Cèzanne l'aveva del resto già capito : l'arte è rivelazione, è la creazione, e non la rappresentazione, del mondo. Tutta la pittura che verrà dopo di lui si svilupperà nel segno di questo convincimento. Che non è poi così lontano dall'atto di ammettere il non-conforme con cui abbiamo iniziato il nostro discorso.

Forse ora abbiamo capito come si è arrivati storicamente alla pittura astratta. Si tratta ora di capire che cosa essa sia e voglia dire. A questo scopo bisogna innanzitutto capire la differenza fra Astrattismo ed Informale, vale a dire fra le due modalità in cui si è manifestata la pittura non-figurativa nel corso del nostro secolo.

Siamo soliti chiamare Astrattismo quella corrente artistica nella quale sono comprese opere che non hanno rapporto con una rappresentazione del mondo esterno (e qui il pensiero va a Mondrian, Klee, Malevich Kupka, solo per fare qualche riferimento); oppure opere nelle quali questo rapporto è così indiretto da produrre una figura alterata e irriconoscibile del mondo esterno (come nel caso di Kandinskij, Delaunay, Marc, ancora lo stesso Klee). Possiamo dire che le prime presentano immagini di origine mentale, mentre le seconde ci danno immagini derivanti da un iniziale stimolo di rappresentazione, ma progressivamente alterate fino a diventare non-rappresentative. Questa definizione è assai sommaria e forse semplicistica, ma ha l'indubbio pregio di spiegare senza indugi il senso del termine Astrattismo : qualcosa che si astrae - in altre parole che si estranea o si allontana - dal modo in cui siamo soliti rappresentarci le cose, il mondo, la natura, vale a dire il modo speculare o naturalistico.

Ora, secondo Wilhelm Worringer, che è stato fra i primi ad usare il termine astrazione nell'ambito delle arti visive, in un suo saggio che risale al 1908, il modo speculare-naturalistico implica una sorta di sintonia, di comunione o, come si dice nel gergo degli storici dell'arte, di einfuhlung (empatia), dell'uomo con il mondo fenomenico, con la superficie visibile delle cose, con la natura. L' einfuhlung è insomma per Worringer il riflesso di un equilibrio spirituale fra essere umano e universo. Ma, egli continua, vi è anche uno stato d'animo opposto, dominato dall'angoscia, dal senso della propria precarietà di creatura, dal dubbio sul proprio significato di essere umano ; l' uomo con questo stato d'animo è portato a distogliersi dal reale, con cui non si sente più o non abbastanza in comunione e cerca di trascenderlo nella forma astratta, vale a dire in un rapporto non-naturalistico con le forme. E' significativo ricordare che Worringer, parlando di astrazione, non si riferisse agli esiti ultimi della ricerca pittorica del suo tempo, ma a manifestazioni ricorrenti in specie nelle arti decorative del passato.

Il passaggio dall'astrazione come concetto afferente alla storia dell'arte ed alla psicologia dell'arte all'astrattismo come opzione consapevole del linguaggio artistico avviene con Kandinskij, che sviluppa la componente emozionale di questa pittura e la funzione espressiva del colore, e con Mondrian, che invece è più legato ad una matrice razionale che si gioca tutta sulla purezza della forma ridotta alla sua elementarità geometrica. Entrambi hanno tuttavia in comune il rifiuto della rappresentazione naturalistica, del legame referenziale fra immagine e cosa, della riproduzione speculare e quindi, in termini più filosofici, dell'illusione di spiegare tutto nei termini di quelle certezze razionali ed oggettive che animano la weltanschaung positivista (e che pensatori come Bergson, Freud ed Einstein si stava incaricando di mettere in crisi).

Stiamo parlando di esperienze che si concretizzano intorno agli anni Dieci del XX secolo e che daranno i loro esiti maggiori proprio nel periodo fra le due guerre mondiali. L'arte che si riaffaccia sul mondo dopo il 1945 è tuttavia profondamente diversa, perché segnata da tragedie che hanno profondamente inciso sulla coscienza individuale e collettiva. L'Astrattismo non va ovviamente esente da questi mutamenti. Infatti, se nel suo passato recente esso poteva dirsi il risultato di una costruzione meditata e progressivamente messa a punto, nel secondo dopoguerra acquisisce ormai per molti pittori un valore soprattutto espressivo, nel senso che adesso le opere astratte mirano ad un' espressione totale ed immediata di quanto l'artista ha in sé di più profondo. Il pittore sente ora il bisogno di trasgredire i mezzi tradizionali e comincia a servirsi di procedimenti (pensiamo solo a Jean Fautrier o a Jackson Pollock) che la tecnica corrente della pittura esclude. L'Informale nasce proprio in seno a questo sostanziale abbandono dei fondamenti della cultura pittorica precedente, ivi compresa quella dell'Astrattismo. Perché ciò avviene ?

Ancora una volta, abbiamo davanti a noi ragioni che si collocano all'interno dell'evoluzione delle forme espressive della pittura moderna (e delle quali in genere si incaricano di parlare gli storici dell'arte), ma anche ragioni che io chiamerei storiche, perché riguardano le condizioni più ampie e complesse entro cui i fenomeni artistici non meno che quelli culturali avvengono. Voglio soffermarmi proprio su queste ultime, poiché credo, come ho cercato di dire all'inizio, che vi sia un legame indissolubile fra arte e storia.

Giustamente molti studiosi affermano che l'Informale non sia un movimento artistico, bensì una poetica, vale a dire qualcosa che ha a che fare con un certo tipo di sensibilità e con i modi in cui esprimere questa sensibilità. Già da questo si capisce cosa lo distingue dall'Astrattismo : laddove questo manifestava qualcosa di intensamente spirituale o intellettualmente trascendente, l'Informale ci appare subito qualcosa di più immanente, di più corporeo, di più diretto e immediato insomma.

Il fatto è, se vogliamo arrivare subito al punto, che esso è senza alcun dubbio una manifestazione di quel clima di profonda sfiducia nei valori conoscitivi e razionali della cultura che si diffonde nel secondo dopoguerra e che conduce, in pittura, al rifiuto della ragione. L'Informale infatti possiede fin dai suoi esordi (penso soprattutto a Wols, a Pollock, a Hartung) una carica irrazionalistica che lo riconduce all'Impressionismo (per l'uso estremo della macchia di colore o tache), al Dadaismo (per il rigetto dei valori propriamente culturali), al Surrealismo (per la valorizzazione dell'esperienza inconscia), all'Espressionismo (per la violenza delle immagini), tutti movimenti - vale la pena di ricordarlo - che hanno in comune una radicale rottura con la tradizione precedente. Tuttavia, ciò che propriamente contraddistingue l'Informale è la volontà di far coincidere l'atto di creare con l'agire e con l'essere. Questo convincimento trova non a caso il suo presupposto fuori dall'ambito propriamente artistico nella filosofia fenomenologica, nelle due direzioni dell'esistenzialismo francese e del pragmatismo americano.

Ci sono comunque due punti della poetica informale che credo valga la pena di porre in rilievo. Il primo riguarda la questione del rapporto col passato, un passato culturale ed individuale che la cesura della guerra ha contribuito ad allontanare o mettere in crisi. Ritorna insomma il tema della memoria e della perdita del passato, da alcuni (Henri Michaux) sentite con rimpianto, da altri (Wols) bandite con tragica determinazione, da altri ancora (Jean Fautrier) recuperate ed impresse nella materia pittorica. E' con Pollock, tuttavia - forse proprio perché americano - che la pittura sembra poter consistere solo in un gesto col quale disfarsi di tutto il bagaglio della lunga tradizione europea. Ma a ben vedere, il suo dripping esprime una concezione empatica dell'atto del dipingere (confermata dalle sue stesse dichiarazioni teoriche) che ci rimanda alle tematiche dell'einfuhlung di ascendenza europea ed ormai consegnate al passato dell'arte. Il che conferma, in caso ce ne fosse bisogno, che nell'arte le rotture, per quanto radicali vogliano essere, risultano poi sempre relative.

Il secondo punto riguarda invece il rapporto dell'artista con la visione. Dal momento che dipingere non è più rappresentare (come nella tradizione figurativa) o esprimere attraverso le forme (come nella lezione dell'Astrattismo), ma unicamente manifestare l'esistenza individuale dell'artista nella materia pittorica, questo rapporto risulta sempre più scisso dalla realtà fisica. E' in questo senso che Jean Dubuffet (echeggiando forse inconsapevolmente un tema filosofico di Martin Heidegger e ripreso dall'ermeneutica di Hans Georg Gadamer su cui mette conto ritornare) parla della pittura come unica possibilità di creare ciò che il pittore desidera vedere ; o che Wols può privilegiare il contatto con l'interiorità piuttosto che col mondo esterno ; o che Hans Hartung può far coincidere l'atto creativo (il dipingere, appunto) con l'atto del percezione (collegandosi così ad un aspetto chiave della riflessione filosofica tanto di John Dewey che di Maurice Merleau-Ponty).
Ci stiamo avviando alla fine del nostro discorso, dal quale dovrebbe essere ormai chiaro i convincimenti che lo animano :
· che l'arte ha un suo sguardo del mondo, che non coincide necessariamente con la riproduzione speculare o perfino evocativa del mondo fenomenico ;
· la storia di questo sguardo, vale a dire il percorso che gradualmente ha condotto la pittura dalla rappresentazione alla creazione, è il documento di come l'arte è mutata nel corso del tempo ;
· che l'arte cambia non solo a causa delle dinamiche interne alla sua evoluzione, ma anche perché essa è parte di una condizione storica della quale contribuisce a delineare la fisionomia ;
· che, nel caso in questione, alcune particolari condizioni storiche di carattere tecnologico hanno indotto la coscienza artistica a ripensare il proprio significato complessivo nella cultura umana, il proprio ruolo all'interno della società, le stesse forme linguistiche cui essa consegna la sua espressione concreta.

La domanda che adesso ci poniamo però è : ha ancora senso, oggi, nel 1997 la pittura astratta ? E mi riferisco qui ad un significato storico, che sia cioè capace di collegare fenomeni particolari (come quelli artistici) e condizioni più generali e complesse (come quelle storiche, filosofiche e culturali) e non ad un significato autoreferenziale di cui l'attuale clima di agnosticismo estetico è invece piuttosto provvido. Personalmente credo che la risposta a questa domanda possa essere affermativa : sì, ha ancora un senso la pittura astratta e per spiegarlo voglio parlarVi di un pittore contemporaneo astratto a me molto caro : Pasquale Prencipe.

Ritrovo in Prencipe la persistenza di alcuni elementi che contrassegnano il riemergere di nuove forme di Astrazione negli anni Novanta. Innanzitutto l'idea dell'astrazione come opzione linguistica individuale, quindi come una libera e autoresponsabilizzante scelta creativa che non può che collidere con lo stato di ipertrofia di immagini (figurative o realistiche) che caratterizza il nostro tempo. A rischio di fare un'affermazione banale, ritengo che ci voglia un certo coraggio ad essere pittori astratti oggi che i canali della visione e dell'immaginazione dell'individuo sono perfettamente codificati e saturati dai prodotti sempre più sofisticati delle tecnologie dell'immaginario, che hanno finito per costituire la macrocondizione nella quale - e forse anche per la quale - i nostri processi mentali avvengono. Sia che la intendiamo come capacità del pensiero di generalizzare e concettualizzare (e quindi di ridurre all'essenza), sia che ci riferiamo ad essa come un particolare linguaggio pittorico, l'astrazione oggi non è certo di moda nel sapere comune. Il che assume per me anche un significato in qualche modo etico, dal momento che essa ha a che fare con il porre la coscienza individuale davanti a se stessa. Ciò equivale ad un ritorno dell'interiorità ed della consapevolezza nel nostro rapporto col mondo delle immagini. "L'immagine introspettiva - diceva il critico Donald Kuspit qualche tempo fa - è un modo di rappresentare quello che è diventato irrappresentabile perché è stato sovroggettivato. Ma ciò è anche un modo sottile di reprimerlo." Per questa via, in un mondo ove la consapevolezza e l'interiorità sembrano bandite, la pittura astratta può ancora contribuire a ripristinare quel senso del sé senza il quale non può sussistere alcun senso della realtà.

È esattamente da qui che ritrovo, in Prencipe, quell'istanza di ritessere la trama del dialogo col reale che caratterizza gli esiti più forti dell'Astrazione di questi ultimi anni. "Porre la coscienza dinanzi a se stessa" significa infatti abolire il filtro della mediazione tecnologica per rimettere in discussione il rapporto che lega realtà e rappresentazione. Astrarre non significa più solo prescindere dall'imitazione del mondo sensibile, ma ripensare - e forse perfino ripercorrere per altra via - i processi attraverso i quali quel mondo arriva oggi ad essere sensibile (e quindi anche imitabile o, come si dice oggi, simulabile). Questa nuova Astrazione sembra insomma procedere dal presupposto nietzscheano che noi non abitiamo il mondo, ma solo rappresentazioni di esso e che quindi il nostro pensiero di esseri umani risulta adeguato e conforme non al mondo in sé, ma a quelle rappresentazioni. Ciò può spiegare l'inquietudine che coglie spesso l'osservatore di un'opera astratta e che non è tanto legata ad una mancata comprensione dei suoi codici espressivi, ma all'intuizione inconscia che quell'opera possa avere un senso. Il che mette in crisi il tradizionale rapporto di specularità fra realtà e rappresentazione a cui tutti bene o male siamo soggetti. La forma astratta, insomma, ci parla della realtà, o meglio di ciò che ci si rivela come reale. Trovo questo paradosso particolarmente adatto per parlare della pittura di Prencipe.

Se, come ha detto una vota un filosofo, ogni pensatore essenziale pensa un unico pensiero, mi chiedo se, con Prencipe, ciò non possa valere anche per la pittura. Me lo chiedo non solo per quelle ragioni di coerenza formale che fin dall'inizio hanno condotto il suo lavoro lungo i sentieri di un'Astrazione, ma anche in relazione alle qualità interne di questa scelta espressiva. Mi sembra che l'astrazione di Prencipe possa infatti essere letta come sintomo di una ricerca di autonomia dalle proprie basi formali, giacché sono proprio questi basi, storicamente definite, o meglio il restringersi del discorso possibile sulla pittura a queste sole basi, a determinare quel clima di agnosticismo estetico in cui si dibatte oggi la comprensione stessa dell'arte. Prencipe sa insomma che non si può fare dell'Astrazione una mera questione di linguaggio e che quindi il suo senso non si riduce alla sola autoreferenzialità. Esiste qualcosa di più profondo, di più legato al modo in cui l'artista si pone non tanto davanti all'opera, quanto davanti al mondo, al flusso dell'esistente, un qualcosa che passa attraverso una singolare condizione creativa che potremmo definire di ascolto, vale a dire una disponibilità ed apertura a far essere ciò che altrimenti non sarebbe o che ancora ha da essere (e quindi ciò che solo nell'arte trova il suo proprio modo di essere). L'astrazione di Prencipe è insomma il modo in cui questo "qualcosa" si affaccia ed entra nel mondo. Potremmo chiamarlo verità, esperienza, evento, ma in fondo le definizioni hanno qui un'importanza relativa. Personalmente preferisco chiamarla autenticità : autenticità dell'esperienza, che tuttavia non può che compiersi nel mondo, non fuori di esso, in quello stesso mondo che la rende ogni giorno più mediata, vicaria, virtuale e che proprio per questo ne sancisce l'inestinguibile finitezza. Vi è infatti nelle cose che ci circondano un nucleo sovrasensibile che inevitabilmente collide con l'orizzonte ed i limiti della nostra esperienza. Ma questo nucleo è anche il "tesoro smisurato" - per dirla con le parole del poeta Gottfried Keller - che giace in aperta disponibilità per chiunque.

Senza dubbio Prencipe cerca di cogliere questa disponibilità con gli strumenti che gli sono propri, quelli della pittura. Per questa via, la sua Astrazione va a coincidere - sobriamente quanto serenamente - con un ritorno dell'autenticità nella pittura, che, affrancata dalle estenuanti questioni circa la propria trascendenza come pure da avvilenti patteggiamenti col mondo delle immagini, torna a parlarci delle proprie "smisurate possibilità", diventando l'avventura ad un tempo meditante e confidente verso quelle aperture - quei "varchi", come avrebbe detto il poeta Montale - che, interrompendo per un attimo l'inconsutile trama virtuale dell'esistente, ci riconducono - artista ed osservatore insieme - all'autenticità dell'esperienza.



 

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